julia montejo
gli abbracci oscuri
Traduzione di Sara Papini
ISBN 978-88-6905-287-3 Titolo originale dell’edizione in lingua spagnola: Los abrazos oscuros Lumen Penguin Random House Grupo Editorial, S.A.U. Barcelona - España © 2016 Julia Montejo Traduzione di Sara Papini Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale. © 2018 HarperCollins Italia S.p.A., Milano Prima edizione HarperCollins febbraio 2018
Questo libro è prodotto con carta FSC® certificata con un sistema di controllo di parte terza indipendente per garantire una gestione forestale responsabile.
A Jose
Trascorriamo la vita a sentire male, vedere male e a interpretare male per dare un senso alla storia che raccontiamo a noi stessi. Janet Malcolm
PARTE PRIMA
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C’è stato un tempo in cui volevo essere sempre ubriaca. Gli attimi presenti e quelli futuri mi erano insopportabili. Lottavo contro i postumi della sbornia con grandi quantità d’acqua, ibuprofene e, se gli impegni di lavoro me lo permettevano, con altro alcol. Vino, whiskey e cognac. Il cognac è sempre stato il mio preferito. Quello vero, certo. E tra i cognac, quelli invecchiati, i Napoléon. La mia passione era così conosciuta che a Dubai, una volta, uno sceicco riconoscente mi regalò una bottiglia di Jenssen Arcana. Non capisco perché il cognac sia considerato una bevanda da uomini. Be’, forse sì, ma ciò meriterebbe una riflessione che ora sarebbe fuori luogo. Per fortuna, scoprii questo piacere quando il mio lavoro veniva valutato con tanta generosità quanta idiozia. Il denaro arrivava come per magia, e con la stessa facilità se ne andava. Io, nonostante il successo, ero convinta che non fosse possibile vivere più intensamente, né essere più miserabile. Mi sbagliavo. Ora so che in quell’epoca, negli anni Novanta, erano i sogni, gli ideali irraggiungibili a uccidermi. La schizofrenia che svolgere il mio lavoro ne11
gli inferni della Terra mi provocava, e la facilità con cui io, e solo io, tornavo a casa in prima classe, lasciandomi dietro esseri umani che venivano puniti in maniera arbitraria. O forse non era il contrasto tra il mondo dell’abbondanza e quello della miseria. Forse ero soltanto io. Io e la mia libertà indigesta. E quel momento speciale in cui ti accorgi che, da sola, non puoi farcela. Il mondo va avanti senza di te e nuotare controcorrente ti trasforma in una donna esausta e disperata. Nel bene e nel male, scoprii dentro di me l’istinto di sopravvivenza. Fu allora che incontrai quello che sarebbe diventato mio marito, e cominciò una nuova tappa. Tranquilla, sicura. Lontano dall’ingiustizia sociale e dalla povertà, dalle guerre e dalla crudeltà dell’essere umano. Quella crudeltà che avevo denunciato più volte con la macchina fotografica, fino quasi a sentire noia per il dolore altrui. Mi innamorai di Álex e finirono i viaggi nei posti più disgraziati della Terra. Lentamente, ripresi fiato. E arrivarono le mie figlie... Con il benessere giunsero gli eventi sociali, le feste tutte uguali: mani identiche che salutano, sorrisi pieni di denti sbiancati, spesso incorniciati da silicone d’ordinanza e dai luccichii di paillettes scure che sottolineano l’appartenenza a un mondo superiore. Pochi occhi. La maggior parte schivi. Nessuno sguardo autentico. Non ci sono sguardi autentici nel club dei privilegiati, a meno che non si tratti di un gran imbecille, dotato per natura di uno sguardo autenticamente imbecille. Quella sera, se non sbaglio, eravamo invitati alla festa di un’importante casa editrice, organizzata nell’attico di un maestoso edifi12
cio sulla Castellana. A prima vista pensai che gli uomini fossero idioti. Le donne, per solidarietà, le classificai soltanto come frivole. In realtà, che gli uomini mi sembrassero idioti non pregiudicava in nessun modo la relazione con mio marito. Una sera, dopo una cena a lume di candela e una bottiglia di vino, avevo esposto ad Álex la mia visione del sesso opposto. In breve, a mano a mano che passa il tempo, la scintilla che spinge l’uomo alla caccia perde consistenza, fino a spegnersi. Quindi, rimane solo l’io, nudo, spoglio. E il vuoto di solito è deludente. Anzi, avevo confessato ad Álex che poteva stare tranquillo. Se lui fosse morto, non mi sarei risposata. Mi sarebbero bastate le amiche. Peccato non essere lesbica, avevo concluso con un sospiro sincero che lo aveva fatto scoppiare a ridere. Mi aveva chiesto se fossi convinta di quello che dicevo. Come potevo essere sicura che non avrei mai incontrato un uomo interessante? Io avevo la risposta, infarcita di luoghi comuni e buona volontà. Agli uomini poco interessanti, aveva brindato lui. Dopo, avevamo fatto l’amore. Ero felice come non lo ero mai stata, convinta di aver finalmente trovato il mio posto. Ora devo riconoscere che i primi anni di matrimonio mi avevano fatto recuperare un po’ della cieca ingenuità con cui avevo abbracciato la fotografia quando ero giovane. Mi fidavo di me stessa, di lui. Della famiglia che avevamo costruito. Indistruttibile. O incredibilmente fragile, come tutto ciò che importa davvero. Ma tornando alla festa... una festa noiosa, come tante altre. Cosa cambiò, quella sera, il corso della strada senza 13
