SHERYL SANDBERG ADAM GRANT
OPTION B Traduzione d i Valeria S anna
ISBN 978-88-6905-269-9 Titolo originale dell’edizione in lingua inglese: OPTION B. Facing Adversity, Building Resilience, and Finding Joy Alfred A. Knopf a division of Penguin Random House LLC, New York © 2017 by OptionB.Org Traduzione di Valeria Sanna / studio pym Realizzazione editoriale: studio pym / Milano Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Si ringrazia Grey Dog Music (ASCAP) per il permesso di pubblicare un estratto del brano For Good tratto dal musical Wicked, musiche e testi di Stephen Schwartz. Copyright © 2003 by Stephen Schwartz. Tutti i diritti riservati. Pubblicato per gentile concessione di Grey Dog Music (ASCAP). Book design by Cassandra Pappas © 2017 HarperCollins Italia S.p.A., Milano Prima edizione HarperCollins settembre 2017
In memoria di David Bruce Goldberg 2 ottobre 1967 – 1° maggio 2015 Ti amerò per sempre, Dave
PREMESSA
L’ultima cosa che gli ho detto è stata: «Mi sto addormentando». Conobbi Dave Goldberg nell’estate del 1996: mi ero trasferita a Los Angeles e un amico comune ci invitò da lui per cenare e vedere un film. Non appena cominciò, mi addormentai con la testa appoggiata sulla spalla di Dave. Ripeteva spesso che aveva pensato avessi una cotta per lui, finché non aveva capito che – come era solito dire – «Sheryl si addormenterebbe ovunque e addosso a chiunque». Iniziai ad ambientarmi a Los Angeles e Dave diventò il mio migliore amico. Mi presentava persone divertenti, mi mostrava tutte le scorciatoie per evitare il traffico e si assicurava che avessi sempre qualche programma per il weekend e per le vacanze. Mi rese un po’ più cool: mi fece scoprire internet e ascoltare musica che non conoscevo. Quando mi lasciai con il mio fidanzato, Dave non esitò a consolarmi, nonostante il mio ex fosse un Navy SEAL che dormiva con una pistola carica sotto il letto. Dave sosteneva che con me era stato amore a prima vista, che però aveva dovuto aspettare a lungo prima che io
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mi svegliassi, scaricassi quello sfigato e uscissi con lui. Dave era sempre un passo avanti rispetto a me, ma alla fine riuscii a raggiungerlo. Sei anni e mezzo dopo quel film, pianificammo un viaggio di una settimana, ben consapevoli che avrebbe potuto dare una svolta alla nostra relazione o rovinare una grande amicizia. Ci sposammo l’anno seguente. Dave era la mia roccia. Se io ero turbata, lui rimaneva calmo. Se ero preoccupata, mi diceva che tutto si sarebbe sistemato. Se non sapevo cosa fare, mi aiutava a trovare una soluzione. Come ogni coppia sposata avevamo i nostri alti e bassi, eppure con Dave mi sentivo davvero capita, amata. In modo completo e incondizionato. Credevo che avrei passato il resto della mia vita con la testa sulla sua spalla. Undici anni dopo le nozze, andammo in Messico per festeggiare il cinquantesimo compleanno del nostro amico Phil Deutch. I miei genitori si sarebbero occupati dei nostri figli, e Dave e io eravamo entusiasti al pensiero di avere un weekend solo per noi. Il venerdì pomeriggio ci stavamo rilassando a bordo piscina e giocavamo ai Coloni di Catan sull’iPad. Per una volta, incredibilmente, ero in vantaggio, ma mi si stavano chiudendo gli occhi. Non appena mi accorsi che la stanchezza stava compromettendo la mia vittoria, confessai: «Mi sto addormentando». Mi arresi e cedetti al sonno. Alle 15.41 qualcuno scattò una foto a Dave con l’iPad in mano seduto accanto a suo fratello Rob e a Phil. Io invece dormivo appoggiata a un cuscino proprio davanti a loro. Dave stava sorridendo.
