marilĂš oliva
le spose sepolte
ISBN 978-88 6905-301-6 © 2018 HarperCollins Italia S.p.A., Milano Prima edizione HarperCollins marzo 2018 pubblicato in accordo con Loredana Rotundo Literary Agency
Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale.
Questo libro è prodotto con carta FSC® certificata con un sistema di controllo di parte terza indipendente per garantire una gestione forestale responsabile.
A Sandra Sandri, DesirĂŠe Fusco, Emanuela Orlandi, Roberta Ragusa. E a tutte quelle che non hanno piĂš fatto ritorno.
Immaginate una bimba. E un corridoio che le si spalancava davanti, minaccioso come l’antro di un ciclope. Le pareva interminabile – a lei così minuscola –, fosco, in fondo solo la luce offerta dallo spiraglio di una porta laterale rimasta socchiusa. La piccola strillò: alle sue spalle si ergeva una figura in ombra, avvolta, dalla testa ai piedi, da un lungo mantello nero. I passi avanzavano artificiosamente pesanti. Tum tum tum. Chiunque fosse, voleva fingersi un mostro. Emetteva versi gutturali. La bimba riconobbe un timbro familiare. Era sola in casa, sola e in compagnia di quella presenza. Corse come una pazza per l’andito in ombra, sapendo che sarebbe stato tutto inutile, perché, alla fine dell’appartamento, il corridoio si interrompeva e il muro l’avrebbe fermata. Sarebbe rimasta intrappolata. Nessuno l’avrebbe aiutata. Eppure lei non smetteva di strillare. Nessuno giungeva mai in suo soccorso. Nessun vicino ascoltava quando c’era bisogno. La gente ha l’incredibile capacità di farsi di nebbia quando qualcuno invoca aiuto. L’inseguimento prese velocità, la bambina superò tutte 7
le porte, sentì il fiato sul collo, i passi nemici sempre più vicini, rispose con urla incontrollate; l’affanno era lo stesso di chi casca in acque alte senza saper nuotare, l’arrancare vano di chi cerca una via di scampo mentre sente l’invasione nei polmoni. Il tempo e lo spazio si dilatarono. Ogni centimetro perso in un secondo divenne un’autostrada macinata in ore e ore. Perché la paura, istinto primordiale, conosce la chiave d’accesso al nostro più recondito orologio. E l’orologio della bimba era in allarme rosso. Rallentò come se fosse vicinissimo il momento della sua morte e lei volesse captare tutto – ogni sensazione, ogni battito, ogni fotogramma – a trecentosessanta gradi, senza fretta. Perché, tanto, dopo sarebbe giunto il nulla, credeva.
Arrivò alla fine del varco con una frenesia tale da sbattere contro la parete. Spalmata al muro, col cuore che batteva all’impazzata, sentì qualcosa afferrarle le caviglie. Delle mani, ma a lei sembravano artigli di strega. Gridò ancora più forte, mentre un movimento brusco la faceva cascare a terra, a pancia in giù. Gli artigli le arpionarono il bacino e la voltarono di scatto. Allora lei vide gli occhi del suo inseguitore, che già aveva riconosciuto. Erano neri come la notte nella sua stanza, quando si svegliava agitata e tutto era buio, e cominciava a invocare la mamma o il papà. Occhi decisi, implacabili, quelli che la stavano immobilizzando. Due diamanti neri incastonati nel bellissimo viso della sua baby-sitter, che fece cadere il mantello e la sovrastò, dopo esserle montata sopra con tutto il peso, le strinse i polsi saldandole le braccia sopra alla testa, lungo il pavimento freddo, e la fissò con quei due fari malvagi, occhi da battaglia colmi di kajal. 8