ostacoli che avevo scelto con estrema cura? Fu il desiderio, o meglio, lo strano formicolio che annuncia il desiderio, e che entrò dove più gli conveniva: nella pelle. Una mano bianca e forte, abituata ai saluti professionali, apparve nella confusione della festa. Credo sia stato l’anfitrione a presentarci. Non ne sono sicura. Ricordo però che il primo incontro ebbe una certa solennità. Chi ci aveva presentati voleva fosse chiaro che quell’uomo non era una persona qualsiasi, anche se lui sembrava desiderare a tutti i costi di passare inosservato. Indossava una giacca classica e una camicia bianca senza cravatta. Aveva il volto quadrato e armonioso, una barba curata. Il vino e la confusione non riuscirono a proteggermi da uno sguardo azzurro, con occhi grandi e liquidi, dietro a occhiali da ipermetrope. Ovviamente doveva andare così. Lui mi conosceva, aveva pensato a me e fatto alcune indagini, o almeno fu ciò che disse. Io irradiavo sicurezza. Ero riuscita a sentirmi di nuovo orgogliosa del mio lavoro di fotografa senza giocarmi la felicità famigliare, semplicemente studiando l’ambiente che mi circondava. Con la macchina fotografica vedo ciò che altri non vedono, c’è sempre molto da esplorare intorno a noi. La mia presenza provocava curiosità e aspettativa. Mio marito salutava, orgoglioso. Si godeva il mio successo. Lo presi per mano, e intrecciammo le dita senza smettere di salutare. Amico, amante, appoggio incondizionato. Di fatto, per quanto buone fossero le mie fotografie, sapevo che senza di lui non sarei stata lì quella sera. Prima di sposarmi ero conosciuta solo nel mondo del giornalismo, ora mi dedicavo alla fotografia artistica. Álex non si accorse di nulla, e lui di solito era il primo 14
a notare l’interesse degli altri uomini per me, ma quella volta, il suo istinto di protezione fallì. La prima crepa nel nostro paradiso solido e concreto apparve quando allungai la mano verso lo sconosciuto e accettai il suo biglietto da visita. Poi, dato che non ne avevo uno mio, mi chiese di mandargli un’email per rimanere in contatto. Tutto nella norma, ma durante la richiesta percepii una certa urgenza e un certo bisogno di avere testimoni, come per garantire il suo interesse puramente professionale. Tuttavia, non mi sfuggì uno sguardo tra tutti gli sguardi che, rimbalzato da uno specchio in penombra, scrutava intenso e curioso mio marito. Me ne andai con il biglietto da visita nella borsetta di piume di pavone, uno dei tanti regali stravaganti della mia amica Natalia, decisa a scrivergli non appena fossi stata a casa. Al ritorno, sul taxi, lo dissi ad Álex e lui mi consigliò di aspettare un paio di giorni. «Se scrivi subito a un uomo, può pensare che nutri qualche interesse per lui» disse. «Ma io sono interessata. È il proprietario di un giornale a tiratura nazionale. Mi può offrire un lavoro.» «È un uomo» rispose lui. «Ascoltami. E come dici, è il proprietario, non il direttore.» «Perché bisogna piegarsi a questi giochetti, mettere sempre e comunque il sesso nell’equazione? Io sono una professionista, e anche lui lo è. Se comincio ad atteggiarmi, potrebbe pensare che stia giocando. Invece, se rispondo subito, vedrà che sono interessata solo al rapporto professionale e che sono una persona seria: dico che farò una cosa e la faccio. O sembro forse una donna disponibile?» 15
Álex sapeva quando stavo per perdere la pazienza. Mi prese la mano e la baciò. Si fidava di me. «Assolutamente. Fai come credi, tesoro. Hai ragione: è un ottimo contatto.» Siccome non avevo dubbi su cosa avrei dovuto fare, quella sera stessa, mentre Álex si lavava i denti, inviai un’email concisa con i miei dati a Daniel González. Fino ad allora non mi ero soffermata sul nome, nonostante avessi finto di leggere il biglietto da visita. Lo sguardo rimase intrappolato nel pezzo di carta. C’era solamente il nome. Né un incarico né un titolo. Era chiaro che non ne aveva bisogno. Quando andai a letto, Álex mi chiese se avessi scritto a López. «González» lo corressi divertita. Lui sorrise. «Non fidarti delle persone che hanno un nome difficile da ricordare». «Be’, è facile.» «Troppo semplice. Avrebbe potuto cambiarlo in un cognome composto, tipo González del Higo. E non l’ha fatto. Dovrebbe avere un ego proporzionato alla sua posizione. È strano che voglia rimanere nell’ombra. Quindi fai attenzione.» Quella spiegazione mi fece ridere, ma attivò un campanello d’allarme. Non c’è nulla di peggio di quando ti mettono in guardia contro qualcuno. È proprio allora che cominci a pensare a quella persona, alle ragioni che l’hanno spinta verso di te. Cosa vuole davvero? E nella tua mente gli concedi uno spazio che altrimenti non avrebbe mai ottenuto.
