Di tutte le cose buone

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clare fisher

di tutte le cose buone

Traduzione di Daniel a Marchiotti


ISBN 978-88-6905-290-3 Titolo originale dell’edizione in lingua inglese: All the Good Things Viking an imprint of Penguin Random House UK © 2017 Clare Fisher Traduzione di Daniela Marchiotti Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale. © 2018 HarperCollins Italia S.p.A., Milano Prima edizione HarperCollins febbraio 2018

Questo libro è prodotto con carta FSC® certificata con un sistema di controllo di parte terza indipendente per garantire una gestione forestale responsabile.


A chiunque si sia mai sentito come tutto fuorchĂŠ qualcosa di buono.



1. RESPIRARE IL PROFUMO DELLA TESTA DI UN BAMBINO E FARLO ARRIVARE DRITTO FINO AL CUORE

Di tutte le cose buone che ho avuto dentro di me, la prima e la migliore sei tu. Ogni singola parte di te, dai lobi tutti da accarezzare alla speranza che stringevi nelle dita dei piedi. Ricordalo. Ricordalo quando diranno che sei un essere brutto o insignificante. Ricordalo quando ti convincerai che è dietro i sorrisi degli altri che stanno tutte le cose buone. Ricordalo più che mai quando ti sembrerà di non essere e basta. Scrivere una lista di cose buone può sembrare roba da ritardati, almeno così ho detto a Erika quando me ne ha parlato la prima volta. Non la conoscevo Erika prima che mi sbattessero qui dentro, ma adesso ci dobbiamo sopportare a vicenda per un’ora intera tutte le settimane. Ha degli occhialoni da nerd che le fanno degli oc7


chi grandissimi, tipo che nessun essere umano dovrebbe averli così; quando ho detto la parola ritardati, sono diventati proprio giganti, come se sapesse tutto di me, dell’universo e di qualsiasi cosa che sta al di là dell’universo. Mi sono sentita meno di zero, così sono saltata in piedi, ho afferrato lo schienale della sedia e ho detto: «Io non sono ritardata». Ho aspettato che Erika si mettesse a urlare. O che schiacciasse il bottone che doveva schiacciare per far arrivare di corsa le guardie. Invece, ha fatto un sospiro, come quando guardi un programma alla TV sperando che prima o poi migliori. Ho lasciato andare la sedia e mi sono rimessa a sedere. «Ora» ha detto appoggiando le mani sul tavolo tra noi. Erano del colore della carne viva, tutte screpolate, come se si fosse dimenticata di mettersi i guanti per lavare i piatti. «Spiegami un po’ perché hai usato quella parola: ritardata.» «E io che ne so? Apro la bocca e le parole vengono fuori. Fine della storia.» «Questo è un modo di guardare alla questione» ha risposto Erika, «ma ce ne sono altri. Per esempio io, come te, so cosa vuol dire essere una mamma. Ho tre figli.» Mentre lo diceva, la faccia le si muoveva in un modo che anche un cieco l’avrebbe capito quanto li amava. Un cieco avrebbe capito quanto io amavo te? L’avrebbe capito mai nessuno? «Uno va matto per il calcio» ha continuato, «l’altro per Harry Potter, il terzo per i ragni e le navicelle spaziali. Uno detesta i rumori forti, l’altro detesta mangiare qual8