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Quando un’ora più tardi mi svegliai, Dave non era più seduto su quella sedia. Raggiunsi i nostri amici per una nuotata, immaginando che fosse andato in palestra come da programma. Rientrata in camera per una doccia, non lo trovai; ero sorpresa, ma non agitata. Mi preparai per la cena, controllai le e-mail e chiamai i bambini. Nostro figlio era dispiaciuto perché lui e il suo amico, violando il regolamento del parco giochi, si erano arrampicati su un cancello e le scarpe da ginnastica si erano rotte. Confessò tutto tra le lacrime. Gli dissi che apprezzavo la sua onestà e che io e papà avremmo deciso quanto trattenere dalla sua paghetta per comprarne un nuovo paio. Il nostro ometto però ormai andava in quarta elementare e non voleva vivere nell’incertezza, così gli risposi che avrei dovuto discuterne con il padre, e che per questo motivo ne avremmo riparlato l’indomani. Lasciai la stanza e andai al piano di sotto. Dave non c’era. Camminai fino alla spiaggia e raggiunsi il resto del gruppo. Appena vidi che non era nemmeno lì, fui assalita dal panico. Qualcosa non andava. Urlai a Rob e a sua moglie Leslye: «Dave non c’è!». Lei esitò per un istante e gridò di rimando: «Dov’è la palestra?». Indicai i gradini e iniziammo a correre. Mi manca ancora il respiro se ripenso a quelle parole. Non potrò mai più ascoltare la frase «Dov’è la palestra?» senza provare un tuffo al cuore. Trovammo Dave a terra, accanto all’ellittica, con il viso leggermente bluastro rivolto a sinistra e una piccola pozza di sangue sotto la testa. Lanciammo tutti un urlo.
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Provai a rianimarlo, poi subentrò Rob, che fu sostituito da un medico. Quelli in ambulanza furono i trenta minuti più lunghi della mia vita. Dave era sdraiato su una barella e il medico tentava di rianimarlo. Io ero davanti, piangevo e supplicavo il dottore di dirmi che mio marito non era morto. Non mi capacitavo di quanto fosse lontano l’ospedale e di quante poche macchine si levassero di mezzo per lasciarci passare. Una volta arrivati, lo portarono via e sparirono dietro una pesante porta di legno, rifiutandosi di farmi entrare. Mi sedetti per terra mentre Marne Levine,la moglie di Phil e una delle mie più care amiche, mi stringeva forte. Dopo quella che mi sembrò un’eternità mi accompagnarono in una stanzina. Il medico si sedette alla scrivania. Sapevo cosa mi aspettava. Quando se ne fu andato, un amico di Phil mi si avvicinò, mi diede un bacio sulla guancia e sussurrò: «Mi dispiace per la tua perdita». Quelle parole e quel bacio mi proiettarono nel futuro. Ero consapevole che avrei provato quella sensazione ancora e ancora. Qualcuno mi domandò se volessi vedere Dave per dirgli addio e accettai. Credevo che se fossi rimasta in quella stanza, se lo avessi stretto a me e mi fossi rifiutata di lasciarlo, mi sarei svegliata da quell’incubo. Quando Rob, anche lui sotto shock, mi disse che dovevamo andarcene, uscii dalla stanza, poi mi voltai e corsi di nuovo ad abbracciare Dave. Dopo un po’ Rob mi staccò con delicatezza dal suo corpo. Marne mi accompagnò lungo il cor-
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ridoio bianco, sorreggendomi e impedendomi di tornare indietro. Fu così che cominciò il resto della mia vita. Era – ed è tuttora – una vita che mai avrei scelto, una vita per la quale non ero affatto preparata. Fu atroce annunciare a mio figlio e a mia figlia che il padre era morto. Udire le loro grida e gridare con loro. Il funerale. Sentire le persone che parlavano di Dave al passato. Vedere la casa riempirsi di volti familiari che mi si avvicinavano per baciarmi sulla guancia e pronunciare le parole di circostanza: «Mi dispiace per la tua perdita». Al cimitero i miei figli scesero dalla macchina e crollarono a terra, incapaci di muovere un altro passo. Mi misi sull’erba insieme a loro e li strinsi mentre si disperavano. I loro cugini si sedettero con noi: eravamo tutti lì, uno accanto all’altro a singhiozzare, mentre le mie braccia tentavano