anne o’brien anne o’brien
la regina la regina straniera straniera
Traduzione di elisabetta l avarello
ISBN 978-88-6905-251-4 Titolo originale dell’edizione in lingua inglese: The Queen’s Choice MIRA Books an imprint of Harlequin, a division of HarperCollins Publishers © 2016 Anne O’Brien Traduzione di Elisabetta Lavarello Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa edizione è pubblicata per accordo con Harlequin Books S.A. Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale. © 2017 HarperCollins Italia S.p.A., Milano Prima edizione HarperCollins settembre 2017
Edmondo Conte di March
Ruggero
Elisabetta Filippa
Edmondo = Caterina Glyn Dwr Enrico VI
Enrico V † 1422
Enrico IV † 1413
Filippa = Edmondo Mortimer Conte di March
Riccardo II † 1400
Ruggero Conte di March
Giovanni di Gand Duca di Lancaster † 1399
Edoardo Duca di Aumale
Riccardo Conte di Cambridge
Edmondo Duca di York † 1402
Filippa di Hainault
Lionello Duca di Clarence † 1368
=
Edoardo Il Principe Nero † 1376
Edoardo III † 1377
prole
Tommaso Duca di Gloucester † 1397
Constance Lady Despenser
I discendenti di Edoardo III I Re Lancaster d'Inghilterra e la questione Mortimer
Carlo II (il Malvagio) Re di Navarra † 1387
=
Margherita
2. Enrico IV Re d’Inghilterra † 1413
Gilles
Carlo VII Re di Francia † 1461
Arturo
= 1. Giovannidi Monfort Duca di Bretagna † 1399
=
Giovanni Maria Duca di Bretagna
Giovanna † 1437
Giovanna † 1373
Riccardo
Bianca
= Riccardo II Re d’Inghilterra † 1400
Enrico VI
Filippo (l’Ardito) Duca di Borgogna † 1404
Filippo Duca di Borgogna
Giovanni (senza Paura) Duca di Borgogna † 1419
Caterina = Enrico V Re d’Inghilterra † 1422
Maria di Berry
Carlo VI (il Folle) Re di Francia † 1422
Isabella
Giovanni Duca di Berry † 1416
Carlo V Re di Francia † 1380
Giovanni II (il Buono) Re di Francia
Giovanna di Navarra, i Re di Francia e la Casa di Valois
Enrico V † 1422
Enrico VI
Caterina di Valois =
Filippa
=
=
Giovanni Duca di Bedford † 1435
=
Bianca † 1409
2. Giovanna di Navarra † 1437
Humphrey Duca di Gloucester † 1447
=
Filippa † 1430
Tommaso Beaufort † 1426
3. Katherine Swinford † 1403
Enrico Beaufort Giovanna Beaufort Vescovo di Winchester † 1440 † 1447
2. Costanza di Castiglia † 1394
Enrico IV † 1413
Giovanni Beaufort Conte di Somerset † 1410
1. Maria di Bohun = † 1394
Giovanni di Gand Duca di Lancaster † 1399
Tommaso Duca di Clarence † 1421
Elisabetta
1. Bianca di Lancaster † 1368
Re Enrico IV d'Inghilterra e la Casa di Lancaster
A George con amore, come sempre. Grazie per avermi permesso di riempire la casa con la musica e le liriche d’amor cortese dei trovatori medievali. Come Giovanna potrebbe aver cantato a Enrico: A voi, o dolce e amabile, ho dato il mio cuore. Mai vi sarà portato via. Jehan de Lescurel, (... – 1304)
Chi mai amò che non abbia amato al primo sguardo? Christopher Marlowe (1564-1593), Ero e Leandro
Giacché sono ansiosa di sapervi in buona salute [...], vi prego, mio carissimo e onoratissimo signore e cugino, di farmi avere spesso vostre notizie per il conforto e la letizia del mio cuore. Perché ogniqualvolta mi date contezza di voi, il mio cuore si rallegra enormemente. La Duchessa di Bretagna a Re Enrico IV Vannes, 15 febbraio 1400
(Le spose di potenti nobili) devono essere bene informate riguardo alle questioni di Stato, e sagge... Cristina da Pizzano, La città delle dame, ca. 1405
Non lascerai vivere la strega. Esodo 22,18
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Ottobre 1396, città di Ardres, presso Calais Fu quello il giorno, anche se lo ignoravo quando le mie dame confinarono i miei capelli in una retina trapuntata di perle, i miei piedi in scarpette dalla punta dorata e tutto il resto in strati di lino finissimo, damasco di seta e pelliccia. Fu il giorno in cui la chiglia della mia vita prese a beccheggiare; il giorno in cui la mia esistenza regolare si deformò, come un arazzo male intrecciato da una negligente tessitrice di Arras che raggrinzisce con l’umidità dell’inverno. Ne avevo avuto uno così nella mia sala delle udienze al castello di Vannes, prima che lo relegassi in fondo a un magazzino. Quel giorno fu come se una forza avesse smosso un equilibrio che per tutta la mia vita era stato stabile e indiscusso. Fu il giorno in cui incontrai Enrico, Conte di Derby. Non che avessi avuto un presentimento di tale ingerenza nel destino che mio padre e mio marito avevano deciso per me. Né questa turbolenza andai a cercarmela, poiché vivevo in un placido lusso e la mia esistenza era prevedibile, a volte noiosa, ma mai poco armoniosa. Non mi si richiedevano coinvolgimenti emotivi, piuttosto una pratica accettazione del mio ruolo di moglie, madre, con-