La bimba ero io e ancora non sapevo nulla. Avevo da poco compiuto cinque anni e non sospettavo che la baby-sitter nutrisse un perverso godimento a tormentarmi di solletico. Imprigionata tra le sue grinfie, mentre le sue dita si infilavano senza pietà tra le mie piccole costole o sotto le ascelle, la mia voce ora trillava di isteria e divertimento. Ridevo e squittivo piangendo, poi ancora ridevo e mi lasciavo riempire le orecchie dai suoi insulti cantati in marocchino. Tra tutti, mi arrivava come una litania crudele che memorizzavo come Ibì Sciarrotà. Anni dopo avrei trovato la trascrizione corretta: «Ibin Sharmootah» mi sibilava nelle orecchie con ghigno malvagio la mia baby-sitter, e io credevo che fosse una formula magica. Solo da ragazza scoprii che non lo era affatto. «Ibin Sharmootah» mi diceva la fanciulla dagli occhi di diamante nero: «Quella puttana di tua madre». Il suo astio non era risolvibile a parole, ma mi schiaffeggiava oltre le risate e il carico sul mio esile corpicino. Andava avanti a tartassarmi per cinque minuti, si fermava appena un secondo prima che io mi facessi la pipì addosso dal solletico. Ogni volta riuscivo a trattenermi appena. «Ibì Sciarrotà» ripeté anche quella volta, e aggiunse trionfante: «Ho finito». Il suo odio mi trapassò, dentro il vestitino a fiori ricamato dalla sorella di mia madre. Mi aveva regalato sette vestitini, mia zia, tutti confezionati a mano, meraviglie all’uncinetto che avrebbero fatto invidia alla figlia di un re. Quello che indossavo quel giorno era giallo canarino, coi petali dei fiori bianchi in rilievo e un pistillo piatto giallo banana. L’odio s’insinuò tra i punti a croce, mi attraversò la pelle. Perché la baby-sitter cerca di farmi male senza farmi proprio male?, mi domandavo. Quando erano presenti anche gli altri adulti, lei era ben 9
diversa. Mi guardava con tenerezza e mi parlava con pazienza. Usava i miei giochi per intrattenermi. Li impugnava, collegava i binari del trenino, li staccava, li lisciava, pettinava le mie bambole come se fossero di cristallo. Parlava con gli altri solo se interrogata e lo faceva con voce soave. Quando si rivolgeva a mia madre, era piena di deferenza. Non sapevo, allora, che occorre seguire la pista dell’odio come si fa con un fiume, andando all’inverso della corrente, per trovarne la fonte e capire tutto. Non sapevo che l’odio covato in pubblico e manifestato quando la casa si svuotava non era indirizzato a me, ma a mia madre.
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A Monterocca la chiamavano la Circassa per il suo volto caucasico. La Circassa, infatti, aveva la pelle scura, un elegante naso aquilino e due occhi neri da lupa che nemmeno la matita dorata rendeva più mansueti, occhi che, oltre le lenti degli occhiali alla moda, puntavano l’anima di chiunque entrasse nella sua Farmachìa Artemisia: anche se stava parlando con un altro cliente, trovava sempre un secondo per avvolgere il nuovo avventore con lo sguardo e decifrarlo. Spesso indovinava il suo bisogno prima che parlasse e lo faceva leggendo in primis la postura, quindi i movimenti e la pelle del viso. «La pelle svela tutto di noi. È la carta sulla quale è scritta la nostra storia passata e presente» sosteneva. Sapeva riconoscere al volo alcune categorie di sofferenti: chi aveva avuto una colica, chi era piegato in due dall’ulcera, chi era schiavizzato dall’ansia, chi aveva il cuore infranto, chi covava un brutto male e chi sarebbe morto di lì a tre giorni. Senza contare che conosceva abitudini e problemi di tutti gli abitanti del paese – aveva una memoria di ferro – ed era solita risolverli coi suoi 11
metodi naturali. Per chiunque fosse scontento, c’era la medicina tradizionale, da non snobbare, anzi: preziosissima quando le cose si mettevano male. Aveva chiamato Farmachìa Artemisia la sua erboristeria proprio perché lei non proponeva medicine – verso le quali non aveva nulla in contrario, vi era ricorsa abbondantemente l’anno in cui si era ammalata di una brutta polmonite – ma rimedi, soltanto rimedi, quelli che gli antichi greci chiamavano φάρμακοι. Grazie alle piante officinali, il suo laboratorio si colorava di profumi di foresta e bastava che lei aprisse anche solo una delle boccette metalliche in cui erano custodite le radici, le foglie, i petali o i rametti o qualsiasi parte vegetale essiccata, per far venire voglia al cliente di metterci dentro il naso e inspirare