I fiori non hanno paura del temporale

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BIANCA RITA CATALDI

I FIORI NON HANNO PAURA DEL TEMPORALE


ISBN 978-88 6905-292-7 © 2018 HarperCollins Italia S.p.A., Milano Prima edizione HarperCollins febbraio 2018 Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale. I versi di Eugenio Montale sono tratti da Tutte le poesie, a cura di Giorgio Zampa, Mondadori, Milano 1984 I versi di Vittorio Sereni sono tratti dalla raccolta Gli strumenti umani in Poesie, i Meridiani, Mondadori, Milano 1985

Questo libro è prodotto con carta FSC® certificata con un sistema di controllo di parte terza indipendente per garantire una gestione forestale responsabile.


A Elisa, mia sorella



Insisto nel ricercarti nel fuscello e mai nell’albero spiegato, mai nel pieno, sempre nel vuoto: in quello che anche al trapano resiste. Eugenio Montale, Ex voto



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Sono nata a Bologna in una casa che profumava di legno di sandalo e del ragù pesante della domenica, quello con la conserva di pomodoro e le polpette di carne. Mia madre mi ha data alla luce lì, nella sua camera da letto piccola con le persiane accostate per non far entrare il sole cocente di agosto. Detestava gli ospedali, il bianco asettico delle corsie, lo sciabordio delle pantofole di gomma degli infermieri che le metteva il mal di mare. Sono nata nel sangue e nel sudore dell’estate, intorno al collo il cordone che Donna Marzia mi ha strappato via con le unghie. Mia madre aveva sempre una lacrima pronta in tasca come una mentina per ogni volta che ricordava quei pochi secondi di silenzio in cui io, appena venuta al mondo, non avevo respirato. Ma quel silenzio, quello dei miei primi istanti di vita, l’ho scontato dopo con tutte le parole che negli anni non mi hanno mai abbandonata. L’unica persona 9


che avrei amato al punto di riconoscerla nel mondo come se fosse parte di me – un’unghia, un piede, una mano – mi avrebbe chiamata la Cantastorie, che è il mio vero nome. All’anagrafe sono Serena, senza orpelli né secondi nomi che non servono a nulla se non a dare un tributo a una nonna, a una madonna, a una santa. Mia madre non credeva nei santi e nemmeno nelle madonne – solo in Dio, un po’. Mia nonna invece credeva nei nomi, nel potere che custodiscono in sé come un succo dolce e nutriente, e sapeva che un nome non va ereditato, ma scelto con cura perché è parte del destino di chi lo porta. Così mi hanno chiamata Serena, perché nei primi giorni di vita ero tranquilla e anche un po’ opaca come una lampadina che sta per fulminarsi. E se è vero che non mi sono ancora fulminata – e sono passati venticinque anni dal giorno in cui Donna Marzia mi ha tagliato il cordone, scaraventandomi nel mondo – è vero anche che quel bagliore sottile che si avvicina alla fine l’ho sempre portato con me. Ho sempre creduto, sin da quando avevo otto anni e la nonna si spense tra le mie braccia, che la morte è nella vita e la vita è nella morte. Che il tempo è un fiume che scorre contemporaneamente in ogni punto del suo letto e che siamo nello stesso momento vecchi e giovani, morti e vivi. Così oggi, che ho venticinque anni e batto parole sulla Lettera 22 dell’Olivetti che 10


ho trovato sul ciglio di una strada provinciale – c’era un’ape posata sulla lettera C – sono contemporaneamente bambina e adolescente, e innamorata, e delusa. Tutto insieme. Era il giorno dei morti del 1997, 2 novembre. Mia madre mi stava legando i codini troppo bassi, li sentivo grattare sul collo come la pelliccetta sintetica del mio cappotto invernale. «Che elastici hai messo?» le chiesi, preoccupata, perché non avevo uno specchio davanti e sapevo che mia madre aveva comprato di recente degli orribili elastici con i pon-pon fucsia che mi avrebbero fatta sembrare una di quelle bambole da supermercato che cantano se premi la mano sinistra e che registrano la tua voce se premi la destra. O viceversa. «Sono quelli colorati.» «Colorati come?» «Con gli arcobaleni di plastica.» Gli arcobaleni andavano bene. Arcobaleni e unicorni erano okay. I pon-pon no. Ero seduta sulle gambe di mamma e lei era seduta sul coperchio chiuso del water. C’era un odore pungente di disinfettante per pavimenti, ed era un odore che mi faceva piangere non solo perché mi pizzicava il naso, ma anche perché era lo stesso che usavano le inservienti della casa di riposo dove viveva zia Carmela, quando viveva. Anche a mamma bruciavano gli occhi 11