di proteggerli dalla sofferenza. La poesia, la filosofia e la fisica ci hanno insegnato che la gente non percepisce il tempo allo stesso modo. Il tempo continuava a rallentare. Giorno dopo giorno i pianti e le grida dei miei bimbi riempivano l’aria. Nei momenti in cui non piangevano, li osservavo con ansia e aspettavo l’istante in cui avrebbero avuto bisogno di essere confortati. I miei pianti e le mie grida – che perlopiù restavano muti, ma che talvolta non riuscivo a trattenere – colmavano lo spazio restante. Mi trovavo in una sorta di vuoto: un enorme nulla che ti intasa il cuore e i polmoni e che limita la tua capacità di pensare e perfino di respirare. Il lutto è un compagno esigente. In quei primi gior-
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ni, settimane e mesi era sempre lì, non sotto la superficie, ma sopra. Ribolliva, si intensificava, e non se ne andava. Poi, proprio come un’onda, si sollevava dentro di me e si abbatteva, quasi volesse strapparmi via il cuore. Sentivo allora di non riuscire più a sopportare quel dolore, nemmeno per un minuto, tantomeno per un’altra ora. Vedevo Dave a terra, sul pavimento della palestra. Vedevo il suo viso in cielo. Di notte lo cercavo e gridavo al vuoto: «Dave, mi manchi. Perché mi hai lasciata? Torna, ti prego. Ti amo...». Ogni notte piangevo fino allo sfinimento, poi mi addormentavo. Ogni mattina mi svegliavo e facevo tutto come un automa, non volevo credere che il mondo potesse andare avanti senza di lui. Com’era possibile che gli altri andassero avanti come se nulla fosse cambiato? Non se ne accorgevano? La vita era diventata un campo minato. Durante la serata per i genitori organizzata dalla scuola, mia figlia mi mostrò cosa aveva scritto otto mesi prima, il giorno in cui aveva iniziato la seconda elementare: «Mi chiedo cosa succederà in futuro». Fu come essere investita da un treno: all’epoca, né lei né io avremmo mai immaginato che avrebbe perso il padre ancor prima di finire la seconda elementare. La seconda elementare. Guardai la sua manina nella mia, il suo dolce viso rivolto verso di me che mi fissava per capire se mi fossero piaciute le sue parole. Mi sentii mancare e per poco non caddi a terra, feci finta di essere inciampata. Mentre camminavamo per la stanza, tenevo lo sguardo basso per evitare di incrociare quello degli altri genitori e risparmiarmi una crisi di nervi.
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I giorni importanti erano i più dolorosi. Per Dave il primo giorno di scuola era un evento importante: ogni volta scattava un sacco di fotografie ai bambini mentre uscivano di casa. Mi sforzai di trovare un po’ di entusiasmo per farne anch’io alcune. Il giorno del compleanno di mia figlia ero seduta sul pavimento della mia camera da letto con mia mamma, mia sorella e Marne. Mi sembrava impossibile scendere le scale e sopravvivere, figuriamoci sorridere e unirmi ai festeggiamenti. Sapevo che dovevo farlo per mia figlia. Sapevo che dovevo farlo per Dave. Solo che io volevo farlo con Dave. C’erano però degli attimi in cui riuscivo a sorridere. Un giorno dissi al parrucchiere che avevo problemi a dormire. Lui posò le forbici, aprì la borsa con fare teatrale e tirò fuori confezioni di Xanax di ogni tipo e formato. Declinai l’offerta, ma apprezzai moltissimo il gesto. Un giorno ero al telefono con mio padre e mi lamentavo del fatto che tutti i libri sul lutto avessero dei titoli orribili come: La morte è di vitale importanza oppure: Di’ di sì alla morte (come se potessi dire di no). Mentre eravamo al telefono eccone spuntare un altro: Dormire al centro del letto. Un giorno stavo guidando verso casa e accesi la radio per distrarmi. Le canzoni erano una peggio dell’altra: Somebody That I Used to Know. Qualcuno che conoscevo? Terribile. Not the End. Non è la fine? Permettetemi di dissentire. Forever Young. Giovani per sempre? Non mi sembra il caso. Good Riddance: Time of Your Life. Divertirmi? Non credo proprio. Conclusione: ho lasciato su Reindeer(s) Are Better than People, le renne sono meglio delle persone.