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sorte ducale. In verità tutta la mia vita era stata una vita d’accettazione. Ero rassegnata a questo. Ero di nobili natali, una donna di ventotto anni, dieci dei quali trascorsi come Duchessa di Bretagna. Ma in quel luminoso mattino, inaspettatamente, tutto cambiò. «Cosa ne pensate?» Una voce sommessa al mio orecchio riuscì a superare il rumore di tela sbattuta dei padiglioni dell’enorme attendamento eretto per l’occasione. La voce di Giovanni di Monfort, mio marito, quinto Duca di Bretagna. «Povera piccina. Non ha l’età per sposarsi» sussurrai di rimando. Mai avrei desiderato che una delle mie figlie prendesse marito in così tenera età, ma le nozze dinastiche richiedevano dei sacrifici. Mia madre, indubbiamente un agnello sacrificale nella sua unione con mio padre, s’era sposata a otto anni. «Lui avrà solo la sua devozione.» Giovanni si accigliò guardando lo sposo che baciava la guancia della sua sposa bambina. «Non il suo corpo.» «Così voglio sperare.» Sorrisi. Mi piacevano gli sposalizi. Erano un’opportunità di ritrovarsi con familiari e amici, e persino con persone che un tempo erano state nemiche, senza che venissero sguainate spade o tirati pugni in seguito ai troppi brindisi. Sebbene, riflettei mentre i due potenti re, uno d’Inghilterra, l’altro di Francia, si avvicinavano per scambiarsi l’obbligatorio bacio di pace, questo non fosse sempre garantito. Ricordavo occasioni in cui le buone maniere erano annegate nei boccali di birra prima ancora dello scambio dei voti nuziali. Ma non oggi. Oggi, ci era stato assicurato, sarebbe stato un giorno di buoni auspici. Ci inginocchiammo
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tutti in un fruscio di sete e di raso quando Riccardo d’Inghilterra e Carlo di Francia si strinsero la mano e si scambiarono un sorriso di benevolenza. Mi piacevano in particolare gli sposalizi francesi, dove potevo godermi la compagnia di zie, zii e cugini vari, perché per sangue materno ero una Valois. E adesso che la più grande onta della scena politica, mio padre, aveva smesso di contaminare questa terra con la sua presenza, non c’era più bisogno che io trattenessi il fiato come avevo fatto da fanciulla. Mio padre era morto, e lo era da quasi dieci anni. Nessuno rimpiangeva lui, il suo bieco temperamento e i suoi vizi ancora più biechi. Quest’uomo dall’atroce reputazione era stato Re di Navarra, il prestigioso piccolo regno che confinava con la Francia e i possedimenti inglesi a sud, e pertanto era un alleato molto ambito. Ma era stata mia madre, figlia del Re Valois Giovanni il Buono, a darmi il mio vero rango. Re Carlo VI di Francia era il mio primo cugino, i Duchi di Berry e di Borgogna i miei zii. Ero imparentata con tutti i membri della corte Valois di Francia. Con tutti coloro che contavano nella politica europea. Ero cresciuta nella consapevolezza del mio valore. «Vedo che Carlo è in sé» osservai, gli occhi abbassati nel più profondo rispetto per questo cugino reale che era considerato un folle e poteva diventare violento a un battere di ciglio. «Immagino che l’intera corte abbia offerto novene a San Giuda.» «Ci vuole più di una preghiera al patrono delle cause perse. Scommetto che è occorsa un’intera Messa di Requiem per garantire la lucidità di Carlo per più di una giornata» replicò mio marito. Eravamo convenuti per una cruciale alleanza che avrebbe potuto recare una parvenza di pace ai nostri
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Stati tormentati. Ed eccolo lì, lo sposo, alto e sontuoso in rosso, sorridente e benevolo, raggiante di compiacimento. Sapevamo che non era stata una decisione popolare oltremare, quella che una francese fosse incoronata Regina d’Inghilterra, ma il re aveva imposto la propria volontà. Re Riccardo II, vedovo, aveva bisogno di una moglie e di un erede. Una nazione era precaria senza discendenti, e a questo proposito dovevo ammettere di essere compiaciuta. Venivo da una stirpe fertile e avevo sei figli forti e gagliardi, quattro di essi maschi ad assicurare la successione della Bretagna. Avevo ogni motivo di essere fiera del mio lascito. Non era tutto, la famiglia? Ci alzammo in piedi e la mano di mio marito sotto il mio braccio mi concesse il tempo di lanciare un’occhiata alla sposa, questa piccola Isabella a cui mancavano ancora quattro settimane al settimo compleanno. Non temevo realmente per lei. Le sarebbe stato dato il tempo di crescere prima di diventare una moglie. «Si prenderà cura di lei.» Mi girai verso mio marito, che aveva fatto eco ai miei pensieri: Giovanni, a suo agio in seta, pelliccia e anelli elaborati quanto lo era con un’armatura. Il mio signore amava l’opulenza quando l’occasione lo richiedeva. «La sta guardando come se fosse un dono avvolto in oro» osservai. La sposa ridacchiò quando Riccardo si chinò nuovamente a baciarle la guancia. «Credete che questo porterà alla fine del conflitto?» «Re Riccardo non è versato nell’arte della guerra» fece notare Giovanni, e in verità i rancorosi rapporti fra Inghilterra e Francia si erano un po’ placati da quando Riccardo era asceso al trono. «Non è del parere di perseguire le pretese inglesi sulla Francia, perdute da Edoardo, il vecchio re.»
