Dunkirk

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JOSHUA LEVINE

DU N K I R K L A S TO R I A V E R A C H E H A I S PI R ATO I L F I L M

TRADUZIONE DI LINDA MARTINI


ISBN 978-88-6905-262-0 Titolo originale dell’edizione in lingua inglese: Dunkirk The History Behind the Major Motion Picture William Collins An Imprint of HarperCollins Publishers © 2017 Joshua Levine Traduzione di Linda Martini Realizzazione editoriale: studio pym / Milano

Copyright © 2017 Warner Bros. Entertainment Inc. DUNKIRK and all related characters and elements are trademarks of and © Warner Bros. Entertainment Inc. WB SHIELD: ™ and © Warner Bros. Entertainment Inc. (S17) Excerpt from The Road to Wigan Pier by George Orwell (Copyright © George Orwell, 1937), reprinted by permission of Bill Hamilton as the Literary Executor of the Estate of the Late Sonia Brownell Orwell; (Victor Gollancz 1937, Martin Secker & Warburg 1959, Penguin Books 1962, 1989, Penguin Classics 2001). Copyright © 1937 by Eric Blair. This edition copyright © the Estate of the late Sonia Brownell Orwell, 1986; and Copyright © 1958 and renewed 1986 by the Estate of Sonia B. Orwell, reprinted by permission of Houghton Miffl in Harcourt Publishing Company. All rights reserved.

Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa edizione è pubblicata per accordo con HarperCollins Publishers Limited, UK © 2017 HarperCollins Italia S.p.A., Milano Prima edizione HarperCollins agosto 2017


A Lionel, che mi ha ispirato. A Peggy, che spero di ispirare. A Philip Brown, Eric Roderick, Harold “Vic� Viner e Charlie Searle, con gratitudine.



SOMMARIO

Prefazione 11 Non lo considero un film di guerra. 15 La considero una storia di sopravvivenza Joshua Levine intervista il regista Christopher Nolan

1. Sopravvivenza 31 2. Quasi come noi 53 3. La Strana guerra 91 4. Grandi speranze 123 5. Il contrattacco 158 6. Alt ai Panzer 184 7. Fuga a Dunkerque 219 8. Nessuna traccia di miracoli 243 9. Un miracolo 279 10. Dove diavolo è la RAF? 313 11. Una nuova Dunkerque 342

Ringraziamenti 387 Bibliografia 393


Gli Alleati in trappola INGHILTERRA

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PREFAZIONE

Un pomeriggio, agli Archivi nazionali di Kew, ho aperto un faldone che conteneva un rapporto del comandante Michael Ellwood. Il comandante era il responsabile delle comunicazioni durante l’evacuazione di Dunkerque, e nel rapporto accennava a un ricetrasmettitore Marconi, usato per pochissimo tempo, perché poi smise di funzionare a causa di sabbia nel generatore. La cosa mi sorprese. Come aveva fatto la sabbia a finire in un’apparecchiatura così preziosa? Il Marconi TV5 era uno scatolone di dimensioni considerevoli, e mi balenò alla mente l’immagine di Stanlio e Ollio facchini che devono trasportare un pianoforte nel film La scala musicale. Forse due marinai particolarmente maldestri lo avevano fatto cadere sulla spiaggia? Avevano avuto una bella strigliata dal capitano di vascello William Tennant, inviato a Dunkerque in qualità di alto ufficiale della marina, quando gli avevano confessato cosa avevano appena fatto alla sua unica attrezzatura di trasmissione? Oppure non avevano detto niente, sperando che la colpa ricadesse su qualcun altro? Tempo dopo, nel maggio del 2016, mi trovavo all’imbocco del molo di Dunkerque, molto vicino a dove il capitano Tennant aveva stabilito il suo quartier generale.

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Se mi guardavo intorno, sulla spiaggia potevo vedere gruppi di soldati, o di uomini che lo sembravano. Al largo c’erano navi da guerra, e all’altra estremità del molo era ormeggiata una nave ospedale, con le croci rosse ben evidenti. In lontananza si alzavano volute di fumo nero, e il lungomare era stato mimetizzato per nascondere ogni traccia di modernità. Dunkerque aveva un aspetto davvero molto simile a quello di fine maggio 1940. C’era un altro elemento che mi colpì, tuttavia. Si era alzato il vento e volava sabbia dappertutto. Impastava i capelli, faceva bruciare gli occhi. Molte persone indossavano occhiali di protezione e si coprivano la faccia, e all’improvviso capii: nessuno aveva fatto cadere il ricetrasmettitore. Non c’era stato alcun marinaio maldestro. Nel maggio 1940 la sabbia si era infilata da sola nel generatore, proprio come in quel momento si stava infilando negli occhi e nelle orecchie di tutti i presenti. Il tempo che stavo trascorrendo a Dunkerque mi illuminava su aspetti dell’evento originario che altrimenti non avrei mai capito. È per questo che mi sento di consigliare caldamente a chiunque sia interessato alla storia di quell’operazione di evacuazione di andare a visitare Dunkerque. Passeggiare sulla spiaggia e lungo il molo, esplorare il perimetro da cui le truppe francesi e britanniche tennero a bada i tedeschi, visitare l’eccellente museo bellico, il toccante cimitero o la chiesa di Saint-Éloi, con le sue pareti crivellate dai proiettili e dalle granate: sono tutte attività in grado di ridare vita agli eventi del maggio e del giugno 1940. Il paesaggio è impregnato di storia e riempie i vuoti tra le parole. In questo libro ho tentato di raccontare una storia diversa, o quantomeno più vasta. Una semplice visita a