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Il mio amico Davis Guggenheim mi disse che, dopo anni passati a girare documentari, aveva imparato che le storie si rivelano da sole. Infatti, quando inizia un progetto, non sa mai con certezza come andrà a finire, perché il racconto deve svilupparsi a modo suo e con i suoi tempi. Secondo Davis dovevo provare non a controllare il mio dolore, ma ad ascoltarlo, tenerlo con me e fargli fare il suo corso. Mi conosce bene. Cercavo in ogni maniera di far cessare la mia sofferenza, di chiuderla in una scatola e di buttarla via. Le prime settimane e i primi mesi ogni mio tentativo fallì. L’angoscia prendeva il sopravvento. Anche quando sembravo calma e tranquilla, il tormento era presente. Potevo partecipare a una riunione o leggere un libro ai bambini, ma il mio cuore era sempre sul pavimento di quella palestra. «Nessuno mi aveva mai detto che il dolore assomiglia tanto alla paura» scrisse C. S. Lewis. La paura era costante e avevo l’impressione che il dolore non accennasse a placarsi. Quelle ondate continuavano a flagellarmi finché non riuscivo più a stare in piedi, finché non ero più me stessa. Due settimane dopo la morte di Dave, all’apice di quella sensazione di vuoto, ricevetti una lettera da una conoscente sulla sessantina rimasta vedova. Visto che era da molto più tempo di me in questa situazione, avrebbe tanto voluto darmi qualche consiglio, ma purtroppo non ne aveva. Il marito era morto qualche anno prima e anche una sua cara amica era vedova da una decina d’anni, eppure nessuna delle due pensava che il tempo avesse in qualche modo alleviato la sofferenza. Scrisse: Per quanto
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ci provi, non ce la faccio proprio a trovare una sola cosa che possa esserti di aiuto. Quella lettera, di sicuro spedita con le migliori intenzioni, distrusse la speranza che un giorno il mio dolore sarebbe finalmente svanito. Mi sentii sprofondare nel nulla: gli anni a venire mi si prospettavano vuoti e infiniti. Telefonai a Adam Grant, uno psicologo e professore alla Wharton School dell’Università della Pennsylvania, e gli riferii il contenuto di quella lettera devastante. Due anni prima Dave aveva letto il libro di Adam Più dai più hai e lo aveva invitato a parlare alla SurveyMonkey, la società di cui mio marito era amministratore delegato. Quella sera poi ci raggiunse per cena. Adam studia il modo in cui le persone riescono a trovare un senso e una motivazione, quindi parlammo delle sfide che le donne affrontano quotidianamente e di come Adam avrebbe potuto trattare l’argomento nei suoi libri; cominciammo a scrivere insieme e diventammo amici. Quando Dave morì, Adam salì su un aereo e attraversò il Paese per partecipare al funerale. Gli confidai che la mia più grande paura era per i miei figli: temevo che non sarebbero mai più stati felici. Già altre persone avevano provato a rassicurarmi con storie personali, Adam però mi espose dei fatti concreti: dopo aver perso un genitore molti bambini dimostrano una resilienza sorprendente, vivono un’infanzia felice, crescono e diventano degli adulti equilibrati. La disperazione nella mia voce lo spinse ancora una volta a prendere un aereo e ad attraversare gli Stati Uniti
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per convincermi che quel vuoto – per me infinito – aveva invece un fondo. Voleva dirmi di persona che, per quanto lo strazio fosse inevitabile, c’erano delle cose che potevo fare per ridurre la mia angoscia e quella dei miei figli. Disse che nel giro di sei mesi, più della metà di coloro che perdono il proprio partner supera quella che gli psicologi chiamano la fase del lutto acuto. Adam mi persuase che il mio lutto avrebbe dovuto fare il suo corso, tuttavia i miei pensieri e le mie azioni potevano indirizzare i miei movimenti nel vuoto e scandirne il ritmo. Non conosco nessuno che abbia avuto una