fortissimo. Raccoglieva personalmente tutto ciò che poteva, il resto lo ordinava. La gente sapeva che alle sue doti di erborista poteva accostare altre qualità meno terrene e più… non soprannaturali, ma telepatiche, forse collegate ai suoi profondissimi occhi neri. Per questo i cittadini nutrivano nei suoi confronti una sorta di timore reverenziale, frutto di un doppio sentimento che si sovrapponeva: la certezza che prima o poi avrebbero avuto bisogno di lei e la paura dei suoi presagi. La rispettavano e la temevano. Tutti tranne una persona, sua figlia Cecilia. Che in quel momento entrò con la sua divisa da guardia ecologica, si sfilò i roller e si diresse scalza verso un’anfora, la stappò e si accinse a versare un po’ di liquido in una boccettina metallica che aveva al collo. La Circassa la guardò con disapprovazione, ma era intenta a imbustare un vasetto di pomata di santolina, estratto da lei preparato per alleviare il prurito delle punture di insetto. Era aprile, già qualche zanzara co12
minciava a manifestarsi e la signora di fronte a lei si era presentata con due bubboni da puntura sulla guancia. La Circassa procedeva con gesti veloci. Le sue mani, dalle unghie dipinte con uno smalto rosso forte, erano solite gesticolare. E intanto non perdeva di vista Cecilia, che si era lasciata prendere troppo la mano e aveva inavvertitamente versato del liquido sul pavimento. Nemmeno il tempo che la cliente uscisse e la Circassa l’assalì: «Non potevi aspettarmi? Sei la solita menefreghista! Che bisogno hai di questa roba?». Effettivamente era da qualche settimana che Cecilia aveva sviluppato quella piccola dipendenza, ma non voleva dirle che di motivi per avere il morale a pezzi ne avrebbe potuto elencare diversi. Al momento, quello più impellente riguardava Bizé, l’alano che le arrivava all’anca e che le allietava le giornate da otto anni, quello che tutti gli abitanti erano abituati a vederle scorrazzare accanto, anche senza bisogno di guinzaglio e museruola, perché era un cane assai mansueto, quasi un fratello per lei. Ecco, dalla sera prima, durante il solito giro nei boschi, era sparito. E Cecilia temeva il peggio. L’aveva cercato invano dappertutto, chiamandolo a squarciagola, ma nulla, lui non aveva risposto correndo verso di lei come al solito. A Cecilia non interessava farsi consolare da sua madre; nei momenti di difficoltà detestava i suoi occhioni indagatori incollati addosso, pertanto cercò della carta assorbente per pulire, e non rispose alla Circassa. Il che la mandò su tutte le furie: «Sai quanto costa l’assenzio? Questo assenzio, in particolare, è uno dei più puri e cari. D’ora in avanti me lo pagherai, così imparerai a non sprecarlo». La figlia si limitò a fissarla con una faccia da schiaffi. 13
Non sapendo in che modo reagire, la Circassa cominciò la sua rassegna di minacce, che, come sempre, avrebbe finito per non portare a termine. «Guai a te se tocchi ancora quell’anfora. Sai cosa faccio? La travaso. E ci metto della piscia di gatto al posto dell’assenzio, ahahah!» Alla ragazza scappava da ridere. Vedere sua madre tanto concitata, con quello sguardo così teatralmente minaccioso, le scatenò un impeto di ilarità. La Circassa se ne accorse. «Che cazzo ridi? Vattene da qui, mi fai solo disperdere energie, cretina!» Cecilia raccolse i suoi roller e uscì mandando al diavolo la madre. Fuori dal negozio si sedette su un basso pilastro e si infilò i pattini per riprendere la corsa lungo la via principale, quella che spezzava il centro urbano in due parti non proprio uguali. Da un lato, le abitazioni. Dall’altro, ancora abitazioni, poi gli orti e, a chiudere, i calanchi. La planimetria si sviluppava come un ovale lungo circa tre chilometri che da un lato terminava nelle porte, dall’altro in un bellissimo lago artificiale – alimentato in piccola parte da un torrente che si scorgeva sulla destra – le cui profondità erano state progettate da due architette norvegesi: rocce e acqua di provenienza sorgiva gli conferivano un aspetto fiabesco. Chiunque vi si accostasse, fin dai primi caldi, era tentato di bagnarsi nelle sue acque – e molti lo facevano, nelle zone in cui era permesso. Si poteva accedervi solo attraversando Monterocca, perché era inanellato da boschi che terminavano in cocuzzoli impervi e rocciosi, uno spettacolo fotografato compulsivamente dai turisti. Cecilia si diresse verso il lungolago con tutta la forza che aveva nelle gambe. La corsa impressa ai roller 14