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Dunkerque è in grado di restituire un’idea dell’evacuazione, e perciò nelle pagine che seguono cerco di spiegare gli eventi collocandoli in un contesto più ricco non solo a livello militare, ma anche politico e sociale. Cercherò di spiegare che cosa volesse dire essere un giovane soldato nel 1940, l’importanza della cultura giovanile, nelle sue diverse forme, nel periodo precedente alla guerra. Mi concentrerò sulle battaglie (e sui periodi in cui non ce ne furono) che portarono all’evacuazione. Ed esplorerò infine gli effetti di quella missione fino alla sua espressione più recente, ovvero il film che nel 2017 le ha dedicato Chris Nolan. Ho avuto la grande fortuna di lavorare al film in veste di consulente storico. È stato un vero piacere, in parte per le tante persone interessanti ed entusiaste che ho conosciuto, ma soprattutto perché il film ha dato vita, in maniera eccezionale, a un frammento di storia non valorizzato. L’ultimo capitolo del libro illustra l’impegno profuso dal regista e dai produttori per restare quanto più fedeli all’evento. Grazie a questo impegno, hanno fatto sì che venisse ricreato lo spirito dell’evacuazione nella maniera più vivida e rispettosa possibile. Il risultato ci consente di vivere quella storia per quello che in effetti fu: una dura e disperata lotta per la sopravvivenza che ha preservato la libertà del mondo. Niente è più importante di questo. Vorrei invitarvi a ricordare, quando vedrete il film, che senza i veri Tommy, George e Alex oggi vivremmo in un mondo molto più cupo. E molti di noi nemmeno sarebbero qui. Joshua Levine, aprile 2017

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1 SOPRAVVIVENZA

All’inizio dell’estate del 1940, Anthony Irwin era un giovane ufficiale del reggimento Essex. Mentre il suo battaglione ripiegava verso la costa francese, rallentato dai civili in fuga, sotto il fuoco nemico di terra e di aria, e incalzato dalla fanteria tedesca in avvicinamento, Irwin – come molti altri ufficiali e soldati – scopriva la guerra. Un pomeriggio, durante un attacco di bombardieri tedeschi, vide per la prima volta dei corpi senza vita. Due lo turbarono, ma i due successivi gli causarono il vomito, e gli sarebbero apparsi in sogno per molti anni a venire. La differenza non stava nel modo in cui erano morti o nella gravità delle loro ferite. Era l’aria oltraggiata della seconda coppia di cadaveri: nudi, umiliati, gonfi e sfigurati, incarnavano qualcosa di peggiore della morte. Quel pomeriggio il battaglione si trovò di nuovo sotto attacco. Un giovane soldato semplice, sopraffatto, si mise a piangere. Irwin provò a trascinarlo via, ma il ragazzo, paralizzato dall’angoscia, rifiutava di muoversi. Allora Irwin pensò che l’unica fosse metterlo fuori combattimento, e ordinò a un sergente di assestargli un pugno in faccia: ma il sergente sbagliò mira e si fracassò le nocche contro il muro. Il soldato a quel punto si riscosse

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e scappò via, ma Irwin lo inseguì, lo placcò e lo colpì al volto. Il ragazzo perse i sensi. Irwin se lo caricò in spalla e lo portò fino a una cantina lì vicino. Era buio, e Irwin gridò perché qualcuno gli facesse luce. Nel silenzio, udì le voci sorprese di un uomo e di una donna, finché riuscì a distinguere in un angolo un soldato e una locandiera belga che facevano sesso. Come biasimarli?, si chiese in un angolo. Con la morte così vicina, si aggrappavano alla vita. Irwin era uno tra le centinaia di migliaia di ufficiali e soldati della British Expeditionary Force (BEF), il corpo di spedizione britannico, in ritirata attraverso il Belgio in direzione delle coste francesi. Si erano imbarcati per la Francia il 3 settembre 1939, dopo la dichiarazione di guerra alla Germania. Dopo mesi di stasi, durante la cosiddetta Strana guerra, la mattina del 10 maggio era scattato il Blitzkrieg tedesco a ovest, e il grosso delle forze britanniche era stato dislocato in Belgio in tutta fretta per attestarsi su posizioni predefinite lungo il fiume Dyle. Lì costituivano il fianco sinistro degli Alleati, accanto alle armate francesi e belghe, a fronteggiare il gruppo d’armate B di Hitler. Più a sud, il fianco destro degli Alleati era protetto dalla poderosa linea Maginot, una serie di fortini ben difesi, casematte e bunker disposti lungo il confine tra Francia e Germania. Per qualche giorno del maggio 1940 parve che gli Alleati e i tedeschi, più o meno equiparabili sul piano militare, fossero destinati a un’altra guerra di trincea e di logoramento. In base all’esperienza, presto i tedeschi si sarebbero scagliati contro le ben difese linee alleate. Ma i comandanti alleati ricevettero invece una dura lezione sulla moderna arte della guerra. Tra i loro due solidi fianchi c’era la foresta delle Ardenne, ritenuta impe-

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netrabile e dunque scarsamente presidiata dai francesi: c’erano solo quattro divisioni di cavalleria leggera e dieci di riserva a difendere un fronte di oltre 150 chilometri. E i tedeschi avevano un piano per sfruttare quel fronte. Il piano, originariamente formulato dal generale Erich von Manstein, nel maggio 1940 era ormai alla settima revisione. Prevedeva un iniziale attacco all’Olanda e a nord del Belgio per attirare gli Alleati in una trappola, perché nel frattempo i tedeschi avrebbero sferrato l’attacco principale a sud, nel punto in assoluto più debole del fronte delle Ardenne. L’offensiva, guidata dalle divisioni corazzate, prevedeva l’attraversamento della Mosa, la penetrazione nell’area attorno a Sedan e la risalita a nord-ovest puntando verso la costa, in modo da spaccare le armate francesi in due e ricongiungersi con l’attacco da settentrione, accerchiando la British Expeditionary Force. Il piano Manstein era estremamente rischioso: l’avanzata attraverso un’area boschiva era un’estrema sfida logistica, e le divisioni corazzate erano un’arma ancora tutta da collaudare. Il successo dipendeva da una rapidità senza precedenti e da un massiccio supporto da parte dell’aviazione, ma soprattutto dall’effetto sorpresa. Se i francesi ne avessero avuto sentore, sarebbe sicuramente fallito. Nel gennaio 1940, tuttavia, i belgi avevano messo le mani su una versione precedente del piano, una versione che prevedeva l’attacco principale in Olanda e Belgio. Si trattava di una replica esatta della strategia tedesca durante la prima guerra mondiale, e gli Alleati non avevano ragione di pensare che al momento i tedeschi stessero considerando delle alternative. Il piano Manstein era talmente rischioso e atipico che gran parte dei generali tedeschi si rifiutò di approvarlo. Esso, tuttavia, trovò un influente sostenitore nel