vita rose e fiori. Tutti incontriamo delle difficoltà; alcune le possiamo prevedere, altre ci colgono alla sprovvista. Può trattarsi di un evento tragico come la morte improvvisa di un figlio, o doloroso come la fine di una relazione, oppure può semplicemente essere la delusione per un sogno che si infrange. La domanda è: quando queste cose accadono, cosa facciamo? Pensavo che la resilienza fosse la capacità di sopportare il dolore, perciò domandai a Adam come fare a capire quanta ne avessi. Mi spiegò che la quantità di resilienza dentro di noi non è fissa, e che piuttosto dovevo chiedermi come diventare resiliente. La resilienza è l’insieme di forza e velocità con cui reagiamo di fronte a un’avversità, e possiamo costruircela. Non si tratta di avere una spina dorsale, piuttosto di rafforzare i muscoli che le stanno attorno. Da quando Dave è venuto a mancare, moltissime persone mi hanno detto: «Non riesco neanche a immagi-
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narlo». Nel senso che non sono in grado di immaginare come si possa vivere qualcosa del genere, non immaginano come io possa essere ancora lì in piedi a parlare con loro piuttosto che rannicchiata da qualche parte. Ricordo di essermi sentita allo stesso modo davanti a una collega tornata al lavoro dopo aver perso un figlio, o il giorno in cui vidi un amico bersi un caffè dopo che gli era stato diagnosticato un cancro. Quando mi trovai dall’altra parte, la mia risposta fu: «Non riesco a immaginarmelo neanche io, ma non ho altra scelta». Non avevo altra scelta che alzarmi ogni giorno, superare lo shock, attraversare il periodo di lutto e affrontare il senso di colpa del sopravvissuto. Non avevo altra scelta che non fosse cercare di proseguire con la mia vita e provare a essere una brava madre o un’ottima collega. La perdita, il dolore e la delusione sono esperienze profondamente personali. Ogni circostanza è unica, e reagiamo tutti in modo diverso. Eppure la gentilezza e il coraggio di chi ha condiviso con me il proprio vissuto mi hanno aiutata. Alcune delle persone che mi hanno parlato con il cuore in mano sono ora tra i miei amici più cari. Altri invece erano estranei che dispensavano consigli e parole di saggezza, a volte perfino dentro libri dal titolo orribile. E poi c’è stato Adam, molto paziente, che mi ripeteva di continuo che l’oscurità si sarebbe dileguata, ma che io avrei dovuto fare la mia parte. Anche di fronte alla tragedia più sconvolgente della mia vita, potevo controllare almeno un po’ l’impatto che aveva su di me. Questo libro è il tentativo mio e di Adam di condivi-
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dere tutto ciò che abbiamo imparato sulla resilienza. Lo abbiamo scritto insieme, ma per semplicità e chiarezza la storia è raccontata da me (Sheryl), le parti di Adam invece sono in terza persona. Non pretendiamo che la speranza riesca a prevalere sul dolore. Non sarà così. Non partiamo dal presupposto di aver affrontato qualsiasi tipo di perdita e incontrato ogni ostacolo. Non è così. Non c’è una maniera giusta di fronteggiare un lutto o una sfida, non abbiamo delle risposte esatte da darvi: non esistono. Sappiamo anche che non tutte le storie hanno un lieto fine. Per alcune piene di fiducia, ce ne sono altrettante dalle circostanze troppo dolorose, come le guerre, la violenza, il sessismo e il razzismo che distruggono vite e decimano comunità. La triste verità è che le avversità non sono distribuite equamente: i gruppi emarginati combattono molte più battaglie e devono affrontare più sofferenze rispetto agli altri. Per quanto traumatica sia stata la mia vicenda, sono consapevole che siamo fortunati ad avere un sistema di sostegno esteso che comprende famiglia, amici, colleghi, e perfino l’accesso a risorse finanziarie che pochi hanno a disposizione. So anche che parlare di come trovare la forza in un momento di difficoltà non ci solleva dalla responsabilità di impegnarci a prevenirlo. Tutto ciò che facciamo all’interno delle nostre società – le politiche pubbliche che attuiamo, il modo in cui ci aiutiamo – può far sì che meno persone debbano soffrire. Eppure, per quanto cerchiamo di prevenirle, avversità, disuguaglianze ed esperienze traumatiche esistono,