le dava uno slancio e un’eleganza che pochi pattinatori avevano, la grinta gliela conferivano le sorsate di assenzio appena mandate giù e la rabbia che sua madre le suscitava ogni volta. Sapeva di essere ingiusta con lei. Sapeva di offenderla con i suoi modi tremendi, ma una presenza ingombrante come quella della Circassa finiva per spingere a un bivio chi le stava accanto: costui poteva solo soccombere o rivoltarsi. Mentre l’erborista imbracciava l’anfora della discordia per occultarla, sua figlia, ormai lontana un chilometro e mezzo, si fermava di fronte all’incanto del lago Duse – a vederlo restava senza respiro ogni volta, nonostante d’estate vi si tuffasse fino allo sfinimento – e si sedeva sul bordo del pontile, i piedi liberi dai roller, senza calze, a penzolare sopra l’acqua. Alle sue spalle sopraggiunse Juana, luogotenente dei carabinieri del paese. La pelle morena e i tratti del viso tradivano le sue origini messicane. Aveva qualcosa di mascolino nel volto, un’espressione da dura; i capelli corti erano stirati ad arte, ma restavano dritti in modo un po’ innaturale, e l’effetto artificioso era aumentato dal biondo ossigenato. Aveva circa trent’anni, la bocca carnosa e una voce da baritono che le conferiva un’aria virile. Ciò non interessava agli uomini fissati con le nere, quelli che la sera arrivavano a Monterocca per corteggiarla e che ogni volta si ritrovavano come risposta un due di picche. Juana si accostò a Cecilia e dall’alto del suo metro e ottanta, guardando in basso verso la ragazza seduta, le chiese: «Non è un po’ presto per fare il bagno?». «Non ne ho nessuna intenzione.» «Brava. Non vorrei doverti venire a salvare.» «Be’, nel caso mi buttassi, tu lasciami là.» 15
Si sorrisero. «Scherzi? Poi chi la sente tua madre?» Cecilia tramutò il sorriso in una smorfia amara. «Magari ti ringrazia.» «Non dire sciocchezze. Lo sai che ti vuole un gran bene.» «Forse ha qualche problema a dimostrarlo.» In quel momento la ragazza si accorse di una sagoma che galleggiava, vicino alla sponda sinistra del lago. Si alzò di scatto e la indicò: «Cosa c’è là?». Juana aguzzò la vista, ma non si capiva cosa fosse. Qualcosa di scuro e largo ondeggiava a fior d’acqua, come un grosso sacchetto della spazzatura. Le due si lanciarono in quella direzione, la messicana anticipando l’altra tanto che, quando la vicinanza le fece capire cosa affiorava vicino alla sponda del lago, si arrestò di colpo, si voltò verso Cecilia che arrivava di corsa, e la bloccò con le braccia. Quella la guardò con gli occhi sbarrati. «Che succede?» «Cecilia…» «Che cazzo c’è, perché mi stai trattenendo?» gracchiò presagendo qualcosa di brutto. «Cecilia, non guardare, vai via! C’è Bizé nel lago.» Juana era sicura, la sagoma era quella grigio scuro dell’alano bellissimo sempre accanto a Cecilia, tranne quando, talvolta, sfuggiva al suo controllo e se ne andava a bighellonare in cerca di cibo. Ma nessuno lo temeva, era un pezzo di pane. E adesso Bizé galleggiava sull’acqua senza vita e senza collare. L’urlo della ragazza risuonò tra le cime dei boschi, penetrò nelle cortecce, fece alzare in volo i rapaci, morì infine nelle sue ginocchia che non ressero: e lei si accasciò a terra, piangendo a dirotto dentro l’abbraccio della carabiniera. 16
Questo volume è stato stampato nel febbraio 2018 presso Rotolito S.p.A. - Milano