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E lì si concluse la discussione sui diritti e sui torti, su chi avrebbe dovuto portare la corona di Francia, poiché le famiglie reali si avviarono verso la predella. Gli invitati alle nozze cominciarono ad aggirarsi sul prato. Musicisti e menestrelli suonavano e cantavano in un’euforica disarmonia. Vassoi di cibo e caraffe presero a circolare. Tirai un piccolo sospiro. «Volete ritirarvi? Chiamo qualcuno che vi accompagni.» La mano di Giovanni era nuovamente sollecita sul mio braccio, perché stavo portando in grembo un altro figlio. Non si notava ancora e non c’era stato bisogno che la mia sarta allentasse le cuciture del corpetto, ma Giovanni aveva un atteggiamento protettivo e io coprii la sua mano con la mia. «Certo che no.» Mio marito, saggiamente, non sprecò altro fiato. «Allora, se vi sentite in forze, amore mio, venite a conoscere una famiglia per la quale nutro il più grande affetto.» Cominciò a farsi strada fra una folla ingioiellata che si scostava al passare della sua figura imponente come il Mar Rosso al cospetto di Mosè. Eravamo diretti, mi resi conto, verso il contingente inglese che aveva accompagnato Riccardo: un elegante piccolo gruppo di persone che ora stavano in piedi su un lato della predella. Magnificamente vestiti, in atteggiamento fiero, erano lì per onorare l’evento e mostrarsi affabili. Non li conoscevo. «Quella di Giovanni di Lancaster, lo zio del re.» Mio marito mi fece passare fra due gruppi di persone che gesticolavano, borgognoni a giudicare dall’accento. «Una famiglia interessante e soprattutto potente. Possono essere buoni amici o pericolosi nemici. Non sono pri-
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vi d’orgoglio e nelle loro vene c’è sangue reale.» Si girò a guardarmi con un luccichio negli occhi. «In questo sono come voi. Credo che vi piaceranno.» Mi rimasero pochi istanti per richiamare alla mente quel poco che sapevo di questa illustre stirpe. Perché quella era invero una famiglia importante, una famiglia del più alto rango, della mia stessa posizione sociale. Il Duca Giovanni di Lancaster, zio reale del Re d’Inghilterra. La sua nuova moglie Katherine, una donna che aveva dato scandalo prima che il matrimonio la rendesse rispettabile. E ad accompagnarli un gruppo di giovani uomini e donne della loro famiglia e del loro seguito. In contrasto con la lussuosa semplicità degli abiti, tutti i Lancaster indossavano vistosi collari da livrea in oro smaltato con l’emblema del cervo bianco. Chiaramente un dono di Re Riccardo per quel fausto giorno, un omaggio che non avevano potuto rifiutare. Il viso di Lancaster si illuminò di piacere quando i suoi occhi si posarono su mio marito, e invece di scambiarsi una formale stretta di mano, quei due uomini così avvezzi a esercitare il potere, due uomini di una certa età, anche se a me pareva che mio marito portasse gli anni meglio di Lancaster, si abbracciarono. Non ci fu reticenza nel loro saluto. «Speravo proprio di vedervi» esclamò Lancaster dopo qualche virile pacca sulle spalle. «Mia moglie non mi ha permesso di mancare all’evento» replicò Giovanni, attirandomi avanti. Fatte le presentazioni, io mi trovai accolta nella cerchia dei Lancaster accanto alla Duchessa Katherine, mentre il duca e mio marito rivivevano la loro gioventù, la loro rivalità adolescenziale e le loro imprese militari, dato che avevano combattuto insieme in Francia.
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«Ricordo di aver conosciuto vostro marito a corte, quando Re Edoardo lo nominò Cavaliere della Giarrettiera» mi disse la duchessa. «Si godette ogni minuto della pompa e dello sfarzo.» «Oh, come mai la cosa non mi sorprende?» Mi girai a guardare il mio sposo con un certo orgoglio, ammirando l’enfasi con cui gestiva le pieghe di una pellanda da corte che spazzava per terra con l’orlo e le lunghe maniche ondulate. Chi non ci avesse conosciuto avrebbe potuto pensare che lui fosse mio padre. C’era una differenza di ventotto anni fra noi, tutti vissuti da Giovanni fra guerre e diplomazia. «Siamo convocati» osservò la duchessa quando Riccardo alzò una mano imperiosa. «C’è la presentazione formale della sposa.» E mentre i Lancaster si raggruppavano e si avvicinavano al re con debita deferenza, io rimasi con Giovanni ad assistere alla piccola cerimonia. «Sono stati i più potenti amici che io abbia avuto in Inghilterra, in un momento in cui avevo un disperato bisogno di alleati» mi informò. «Mi chiedo dove sia il figlio di Lancaster...?» Mentre si guardava attorno, un uomo abbigliato in bianco e blu emerse dalla folla. «Ah. Eccovi. Credevo vi foste dato alla fuga» osservò Giovanni con amichevole cinismo. «Non ci siete andato lontano. La tentazione è forte. Ma, come vedete, per l’occasione porto un marchio reale che mi farebbe notare in qualunque assembramento.» La voce aveva un timbro limpido, piacevole all’orecchio, e c’era un accenno d’ironia sotto l’impazienza con cui indicava il vistoso cervo bianco che aveva sul petto. Poi, mentre stringeva la mano a Giovanni, posò lo sguardo su di me. «E questa deve essere la vostra incompara-
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bile duchessa, di cui ho tanto sentito parlare ma che non ho ancora conosciuto. Sono onorato.» Era un uomo alto con spalle da spadaccino e capelli bruni, come quelli del padre, che assumevano autunnali riflessi rossicci sotto il sole vivo. Gli occhi erano scuri, diretti, luminosi come agate. Mentre sorridevo per mostrare il mio apprezzamento per il complimento, sentii il peso del suo sguardo. Sentii l’autorità della sua presenza da combattente. Sentii la sua presenza dentro di me, una presenza che continuò a riverberare come il rintocco solenne della campana a morto della cattedrale di Nantes. Inspiegabilmente, poiché non ero inesperta nell’arte della conversazione cortese, mi trovai a corto di parole. «Lei è Giovanna» mi stava presentando Giovanni mentre io cercavo di dominarmi. «Che governa la mia casa con il pugno di ferro in un guanto di velluto. Non fatevi ingannare da queste frivolezze» scherzò, sollevando l’ampiezza di una delle mie sopramaniche ricamate in oro. «E lui, amore mio, è Enrico Bolingbroke, Conte di Derby. L’erede di Lancaster.» Porsi la mano come se questa presentazione non fosse altro che un normale omaggio fra membri di due nobili famiglie, ma il mio cuore aveva avuto un piccolo palpito, quasi avesse avvertito l’imminenza di qualcosa che aveva atteso a lungo. Era una sensazione talmente lontana dalla mia esperienza che mi risentii. Nessun uomo, per quanto potente potesse essere la sua stirpe, aveva il diritto di turbare la mia abituale compostezza. «Lord Enrico» mormorai. «Madama Giovanna.» Le sue dita, riccamente ingioiellate, erano lievi intorno alle mie, l’omaggio alla mia guancia quello che nor-
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malmente si scambiavano un uomo e una donna che si incontravano per la prima volta, ma quel formale saluto irrigidì i tratti del mio volto, portò in vita le mie pulsazioni. E mentre cercavo un commento adatto all’occasione, Giovanni fu reclamato dal mio zio di Borgogna, lasciandomi a prendere le redini di una cauta conversazione. Inspirai a fondo, ritrovando la sicurezza. Avevo frequentato tutte le corti d’Europa ancor prima di compiere il mio ventesimo anno. Quelle strane fantasie erano il prodotto della calura della giornata, del peso della pelliccia che avevo sull’orlo e al collo, e di un riposo insufficiente in quello sgabuzzino che qui chiamavano camera. Sorrisi con grazia regale mentre il conte mi restituiva la mano. «Mio marito è stato lieto di rivedere vostro padre» iniziai. Ma invece di rispondermi a tono, lui chiese a bruciapelo: «Vi piace tutto questo?». Fece un gesto del braccio verso il capannello reale, quasi fosse una domanda che doveva essere posta. «Sì. Certamente.» Poteva essere una giornata tediosa per l’eccessivo cerimoniale, certamente troppo prolungato, ma cosa c’era che potesse non piacere? «Non riesco a immaginare perché.» La risposta del conte poteva apparire acida. «Perché qui ho parenti a sufficienza da riempire almeno uno di questi padiglioni volgarmente luccicanti» ribattei. «E mi piace spettegolare.» «Non rimarrete delusa, allora. C’è molto di cui spettegolare.» Lanciò un’occhiata accigliata verso il suo cugino reale che stava parlando con Re Carlo con espansiva animazione. «Dicono che mettere in scena questo spettacolo sia costato al nostro illustre sovrano una somma non inferiore alle duecentomila libbre.»
