La casa delle spie

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Dello stesso autore nelle edizioni HarperCollins La spia inglese La vedova nera


LA CASA DELLE SPIE

Traduzione di GIOVANNI ZUCCA


ISBN 978-88-6905-259-0 Titolo originale dell’edizione in lingua inglese: House of Spies Harper An Imprint of HarperCollins Publishers © 2017 Daniel Silva Traduzione di Giovanni Zucca Realizzazione editoriale: studio pym / Milano Mappa di Nick Springer © 2017 Springer Cartographics LLC Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa edizione è pubblicata per accordo con HarperCollins Publishers LLC, New York, U.S.A. Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale. © 2018 HarperCollins Italia S.p.A., Milano Prima edizione HarperCollins gennaio 2018

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Ancora una volta a mia moglie Jamie e ai miei figli, Nicholas e Lily


Guardati dalla furia di un uomo paziente. John Dryden, Absalom and Achitophel


PORTOGALLO

SPAGNA

Gibilterra

MAR MEDITERRANEO

STRETTO DI GIBILTERRA

OCEANO ATLANTICO

Tangeri

Rabat Casablanca

Marrakesh

El Jebha

Fez

Imouzzer E Meknes T Ifrane AN

TL O A I D ME Zaida

MAROCCO AT L A LT O

ANT

E

Erfoud

Rissani

Khamlia

Agadir

ALGERIA SAHARA OCCIDENTALE

MAURITANIA MALI



Parte prima IL FILO SCIOLTO


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King Saul Boulevard, Tel Aviv Per essere un evento senza precedenti, pieno di rischi istituzionali, fu gestito dall’inizio alla fine senza alcun clamore. Quasi in silenzio. Fu quello l’aspetto più notevole: il silenzio. Certo, c’era stato quel drammatico annuncio trasmesso in diretta alla nazione, e la prima, sensazionale riunione di gabinetto, e la sontuosa festa alla villa di Ari Shamron sul lago di Tiberiade, dove tutti gli amici e i collaboratori legati al suo leggendario passato – capi di servizi segreti, uomini politici, prelati vaticani, mercanti d’arte londinesi, persino un inveterato ladro di quadri parigino – erano venuti ad augurargli buona fortuna. Ma per il resto, passò quasi inosservato. Il giorno prima, all’ampia scrivania in vetro fumé era seduto Uzi Navot, il giorno dopo al suo posto c’era Gabriel. Senza quella moderna scrivania, però, perché il vetro non era nello stile di Gabriel. Lui preferiva il legno. Il legno molto antico. E i quadri, naturalmente; aveva scoperto molto presto di non poter trascorrere nemmeno mezza giornata in una stanza priva di quadri. Appese in ufficio un paio dei suoi lavori, non firmati, e altri di sua madre, che era stata una delle più celebri artiste di Israele del suo tempo. Aggiunse poi una grande tela astratta, opera della prima moglie, Leah, che l’aveva dipinta quando entrambi

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studiavano all’Accademia di belle arti Bezalel, a Gerusalemme. Se qualcuno quel giorno fosse passato dal piano dei dirigenti, più tardi, avrebbe sentito un’eco di musica operistica – una delle sue preferite era La Bohème – filtrare dalla porta del suo ufficio. Quella musica poteva significare soltanto una cosa. Gabriel Allon, il principe del fuoco, l’angelo della vendetta, il figlio prescelto da Ari Shamron, aveva finalmente preso il posto che gli spettava come capo del servizio di intelligence dello Stato di Israele. Il suo predecessore, tuttavia, non andò molto lontano. Uzi Navot si spostò semplicemente sull’altro lato del corridoio, in un ufficio che, anni prima, era stato il piccolo rifugio fortificato di Shamron. Nella storia dell’Agenzia, non era mai accaduto che un capo uscente rimanesse sotto lo stesso tetto del proprio successore. Era una violazione di uno dei principi più sacri dell’Agenzia, che imponeva, a scadenze relativamente brevi e regolari, di “togliere le erbacce per poter dissodare il terreno”. In realtà, qualche ex direttore aveva mantenuto dei legami con il servizio d’intelligence. Di tanto in tanto capitavano in King Saul Boulevard, raccontavano storie di guerra, dispensavano consigli non richiesti e di solito si rendevano insopportabili. E poi naturalmente c’era Shamron, l’uomo eterno, il roveto ardente. Shamron aveva costruito l’Agenzia da zero, a sua immagine e somiglianza. Le aveva dato un’identità e un linguaggio, e considerava suo diritto per volontà divina immischiarsi negli affari del servizio come meglio gli aggradava. Era stato Shamron a offrire a Navot la poltrona del capo, e sempre Shamron, quando era venuto il momento, a portargliela via. Ma era stato Gabriel a insistere perché Navot restasse, con tutti i diritti di cui aveva goduto nella sua precedente incarnazione. Condividevano la stessa segretaria – la formidabile Orit, nota in King Saul Boulevard come Iron Dome, il sistema antimissile israeliano, per la sua abilità nel respingere i visi-