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A partire da quella notte concessi spazio a Daniel, quando, tra le braccia di mio marito, cominciai a farlo entrare nei miei sogni, nell’intimità della mia stanza e del mio letto. Non appena suonò la sveglia aprii gli occhi ansiosa. Desideravo che il giorno iniziasse a scorrere e volevo controllare, con quell’assurda civetteria femminile che nemmeno con l’età non svanirà mai del tutto, quanto ci avrebbe messo Daniel González a rispondere all’email. Álex andò in ufficio e io rimasi a preparare la colazione delle bambine. Le accompagnavo sempre a scuola. Mi piaceva avere un lavoro che mi permettesse di godermele nelle prime ore del giorno. Avevo allestito lo studio in casa e mi guadagnavo da vivere soprattutto con il ritratto artistico. Pensavo che avrei sentito la mancanza dei viaggi. Magari non di quelli a Gaza, in Afghanistan, in Ciad o in Pakistan, ma della scoperta del Nepal, del bianco azzurrino che avevo respirato attraverso il mio obiettivo al Polo Nord, dei safari fotografici in Kenya... Insomma, di tutto ciò che avevo visto, provato, di cui avevo riso, e di ciò che mi aveva spezzato il cuore e incantato quando pensavo che ormai nulla avrebbe potuto sorprendermi. I viaggi mi avevano mostrato quello che avevo sempre intuito: non appartenevo alla vita mediocre e grigia di un quartiere operaio di provincia dove il caso mi aveva fatto nascere, e il mondo era straordinario e inesauribile. Tuttavia, quando avevo deciso di diventare madre, mi ero impegnata, almeno per alcuni anni, a dare alla mia vita un’impronta diversa, più stabile. Avevo bisogno di una casa. Inoltre, era arrivato il momento di raccogliere tutto ciò che avevo appreso, di dargli una forma, di digerirlo, di trovare la mia voce di artista e, per farlo, 17
dovevo fermarmi. Quando le bambine erano piccole, mi ero organizzata per rinnovarmi professionalmente. Trascorrevo ore a leggere, a documentarmi, a rivedere l’immenso materiale che avevo accumulato in oltre quindici anni di viaggi. Mi divertivo facendo esperimenti con il ritocco delle immagini. Prima pensavo che le istantanee catturate con l’obiettivo non dovessero essere ritoccate. Con il tempo avevo scoperto che quello scrupolo non aveva senso. Nulla è vero e tutto lo è. Una foto immortala un instante, ma l’essere umano è così complesso e vario che è impossibile coglierne l’essenza, il significato o il valore in un’inquadratura. Per questo motivo, sperimentavo le tecniche informatiche. Cercavo di aggiungere contenuto alle immagini: quello che io avevo percepito nel momento in cui avevo scattato la foto. Renderla più reale. Più reale a modo mio, certo. Per riportare a galla cosa si nasconde sotto la superficie mi trasformavo in un chirurgo, isolando l’individuo per mostrarne l’essenza più nascosta. Ricordo che la mattina dopo la festa lasciai le bambine a scuola e tornai a casa in fretta. A volte ne approfittavo per fare un giro al mercato. Mi incantava l’esplosione di colori delle prime ore del mattino, e mi piaceva comprare il pane appena sfornato. Ma quel giorno l’unica cosa che volevo era sedermi davanti al computer e aspettare la risposta di Daniel con un caffè. A mezzogiorno, avevo già iniziato a prendermela con me stessa per la mia stupidità. Cosa stavo facendo? Avevo perso la mattinata a fissare lo schermo, aspettando la risposta di uno sconosciuto che magari nemmeno aveva intenzioni nascoste che andavano oltre un contatto professionale futuro. Mi 18