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e a noi resta il duro compito di fronteggiarle. Per vedere un cambiamento domani, dobbiamo costruire la nostra resilienza oggi. Gli psicologi hanno studiato come riprendersi e rimettersi in piedi dopo una serie di avversità, che si tratti di una perdita, un rifiuto, un divorzio, un infortunio, una malattia, o perfino un fallimento professionale o una delusione. Durante la nostra ricerca, Adam e io abbiamo rintracciato individui e gruppi che erano stati in grado di superare situazioni difficili, sia ordinarie sia straordinarie, e i loro racconti hanno cambiato il nostro modo di concepire la resilienza. Questo libro parla della capacità di perseverare. Prendiamo in considerazione i passi che la gente può fare per aiutare se stessa e gli altri. Vogliamo esplorare la psicologia della guarigione, la facoltà di riacquisire sicurezza e riscoprire la gioia. Tentiamo di spiegare quale sia la maniera migliore per parlare di una tragedia e come confortare un amico che soffre. Parliamo anche di come creare delle comunità resilienti, come crescere bambini coraggiosi e come tornare ad amare. Adesso so che è possibile crescere grazie a un’esperienza traumatica. Dopo le disgrazie più devastanti le persone possono davvero trovare un senso e diventare più forti di prima. Credo anche che sia possibile vivere una sorta di crescita pre-traumatica, ovvero che non necessariamente si debba passare attraverso un’esperienza tragica per costruire la propria resilienza. In questo momento mi trovo soltanto a metà del mio
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percorso. La nebbia del lutto acuto si è sollevata, ma sento ancora la mancanza di Dave e la tristezza non mi abbandona. Mi sto sforzando di non cedere e di imparare le lezioni racchiuse in queste pagine. Come tutti gli individui che hanno vissuto una tragedia, spero anche io di trovare un senso, e perfino la gioia, e di aiutare gli altri a fare altrettanto. Se mi volto indietro e ripenso ai periodi più bui, ora mi rendo conto che comunque c’erano dei segnali di speranza. Un amico mi ha ricordato che, quando i miei bambini erano scoppiati in lacrime al cimitero, io avevo detto: «Questo è il secondo momento peggiore delle nostre vite. Abbiamo superato il primo, e supereremo anche questo. Da adesso in poi può soltanto migliorare». Poi avevo cominciato a cantare una canzone che conoscevo fin dall’infanzia: Oseh Shalom, una preghiera di pace. Non rammento minimamente di aver deciso di cantare, e non so perché ho scelto proprio quella canzone. Soltanto in seguito scoprii che si trattava dell’ultima parte del Kaddish, la preghiera ebraica per il lutto, e ciò potrebbe spiegare come mai quel brano mi fosse sgorgato dal profondo. Subito dopo gli adulti si erano messi a cantare insieme a me, seguiti dai bambini, e il pianto era cessato. Il giorno del compleanno di mia figlia, mi alzai dal pavimento della mia camera da letto e sorrisi per tutto il tempo; con mio grande stupore, mi accorsi che lei si stava divertendo. Poche settimane dopo la morte di Dave parlai a Phil di un’attività padre-figlio. Escogitammo un piano per tro-
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vare qualcuno che sostituisse Dave. Gridai a Phil: «Ma io voglio mio marito!». Lui mi circondò le spalle con un braccio e mi disse: «L’opzione A non è disponibile. Cerchiamo quindi di tirare fuori il meglio dall’opzione B». La vita non è mai perfetta, viviamo tutti una sorta di opzione B. E questo libro ha proprio lo scopo di aiutarvi a tirarne fuori il meglio.