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tatori indesiderati – e Navot continuava a disporre della sua auto di servizio e dell’intera squadra di guardie del corpo. Un fatto che aveva suscitato qualche malumore alla Knesset, ma che alla fine era stato accettato perché necessario a mantenere la pace. La sua posizione ufficiale nell’organigramma era alquanto vaga, ma questo era tipico dell’Agenzia. Mentivano per mestiere. Solo loro conoscevano la verità. Da tutti gli altri – dalle mogli, dai figli, dai cittadini che avevano giurato di proteggere – si nascondevano dietro una cortina di bugie e inganni. Quando le porte dei rispettivi uffici erano aperte, il che accadeva di frequente, Gabriel e Navot potevano vedersi attraverso il corridoio. Si parlavano al mattino presto su una linea telefonica sicura, pranzavano insieme – a volte alla mensa del personale, a volte da soli nell’ufficio di Gabriel – e si concedevano qualche minuto di tranquillità la sera, con la lirica di Gabriel in sottofondo, che Navot, a dispetto del suo sofisticato lignaggio viennese, detestava. Non apprezzava la musica in generale, e le arti visive lo annoiavano. A parte questo, lui e Gabriel andavano perfettamente d’accordo su tutto, per lo meno su tutto quello che aveva a che fare con l’Agenzia e la sicurezza dello Stato di Israele. Navot aveva ottenuto di poter parlare con il nuovo capo quando voleva, e ci teneva a essere presente a ogni riunione importante dei dirigenti del servizio. Di solito rimaneva muto come una sfinge, le braccia poderose incrociate sul torace da lottatore e il volto atteggiato a un’espressione imperscrutabile. Ma a volte concludeva una frase di Gabriel al posto suo, come per far capire a tutti i presenti che loro due erano in perfetta sintonia. Erano come Boaz e Jachin, le colonne gemelle che sorgevano all’entrata del primo tempio di Gerusalemme, e chiunque avesse in mente di metterli l’uno contro l’altro l’avrebbe pagata a caro prezzo. Gabriel era il capo scelto dal popolo, ma era pur sempre il

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capo e non avrebbe tollerato intrighi alla sua corte. Le probabilità che se ne ordissero, peraltro, erano irrisorie. Gli altri funzionari del suo stato maggiore andavano d’amore e d’accordo tra loro. Venivano tutti dal Barak, l’unità di élite che aveva portato a termine alcune delle operazioni più leggendarie nella storia di un servizio d’intelligence altrettanto leggendario. Per anni avevano lavorato nei sotterranei, in stanzette anguste usate in passato come ripostiglio per attrezzature e arredamenti obsoleti. Ora occupavano una serie di uffici accanto a quello di Gabriel. Anche Eli Lavon, uno dei più eminenti archeologi biblici, aveva accettato di lasciare l’insegnamento presso l’Università ebraica per tornare a lavorare a tempo pieno per l’Agenzia. Formalmente, Lavon era responsabile degli uomini che pedinavano, scassinavano e piazzavano cimici e telecamere nascoste. In realtà, Gabriel si serviva di lui a seconda delle necessità. Lavon, il più raffinato artista della sorveglianza mai prodotto dall’Agenzia, aveva guardato le spalle a Gabriel fin dai giorni dell’operazione Ira di Dio. Il suo piccolo rifugio, con i frammenti di vasellame, le monete e gli utensili antichi, era il luogo in cui Gabriel spesso si rintanava in cerca di qualche minuto di quiete. Lavon non era mai stato un grande oratore. Come Gabriel, lavorava meglio nell’ombra e in silenzio. Alcuni della vecchia guardia si chiedevano se fosse saggio, da parte di Gabriel, riempire il piano dirigenziale di tutti quei fedelissimi e di quelle reliquie del suo glorioso passato, ma tennero la preoccupazione per sé. L’Agenzia non era mai stata guidata da un direttore così pieno di esperienza e di zelo; a parte Shamron, naturalmente. Allon era in campo da più tempo di qualunque altro giocatore, e negli anni si era creato una preziosa rete di complici e amici. Il primo ministro britannico gli doveva la carriera; il papa gli doveva la vita. Ma Gabriel non era il genere di persona che va a riscuotere un vecchio