obbligai a indossare la tuta e ad andare a correre. Sudare mi avrebbe fatto bene. Prima, chiamai mio marito. «Vuoi che mangiamo insieme?» gli chiesi. Fino a un paio di anni prima, ci vedevamo a pranzo quasi tutti i giorni. Lui veniva verso casa e ne approfittavamo per darci appuntamento o, se era molto impegnato, lo raggiungevo io in qualche ristorante vicino al suo ufficio. Ma entrambi eravamo diventati un po’ pigri. «Sì, certo» rispose, ma percepii l’esitazione nella sua voce. «Se è un problema, lasciamo perdere. So che ne avete fin sopra i capelli con il nuovo lavoro.» «È che oggi non c’è neanche la segretaria. È di nuovo malata.» «Va bene, allora ci vediamo stasera. Non ti preoccupare.» Ma Álex non è un uomo qualsiasi e, dopo tanti anni, mi conosceva bene. «È successo qualcosa?» «No, no, nulla» risposi, ma dentro di me speravo che indagasse. Dovevo parlare con qualcuno. Avevo un’amica che amavo alla follia, Natalia, ma aveva una vita completamente diversa dalla mia e non perdeva occasione per chiedermi che bisogno avessi avuto di sposarmi e di fare figli. C’erano cose che non potevo condividere con lei. E poi Álex era il mio migliore amico. «Su, dimmelo» insistette. «Il tizio di ieri sera non risponde.» Álex scoppiò a ridere. Be’, pensai, vediamo se sdrammatizzando riesco a togliermi di dosso questa sensazione di angoscia. 19
«Stai parlando di Daniel, il proprietario del giornale?» «Sì, esatto. Perché non ha risposto al messaggio?» «Sarà occupato, che fretta hai? Non aveva neanche qualcosa di concreto da offrirti, no?» «Ma allora perché darmi il biglietto da visita e chiedermi i miei dati così, a bruciapelo? Avrebbe potuto trovarli in internet. Pensavo che avesse qualche interesse particolare per il mio lavoro.» «O nei tuoi confronti?» «No, per il mio lavoro, Álex» risposi perdendo la pazienza. «Okay, okay, ma che bisogno hai di avere altro lavoro? Dici sempre che ne hai fin troppo. E poi, vuoi rimetterti a viaggiare?» Allora capii: sì, lo volevo. Avevo bisogno di un po’ d’azione, di tornare a essere quella di prima. Solo io. E, in quell’instante, mi vidi: trasformata in una madre che stava mettendo da parte il lavoro e che si preoccupava di dichiarare al mondo e sì, a se stessa, che lei, e solo lei, aveva scelto quella strada. Non era vero. Le circostanze e la paura dell’opinione altrui, insieme alle mie responsabilità di genitore, erano diventati gli ingredienti di una torta che forse iniziava a essere nauseante. «No... Ecco, non lo so. Le bambine sono grandi. Mi manca. E se nessuno mi chiamerà più? Sono uscita io dal giro. Non mi vedono più come una reporter.» «No, cominciano a vederti come un’artista, ed era ciò che volevi.» «Sì, già...» sospirai. «Be’, niente è perfetto.» Álex rimase alcuni secondi in silenzio. «Va bene, mangiamo insieme» disse infine. 20
«No, davvero, non ce n’è bisogno. Oggi è un giorno difficile per te e, in realtà, non è successo nulla. Ne parliamo stasera a casa.» «Sei sicura?» «Sì, sì» risposi convinta. Ma, ovviamente, non ero sicura. Inoltre, cominciavo ad arrabbiarmi anche con Álex. All’improvviso compresi che non era obiettivo quando si trattava di darmi consigli o tranquillizzarmi. Se avessi ripreso a lavorare sul campo, lui avrebbe dovuto ridimensionare i suoi orari. La sua vita non sarebbe stata più così comoda. Dopo aver riattaccato, mi diressi in cucina e sentii l’avviso di notifica di un’email in arrivo. Ebbi un tuffo al cuore, tornai al computer, verso il messaggio tanto desiderato... ma era Álex. Scriveva che mi amava e che ne avremmo parlato quella sera. È vero, il paradiso può anche essere noioso, ma è sicuro, pensai con un sospiro.
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Ringraziamenti
Grazie a Rosario, che mi ha aiutato a capire la donna che sono e quella che voglio essere. E a Silvia, per chiedermi sempre di piĂš.
Questo volume è stato stampato nel gennaio 2018 presso la Rotolito Lombarda - Milano