Dammi tutto il tuo male

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matteo ferraRio

dammi tutto il tuo male


ISBN 978-88-6905-255-2 Titolo originale: Dammi tutto il tuo male © 2017 Matteo Ferrario by arrangement with Walkabout Literary Agency Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale. © 2017 HarperCollins Italia S.p.A., Milano Prima edizione HarperCollins agosto 2017


Per Alessandra, la mia parte migliore



Fu amore come lo concepivano gli antichi: un impulso irresistibile e fatale – una possessione! Joseph Conrad, Cuore di tenebra



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Sono un padre e un assassino, e dopo tanti anni non ho ancora capito se devo essere grato a Barbara oppure odiarla, perché senza di lei non mi sarei scoperto capace di nessuna delle due cose. Ma non ha più molto senso porsi problemi del genere, adesso che tutto è finito. Le indagini sono chiuse da anni, e anche nell’eventualità remota in cui si decidesse di riaprirle, facendo di me un sospettato, non si troverebbe una sola prova a mio carico. Un esame col luminol avrebbe forse evidenziato qualche traccia di sangue o DNA rimasta nella macchina, perché era ben difficile che non ce ne fossero: pur essendomi preparato a lungo, quella notte avevo agito d’impulso, senza rendermi conto dei rischi che correvo. Comunque sia, se esisteva ancora qualche prova almeno potenziale da usare per incriminarmi, a quest’ora è già finita accartocciata da tempo sotto la pressa di un demolitore: dopo un lungo servizio la mia vecchia Golf ha concluso un paio d’anni fa il suo onesto ciclo di vita, con più di duecentotrentamila chilometri sul groppone. Approfittando degli incentivi, l’ho sostituita con

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una piccola Toyota ibrida color bianco perla, che quando è in modalità elettrica scivola per le strade senza alcun rumore. Questo all’inizio faceva molto ridere Viola. «Ma è spenta, papi, chi è che ci sta spingendo?» Se è rimasto qualcosa di buono in me – qualcosa di umano – lo devo a mia figlia. La sua sola presenza mi ha tenuto lontano dalla parte peggiore di me stesso, dopo che siamo rimasti solo io e lei. «Il tuo cuore è fatto a macchie, come il manto di un leopardo» mi aveva detto Barbara una notte, con la testa appoggiata sul mio petto. Ma lo conosceva meno di quanto pensasse, il mio cuore. Non aveva mai guardato dentro le parti più scure, o non le prendeva abbastanza sul serio. E poi quelli erano i primi tempi per noi due, i migliori, finiti ancor prima che nascesse Viola. La partorì il 25 agosto 2008, nel tardo pomeriggio. Anche in un letto d’ospedale, almeno in apparenza, era la stessa che avevo incontrato una sera di giugno dell’anno precedente: zigomi scolpiti, occhi dal taglio a fessura, capelli scuri e impossibili da domare. «La tatuatrice meno tatuata che esista» come si era definita in quell’occasione, con la sua flemma ironica. Ma dopo la nascita della bambina era diversa, ancora più fragile, e non solo per via del parto o delle complicazioni dell’ultimo periodo, tra cui mi veniva naturale includere anche il fatto che non vivessimo più insieme da oltre due mesi. «Sono stanca» ripeteva. Solo io potevo conoscere il significato di quella stanchezza. Non le infermiere, non il dottore che passava per il giro di controllo.

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Solo io la vedevo. Anche se non aveva fatto altro che nascondersi, fin dall’inizio, la vedevo davvero, perché non importava quanto di orribile stesse cercando di tenersi dentro, né cosa sarebbe successo da lì in avanti: io l’amavo, e non avrei mai smesso di farlo. Lei, invece, si era già tirata indietro, senza nemmeno averci provato sul serio. Smarrita e senza l’ombra di un sorriso, guardava Viola come un’estranea arrivata per mettere a rischio i suoi segreti. Non immaginava che io li conoscessi già.