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1 TORNARE A RESPIRARE
Bisogna continuare, non posso continuare, bisogna continuare, e allora continuo. Samuel Beckett Circa un anno dopo la morte di Dave ero al lavoro quando il mio telefono cominciò a vibrare. Era una vecchia amica e, dal momento che oggi non si usa più telefonare, immaginai che si trattasse di qualcosa di importante. Infatti. Mi diede una notizia terribile riguardo a una ragazza cui fa da tutor. Pochi giorni prima la ragazza aveva partecipato a una festa di compleanno; mentre se ne andava aveva notato che un collega aveva bisogno di un passaggio e, poiché abitavano vicini, si era offerta di accompagnarlo. Una volta arrivati a destinazione lui aveva estratto un’arma, l’aveva obbligata a entrare in casa e l’aveva stuprata. La ragazza era andata in ospedale e aveva denunciato l’aggressione alla polizia. La mia amica stava cercando un modo per confortarla e mi chiese se me la sentissi
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di parlarle e offrirle il mio appoggio. Mentre componevo il numero ero nervosa, non sapevo se sarei riuscita ad aiutare qualcuno a riprendersi da un trauma tanto violento. La ascoltai parlare, e capii che tutto quello che avevo imparato sul dolore e su come superarlo poteva toccare le sue corde. Piantiamo i semi della resilienza nel momento in cui iniziamo a processare gli eventi negativi. Dopo decenni passati a studiare come la gente affronta le difficoltà, lo psicologo Martin Seligman scoprì che non siamo in grado di riprenderci per via delle tre P: 1) personalizzazione, la convinzione che la colpa di qualcosa sia nostra; 2) pervasività, la convinzione che l’evento influenzerà ogni aspetto della nostra vita; 3) permanenza, la convinzione che le ferite lasciate dall’evento non si rimargineranno mai. Le tre P, in sostanza, sono una sorta di Tutto è mostruoso, l’esatto opposto della canzone Everything Is Awesome, tutto è meraviglioso. Nella testa continuiamo a ripetere: È colpa mia, è terribile. La mia vita è terribile. E sarà sempre terribile. Centinaia di studi hanno dimostrato che bambini e adulti riescono a riprendersi molto più rapidamente dopo essersi resi conto che le difficoltà incontrate non dipendono da loro, che non influenzano ogni ambito dell’esistenza, e che non ne saranno perseguitati ovunque e per sempre. Riconoscere che un evento negativo non è personale, pervasivo o permanente ci rende meno inclini alla depressione e più preparati ad andare avanti. Conoscere ed evitare la trappola delle tre P ha aiutato gli insegnanti di scuole sia urbane sia rurali: hanno dimostrato di essere
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più efficaci, e i loro studenti hanno raggiunto risultati più soddisfacenti. Perfino i membri di alcune squadre di nuoto universitarie ne hanno tratto beneficio in gara: la loro frequenza cardiaca era più regolare e questo ha contribuito a migliorarne i tempi. Alcuni agenti assicurativi, infine, quando hanno smesso di prendere sul personale il rifiuto e hanno iniziato a confidare in un domani pieno di nuove possibilità, hanno venduto più del doppio delle polizze e sono rimasti impiegati più a lungo rispetto ai colleghi. In un primo momento mi sono limitata ad ascoltare la ragazza al telefono; si sentiva violata, tradita, arrabbiata e spaventata. Poi ha cominciato a incolparsi, diceva che non avrebbe mai dovuto offrire quel passaggio. Ho tentato di rassicurarla, di far sì che smettesse di personalizzare l’aggressione. Chi subisce uno stupro non ha mai colpe, e dare un passaggio a un collega è una cosa innocente e sensata. Ho cercato di sottolineare il concetto che non tutto ciò che capita a noi accade per colpa nostra. Poi sono passata alle altre due P: pervasività e permanenza. Abbiamo parlato delle cose belle della sua vita, ho provato a farla riflettere sulla prospettiva che questa disperazione sarebbe diminuita. Riprendersi da uno stupro è un processo incredibilmente difficile e complicato, diverso da soggetto a soggetto. I fatti dimostrano che quasi sempre le vittime di stupro tendono a darsi la colpa dell’accaduto e non hanno speranze per il futuro. Le persone che sono in grado di rompere questo schema corrono un minore rischio di cadere in depressione o di soffrire di disturbo post-traumatico da stress.