quando sentiva quell’odore, ma non avrebbe cambiato disinfettante per niente al mondo. «Pronta. Andiamo.» Mamma mi diede uno schiaffetto sul sedere per farmi alzare e io scattai in piedi come un soldatino. Allo specchio sopra il lavandino non arrivavo, era troppo in alto. L’avevano sistemato così perché babbo era alto quanto un baobab, e il baobab è quella pianta enorme che a Bologna non si trova e che avevo visto al telegiornale una volta, o forse era un documentario di Piero Angela. «Corinna!» gridò mia madre, affacciandosi in corridoio. Dato che non potevo guardarmi allo specchio, mi tastai gli elastici nei capelli per capire se mi avesse preso in giro o no. Niente ciuffetti morbidi di pelo, niente pon-pon, bensì due mezzelune dure di plastica che ricordavano la forma delle caramelle agli agrumi, quelle con gli spicchi impressi nello zucchero. Mi aveva davvero messo gli elastici con gli arcobaleni. «Dài, Cora, che è tardi.» Corsi in camera mia pattinando nelle mie scarpe nuove di vernice con il cinturino. Mamma mi aveva detto che si chiamano scarpe Mary Jane, chissà perché. Io mica mi chiamo Mary Jane. In camera entrava un sole a strisce che attraversava le persiane socchiuse e si ficcava dritto negli occhi delle mie bambole sulla mensola. Le girai tutte di lato, perché la luce non desse loro fastidio. 12


«Serena» disse mia madre entrando in camera, «tua sorella non viene. Andiamocene.» Sapevo che non sarebbe venuta. In quel periodo aveva sempre un no pronto in risposta a qualunque domanda. Andammo io e mamma, pressate nella piccola Cinquecento blu scuro con le ammaccature e un fanale rotto che era stata di Nonno Mario, ma Nonno Mario è una lunga storia che racconterò un’altra volta. Anche perché, tanto per cominciare, non era mio nonno. «Reggi la borsa.» Mia madre mi posò sulle gambe una sporta che sembrava di rafia intrecciata e dalla quale si sollevava un odore dolciastro di cera e di fiori freschi. Quest’odore è ormai rimasto indelebile nei miei ricordi come l’odore dei cimiteri. Ed ero felice di reggere quella sporta sulle gambe con le calze rosa a cuoricini perché il cimitero era per me un luogo di festa e di ritrovo, qualcosa di molto simile a ciò che in seguito avrebbero significato i piccoli bar sotto i portici di Bologna. La passione per i cimiteri era un’eredità di zia Carmela, quella della casa di riposo. Era una delle otto sorelle maggiori di mia nonna. Prima che finisse lì dentro, quando io avevo all’incirca tre anni e lei era cieca da un occhio solo e sorda soltanto per metà, mi accompagnava ogni domenica al cimitero monumentale della Certosa, fuori dal centro, di fronte all’Ospedale Maggiore. E io adoravo quel posto e mi incantavo per minuti interi di 13


fronte alle statue, soprattutto davanti a quella della bambina che si alza sulle punte dei piedi per porgere fiori al busto fiero del defunto. Non sapevo dare un nome alle statue né sapevo leggere le iscrizioni, però quel monumento in particolare era il mio preferito perché rappresentava una bambina alta quanto me, e quella bambina avrei potuto essere io. E zia Carmela diceva: «Tutta questa gente non è morta. Sono tutti vivi, solo che tra noi e loro c’è qualcosa che non ci permette di vederli, e loro non vedono noi. Ma possiamo sentirci a vicenda». Forse quello è stato l’inizio della mia strana idea del tempo-fiume, che poi tanto strana non era perché in seguito l’avrei ritrovata in così tanti libri da perderne il conto. In quel 2 novembre del 1997, zia Carmela era già morta da un anno, o meglio, era viva in un posto dove io non potevo vederla. La sentivo, però. Era tra di noi, tra me e mamma, pressata anche lei nella Cinquecento, con la retina sui capelli grigi e gli occhiali enormi che le mangiavano la faccia come un nugolo di tarme. «Chi andiamo a trovare, oggi?» chiesi io, girandomi di tre quarti verso mia madre. Il sole che scaldava il finestrino aveva colorato la faccia di mamma di righe diagonali, come una cravatta regimental. «Le zie. Per Nonno Mario torneremo un’altra volta, è troppo lontano.» Le zie erano le otto sorelle di mia nonna, tutte insieme in una cappella con un disegno di felci sul pic14