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Ci incontrammo a una festa per l’inaugurazione di un locale, a cui ero stato invitato dal mio miglior amico. «Un altro posto per fighetti milanesi» avevo detto a Maurizio. «E io che cosa ci verrei a fare?» Ma lo conoscevo ormai da vent’anni: se la sarebbe legata al dito, se avessi trovato una scusa per non andarci. Andava molto fiero dell’allestimento interno curato dal suo studio, anche se era un incarico di quelli che riusciva a procurarsi grazie ai giri di conoscenze di sua moglie, e lui all’epoca aveva altro per la testa: Dubai, il concorso per il centro benessere. Nel giugno del 2007, malgrado una crisi economica mondiale fosse di fatto già iniziata, chi di noi sognava lo faceva ancora in grande, e l’architetto Maurizio Dalbono era la massima autorità in materia. Ma qualche minuto prima di conoscere Barbara, per quello che mi ricordo, nemmeno io ero insoddisfatto della mia vita. Mi guardavo intorno dopo un paio di bicchieri in quella folla un po’ trendy e un po’ tamarra, e tra le schiene nude e i sandaletti delle ragazze mi sembrava di scorgere i segnali pigri di un futuro accet-

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tabile. Giorni più semplici di quelli che mi ero lasciato alle spalle, con la morte di mio padre e una prova di convivenza finita non troppo bene. Avevo da poco superato i trenta, li portavo con dignità e, anche senza le prospettive di grandeur di uno come Maurizio, avevo un lavoro che mi piaceva. «Non tirartela da riflessivo cagacazzo come fai di solito in queste occasioni» mi aveva intimato una mezz’ora prima, mentre cercavamo parcheggio. «Stasera è pieno di fighe, vedrai.» Non credo che avesse in mente ragazze come Barbara, perché la sua idea di cosa rende una donna attraente è sempre stata molto diversa dalla mia, e lo dico con tutto l’affetto possibile per sua moglie Flavia, che già a quei tempi, insieme a lui, era diventata per me un surrogato di famiglia. Anche se eravamo tutti più o meno coetanei, mi avevano preso sotto la loro ala protettrice. Si erano sposati quando Mauri era ancora universitario. Lui lavorava già da quando aveva diciannove anni, Flavia aveva una famiglia facoltosa alle spalle e una scala di priorità con in cima il matrimonio e i figli. Fin da allora, il mio ruolo era stato quello del più sensibile e confuso della compagnia, che si va sempre a impegolare con le tipe sbagliate e poi resta solo a rimettere insieme i pezzi, con la convinzione ostinata che rifarebbe tutto da capo, se solo gliene venisse data la possibilità. Come se non bastasse, non ero mai riuscito a liberarmi di una certa timidezza di fondo. Alcune volte bastava un primo scambio di sguardi per farmi venire quel tipico tremore interno da contatto sociale. Non ero timido con tutti, ma solo con le persone

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di cui per un verso o per l’altro mi importava qualcosa: ragazze, per lo più, dato che, a eccezione di Mauri e pochissimi altri, avevo sempre fatto a meno senza problemi della compagnia dei maschi. Le coppie riaggiustano spesso il ricordo del loro primo incontro, avvolgendo tutto di un senso di predestinazione, avvertibile già dagli istanti iniziali. Ma se mi sforzo di rievocare ciò che era stato quel momento per me e Barbara, vedo una versione piuttosto maldestra di me stesso, che arretra dalla zona del buffet per lasciare il passaggio ad altre persone, finché una voce femminile alle sue spalle lo ammonisce senza troppo garbo: «Occhio». Ecco come era entrata nella mia vita. Con un piattino stracolmo di finger food tra le mani, quella massa di capelli scuri e lunghissimi che le scendevano ondulati sulle spalle, una certa nervosa energia trasmessa dal corpo attraverso i jeans e una maglietta nera aderente. Poco trucco, giusto un po’ di nero intorno agli occhi. «Io sono qui per far contento un mio amico» le dissi qualche minuto più tardi, cercando di superare l’imbarazzo con un tono autoironico. «Tu, invece?» «Me lo stavo giusto chiedendo» rise. Poi, tornata seria – non le piaceva scherzare troppo, quando si trattava del suo lavoro – mi parlò del negozio di tatuaggi a pochi isolati di distanza. Era lì per farsi conoscere. «Altrimenti non sarei venuta. Non è tanto il mio genere di locale.» Mi piaceva il suo viso, anche se non aveva niente di speciale a parte lo sguardo intelligente e appena velato di tristezza, lineamenti decisi e belle labbra. Malgrado questo, lo ricordo bene, mi dissi che mi stava sul cazzo.