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Non capivo perché quel costo dovesse preoccuparlo. Data la qualità del suo abbigliamento, una pellanda da corte sfavillante di canutiglie intrecciate d’oro e d’argento che gli scendeva sino ai morbidi stivali, e a giudicare dalle dimensioni delle gemme incastonate nei suoi anelli, la Casa di Lancaster non era priva di ricchezze. «La sposa non vale questa spesa?» chiesi. «La vale qualunque sposa?» ribatté argutamente Enrico. «Lo Scacchiere inglese faticherà a sostenere il costo. Inoltre, non è la sposa che Riccardo vuole onorare. Lo scopo di questo fasto è che nessuno possa dimenticare Sua Maestà Re Riccardo il Secondo che si degna di prendere una moglie francese. Nessuno conta, per Riccardo, se non lo stesso Riccardo.» Era impossibile non cogliere il suo sarcasmo, e non aveva parlato a bassa voce. Pensai non fosse saggio, data la compagnia, e mi guardai furtivamente attorno per assicurarmi che nessuno avesse ascoltato. Un movimento rapido che al Conte Enrico non sfuggì. Si accigliò, come se lo avessi accusato di un’intenzionale mancanza di discrezione. Cosa che, ovviamente, era. «Non c’è nessuno che possa sentirmi, o non l’avrei detto.» «Ci sono io.» La sua osservazione mi aveva divertito. Scandalizzato. L’accenno di un sorriso ammorbidì i suoi lineamenti austeri, spianando gli angoli infossati della bocca. «Penserete che io sia troppo severo. Ma mi sembrate una donna di buonsenso. Lo sperpero è un peccato quando una nazione non ha oro nei forzieri. Non siete d’accordo?» «Certamente. Lo sappiamo bene, in Bretagna.» Esitai, poi, poiché sembrava che ci fossimo tuffati a capofitto in un ruscello di commenti personali: «Ma voi siete trop-
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po pronto a dare giudizi, milord, su un uomo che non è solo il vostro re, ma anche vostro cugino». «Scusatemi.» Lui fece una piccola smorfia prima di concedersi un altro, più ampio, sorriso. «Questo dovrebbe essere un giorno di festa. Non c’è ragione di infliggervi le mie personali disillusioni, Madama Giovanna. Mi perdonerete quello che vi sarà sembrato un brutto caso di invidia?» «Sì.» Lo dissi senza esitare. «Bene, questo conclude le presentazioni. Di cosa... o dovrei dire di chi, dato che avete un debole per i pettegolezzi... possiamo parlare ora?» Mi piaceva. Mi piaceva il suo candore. Mentre mi concedevo quel pensiero, la nostra attenzione fu nuovamente attratta verso il tableau reale sulla predella. «Non dovreste stare con la vostra famiglia?» chiesi. «Riccardo non sentirà la mia mancanza.» Di nuovo quel tono tagliente nella voce, quel cinismo negli occhi. «Guardatelo, spreme prestigio fino all’ultima goccia da questa alleanza. Il che non significa che non si comporterà bene con la sposa. La vestirà di seta, la caricherà di gioielli e la tratterà come lei tratta le sue bambole. Sarà la sua sorellina.» Storse la bocca. «Forse, però, non le consentirà di tenere tutti i gioielli della sua dote. La maggior parte se li metterà lui. A Riccardo piace sfavillare quando è in pubblico.» La sposa aveva una collana di rubini che pesava quasi più di lei. Davanti all’improvviso silenzio di lui, mi girai e mi accorsi che il Conte Enrico stava contemplando il Re d’Inghilterra. Nei muscoli della sua mascella e nella luce dei suoi occhi mi parve di cogliere non tanto una contrarietà
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per l’avventata munificenza di Riccardo, ma un’ostilità ben più personale. «Non vi piace, vero?» dissi, prima di poter riflettere sulla saggezza della mia osservazione. «Piacere o non piacere sono definizioni troppo semplici per il mio rapporto con Riccardo. Lui è il mio re e mio cugino. È mio dovere essergli leale.» La schiena del mio interlocutore si irrigidì, le parole e l’espressione si chiusero come una lanterna da uragano. E me ne dispiacqui. Preferivo la sua onestà alla discrezione che doveva avergli inculcato il padre. Preferivo il suo sorriso all’attuale severità. Forse potevo riportarlo alla sua intrigante visione del re inglese. «Potete ammettere che non vi piace» dissi a bassa vo ce. «Almeno con me. A me non piaceva affatto mio padre.» Gli occhi del Conte Enrico scintillarono d’apprezzamento. «Oso presumere, milady, che a nessuno piacesse il vostro augusto padre.» «Fu accusato di crimini nefandi, dall’avvelenamento alla negromanzia, passando per gli atti più cruenti. E suppongo fosse colpevole di ogni accusa che gli fu mossa.» A che scopo essere circospetta? «Di qui il nome di Carlo il Malvagio. Carlo il molto Malvagio!» E quando le sopracciglia del mio interlocutore si inarcarono espressive, ripresi: «Dico solo ciò che tutti i presenti sanno. Ci fu un sollievo generale per la sua morte, anche se non per il modo in cui è avvenuta, sebbene molti abbiano espresso l’opinione che sia stato un ben meritato assaggio del fuoco dell’inferno». Mio padre era bruciato vivo nell’incendio del suo letto, quando le bende che lo fasciavano, impregnate di brandy per farlo essudare, avevano preso fuoco per la sbadataggine di un servo che aveva lasciato cadere una candela. «Perché non vi piace vostro cugino?»