colo frontone. Nella mia fantasia di bambina, ma anche in seguito quando bambina non ero più, ho sempre immaginato tutte loro lì dentro, che si scambiavano pettegolezzi sorseggiando tè al mirtillo. Soprattutto zia Menina, la maggiore, che la nonna diceva avesse un gusto particolare per le storie d’amore finite male – quelle altrui, naturalmente, perché lei non si era mai sposata. Delle otto sorelle della nonna, tutte molto più grandi di lei, avevo fatto in tempo a conoscere soltanto quella che le era più vicina d’età, zia Carmela. Corinna aveva conosciuto invece anche zia Franca, che ricamava con il tombolo, e zia Lina, che aveva partorito cinque figli morti. Ma tra me e Corinna passavano nove anni, e lei aveva avuto più tempo. Una volta arrivate, mamma parcheggiò tra due auto enormi cosicché la nostra scomparve ben presto, inghiottita dalle ombre proiettate dalle sue vicine. «Mi raccomando, comportati bene. Non metterti a ballare e non cantare Occhi di gatto come l’ultima volta» si raccomandò mia madre, spegnendo la macchina. «Ma zia Carmela adorava le sigle dei cartoni.» «Gliele canterai nel salone davanti alla foto. Andiamo.» Dei cimiteri, dicevo, adoravo l’odore di fiori e quella quiete silenziosa che sembrava addormentare le cose, tanto le vive quanto le morte. Ma mi piaceva anche guardare le foto sulle lapidi e immaginare le storie che si nascondevano dietro quei volti che non cono15


scevo. Per esempio, quella ragazza in bianco e nero con i capelli che dovevano essere stati di un biondo chiarissimo aveva il viso di una ballerina e il sorriso dolce di una madre, o di qualcuno che avrebbe desiderato esserlo. Era nata nel 1949 e morta nel 1963. Riempivo mia madre di domande: «Perché è morta? Secondo te era sposata? Innamorata? Dipingeva?». Lei mi camminava accanto con le sue gambe robuste strizzate dai collant color carne e fingeva di conoscere tutte le risposte. «Quella ragazza là era sposata con un orefice. Vedi che begli orecchini d’oro ha nella foto? Invece quest’altra è morta suicida sotto un treno, poverina. Guarda che occhi tristi: il fidanzato l’aveva lasciata per un’altra.» «Che vuol dire suicida?» «Che si è tolta la vita da sola.» Io domandavo, incredula: «E perché si è tolta la vita?». E mamma rispondeva, sicura: «Perché quando uno non trova più un motivo per vivere, ciò che può trovare è un motivo per morire». Mia madre non aveva peli sulla lingua, con me. Non era una di quelle madri che si preoccupano di nascondere le verità scomode ai figli per paura di spaventarli. Credeva nel principio che i bambini capiscono tutto e possono accettare tutto, purché sia loro spiegato il perché di ogni cosa. E io, ai suoi perché, credevo ciecamente, anche quando erano inventati. Quel giorno, quando arrivammo alla cappella 16


delle zie, mamma tirò fuori la chiave dalla tasca, aprì la porta sotto le felci ed entrò. Io la seguii e l’aiutai a sistemare i fiori freschi nel vaso e a togliere quelli ormai appassiti. Non che avessero tutto il tempo di marcire come volevano, i fiori, vista la frequenza con la quale andavamo al cimitero. «Sei pronta?» mi domandò mia madre, le mani umide d’acqua di vaso. Ero pronta. Così iniziammo quella specie di filastrocca di saluto che era ormai diventata il nostro rito delle zie e che consisteva nel chiamarle ognuna per nome, dalla maggiore alla minore, per non offenderne nessuna. «Ciao, zia Menina. Zia Claudia. Zia Michela. Zia Franca. Zia Giulia. Zia Lina. Zia Maria. Zia Carmela.» Recitavamo l’elenco insieme, compunte come due scolarette, a mani giunte, e per ogni nome guardavamo la foto corrispondente e, dalle lapidi, ci rispondevano volti così simili da poter essere confusi, tutti sorridenti tranne quello di zia Lina, alla quale erano nati cinque figli morti e che aveva fatto della tristezza il suo stile di vita. Una volta, quand’ero ancora più piccola, ricordo di aver chiesto alla nonna come diavolo avesse fatto sua madre a partorire solo figlie femmine. «Perché i maschi le morivano. Uno l’ha abortito, l’altro è nato morto e l’altro è caduto e ha sbattuto la testa a nove anni. Siamo rimaste noi che avevamo il sangue cocciuto.» 17