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generale Franz Halder, capo di stato maggiore dell’esercito, e soprattutto aveva l’approvazione dell’uomo il cui parere, nella Germania nazista, era quello che in definitiva contava: Adolf Hitler. L’attacco ricevette il via libera. I francesi furono colti totalmente di sorpresa. Le forze corazzate, con in testa i Panzer del generale di corpo d’armata Heinz Guderian e il supporto devastante della Luftwaffe, sfondarono le linee nemiche, aprendo una voragine nelle difese francesi. I carri armati tedeschi iniziarono un’avanzata rapida e incontrastata in territorio francese. E così i soldati britannici, solo pochi giorni dopo aver preso posizione in Belgio e pur chiaramente in grado di tenere testa ai tedeschi, ricevettero l’ordine di ritirarsi. Doveva esserci per forza, pensarono i soldati, un motivo preciso. Forse i tedeschi avevano sfondato in un settore vicino? O forse il loro battaglione veniva inviato nelle retrovie per cattiva condotta? In un primo momento le unità britanniche si ritirarono per tappe, da una linea difendibile all’altra. In certi casi venne fatta ripiegare un’intera divisione, perché andasse a coprire una distanza considerevole. Con il proseguire della ritirata la confusione aumentava, e iniziarono a circolare delle voci. Una di esse si rivelò vera: un massiccio sfondamento da sud minacciava di aggirare l’esercito britannico. Ma per tutta la durata del ripiegamento, o quasi, non si fece cenno a nessuna evacuazione, né tantomeno al nome, ora leggendario, di Dunkerque. Si ritrovarono in marcia soldati di ogni tipo, da truppe scelte a divisioni di supporto alla logistica non addestrate. Alcuni si mossero a piedi, accompagnando il battaglione o incespicando da soli. Altri viaggiarono sugli autocarri, a cavallo, su trattori o in bicicletta. Un gruppo di intrepidi fu visto in groppa a vacche da latte.

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Gli uomini dell’esercito britannico, sotto il fuoco nemico e con poche risorse, si trovavano nelle condizioni fisiche e mentali più diverse. Walter Osborn, del reggimento Royal Sussex, stava vivendo una situazione particolarmente difficile. Aveva spedito al primo ministro Winston Churchill una lettera anonima in cui chiedeva un po’ di licenza per i ragazzi, ed era stato condannato a quarantadue giorni di detenzione per aver utilizzato un linguaggio pregiudizievole all’ordine e alla buona condotta. Ora, durante la ritirata, era in una posizione svantaggiata rispetto ai commilitoni: non appena i combattimenti cessavano, lui veniva rinchiuso in qualche fienile o cantina perché continuasse a scontare la sua pena. Non gli sembrava giusto e si lamentò con un agente del reggimento: «Un uomo ha diritto di sapere cosa lo aspetta!». Ancora più insolita la situazione del piccolo soldato seduto su un autocarro diretto a Tourcoing. Con l’elmetto d’acciaio, il cappotto kaki e il fucile, sembrava un soldato come tanti. Forse l’uniforme gli era un po’ larga, ma capitava a molti: dai soldati semplici non ci si aspettava certo che vestissero come Errol Flynn nella Carica dei seicento. La cosa strana era il suo matrimonio con un pari grado del reggimento East Surrey. Il soldato si chiamava Augusta Hersey, ed era una ragazza francese di ventun anni. Si era sposata di recente con Bill Hersey, magazziniere del 1° battaglione East Surrey. Si erano conosciuti nel locale dei genitori di lei quando Hersey era di stanza nella zona, e si erano innamorati benché nessuno dei due sapesse una parola della lingua dell’altro. Hersey aveva chiesto al padre la mano della ragazza indicandogli la parola mariage su un dizionario francese-inglese e ripetendo la frase «Vostra figlia…».

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Per fortuna di Hersey, il comandante di compagnia era un sentimentale, e aveva acconsentito, contro ogni regolamento, che Augusta si ritirasse insieme al battaglione indossando l’uniforme dell’esercito. E così la coppia si ritrovava, quasi insieme, a indietreggiare di fronte all’avanzata tedesca. Ma la ritirata non ebbe un obiettivo preciso finché lord Gort, il comandante britannico, non raggiunse la coraggiosa conclusione che l’unico modo per salvare almeno parte dell’esercito consisteva nel mandare i suoi uomini – Anthony Irwin, Walter Osborn e il resto della British Expeditionary Force – verso Dunkerque, l’unico porto ancora in mano alleata, da cui rimpatriare in tutta fretta via mare più uomini possibile. Quando i soldati arrivarono a Dunkerque, li accolse una scena indimenticabile. Il capitano di vascello William Tennant, a cui l’ammiragliato aveva affidato il comando della località, il 27 maggio era salpato da Dover alla volta del porto francese per coordinare l’Operazione Dynamo. Era entrato in una città in fiamme, con le strade coperte di detriti e le finestre in frantumi. In città e nel porto l’aria era satura del fumo proveniente da una raffineria di petrolio esplosa. Morti e feriti erano ammucchiati all’aperto. Lungo il tragitto, Tennant dovette affrontare un branco di ringhiosi soldati britannici pronti a mettere mano alle armi. Riuscì a tranquillizzare un po’ gli animi offrendo al capo del gruppo un sorso dalla propria fiasca. Un altro ufficiale di marina giunse a Dunkerque due giorni dopo. Arrivando dal mare si era trovato di fronte uno degli spettacoli più penosi che avesse mai visto: a est del porto si estendevano 15 chilometri di spiaggia, brulicanti di decine di migliaia di uomini, e avvicinandosi a riva l’ufficiale vide che molti erano entrati in acqua e aspettavano il loro turno di issarsi a bordo di minu-