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Il Conte Enrico mi lanciò un’occhiata calcolatrice, ma la sua risposta fu blanda e io ebbi la sensazione che volesse riportare la conversazione su canali più impersonali. «Solo un ricordo di dissapori giovanili. Riccardo e io siamo cresciuti insieme, e non sempre amichevolmente, forse perché i nostri gusti e i nostri interessi non potrebbero essere più diversi. Riccardo è il più incapace spadaccino che io conosca. Tutto qua. Nulla di più e nulla di meno. Solo conflitti infantili. Penserete che avrei dovuto superare da tempo dei risentimenti di così scarso rilievo.» «Non sarei mai così indelicata da pensare una cosa simile, signore.» Non gli credevo. C’era un rancore ben più oscuro sotto le sue parole, ma la nostra conoscenza era così recente che dovevo accettare il suo silenzio, per quanto desiderassi saperne di più. «No. Non lo sareste.» Il suo tono era più leggero, ora. «Non siete solo una dama di buonsenso, ma anche di grande discernimento. E di considerevole presenza. Il Duca Giovanni è fortunato ad avere una sposa bella nel carattere quanto lo è nell’aspetto.» Mi chiesi se si stesse prendendo gioco di me, perché non ero mai stata considerata uno splendore, neppure quando ero stata toccata dalla gentile mano della giovinezza. E così lo sfidai, un sopracciglio un po’ inarcato, ma lui ricambiò il mio sguardo e lo sostenne. Provai di nuovo quel piccolo palpito al cuore e un senso di calore si diffuse sotto il mio corpetto come se vi avessi avvicinato una fiammella. Ero intrigata. Non c’era irrisione nel suo sguardo. Al contrario, vi trovai una strana confusione, quasi uno sconcerto, come se qualche inaspettata emozione si fosse
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insinuata nel nostro innocente scambio di opinioni. L’aria attorno a noi s’era fatta immobile. Le labbra di lui si schiusero come se volesse dare voce a quello che stava occupando i suoi pensieri. E fu tutto; il momento si spezzò, la tensione che ci teneva prigionieri si allentò. Mio marito, abbandonato da Borgogna, posò una mano sulla spalla del Conte Enrico e io rimasi a chiedermi se non avessi immaginato tutto mentre Giovanni osservava: «Eravate un bambino, l’ultima volta che vi vidi. Ed eccovi qui, Conte di Derby, con la reputazione di eccellere nei tornei». I suoi occhi scintillarono. «Quanti anni avevate? Dieci?» «All’incirca. Anch’io vi ricordo bene, sir.» Il Conte Enrico era di nuovo a suo agio, e qualunque cosa fosse stato sul punto di dire fu persa per sempre. «Mi deste un coltello da caccia durante una battuta a Windsor, quando io avevo perso il mio. Conservo ancora il vostro dono. Ha una bella lama incisa. Non me ne separai per mesi.» Giovanni rise. «Renderete orgoglioso vostro padre. È bello avere un erede. Riccardo dovrà aspettare molto tempo prima che sua moglie cresca e possa dargli un figlio.» Osservammo nuovamente il gruppo sulla predella. Adesso Riccardo stava parlando in tono grave con Re Carlo, che appariva blandamente interessato, e Isabella accarezzava le gemme dell’alta fascia che portava in vita. «Vi fermerete per l’intera durata delle celebrazioni?» domandò il Conte Enrico. «Sfortunatamente sì. Mia moglie non consentirebbe qualcosa di diverso.» Con la promessa di rivederci, ci accingemmo a seguire il gruppo reale, e il Conte Enrico rese omaggio alle mie dita con una galanteria degna dei più famosi trovatori. «Grazie per la vostra discrezione, milady.»
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«È stato un piacere, milord.» «A che cosa si riferiva?» chiese Giovanni mentre il Conte Enrico si faceva strada tra la folla verso il padre. «Ho promesso di tener segreto il fatto che il Conte Enrico detesta il suo cugino reale» replicai. Seguivo con gli occhi la sua avanzata, colpita dall’inconsapevole grazia con cui si muoveva. «Immagino che Re Riccardo ne sia perfettamente a conoscenza» borbottò Giovanni. «Sarà meglio che ci teniamo fuori dalla politica inglese, per il nostro stesso bene. E, in particolare, fuori dalla sfera di quel giovane uomo. Come il vostro zio di Borgogna è stato tanto gentile da consigliarmi, anche se proprio non ho idea del perché debba pensare che io non sia in grado di giudicare la questione da solo. Chi meglio di me conosce gli intrighi? Comunque Borgogna dice di tenersi alla larga.» «Davvero?» Ero sorpresa. «Considera il Conte di Derby un pericoloso agitatore. Grava già l’ombra del tradimento su di lui. Ha preso le armi contro Riccardo dieci anni fa.» Giovanni alzò le spalle appesantite dalle canutiglie. «Non vedo rischi, tuttavia gli mostreremo un’amicizia calorosa ma appropriatamente circospetta.» Era un ammonimento, espresso con delicatezza, e tuttavia superfluo. Non avevo alcuna intenzione di farmi coinvolgere nella politica inglese. Quanto a Enrico, Conte di Derby, la nostra era semplicemente una conoscenza fuggevole. Un’opportunità per un onesto, aperto scambio di opinioni, durante il quale nessuno dei due aveva bisogno di essere cauto. Ma questa era fiducia, mi resi conto a un tratto. E non era forse l’essenza dell’amicizia? Rammentai quel primo disorientante momento di consapevolezza. Qualcosa, una connessione, stretta quan-
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to gli anelli della catena di livrea del conte, aveva disperso i miei pensieri come stelle nel cielo, portando in vita uno struggimento che non sapevo definire. Mi inquietava, mi innervosiva. Com’era possibile che mi fidassi di un uomo dopo aver posato gli occhi su di lui da pochi minuti? Non ero mai stata propensa a confidenze avventate. Il conte restò nella mia mente anche quando mi ritirai nella mia angusta camera per riposare le caviglie che, in quei primi giorni della gravidanza, avevano la tendenza a gonfiarsi con il caldo. Con dei panni freschi impregnati di una tintura di vino rosso e potentilla, i capelli sciolti dall’acconciatura, mi adagiai contro i guanciali e non ebbi alcuna difficoltà a evocare l’immagine dell’erede di Lancaster. Ricordai il ventaglio di sottili rughe attorno ai suoi occhi così pronti al sorriso, quando non erano guardinghi e gravi. L’espressione che aveva avuto sul viso quando aveva ammesso la propria avversione nei confronti del re, per quanto nata da un’antipatia infantile. Il naso austero, caratteristica di tutti i Lancaster, che parlava di autorità. Il portamento scattante di un uomo d’azione, sebbene mascherato da strati di stoffe delicate. Sapevo per istinto che le sue mani dagli anelli stravaganti potevano brandire una spada e reggere redini con forza e destrezza. Quanto all’orgoglio, permeava ogni suo atteggiamento, ogni cenno del suo capo. Anche lui conosceva il proprio valore di rampollo dei Plantageneti, cresciuto da un padre potente, il più influente dei figli del vecchio Re Edoardo. «Questo è sconveniente per una donna maritata che è appagata dalla propria situazione» annunciai ad alta voce, costernata dalla quantità di dettagli che ricordavo. «E una donna che porta in grembo un figlio, per giunta! Quest’uomo non è niente per te, Giovanna.»