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Così, d’istinto. Aveva quell’aria insolente e un po’ annoiata con cui i più delinquenti della classe si rivolgono in ogni epoca e a ogni latitudine a un adulto, professore o genitore che sia, che spera ancora di civilizzarli. Ma, come avrei scoperto in seguito, aveva solo due anni meno di me, e allora perché guardarmi in quel modo, come se fossi un relitto di un’epoca passata, o un vecchio rincoglionito che l’annoiava a morte ancora prima di aprir bocca? Dicono che prima o poi si finisca sempre per tornare all’idea iniziale che ci eravamo fatti di qualcuno, al momento di conoscerlo. E l’innata sfiducia di Barbara, lo scetticismo di fondo che avrebbe solo accantonato per un po’, nei tempi migliori, pronta a riportarlo alla luce al primo ostacolo fra noi, erano già sotto i miei occhi, proprio quella sera. Come si fa a vivere così? Avrei continuato per anni a chiedermelo. Tutto il suo disincanto, le aveva dato forse qualcosa che non avrebbe potuto ottenere restando accanto a me e a Viola? Ma tornando al punto: non mi innamorai a prima vista di lei, questo è certo. Della gente che sforacchiava ogni giorno coi suoi arnesi nel negozio di tatuaggi, o del suo passato da nuotatrice con qualche medaglia vinta da ragazzina, non me ne importava poi molto: era solo per scambiare le prime chiacchiere. Quando fu il mio turno di raccontarle chi fossi e cosa facessi nella vita, in compenso, mi prese la solita vertigine di chi non ha storie troppo interessanti o piacevoli da tirar fuori. «Col padre che ti ritrovi» aveva sentenziato il mio vecchio negli ultimi mesi di vita, dopo che la malattia

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l’aveva già costretto a cedere la quota di maggioranza del suo studio legale, «ti sarebbe bastato un minimo di palle per fare una carriera coi fiocchi. E invece guardati, lì a perdere gli anni migliori in mezzo all’odore di libri vecchi, a raccontartela su insieme ad altri fannulloni statali.» La delusione di avere un figlio bibliotecario sarebbe stata più facile da assorbire per il grande Furio Bertoni se non fosse arrivata dopo otto anni trascorsi dal suo unico erede vivacchiando nella facoltà di giurisprudenza. Malgrado tutto, sperava ancora di spingermi nella direzione voluta. «Seguire le orme paterne» come dicevano gran parte dei suoi amici e conoscenti, con sorrisetti che mi liquidavano come un figlio di papà raccomandato nel migliore dei casi, e come lo scemo di casa nel peggiore. Non ero né l’uno né l’altro. Non ero neanche abbastanza furbo e ambizioso da pensare alla strada già tracciata dal suo studio al momento di scegliere la facoltà. A dire il vero, se all’ultimo avevo deciso di accantonare il progetto velleitario di iscrivermi a lettere e poi tentare una carriera da scrittore o magari giornalista, cercandomi grane nello stesso campo di mio padre, era stato per lanciargli una specie di stupida sfida: diventare un buon avvocato senza essere come lui. Quel genere di conflitti con la figura paterna che non hanno mai prodotto nulla di buono in tutta la storia dell’umanità, e da cui mi ero tirato fuori appena in tempo. Ma, ripensandoci adesso, è buffo che dopo aver addebitato per anni a mio padre ogni genere di nefandezza, sia diventato a tutti gli effetti un individuo peggiore