siasi cosa rotonda. Il caso vuole che uno di loro sia autistico. Ma sono tutti reali allo stesso modo.» Ha fatto una pausa e ha sollevato le sopracciglia che non erano né modellate né depilate. «Capisci?» Una risposta da adulto sarebbe stata: Mi dispiace. E forse: Grazie di parlarmi come se fossi solo un’altra mamma. Come se fossimo solo due esseri umani. Ma anche se ho ventun anni e ho fatto cose da adulti garantite al 100%, tipo lavarmi i miei piatti nel mio appartamento, con i guanti di gomma e tutto, e anche se ho avuto un lavoro e un ragazzo e un bambino, non è che dentro mi senta sempre adulta. Sono sprofondata nella sedia e ho borbottato: «Vabbè». «Ci sono molti modi di guardare a ogni persona e parole come ritardato sono pericolose, perché ci fanno credere che esista una storia sola.» Ho aperto la bocca, ma non ne è uscita neanche una parola, nemmeno una cosa tipo: «Oh». «Scommetto» ha detto lei, accarezzandosi i capelli dal taglio maschile e striati di grigio. «Che tu ne sai qualcosa di parole così.» Tutto a un tratto, Erika e i suoi occhialoni e le pareti giallo crema sono spariti. Mi sono ritrovata in quell’aula di tribunale, non sapendo dove guardare perché anche se guardavo il giudice e la sua parrucca o la funzionaria e il suo computer oppure gli avvocati e i loro raccoglitori ad anelli, o perfino le pareti in finto legno, tutto quello che vedevo erano le cose brutte che avevo fatto. Le cose per cui le altre prigioniere evitano di guardarmi se non di traverso. 9


«Bethany?» La voce di Erika ha ricacciato il ricordo in quell’angolo della mia mente che è un po’ come la moquette sotto il divano: è lì vicino, brutta e sporca, e anche se vuoi davvero sistemarla va a finire che non lo fai mai, perché l’unica parte di te che la vede sono le caviglie. Ero di nuovo nella stanza ed Erika mi stava fissando ma, per la prima volta in vita mia, non mi dava fastidio; non c’era verso di sapere quello che una persona pensava o non pensava di me, e andava bene così, anzi era perfino una cosa buona. Ho aperto la bocca ed ecco che ne sono venute fuori delle parole che manco immaginavo fossero lì. «Una delle mie madri affidatarie, la quarta o… boh, forse la quinta, be’, lei aveva una vera ossessione per i gatti.» «Davvero?» «Li adorava. Se io dicevo che non stavo bene, lei mi rispondeva di piantarla di fare tante storie. Ma se il gatto starnutiva, lo ficcava in una scatola di plastica scura e filava dritta dal veterinario. Prima di finire dentro la scatola, il gatto era a posto, un po’ bavoso, lunatico o quello che vuoi, ma tutto sommato a posto. Però appena lo capiva, che era in trappola, andava fuori di testa. Graffiava, soffiava, miagolava e si smerdava tutto. Alla fine, si lasciava cadere, tutto mogio. Insomma, ecco come ti fanno sentire… le parole così.» Erika ha sorriso come se avessi fatto qualcosa di molto più che buono. Stavo lì ad aspettare che mi dicesse cosa fosse e invece mi ha dato questo quadernone. «Allora, proverai a fare la lista?» 10


«È dai tempi della scuola che non vedevo un quadernone. Glielo dico subito: prenderò dei voti di merda.» «Non ti darò nessun voto» ha riso lei, «non guarderò neanche quello che hai scritto, a meno che non lo voglia tu.» Ho fatto la mia migliore faccia da vabbè, ma le mie mani lo stavano già tastando dappertutto, accarezzando le pagine ruvide in carta riciclata, perché era passato tanto tempo da quando qualcuno aveva dato, a loro o a me, qualcosa, e che questo tempo fosse finito mi faceva sentire bene. «A cosa serve allora?» «Serve a te.» «A scrivere le cose buone della mia vita?» «Proprio così.» «E se… non me ne viene in mente nessuna?» Se non hai mai visto un sorriso triste, dovevi vedere il suo in quel momento. «Te ne verranno in mente.» «Oh, be’. Almeno è qualcosa da fare.» Ho infilato il quadernone nell’elastico dei pantaloni e me ne sono andata. Lo sentivo sobbalzare su e giù contro le mutande, e l’unico modo per non farlo scivolare lungo la gamba sinistra era di camminare tutta storta, ma non mi interessava, perché ogni volta che facevo un passo, mi ricordavo di te. A cena mi sono ritrovata di nuovo sola, ma non mi importava. Per la prima volta dal mio arrivo qui, e sono passate tre settimane, le mani hanno smesso di tremarmi. Sono anche riuscita a ingoiare qualche boccone di quella roba marrone che ti spacciano per pollo al curry. Il rumore delle ragazze che chiacchieravano e mangiavano e ride11