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Eppure quel turbamento non mi lasciava. E nemmeno la piccola fitta di colpa. Andata in sposa a un uomo non di mia scelta e sicuramente di età avanzata, avevo scoperto in quel matrimonio, e con mia delizia, un inaspettato dono del cielo. Giovanni mi aveva dato la sua amicizia e un profondo rispetto che si era rivelato reciproco, come lo era il saldo affetto che aveva cementato la nostra vita comune man mano che gli anni passavano e che i figli venivano concepiti. Non avrei potuto sperare in un compagno migliore quando, figlia di una famiglia reale intenta a costruire potenti alleanze, ero stata destinata a queste nozze con il Duca di Bretagna. Avevo conosciuto l’amore nel mio matrimonio? No. Non se l’amore era l’emozione cantata dai menestrelli, lo scaldarsi del sangue, l’indispensabilità dell’amato anche solo per tirare il fiato. Per Giovanni provavo affetto e riconoscenza, ma non dipendevo da lui per ogni momento di felicità. Né io ero una necessità per lui. Stavamo bene assieme, ma la distanza, quando Giovanni viaggiava nelle terre più remote del suo dominio, non ci annientava. Enrico di Derby, in un solo breve incontro, mi aveva costretta a considerare uno scenario del tutto diverso. «Cosa c’è, mia signora?» Sempre attenta alle mie necessità, Marie de Parency, la più intima delle mie dame di compagnia bretoni, fu immediatamente al mio fianco. Scossi la testa e sospirai mentre mi sistemavo meglio sul letto, cercando sollievo al pulsare delle caviglie. «Passatemi il rosario, Marie. Ho bisogno di infliggermi una penitenza.» La fiammella guizzava ancora, ma non poteva essere stata accesa da lui. Il Conte Enrico aveva avuto la benedizione di conoscere il vero amore con la moglie, ora tristemente dipartita da questa vita. Chiusi gli occhi
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mentre allargavo le mani sul ventre in cui cresceva il bambino, sicura che i miei strani turbamenti presto sarebbero svaniti. Le fasi iniziali della gravidanza eccitavano l’immaginazione di una donna. Fu una grande caccia a concludere le celebrazioni per le nozze di Riccardo e Isabella. Ci dividemmo in gruppi misti e fu presto chiaro che la famiglia Lancaster era appassionata di caccia quanto lo eravamo noi in Bretagna. Fu un’occasione di risate e conversazioni, di reminiscenze e proponimenti per futuri incontri. Poiché la mia gravidanza non aveva costituito un impedimento alla mia partecipazione, quando ci fermammo in una radura nel bosco a prendere fiato, mi trovai accanto il Conte Enrico. Ero stata conscia della sua presenza, alla testa del gruppo, nell’istante in cui il capocaccia reale ci aveva dato il segnale di partire e da allora lo avevo visto abbastanza spesso da sapere che era un cacciatore di abilità impareggiabile. Non che lo avessi spiato, ovviamente. Cavalcando accanto alla Duchessa Katherine a un’andatura più trattenuta, non sempre per mia scelta, avevo approfittato dell’opportunità per rammendare i buchi della mia conoscenza della famiglia Lancaster. Quindi fu il Conte Enrico a guidare il suo destriero al mio fianco, mentre io avevo deciso di tenerlo ad amichevole distanza. Notai che s’era liberato del cervo bianco sulla sua collana da livrea. «Vedo che annoverate l’equitazione fra i vostri molteplici talenti, Madama Giovanna.» «E voi la galanteria, sir» replicai pronta. «Questa povera giumenta, prestatami dal mio zio di Borgogna, non è andata oltre un lento trotto.»
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Mi sorrise. Io ricambiai il sorriso. E sentii tornare l’intensità che mi aveva turbato il giorno prima. Un senso di vicinanza, di profonda comprensione. Più di questo. Era come lo scatto di una chiave che gira nella serratura di uno scrigno per gioielli e fa scorrere gli ingranaggi ben oliati. Avevo l’impressione che la nostra conoscenza fosse di lunga data. Perché avrei dovuto resistere? Perché non dargli la mia amicizia? Avevo pochi confidenti al di fuori della mia famiglia. La casa in cui ero cresciuta in Navarra, pregna com’era stata di sospetti e malvagità, non aveva incoraggiato i sodalizi. Mi sarei goduta ciò che quest’uomo aveva da offrirmi, e non ci sarebbe stato alcun male. Questo languore non è amicizia, bisbigliò una voce nella mia mente. Non fingere che lo sia. Questo è del tutto differente. Sta’ attenta. Cauta ora, persino costernata, mi nascosi dietro un sorriso spensierato e un’osservazione ancora più futile. «È un bel falco quello che avete, milord.» Il conte si protese a prendere l’uccello dalla mano del suo falconiere, gli tolse il cappuccio, poi si sfilò uno dei guanti per accarezzare con affetto la sua testa, le ali. L’uccello dal bel piumaggio chinò il capo e scosse le penne. «Sì, è splendido» convenne, indulgente e possessivo. «È nato nel mio allevamento di Hertford. Ha una vera passione per le galline, quando gliele diamo.» «Un cibo da re!» «Se è prezioso per me, allora è giusto che lo nutra bene.» Era ammirevole il fervore con cui quell’uomo parlava del suo falco da caccia. «Cosa farete quando saranno finite le celebrazioni, milord? Ho saputo che siete stato in Crociata.» Era stata la Duchessa Katherine a dirmelo.