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scole barchette. La scena si presentava disperata. Come era possibile, si chiese, sperare che si potessero salvare in molti? Eppure, più ci si avvicinava alle spiagge e più tempo vi si passava, più diventava chiaro che non c’era un quadro unico, non c’era un’unica storia. Un ufficiale del reggimento Royal Sussex ricorda che al suo arrivo sulla spiaggia fu prontamente accolto da un poliziotto militare che gli chiese a quale unità appartenesse, per poi indicargli con cortesia una fila ben ordinata. Un giovane segnalatore, invece, si unì a un’altra fila e si sentì dire: «Levati dai piedi o sparo!». Un sergente del genio vide un gruppo di soldati lottare disperati per salire su una barca appena giunta a riva. Il marinaio che coordinava l’operazione, nel vano tentativo di riportare l’ordine prima che l’imbarcazione si rovesciasse, estrasse la rivoltella e sparò in testa a uno dei soldati. Gli altri non vi fecero troppo caso. «Sulla spiaggia c’era un tale caos che il gesto non risultava fuori luogo» ricorda il sergente. Ogni individuo che si ritrovò sulla spiaggia o sul molo, il lungo frangiflutti fulcro dell’evacuazione, dopo essere magari arrivato lì aggrappato al dorso di una vacca, viveva una realtà diversa. E tutte queste realtà, allineate fianco a fianco, spesso erano in contraddizione. Basti pensare che la spiaggia era molto estesa, e per quasi dieci, intensi giorni di rapidi cambiamenti brulicò di migliaia di persone nelle più disparate condizioni fisiche e mentali. Come potevano quelle storie non essere in contraddizione? Su quella spiaggia c’era il mondo intero. E la situazione non divenne più ordinata una volta che i soldati furono saliti a bordo di barche e navi e salparono per la Gran Bretagna. Con la Luftwaffe che li bombardava dall’alto, l’artiglieria che gli sparava addos-

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so dalla costa e la paura delle mine e dei siluri, gli uomini si stavano sì dirigendo verso la salvezza, ma dovevano ancora arrivarci. Un ufficiale del reggimento Cheshire era uno dei trenta uomini a bordo di una baleniera partita dalla spiaggia e diretta verso il cacciatorpediniere ormeggiato al largo che li avrebbe traghettati a casa. Mentre si avvicinavano, all’improvviso il cacciatorpediniere levò l’ancora e puntò verso l’Inghilterra. Sopraffatto dalle emozioni, un cappellano militare balzò in piedi gridando: «Signore! Signore! Perché ci hai abbandonati?». Per lo spostamento del peso dell’uomo iniziarono a imbarcare acqua, e tutti gli uomini presero a urlargli contro simultaneamente. Pochi istanti dopo, in risposta alla preghiera – o forse al baccano suscitato dalle proteste di trenta uomini – il cacciatorpediniere invertì la rotta e tornò a prenderli. In ogni caso, quasi tutto il corpo di spedizione britannico arrivò da Dunkerque a casa sano e salvo. Molti uomini viaggiarono a bordo di imbarcazioni militari o grandi mercantili: le famose barche piccole (alcune delle quali con equipaggio civile, per lo più marinaro) furono utilizzate soprattutto per traghettare i soldati dalle acque poco profonde alle imbarcazioni più grandi ancorate al largo. Ma se quei soldati fossero stati uccisi o catturati, la Gran Bretagna avrebbe dovuto sicuramente trattare la pace con Hitler, la storia avrebbe preso un corso di certo più cupo e oggi il mondo sarebbe molto diverso da com’è ora. Tutto ciò spiega perché Dunkerque – una sconfitta disastrosa seguita da un’evacuazione disperata – sia considerata un evento glorioso, che consentì di strappare la vittoria dalle grinfie di una calamità mondiale. Mentre il giorno di commemorazione della fine della prima guer-

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ra mondiale e quasi tutte le ricorrenze belliche hanno un carattere austero, concentrato sulla perdita, l’anniversario di Dunkerque ha più l’aria di una celebrazione, con le piccole barche che rievocano la traversata della Manica. Dunkerque rappresenta la speranza e la sopravvivenza, ed è stato così fin da subito. All’inizio dell’evacuazione, la Gran Bretagna si trovava, militarmente parlando, in una situazione talmente grave che le restava solo la speranza, come sul fondo del vaso di Pandora. Domenica 26 maggio fu osservato un giorno di preghiera nazionale. Le funzioni nell’abbazia di Westminster e nella cattedrale di St. Paul si ripeterono in tutte le chiese e le sinagoghe del paese, nonché nella moschea di Southfields. L’arcivescovo di Canterbury affermò nel suo sermone che la Gran Bretagna aveva bisogno dell’aiuto di Dio e che se lo meritava. «Siamo chiamati a fare la nostra parte in un enorme conflitto tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato» disse, lasciando intendere che i principi morali del paese erano investiti di un carattere sacrale, in quanto «rappresenta[va]no il volere di Dio». Dio stava con la Gran Bretagna, e soltanto Lui sapeva in che modo il malvagio nemico sarebbe stato sconfitto. Non stupisce dunque come l’evacuazione, che Winston Churchill non esitò a definire miracolosa, abbia assunto un alone quasi religioso. A quanto pare, l’arcivescovo aveva ragione: la Gran Bretagna godeva davvero del favore di Dio. Ciò confermò le idee di scrittori come Rupert Brooke e Rudyard Kipling e contribuì a forgiare un concetto che perdura da oltre settantacinque anni: lo spirito di Dunkerque. Lo spirito di Dunkerque, inteso come rifiuto di arrendersi alla disperazione in un momento di crisi, sem-