vano era forte come sempre, ma non mi scavava dei buchi nel cuore. Quando mi hanno chiuso di nuovo nella mia cella, non mi ha dato fastidio il silenzio, né lo spazio vuoto sulla porta dove doveva esserci la maniglia. Mi stavo ricordando delle tue ciglia, di quanto erano spesse e nere fin dal primo momento; «farà strage di cuori» dicevano le infermiere. Mi stavo ricordando dei piccoli versi che facevi nel sonno, come se fossi già immersa nei sogni più belli. Quando il sogno era davvero molto bello, sulle labbra ti si formava una bollicina di saliva. Mi stavo ricordando di come piegavi e stendevi le dita dei piedi quando ti cambiavo il pannolino. La cosa migliore di tutte era il profumo della tua testa, delizioso da non crederci; schiacciare il naso contro i tuoi capelli soffici e respirare a fondo era meglio dell’alcol o della droga o di un telefono nuovo, o di qualunque altra cosa la gente si compri per sentirsi meglio. Lo respiravo a fondo e me lo facevo arrivare dritto fino al cuore. Ricrearti su un foglio di carta sarebbe stata la cosa migliore dopo quella che avevo già fatto, cioè crearti per davvero. Chissà? Forse, nonostante tutto, questa lista riuscirà ad arrivare fino a te, che immagino starai crescendo con un’altra mamma, da qualche parte lontano da qui. Spero che questa lista, qualsiasi cosa ne verrà fuori, ti farà capire che per quante storie brutte o non-storie potrai sentire su di me e su come è iniziata la tua vita, non sono le uniche storie che esistono. Magari mi crederai una ritardata a sperare una cosa del genere alla luce, o meglio all’oscurità, di tutto quello che è successo. Ma sai che c’è? Penso sia buono. Penso sia una cosa buona trovare la speranza dove chiunque altro ti direbbe che non ce n’è nessuna. 12


RINGRAZIAMENTI

I libri non possono dirsi finiti senza i lettori, quindi grazie di cuore per essere uno di loro. Ringrazio la mia agente, Zoe Waldie, per la saggezza, la fede e l’onestà che continua a dimostrare, sia sulla pagina sia al di fuori. Grazie, Venetia Butterfield, per aver creduto in Beth fin dall’inizio e per la tua genialità editoriale. Grazie a ogni altra persona alla RCW e a Viking per aver dato una casa a me e al mio lavoro, in cui abbiamo trovato calore e nutrimento. Grazie a tutti coloro che mi hanno aiutato a fare ricerche sulle donne nelle carceri, in particolare a Lucy Baldwin e a tutto il settore scolastico del carcere di HMP New Hall. Grazie ai miei amici autori per aver condiviso il tempo, le spalle, i cervelli e le parole: grazie Rosa, Rachel, 333


Raquel, Sophie e Alice; grazie Drusilla; grazie ad Anna e David per essere diventati lettori senza la minima esitazione; grazie a tutti voi del WordLab e ai membri del gruppo Failed Novelists. Grazie a Laura e a tutti quanti a Spread the Word, per avermi dato ogni opportunitĂ possibile di crescere come autrice. Grazie al mio tutor universitario, Francis Spufford, per avermi preso sul serio prima che mi prendessi sul serio io, sia come autrice sia come persona. Grazie a tutti i miei amici e alla mia famiglia per avermi insegnato, nei vostri modi strani e meravigliosi, a essere qui dando il meglio di me. Grazie ai miei amici del running, in particolare alle runner vegetariane. Grazie Dea e grazie Nicola. Grazie ai miei genitori, Anna e Jethro. Grazie, David, di tutto.



Questo volume è stato stampato nel gennaio 2018 presso la Rotolito Lombarda - Milano


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