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«E potrei tornarci» rispose il conte mentre, con dita esperte, e una sola mano, rimetteva il cappuccio al falco. «Ho un grande desiderio di recarmi di nuovo a Gerusalemme. Di stare al cospetto del Santo Sepolcro e di provare l’infinita grazia di Dio. Ma è più probabile che vada in Inghilterra. Per vedere i miei figli e occuparmi dell’amministrazione delle tenute Lancaster. Ho due giovani figlie, oltre ai quattro maschi, da crescere. I ragazzi sono forti e attivi come una piccola mandria di puledri. Credo che voi abbiate dei maschi. Capirete cosa intendo.» Il suo entusiasmo era contagioso. «Lo capisco bene.» «E poi...» L’espressione si fece grave, come se sul suo viso fosse passata l’ombra di una preoccupazione a lungo trattenuta, di una controversia aspramente dibattuta. Avevo visto la stessa espressione in Giovanni, quando affrontava qualche questione intricata, principalmente dispute commerciali bretoni con i nostri confinanti. «Vi aspetta qualche problema, a casa, sir?» Passando il falco a mio marito che, avvicinatosi, stava osservando l’uccello con una certa invidia, il Conte Enrico rifletté per un attimo, poi rispose con rimarchevole franchezza. «Ho la necessità di tornare. A volte mi pare che la mia posizione in Inghilterra sia altamente precaria. Sono relegato ai margini della vita politica. Posizioni e cariche sono assegnate altrove. Mio cugino Edoardo di York mi viene preferito, anche se, in quanto erede di Lancaster, la mia supremazia è incontestabile.» Eccolo di nuovo, l’orgoglio. E per un giusto motivo. Morti due dei figli di Re Edoardo, Edoardo di Woodstock e Lionello Duca di Clarence, gli eredi Lancaster, con la loro discendenza maschile, erano preminenti nel Paese
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dopo Riccardo. Come avevo sospettato, l’ostilità fra il Conte Enrico e Re Riccardo non era semplicemente una conseguenza di zuffe infantili nel fango. «Riccardo mi teme» spiegò il conte, e la ruga fra le sue sopracciglia si approfondì. «Non oso assentarmi oltre dall’Inghilterra. Questo darebbe al nostro re l’opportunità di gettare il drappo funebre della disgrazia sulla mia famiglia. Non deve accadere. Mio padre sta invecchiando. È mio dovere proteggere e preservare quello che abbiamo, e lottare per ciò che dovremmo avere.» «Perché dovrebbe temervi?» chiesi schiettamente. «Siete una minaccia per lui?» «Va detto che lo sono stato» ammise il conte. «In gioventù fui uno dei cinque Lord Appellanti che costrinsero Riccardo a governare con più avvedutezza e rimossero dalla scena il suo favorito de Vere. È passato un decennio, ma ancora gli brucia. Riccardo non ebbe la forza di opporsi a noi allora, ma non ci ha mai perdonato.» Questo spiegava molte cose. «Non è certo la base per una solida amicizia.» «L’avete detto. Ma non capisco perché vi sto affliggendo con questa storia in una bella giornata di caccia.» «Perché so essere una buona ascoltatrice.» Mi guardò con occhi penetranti quanto quelli del falco che stava sul pugno di Giovanni, ma sul suo volto c’era anche un sorriso. «Ah, dunque è per questo che mi sono abbandonato a un simile sproloquio. Ora mi direte che tutto è compromesso, fra la Casa di Lancaster e il re?» Riflettei mentre la mia giumenta agitava la testa, solo apparentemente ansiosa di muoversi. «Credo che potreste facilmente redimervi. Anzi, che dovreste...» Mi interruppi. Non ero nella posizione di dargli un parere.
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Mi avrebbe trovata nella migliore delle ipotesi indelicata, nella peggiore inopportuna. Il Conte Enrico piegò la testa di lato. «Date consigli a vostro marito nelle questioni di Stato?» «Certo che lo faccio.» «Lui li accetta?» Ci pensai. «A volte.» Esitai, sotto lo sguardo a un tratto caustico di Giovanni. «Spesso.» «Quasi sempre» precisò lui alle mie spalle. «Non potrei fare altrimenti. Mia moglie ha il raro talento di spianare la strada fra due parti inconciliabili. Seguirei il suo consiglio, se fossi in voi.» Si allontanò a cavallo, ancora in possesso del falco, lasciandomi a recuperare la mia compostezza. «Allora ditemi, Madama Giovanna. Cosa dovrei fare?» «Dovreste tornare in patria. Essere affabile e garbato in ogni occasione. Non criticare i consiglieri che Riccardo si è scelto. Rendervi amico del vostro cugino di York...» Esitai, vedendo un luccichio interessato nei suoi occhi. «Non fermatevi. Riconosco che ho avuto torto e mi vergogno di ogni mio passato comportamento.» Come potevo non continuare? L’inebriante vino dell’intrigo politico scorreva nel mio sangue. «Allora, ecco ciò che penso. Stringete i denti e tollerate il comportamento di Riccardo verso di voi. Potrebbe dipendere solo da gelosia e dispetto. Non può nuocervi. È vostra l’autorità sulle terre Lancaster. Come potrebbe ledere il vostro illustre nome? Fategli dei doni a ogni possibile occasione e ingraziatevi Isabella. Avete delle figlie. Sapete come fare. Le piacciono le bambole.» «Che eccellente consiglio.» E poi, lisciando il cuoio delle redini con le dita: «Mi vengono fatte pressioni perché mi risposi. Sono passati due anni dalla morte di