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bra essersi imposto spontaneamente. Al ritorno in patria, molti soldati si consideravano sventurati avanzi di un esercito calpestato. Molti si vergognavano. Ma l’inatteso umore dei compatrioti li stupì. «Ci misero su un treno, e ovunque ci fermassimo la gente ci accoglieva con caffè e sigarette» ricorda un tenente del reggimento di fanteria leggera Durham. «L’euforia incontenibile ci fece capire che eravamo degli eroi, che avevamo ottenuto una sorta di vittoria. Eppure, era evidente che avevamo subito una sonora sconfitta.» Nella Last era una casalinga del Lancashire. A inizio giugno scrisse nel proprio diario: Stamattina ci ho messo una vita a fare colazione: ho letto e riletto le cronache dell’evacuazione di Dunkerque. Mi pareva di avere dentro un’arpa che vibrava e suonava […] Mi sono dimenticata di essere una donna di mezza età stanca e con il mal di schiena. Quella storia mi ha fatto sentire parte di qualcosa di immortale.

Non tutti, però, furono entusiasti di quelle manifestazioni. Il generale Bernard Montgomery, a capo della 3a divisione durante la ritirata, era disgustato dalla vista dei soldati a spasso per Londra con le uniformi decorate dalla parola Dunkirk. «Si credevano eroi, e anche i civili li ritenevano tali» scrisse in seguito. «Non gli era chiaro che l’esercito britannico aveva subito una tremenda sconfitta.» Ci si attendeva un’invasione da parte dei tedeschi, e Montgomery trovava fuori luogo le dimostrazioni di orgoglio e l’autocelebrazione. Per la maggioranza, però, finché la Gran Bretagna aveva ancora una piccola ma concreta possibilità di sopravvivenza, gli uomini tornati in patria erano eroi da coprire di gloria.

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Anche alcuni civili si mostrarono riluttanti all’euforia. Il 3 giugno un’anziana donna assistette allo sbarco delle truppe annientate a Dover e disse: «Quando ero ragazza, i soldati erano ben vestiti, non uscivano mai senza guanti». Il ricercatore del progetto d’indagine Mass Observation che aveva parlato con la donna notò che in città c’era un clima piatto e indifferente: «Potrei descriverlo solo così: non c’erano bandiere, non c’erano fiori, era tutto diverso dai comunicati stampa». A prescindere da quanto fosse diffuso il senso di emozione e sollievo, le autorità erano inclini ad assecondarlo: e Winston Churchill lo capì d’istinto. Secondo Oliver Lyttelton, in seguito membro del gabinetto di guerra del primo ministro, un grande leader sa smorzare la razionalità per lasciare spazio all’entusiasmo. Nel 1940, di fronte a un’attenta valutazione delle probabilità, pochi avrebbero agito con decisione. Ma Churchill, pur non essendo il più intelligente degli uomini, seppe come ispirare il paese. «Ti faceva sentire come un grande attore al centro di grandi eventi» disse Lyttelton. La sera del 4 giugno la radio iniziò a diffondere parti del discorso che il primo ministro aveva tenuto qualche ora prima alla Camera dei comuni. Il discorso non tentava di ignorare la realtà: Churchill parlò delle divisioni corazzate tedesche che scorrevano come una falce attorno alle armate britanniche, francesi e belghe su al nord, seguite a ruota dall’«ottusa massa bruta» dell’esercito tedesco. Parlò delle perdite umane e di quelle, ingenti, di armi ed equipaggiamenti. Ammise che la gratitudine per lo scampato pericolo non doveva far chiudere gli occhi al paese sul fatto che «quanto accaduto in Francia e in Belgio [fosse] un colossale disastro militare».

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Ma Churchill parlò anche di «un soccorso miracoloso, ottenuto grazie a valore, perseveranza, perfetta disciplina, prestazioni impeccabili, risorse, abilità, fedeltà incrollabile». Se questo è ciò di cui siamo capaci nella sconfitta, intendeva, figurarsi cosa potremmo ottenere nella vittoria! Poi espresse fiducia nel fatto che la Gran Bretagna sarebbe stata in grado di difendersi da un’invasione tedesca: Combatteremo sui mari e sugli oceani, combatteremo nell’aria con crescente sicurezza e forza, difenderemo la nostra isola a qualunque costo, combatteremo sulle spiagge, combatteremo lungo le linee di sbarco, combatteremo nei campi e nelle strade, combatteremo sulle colline: non ci arrenderemo mai…

Queste parole, per quanto ispirate e ispiratrici (il giorno dopo, il Daily Mirror abbaiava in prima pagina: NON CI ARRENDEREMO MAI), lasciavano presagire un futuro difficile. Combattere nelle strade e nei campi significava guerriglia, il genere di scontri che si sarebbero verificati qualora i tedeschi fossero riusciti a consolidare la loro posizione sul suolo britannico. Oltre a ciò, tuttavia, Churchill alludeva al fatto che la Gran Bretagna avesse forze di riserva. E questo poteva sia servire a rassicurare la popolazione sia a mandare un messaggio agli Stati Uniti: finché non ci raggiungerete, qui ci pensiamo noi, stava dicendo Churchill. Ma, per favore, non metteteci troppo… Joan Seaman, all’epoca adolescente, ricorda la paura che l’aveva attanagliata dopo Dunkerque. Ma le parole del primo ministro cambiarono tutto: «Quando sentivo qualcuno criticare Churchill, dicevo sempre: “Sì, ma è grazie a lui che ho smesso di avere paura!”». George