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debito. L’uomo davvero potente, amava ripetere Shamron, non ha bisogno di chiedere un favore. Allon aveva anche dei nemici. Nemici che avevano distrutto la vita alla sua prima moglie e avevano tentato di fare lo stesso con la seconda. Nemici a Mosca e a Teheran, che vedevano in lui l’unico ostacolo sulla strada delle loro ambizioni. Per il momento erano stati sistemati a dovere, ma prima o poi sarebbero tornati alla carica. E sarebbe tornato anche l’uomo che Gabriel aveva affrontato più di recente, colui che compariva al primo posto nella lista delle cose da fare del nuovo direttore. I computer dell’Agenzia gli avevano assegnato un nome in codice, generato casualmente. Ma Gabriel e il nuovo gruppo dirigente, dietro le porte ad accesso cifrato di King Saul Boulevard, si riferivano a quell’uomo con il pomposo nome di battaglia che lui stesso si era scelto: Saladino. Parlavano di lui con rispetto, turbati da un presentimento: si stava preparando a colpirli. Era solo questione di tempo. Tra alcuni servizi di intelligence che condividevano gli stessi interessi stava girando una fotografia. Era stata scattata da un asset che lavorava per la cia nella città paraguaiana di Ciudad del Este, nella famigerata zona della tripla frontiera. L’immagine mostrava un uomo dalla corporatura massiccia, all’apparenza arabo, che beveva un caffè in un bar all’aperto, in compagnia di un trader libanese sospettato di collusioni con il movimento jihadista internazionale. L’angolazione della fotocamera era tale da rendere inefficace il software di riconoscimento facciale. Ma Gabriel, che aveva avuto in sorte due occhi tra i più acuti del suo ambiente, era convinto che l’uomo massiccio fosse Saladino. L’aveva visto di persona nella hall del Four Seasons di Washington, D.C., due giorni prima del più grave attentato terroristico sul suolo americano dopo l’11 settembre. Gabriel sapeva che aspetto aveva Saladino, che

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odore aveva, come reagiva l’aria quando entrava o usciva da una stanza. E sapeva come camminava. Come il suo storico omonimo, Saladino zoppicava vistosamente per colpa di una ferita da scheggia di granata, curata sommariamente in una casa piena di stanze e di cortili a Mosul, nel Nord dell’Iraq. Quell’andatura claudicante era diventata il suo biglietto da visita. C’erano molti modi per modificare l’aspetto fisico di un uomo. I capelli si potevano radere o tingere, i lineamenti del volto alterare grazie alla chirurgia plastica. Ma nessuna operazione avrebbe mai potuto cancellare un’andatura come quella di Saladino. Come fosse riuscito a fuggire dagli Stati Uniti era oggetto di un intenso dibattito; inoltre, tutti i successivi sforzi di localizzarlo si erano risolti in un insuccesso. Vari rapporti lo davano ora ad Asunción, ora a Santiago, ora a Buenos Aires. Girava voce che avesse trovato riparo a Bariloche, la località sciistica argentina un tempo molto amata dai criminali di guerra nazisti. Gabriel non l’aveva ritenuta un’ipotesi degna di nota. Tuttavia, era più che disposto a credere che Saladino si stesse nascondendo da qualche parte proprio sotto il loro naso. E, ovunque si trovasse, stava pianificando la sua prossima mossa. Di questo, Gabriel era assolutamente certo. Il recente attacco a Washington, con i gravi danni a edifici e monumenti e un numero di vittime a dir poco catastrofico, aveva incoronato Saladino come il nuovo volto del terrorismo islamista. Ma come avrebbe replicato? Il presidente americano, in una delle ultime interviste prima delle proprie dimissioni, aveva dichiarato che Saladino non sarebbe più stato in grado di compiere un’altra operazione su larga scala, perché la risposta militare degli Stati Uniti aveva fatto a pezzi la sua rete. Saladino aveva replicato inviando un kamikaze a farsi saltare in aria davanti all’ambasciata degli Stati Uniti al Cairo. Robetta, aveva commentato la Casa Bianca. Perdite molto limitate, e

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nessun americano tra le vittime. Il gesto disperato di un uomo sulla via del tramonto. A quello, però, erano seguiti altri attentati. Saladino aveva colpito più volte la Turchia – matrimoni, autobus, piazze, l’affollato aeroporto di Istanbul – e i suoi seguaci in Europa occidentale, quelli che pronunciavano il suo nome con fervore religioso, avevano portato a termine una serie di attentati da lupi solitari che avevano tracciato una scia di sangue attraverso la Francia, il Belgio e la Germania. Tuttavia c’era qualcosa di grosso in preparazione, un’azione coordinata, un atto di terrore in grado di rivaleggiare con il colpo brutale che Saladino aveva inferto a Washington. Ma dove? Un altro attacco all’America sembrava improbabile. Di certo, sostenevano gli esperti, il fulmine non avrebbe colpito due volte nello stesso posto. Alla fine, la città che Saladino scelse per la sua chiamata alla ribalta non fu una sorpresa per nessuno. Per quanto incline alla segretezza, Saladino amava il palcoscenico. E non c’era palcoscenico migliore del West End londinese.

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Questo volume è stato stampato nel dicembre 2017 presso la Rotolito Lombarda - Milano


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