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di lui: non avrebbe mai ucciso nessuno, Bertoni senior, nemmeno se gli avessero ficcato una pistola carica in una mano e la grazia già firmata dal Presidente della Repubblica nell’altra. Era uno che credeva nella giustizia, quella dei tribunali. «Cristo d’un Dio, noi non stabiliamo cosa è bene e cosa è male!» aveva sbraitato, alla guida della sua Mercedes, la prima volta che avevo provato a manifestare delle perplessità su un caso di cui si stava occupando. «Noi diamo assistenza legale a chi ce la chiede. E ce la può chiedere chiunque, perché è un suo diritto! È fatto così il nostro mestiere, e se uno non lo accetta, perché non ha le palle o è un’anima bella come te, è meglio che ne scelga un altro!» In qualche modo, avevo finito per seguire il consiglio. L’anno in cui avevo terminato gli esami a giurisprudenza, un comune poco distante dal mio aveva emesso un bando per tre posti da bibliotecario a tempo pieno. Mi ero iscritto al concorso senza farne parola a nessuno, tanto meno a mio padre. Era poco più di un tentativo, ma era tale la paura di ciò che mi aspettava una volta laureato che mi ci dedicai sul serio, trascurando senza troppi rimpianti la tesi, una palla che non finiva più sul legittimo affidamento. Fatto sta che mi presero. Quando superai anche la prova orale, detti per scontato un lungo iter burocratico prima dell’assunzione, che mi avrebbe lasciato il tempo necessario per trovare le parole adatte col mio vecchio, ancora convinto di vedermi fare il tirocinio, l’esame di Stato e poi l’ingresso in pompa magna nello studio di famiglia. Ma in quella biblioteca avevano urgente bisogno di personale, perché nello

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stesso anno erano andati in pensione in due. Per mio padre, la notizia che stavo per mollare l’università dopo tanti anni e ormai con la sola tesi a separarmi dall’agognata laurea, il tutto per lavorare in una biblioteca, fu il colpo definitivo. Insieme alle aspettative comunque generate dalla mia scelta di iscrivermi a giurisprudenza, la cocciutaggine con cui fin dagli anni dell’università avevo escluso di diventare un penalista – cosa che invece si sarebbe aspettato chiunque dall’unico figlio del grande Furio Bertoni, una belva da tribunale che secondo molti ai vari Della Valle e Taormina aveva solo da invidiare la fama mediatica – lo aveva gettato in un perenne sconforto riguardo al futuro del proprio cognome. Ogni volta che gli chiedevano di me, ne sono quasi certo, gli usciva un sospiro come al padre di un tossico ormai rassegnato a vederlo un giorno o l’altro stecchito da un’overdose, o al massimo rinchiuso in comunità. Gli scrupoli morali che avevo iniziato a manifestare fin da adolescente, dopo aver scandalizzato mia madre per buona parte dell’infanzia restando a lungo un ammiratore del cinismo paterno, mi avevano ormai screditato ai suoi occhi: mi giudicava un imbelle, un vigliacco, e forse non aveva neanche tutti i torti. Quando incontrai Barbara a quella festa, credevo ormai di aver capito anch’io che tipo d’uomo fossi. Uno incapace di fare del male agli altri. Magari anche lei aveva ricavato un’impressione simile dalla nostra breve chiacchierata: quella di un ragazzo prevedibile, ma che ispirava fiducia. O forse no. Forse la verità è che eravamo entrambi soli, e gli esseri umani non sono fatti per questa condizione, soprattutto alcuni.

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Per questo, suppongo, una ventina di minuti più tardi, dopo aver controllato l’ora e accennato alla necessità di raggiungere al più presto certi suoi amici che suonavano in un locale della periferia sud, mi ficcò in mano un biglietto da visita del suo Violator Ink Lab, suggerendomi una facile battuta sul disco dei Depeche Mode a cui, con tutta evidenza, si era ispirata per il nome. «Se cambi idea sui tatuaggi e decidi di fartene uno» sorrise. Ma doveva sapere che non sarebbe successo. E, con tutta probabilità, immaginava pure che l’avrei chiamata sul numero di cellulare riportato sotto a quello del negozio. Magari dopo tre o quattro giorni, per non sembrare disperato ma neanche troppo tiepido. Non perché ci piacessimo già così tanto, ma perché avevamo bisogno l’uno dell’altra, e certe cose si avvertono prima di tutto il resto, amore compreso.

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Ringraziamenti

Grazie a Ilaria Marzi, editor di HarperCollins Italia, che ha voluto con forza questo romanzo e se ne è presa cura in tutte le fasi del lavoro, con quel misto di passione e competenza che è quanto di meglio un autore possa chiedere per una sua storia. Grazie, per le stesse ragioni, ai miei agenti Paolo Valentini, Fiammetta Biancatelli e Ombretta Borgia di Walkabout Literary Agency – a partire da Paolo, che di Dammi tutto il tuo male è stato il primo lettore.






Questo volume è stato stampato nel luglio 2017 presso la Rotolito Lombarda - Milano


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