E io mi ero chiesta che cosa significasse avere il sangue cocciuto, e avevo dedotto che fosse qualcosa che aveva a che fare con la voglia incrollabile di stare al mondo, di piantare le radici nella terra e rimanerci ancorate. Mia madre mi riscosse dai miei pensieri. «Certo che zia Michela aveva gli stessi capelli di tua sorella.» Chi? Zia Michela? Mi misi a fissare la foto della zia in questione. Era morta nel 1978: secoli addietro, per me. La foto era a colori e i capelli erano di un rosso acceso, come quelli di Corinna. «Solo che i capelli della zia erano tinti. Li decolorava e li tingeva di rosso. Figuriamoci se poteva nascere una con i capelli di quel colore, nella nostra famiglia» continuò mia madre. Era vero: tutto il ramo materno della mia famiglia aveva i capelli neri, e mia madre pure, e io pure. Corinna era stata l’unica eccezione, ma lei, come diceva sempre Donna Marzia, era figlia di altro seme. «Ma è vero che le zie la sera bevono il tè e si raccontano i pettegolezzi?» chiesi, stanca di pensare ai capelli. «Certo. Tè al mirtillo. Secondo te perché ho sistemato quel tavolino nell’angolo?» rispose mia madre, sicura. Era vero: in un angolino della cappella c’era un piccolo tavolo tondo, con un centrino che aveva realizzato 18


la nonna all’uncinetto, e sopra una teiera. La teiera era stata un’idea di zia Carmela, quando ancora era viva e particolarmente lucida. Diceva che le sue sorelle avrebbero gradito e che così il posto sarebbe stato più accogliente per il giorno in cui lei le avrebbe raggiunte. «Ma da chi li prendono i pettegolezzi, le zie, se stanno sempre chiuse qua dentro?» continuai a chiedere. «E chi te lo dice che stanno sempre qui? Escono, vanno a trovare i vicini, fanno i dispetti alle vecchiette acide che spaventano i bambini…» «Dispetti?» Mia madre fece una risatina. «Ti ricordi quella vecchietta a cui il vento aveva strappato il parrucchino, l’inverno scorso?» Annuii. Certo che la ricordavo. Avevo riso per ore. «Be’, scommetto che era stata zia Claudia» concluse mia madre, così convinta che ci credetti senza batter ciglio e, negli anni a venire, avrei spesso pensato all’ironia provvidenziale di zia Claudia quando ai bulli della scuola capitava qualcosa di spiacevole. Nella cappella, io e mia madre non pregavamo. Non conoscevo nemmeno una preghiera per intero, in realtà, e non ero stata battezzata. Semplicemente stavamo lì, raccontavamo gli aneddoti più divertenti che ci erano capitati, rassicuravamo le zie sulla salute della nonna e poi le salutavamo ripetendo il rito iniziale: «Ciao, zia Menina, zia Claudia, zia Michela…». 19


Trovai Corinna stesa sul suo letto a pancia in giù, con le cuffie che le coprivano le orecchie e i piedi che si muovevano a ritmo. Corinna si chiamava così perché il suo nome, che viene dal greco, significa fanciulla, e mia madre era davvero giovanissima quando si era scoperta incinta di lei. Si chiamava così anche perché Cora è uno dei nomi di Persefone, dea dell’agricoltura e figlia di Demetra, e mia madre e la nonna e Donna Marzia credevano nel potere della terra, nel nostro essere suoi frutti non meno delle mele e degli alberi e delle piante. Ho capito sin da piccolissima che i nomi, nella nostra famiglia, erano oggetto di culto. «Le cose diventano vere quando si dà loro un nome. Per questo bisogna stare attenti a dare i nomi giusti. Le bugie sono cose a cui è stato dato un nome sbagliato» era solita ripetere mia nonna, girando il cucchiaio di legno nel sugo. Per questo Corinna si chiamava Corinna. Aveva sedici anni, un viso ricoperto di lentiggini e i capelli rossi che sembravano fili di rame. Io ne avevo sette e per lei ero invisibile poco meno delle otto sorelle morte di mia nonna. Il massimo a cui potevo aspirare era farle il solletico ai piedi, e ci provai subito quella mattina, di ritorno dal cimitero. Lei non fece una piega: mi lanciò un’occhiata obliqua con l’occhio che non era affondato nel cuscino e non mi degnò di una parola. Allora tornai in camera mia per preparare il piano d’attacco e mi precipitai da lei con la mia chitarrina di plastica gialla. 20