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Purton, soldato semplice addetto agli approvvigionamenti del RASC (Royal Army Service Corps), era appena tornato da Dunkerque tra mille difficoltà. Non poteva condividere l’opinione di Churchill sull’evacuazione, ma sapeva riconoscere «un magnifico discorso di propaganda» quando ne sentiva uno. La sera del 5 giugno ci pensò la BBC a sollevare ulteriormente il morale del paese. John Boynton Priestley, romanziere e drammaturgo, parlò alla radio dopo il notiziario. Il suo discorso fu molto più informale di quello di Churchill, con il tono di chi si sta bevendo un bicchiere tra amici. Priestley, nel suo accento dello Yorkshire, canzonò la tipica natura inglese dell’evacuazione di Dunkerque, un errore madornale a cui era toccato rimediare prima che fosse troppo tardi. Derise i tedeschi: loro di errori non ne commettevano molti, ma non compivano mai neanche nessuna impresa epica. «Non c’è niente in loro che colpisca l’immaginazione del mondo» disse. A mano a mano che si infervorava sul concetto centrale – i britannici popolo amabile, assurdo e donchisciottesco – affrontò l’aspetto più inglese dell’intera faccenda: i piccoli battelli da diporto sottratti al loro mondo balneare fatto di castelli di sabbia e chioschi di caramelle e trascinati in una orribile realtà di mine e mitragliatrici. Alcune di quelle imbarcazioni erano state affondate. Ma ora erano immortali: «E ai nostri pronipoti, quando gli racconteremo come abbiamo iniziato questa guerra strappando la gloria anche nella sconfitta per poi incedere verso la vittoria, magari diremo anche di quei piccoli battelli da vacanza che fecero un’escursione all’inferno e ne tornarono vittoriosi». Nel discorso di Priestley – come in altre reazioni a quegli aventi – si avverte l’orgoglio per quei tratti per-

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cepiti come tipicamente inglesi: modestia, cameratismo, eccentricità, fiducia nella giustizia, volontà di opporsi ai prepotenti, un disinvolto senso di superiorità. Nessuno, del resto, vuole dare l’idea di impegnarsi troppo. Come scrisse Kipling: Più grande è l’impresa, più va affrontata con una risata leggera: possa questo essere il tratto della razza inglese fino al giorno del Giudizio!

A mano a mano che si diffondeva, la storia di Dunkerque fu manipolata in accordo al senso di identità nazionale. Quando era stata l’ultima volta che un piccolo esercito impavido si era affrettato verso le coste francesi nel tentativo disperato di sfuggire a un nemico arrogante e molto più forte, e contro ogni aspettativa era riuscito, combattendo, a farsi strada verso la libertà? Ma durante la guerra dei cent’anni, naturalmente, quando gli inglesi vinsero la gloriosa battaglia di Agincourt, combattuta, per dirla con Shakespeare, da quei pochi fortunati, dalla banda di fratelli. Se ad Agincourt era nato un senso di identità inglese, la storia di Dunkerque aveva bisogno di ben poche manipolazioni. Le reazioni a una rappresentazione teatrale che iniziò ad andare in scena due settimane dopo l’evacuazione rendono l’idea dell’aria che si respirava. Thunder Rock, con Michael Redgrave, debuttò al Neighbourhood Theatre di Kensington. L’autore, Robert Ardrey, lo definì un dramma per gente disperata: e fu un successo immediato. Secondo il critico teatrale Harold Hobson, ebbe sul pubblico lo stesso effetto prodotto dal discorso di Churchill su coloro che lo avevano ascoltato; si dimostrò talmente

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popolare che fu finanziato in segreto dal ministero del Tesoro e spostato nel West End. Un’ulteriore conferma di quanto sia sfumata la linea che separa lo spirito spontaneo dalla sua imposizione da parte delle autorità. La trama ruota attorno a un giornalista disilluso dal mondo moderno che si è ritirato a vivere da solo in un faro nella regione americana dei grandi laghi. Lì riceve le visite dei fantasmi di donne e uomini annegati nel lago cent’anni prima, mentre migravano a Ovest per sfuggire ai problemi che affliggevano i loro tempi. Il parallelo diviene chiaro nei dialoghi tra il giornalista e i fantasmi: proprio come quelli, che avrebbero dovuto confrontarsi con le difficoltà dell’epoca, così avrebbe dovuto fare lui. Alla fine il protagonista decide di lasciare il faro e partecipare alla guerra in corso. Nel monologo finale ripercorre temi di grande rilievo per il pubblico contemporaneo: Abbiamo ragione di credere che un giorno le guerre cesseranno, ma solo se siamo noi a fermarle. Bisogna entrarvi per poterne uscire […] Dobbiamo creare un nuovo ordine dal caos di quello vecchio […] Un nuovo ordine che debellerà l’oppressione, la disoccupazione, la fame e le guerre, proprio come il vecchio ordine ha debellato la peste e le epidemie. È per questo che dobbiamo agire e combattere […] combattere non per il combattimento in sé, ma per creare un mondo nuovo a partire da quello vecchio.