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Maria. Sono riluttante a prendere una nuova moglie così presto, ma sarebbe saggio farlo, anche se non ho bisogno di un erede. Una forte alleanza con una delle nostre famiglie inglesi sarebbe buona politica, quale che sia la mia personale inclinazione». Un pensiero raggelante, sgradito, che mi turbò quando non avrebbe dovuto farlo. Non eravamo forse circondati dalla morte? Non era costume sposarsi e risposarsi per creare legami di sangue e di lealtà fra potenti famiglie? Giovanni avrebbe esitato a prendere un’altra moglie se da lì a qualche mese io fossi morta di parto? O si sarebbe risposato entro l’anno? Ero la sua terza consorte. Avrebbe potuto benissimo prenderne una quarta, e perché non avrebbe dovuto? Il matrimonio per noi era una questione di politica, non di passione, e la Bretagna doveva essere attenta alla sicurezza dei propri confini. Mio marito avrebbe cercato un’altra sposa, forse un’altra principessa Valois, entro una settimana dalla mia dipartita. Il che mi indusse a osservare, con un’intimità che non mi spettava: «Siete stato davvero fortunato, sir». «Per quale motivo?» «Ad aver provato un tale amore per vostra moglie. Al punto di essere riluttante a risposarvi dopo la sua scomparsa.» Mi guardò, le sopracciglia inarcate in una muta domanda. «Non capita spesso a persone del nostro rango» gli rammentai, non che lui ne avesse bisogno. «Alcuni direbbero che è una rarità.» Parve sul punto di replicare in tono generico. Invece ribatté: «Siete felice nel vostro matrimonio?». Dato che nessuno mi aveva mai posto una domanda tanto diretta, non fui pronta nella risposta. Non avevo
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mai considerato la questione in tali termini. Contenta, sì. Felice? Cos’era la felicità? Per un attimo mi risentii per la domanda. Dato che ero stata io ad avviare quella conversazione così personale, non potevo prendermela con lui. Ma avvertii la freddezza della mia voce. «Perché me lo chiedete? Vi paio scontenta?» «No. Ma vostro marito ha più l’età di mio padre che la mia. Quanti anni avete?» «Ventotto.» «Come pensavo. Abbiamo all’incirca la stessa età. Suppongo che il duca bretone ne abbia almeno cinquanta.» «Non conosco alcun uomo migliore di lui.» Fui tagliente. Non volevo essere compatita, né farmi mettere a disagio da quella che poteva essere considerata un’impertinenza. «Sarebbe potuta andarmi peggio.» Mai avevo parlato in modo tanto aperto, tanto schietto. «Mio padre non era noto per i gesti altruistici. Avrei potuto trovarmi sposata a un mostro come lui. Ringrazio Dio tutti i giorni di avere un marito sensibile che mi parla come a una sua pari, considera il mio benessere prima del proprio e non mi rimprovera quando spendo somme esorbitanti per l’acquisto di un abito nuovo o di un levriero. No, non ho mai provato l’amore che c’è stato fra voi e vostra moglie, sir, se ci riferiamo alla bruciante passione che cantano trovatori e menestrelli, ma ho avuto tanto affetto, e di questo sono grata.» Il Conte Enrico chinò la testa in un’accettazione di quella che era indubbiamente una reprimenda. «Allora anch’io ringrazierò Dio per le benedizioni che vi ha concesso. Non era mia intenzione confondervi. Se vi ho offesa, vi chiedo perdono.» «Non lo avete fatto.»
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Alla nostra sinistra, un corno suonò come per metter fine alla nostra conversazione. Prendemmo le redini e girammo i cavalli per seguire il gruppo. «E lo farete?» chiesi, importuna fino all’ultimo. «Farò cosa? Tornare in Inghilterra?» Era pensieroso. «Sì. Credo sarebbe saggio seguire il vostro consiglio.» Non era questo che avevo inteso. Avrei dovuto lasciar correre. Non lo feci. «Vi risposerete?» Lui girò la testa per guardarmi, dritto negli occhi, tornando a fermare l’animale così da costringere gli altri a girarci attorno. Il suo sguardo percorse il mio viso. «Non ho preso decisioni in merito. Non ho ancora incontrato la donna che mi sentirei di sposare» dichiarò semplicemente. Con occhi luminosi quanto le gemme che aveva sul petto, il Conte Enrico sollevò una mano, e pensai fosse sua intenzione toccarmi il braccio. Invece, se la portò al cappello, sfiorando la piuma fissata con uno spillo in un rapido saluto. Poi, con i tacchi, facendo trasalire lo splendido animale che montava, lo spronò. Un altro squillo del corno mi impedì di rispondere e riprendemmo la caccia, mentre i cani trovavano la pista seguendo l’olfatto. Io mi scoprii a indugiare a lungo, con assurda malinconia, sulla schiena di lui. Non che avessi avuto qualcosa di meritevole da dire. «Lo hai visto solo due volte» mi richiamai all’ordine. Purtroppo due volte erano bastate. Per la gioia. Per la costernazione. Il mattino dopo mi lasciai alle spalle i padiglioni, spronando il mio cavallo perché stesse al passo con quello di Giovanni, e iniziammo il lungo viaggio di ritorno verso Vannes. Miglio dopo miglio, considerai con un certo sardonico divertimento ciò che avevo appreso su
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me stessa alle nozze di Isabella. E cioè che l’amore non corrisposto, anche nella sua più blanda forma, non mi si addiceva. Troppe inutili emozioni a disturbare il corso regolare delle mie giornate. Troppa incertezza. Troppi struggimenti poco dignitosi. Avevo sufficiente considerazione di me stessa per evitare di soccombere a un’emozione che non avrebbe mai avuto un futuro. Sarebbe stato come sopportare un permanente sassolino in una scarpa: un fastidio, un indolenzimento, che poteva finire solo se la pietruzza fosse stata rimossa. Non volevo questo nella mia vita. Preferivo una banale, costante piattezza agli alti e ai bassi della passione. Ma c’era stato: un incontro delle menti, un languido desiderio che non avrei mai dimenticato. Una magia, un risveglio. Una risposta a un uomo, che non era né amicizia né affetto ma qualcosa di ben più forte, capace di esulare dal mio controllo. In realtà era una fame. Un assaggio, un sorso di quello che non aveva ancora fatto parte del banchetto della mia vita, e che mai avrei avuto.
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Questo volume è stato stampato nell’agosto 2017 presso la Rotolito Lombarda - Milano