Iniziai a cantare qualcosa che non si capiva se fosse Rino Gaetano o un parto della mia mente, mentre le dita martoriavano le povere corde di nylon dello strumento giocattolo. La chitarrina gialla era un metodo infallibile per farla arrabbiare e la usavo sempre quelle rare volte in cui lei ospitava delle amiche in camera e io irrompevo alla John Wayne, musical edition. Anche quella volta, la chitarra raggiunse il suo scopo. «Ma si può sapere che diavolo vuoi?» strillò Corinna, strappandosi le cuffie dalle orecchie e mettendosi a sedere sul letto. Non le risposi e continuai a suonare, se si poteva definire suonare quel terribile strofinio di plastica. «Vai a rompere le scatole a mamma.» Fece per scacciarmi via sporgendosi dal letto e sventolando le mani verso di me come se fossi una zanzara. «Lo sapevi che zia Claudia fa i dispetti alla gente cattiva?» le chiesi, deponendo per un attimo le armi – ovvero la chitarrina – sul vecchio parquet. Lei inarcò un sopracciglio. «Zia Claudia è un mucchietto d’ossa in una bara» disse, acida, con il palese intento di colpirmi e farmi scoppiare a piangere come il mio bambolotto quando gli si toglieva il ciuccio. Eppure avrebbe dovuto sapere che, pur avendo io solo sette anni, il potere persuasivo della triade mamma-nonna-Donna Marzia mi aveva 21


già costruito intorno una corazza magica che profumava di terra e aleggiava di spiriti e che nessuno, nemmeno lei, sarebbe più riuscito a scalfire. «Va bene, come vuoi» risposi, conciliante. Questa era una caratteristica che avevo invece ereditato da mio padre, Salvatore, altrimenti detto l’uomo che sapeva contare fino a dieci prima di parlare. Corinna mi guardò fisso senza sapere cosa rispondere. A quel punto, rassegnata, borbottò: «Lasciami in pace», e ricadde sul letto a peso morto, dimenticandosi anche di indossare le cuffie. I nomi, dicevo. C’è un’altra curiosità, sui nomi miei e di Corinna, e cioè che entrambe, pur avendo all’anagrafe un solo nome, ne avevamo un altro che nessuno conosceva all’infuori di mia madre. Era, questa, l’ennesima delle idee strambe di Donna Marzia. Aveva letto chissà dove che alcune comunità di zingari avevano un’usanza particolare: la mamma, al momento della nascita del bambino, gli assegnava non solo il nome con il quale la nuova creatura sarebbe stata conosciuta nel mondo, ma anche un altro, segreto, che gli sussurrava all’orecchio nel suo primo giorno di vita e che nessuno, all’infuori di lei e del bambino in qualche punto oscuro del suo subconscio, conosceva. Questo nome segreto, ancor più di quello collettivo, doveva essere di buon augurio per la vita del bambino. Ho scoperto il mio soltanto qualche mese fa, nelle ul22


time ore di vita di mia madre, mentre era nel suo letto d’ospedale, un mucchietto d’ossa con un po’ di pelle attorno così come il cancro l’aveva ridotta. «Ti chiami Felicita, tu. Come la signorina Felicita di Gozzano» mi ha detto quel giorno, la voce ridotta a un passerotto in bilico sul filo elettrico. «Felicita...» Mi sono rigirata quel nome nella bocca come una caramella. Era un bel nome. Era stato veramente di buon auspicio perché, al di là del dolore naturale che è parte di ogni vita, ero stata sempre felice. «E Corinna?» le ho chiesto poi, anche se mia sorella non era lì e non poteva sentirci. «Corinna…» Mia madre ha sorriso, malgrado tutto. «Lei è Anastasia.» «Come la princip…» «Non per quello. Anastasia significa resurrezione.» Ed era vero. Ed era giusto. Perché non ho mai conosciuto una persona che, come mia sorella, sia morta e rinata così tante volte che il solo aggettivo viva non sarebbe mai potuto bastare per contenere tutto quel risorgere.

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Questo volume è stato stampato nel gennaio 2018 presso la Rotolito Lombarda - Milano


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