Queste aspirazioni sociali così elevate rivelano il mutamento in corso nello spirito di Dunkerque. L’iniziale senso di sollievo (perché la sconfitta non era inevitabile) e orgoglio (per lo sforzo epico e disperato) si stava mescolando con la realtà politica per diventare qualcosa

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di più complesso e interessante. Se Adolf Hitler era un sintomo più che la causa del problema, allora la vittoria avrebbe portato anche un mondo migliore e più giusto. Ma a parte le parole, scritte e pronunciate, la manifestazione forse più notevole dello spirito di Dunkerque si ebbe nell’ambito dell’industria britannica. Subito dopo l’evacuazione, i lavoratori divennero pienamente consapevoli della necessità di intensificare gli sforzi. Questa rara convergenza tra vertici e forza lavoro, che rifletteva il comune interesse per la sopravvivenza, segnò probabilmente il punto più alto dello spirito di Dunkerque. La SU di Birmingham, la fabbrica dei carburatori per i caccia Spitfire e Hurricane, nelle due settimane dopo Dunkerque raddoppiò la produzione. L’orario di lavoro ufficiale andava dalle 8 del mattino alle 19, sette giorni su sette, ma molti operai restavano in postazione fino a mezzanotte e dormivano in fabbrica. Una situazione del genere sarebbe stata impensabile in qualunque altro momento del secolo scorso, o quasi. Durante il Blitzkrieg, la campagna aerea della Luftwaffe contro la Gran Bretagna durata otto mesi e mezzo, dal settembre 1940 al maggio 1941, lo spirito di Dunkerque e lo spirito del Blitz si fusero in un unico sentimento idealizzato, con la pioggia indiscriminata di bombe a rimarcare la necessità di stringersi gli uni agli altri. Ma l’essenza di entrambi era la presa di coscienza istintiva che la vita contava davvero. Negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra, il concetto di spirito di Dunkerque fu talvolta utilizzato per lamentare una presunta tendenza britannica a darsi da fare soltanto quando diventa inevitabile, ma più di recente l’accezione si è di nuovo avvicinata a quella originaria e più semplice. Nel dicembre 2015, per esempio, il corniciaio in pensione Peter Clarkson ha in-

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dossato il costume e si è messo a nuotare nella cucina di casa sua, in Cumbria, allagata da piogge intense. «Gliela facciamo vedere noi a queste alluvioni!» ha gridato sguazzando davanti ai fornelli facendo la rana, e ha spiegato che stava cercando di «tirare su il morale dei vicini con un po’ di spirito di Dunkerque». E quando lo Hull City ha iniziato la Premier League 2016-2017 con una vittoria nonostante gli infortuni di giocatori importanti e l’assenza di un allenatore stabile, il centrocampista Shaun Maloney ha attribuito il risultato allo spirito di Dunkerque che regnava nella squadra. Il picco del fenomeno, tuttavia, si è verificato durante la campagna del referendum sulla Brexit, nel 2016, quando i riferimenti a quel periodo non si contavano. Peter Heargreaves, finanziatore di punta della campagna per il Leave, ha incitato gli elettori a votare per la Brexit rievocando l’ultima volta che la Gran Bretagna ha lasciato l’Europa: «Sarà di nuovo come Dunkerque» ha detto. «Ce la metteremo tutta e avremo un successo incredibile, perché torneremo a essere insicuri. E l’insicurezza è fantastica.» Nel frattempo Nigel Farage, non pago di avere evocato Dunkerque, ha cercato di rimetterla in scena con una flottiglia lungo il Tamigi impavesata da slogan come Votiamo l’uscita e torniamo a essere la Gran Bretagna. Ma questi sono gesti e parole di persone in situazioni attuali, con programmi odierni. I veterani dell’evacuazione, invece, come descrivono lo spirito di Dunkerque? Che cosa ha significato e cosa significa per loro? In gran parte dei casi, lo legano alle loro esperienze individuali. Robert Halliday, del genio, arrivò in Francia all’inizio della guerra e fu evacuato da Bray-Dunes il 1° giugno. Per lui, l’essenza dello spirito di Dunkerque fu rappresentata dalle unità britanniche e francesi che

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combatterono strenuamente intorno alla città omonima. «I ragazzi che hanno tenuto testa [ai tedeschi] e ci hanno permesso di procedere sono impagabili!» dice. Ricorda i soldati che lo salutavano al suo passaggio: «Buona fortuna! Vai!». Quando parla di questi eventi gli luccicano gli occhi. Per lui lo spirito di Dunkerque resta qualcosa di molto concreto. Fu «bellissimo» dice. George Wagner, evacuato da La Panne anche lui il 1° giugno, lo mette in relazione con la sopravvivenza. «Volevamo sopravvivere in quanto nazione. Era senso di cameratismo, era voler dare una mano insieme.» Non tutti sono d’accordo. Ted Oates, del Royal Army Service Corps, fu tratto in salvo dal molo di Dunkerque. Quando gli si chiede se lo spirito di Dunkerque significhi qualcosa per lui, si limita a scuotere la testa. E George Purton, anche lui ben lontano dal sentirlo, pensa anzi che l’esercito britannico sia stato a tutti gli effetti tradito. «Ci hanno mandati incontro a qualcosa che non eravamo in grado di affrontare» dice. Ricorda Dunkerque come un periodo di isolamento. «Stava succedendo di tutto, e tu eri costretto a pensare solo a te stesso, a chiederti come diavolo avresti fatto a uscirne.» Dunkerque ha un posto quasi sacro nella coscienza collettiva della Gran Bretagna. Ha dato origine a esperienze e atteggiamenti conflittuali. Suscita emozioni intense, non solo nei veterani ma anche in chi è nato anni dopo e conosce l’evento grazie alla memoria condivisa e a interpretazioni politicamente orientate. In che modo, allora, vi si può accostare un film-maker contemporaneo? Chris Nolan, uno dei più stimati registi in attività, ha scritto e diretto un lungometraggio ambientato durante l’evacuazione. La storia gli era già familiare: «Credo che ogni scolaro inglese la conosca» ha dichiarato.

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«Ce l’abbiamo nelle ossa, ma ho pensato fosse tempo di tornare alla fonte originale.» Nel riconsiderare la storia di Dunkerque, Chris ha accumulato domande su domande riguardo all’effettivo svolgimento dei fatti. «Davo per scontato, da cinico come tutti noi siamo diventati, che guardando più da vicino sarei rimasto deluso. Che la mitologia dello spirito di Dunkerque sarebbe svanita, svelando un nucleo più banale.» Ma strato dopo strato, Chris ha portato alla luce qualcosa che non si aspettava: «Mi sono reso conto che le semplificazioni in realtà rivelano una verità, perché la verità complessiva, quella composta da tanti dettagli, è che a Dunkerque è avvenuto qualcosa di assolutamente straordinario. Mi sono reso conto del fatto che si è trattato di un evento eroico in piena regola». Eroico sì, ma non lineare. «Quando ci si tuffa nella realtà della storia, immaginando come deve essere stato trovarsi lì, si scopre un evento incredibilmente complicato. A partire dal numero di persone coinvolte: era come se sulla spiaggia ci fosse un’intera città. E come in ogni città, c’era la codardia, c’era l’egoismo, c’era l’avidità, e poi ci sono stati casi di eroismo.» Il fatto che questi ultimi si siano verificati accanto a comportamenti negativi, e nonostante la bassezza della natura umana, rende il tutto più toccante e potente. «Questo è il vero eroismo» dice Chris. Gesti individuali a parte, lui vede l’evacuazione di Dunkerque come uno sforzo collettivo compiuto da persone comuni che agivano in vista di un bene superiore. Questo rende l’eroismo qualcosa di più della somma delle sue parti. Ed è in ultima analisi il motivo che lo ha spinto a fare il film. Un’altra attrattiva della vicenda è la sua pura universalità. «Tutti possono capirne la grandezza: è qual-

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cosa di primario, di biblico. È il popolo di Israele spinto verso il mare dagli egiziani.» Uno sfondo ideale per quelli che Nolan chiama personaggi al presente, ossia individui anonimi non appesantiti da un passato. «L’idea è che possano essere anonimi e neutri e incontrarsi con il pubblico, il quale viene assorbito dalle loro difficoltà e sfide del presente.» Durante la lavorazione del film, Chris si considera un tramite per gli spettatori. «Ciò che provo e il modo in cui scelgo di riprenderlo – ovvero di girare le scene – mi accendono l’immaginazione riguardo al film nel suo complesso.» Se ha una reazione viscerale, sente di essere sulla strada giusta. «È come se mentre registro fossi seduto al cinema a vederlo» dice. Per lui, raccontare bene la storia significa catturarla dal punto di vista dei partecipanti, a terra, in aria, sul mare. Pertanto, in quasi tutte le sequenze che ha finito per utilizzare, le telecamere sono posizionate con attenzione in modo che il pubblico veda quel che vede il pilota delle piccole barche, del velivolo, dal molo. «Si deve avere la sensazione che sia tutto vero, come un’esperienza vissuta. Il puro cinema, per me, è sempre un’esperienza soggettiva.» Nel film il nemico compare appena. I soldati tedeschi si intravedono solo per un attimo, tanto che lo spettatore ne distingue appena le facce. Ma questo, sottolinea Nolan, riflette la realtà della situazione, l’esperienza soggettiva degli uomini sulla spiaggia. «Dai resoconti di prima mano si intuisce che il contatto ravvicinato con il nemico fu qualcosa di molto sporadico per gran parte dei britannici. Volevo mettere il pubblico nei panni di un giovane senza esperienza catapultato in questa situazione: e dai racconti risulta che i soldati non guardarono i tedeschi negli occhi. Volevo rispettare questo dato e abbracciare la natura sen-

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za tempo della storia. Il motivo per cui essa ha sostenuto tante interpretazioni e continuerà a farlo è che non si tratta di qualcosa che riguarda tedeschi e britannici, non riguarda i dettagli del conflitto. Riguarda la sopravvivenza. Volevo renderla come una storia di sopravvivenza.» In effetti, i nemici con cui venne a contatto la maggioranza dei soldati britannici (a parte quelli impegnati a difendere il perimetro di Dunkerque) furono aerei, pezzi di artiglieria, sottomarini, mine e cannoniere. E una battaglia contro un nemico invisibile che non può essere combattuto, toccato né, appunto, visto dà vita a un film di guerra insolito. Agli occhi di Chris, infatti, non si tratta affatto di un film di guerra. «È più un horror. Un horror psicologico, con minacce invisibili. I ragazzi sulla spiaggia avevano solo una vaghissima idea di quanto stava accadendo e sarebbe accaduto, e io voglio che il pubblico sia nella stessa posizione.» Un altro nemico fu il tempo. «È la lotta definitiva contro il tempo» dice il regista. «Ma in contrasto a ciò, c’è tutto l’arco temporale dell’evento, che include la noia, la stasi, i momenti in cui non succede niente. Sono bloccati, ed è da lì che scaturisce la tensione, l’adrenalina. Quando si fa un film su delle persone in fila su un ponte verso il nulla, il tempo diventa tutto.» Se Chris Nolan vuole che il suo pubblico sia confuso e privo di informazioni come i giovani sotto tiro che facevano la fila per un posto sulla barca che li avrebbe portati a casa, io, in quanto autore di un libro di storia sullo stesso argomento, non ho la stessa intenzione. Io voglio rendere un quadro vivido dell’evento, dare ai lettori informazioni più chiare di quelle offerte il 28 maggio da due soldati al sottotenente Al Deere del 54° squadrone, dopo il suo atterraggio di fortuna sulla spiaggia:

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«Dove state andando?» chiese Deere. «Ce lo deve dire lei» rispose uno dei due soldati. «Vi stanno evacuando, giusto?» «Non lo sappiamo.» Prima di ripercorrere l’accaduto, tuttavia, intendo collocare l’evento nel suo contesto storico: per questo è importante saperne di più sulla vita dei giovani negli anni precedenti alla guerra. Allora potremo domandarci: che cosa significava essere giovani in un’epoca di incertezza? Da dove viene Dunkerque?

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Questo volume è stato stampato nel luglio 2017 presso la Rotolito Lombarda - Milano


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