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Un paio di settimane dopo, la ragazza mi chiamò per dirmi che grazie alla sua collaborazione lo Stato stava perseguendo lo stupratore. Aggiunse che pensava quotidianamente alle tre P e che per merito dei miei consigli stava meglio. Anch’io stavo meglio. Io stessa ero finita in queste trappole, per prima in quella della personalizzazione: mi ero subito data la colpa della morte di Dave. Il primo rapporto dei medici aveva stabilito che era deceduto in seguito a un trauma cranico conseguente alla caduta, e io mi sentivo in colpa: se lo avessi trovato prima, avrei potuto salvarlo. Mio fratello David, neurochirurgo, mi ripeteva che non era così: un infortunio simile avrebbe potuto provocargli una frattura a un braccio, ma difficilmente lo avrebbe ucciso. Doveva essere stato qualcos’altro, qualcosa che aveva causato la caduta. L’autopsia gli diede ragione: Dave era morto in pochi secondi per una aritmia cardiaca scatenata da una malattia coronarica. Nonostante la notizia, trovavo comunque delle ragioni per incolparmi. La malattia coronarica di Dave non era mai stata diagnosticata. Trascorsi settimane con i medici a esaminare attentamente l’autopsia e la sua cartella clinica: forse Dave in passato si era lamentato di dolori al petto e non ce ne eravamo mai accorti. Pensavo alla sua alimentazione; forse avrei dovuto insistere per migliorarla. I dottori mi dissero che nessun cambiamento nel suo stile di vita lo avrebbe potuto salvare con certezza. I suoi parenti mi assicurarono però che le abitudini alimentari di Dave erano molto più salutari da quando si era fidanzato con me, e questo mi aiutò un pochino.
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Mi incolpai perfino del disturbo che la sua morte aveva arrecato alle persone intorno a me. Prima ero io la sorella maggiore, quella che organizzava tutto, la pianificatrice. Dopo diventai incapace di fare praticamente qualsiasi cosa. Molti, come il mio capo e mio cognato, accorsero in mio aiuto, e Marne organizzò il funerale; mio padre e mia cognata Amy sbrigarono le pratiche per la sepoltura. Ogni volta che qualcuno veniva a casa per porgere le condoglianze, Amy mi obbligava ad alzarmi e ringraziare. Mio padre mi ricordava di mangiare e si sedeva accanto a me per controllare che lo facessi davvero. Per qualche mese la frase che ripetevo di continuo era: «Mi dispiace». Non smettevo di scusarmi con chiunque: con mia mamma, che aveva messo in pausa la sua vita per trasferirsi da me durante il primo mese, con gli amici che avevano mollato tutto per venire al funerale, e con i miei clienti per aver saltato gli appuntamenti. Mi scusavo perfino con i colleghi perché non riuscivo a concentrarmi quando ero sopraffatta dalle emozioni. Iniziavo le riunioni pensando: Posso farcela, e poi mi ritrovavo con le lacrime agli occhi e correvo fuori dalla stanza dicendo: «Mi dispiace». Non è certo quello che ci si aspetta nella Silicon Valley. Adam mi convinse che dovevo bandire la frase «mi dispiace». Mi vietò anche le espressioni «sono desolata», «scusatemi» e qualsiasi altro tentativo di aggirare il suo divieto. Mi spiegò che dandomi la colpa di tutto posticipavo il mio recupero, e ciò significava posticipare anche quello dei miei figli. Questa consapevolezza fece scattare
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qualcosa dentro di me. Mi resi conto che se i medici di Dave non erano riusciti a evitare la sua morte, non aveva senso pensare che io ne sarei stata in grado. Non ero stata io ad aver interrotto le vite degli altri, era stata la tragedia. Nessuno pensava che avrei dovuto scusarmi se piangevo. Nel momento in cui provai a smettere di dire «mi dispiace», cominciai a liberarmi della personalizzazione, nonostante mi dovessi mordere la lingua ogni due per tre. Appena iniziai a prendermela meno con me stessa, notai che non tutto era terribile. I miei figli di notte dormivano, mangiavano meno e giocavano di più. Avevamo accesso a counselor e terapeuti. Potevo permettermi qualcuno che badasse a loro e mi aiutasse a casa. Ero circondata da persone che mi volevano bene: famiglia, amici e colleghi; mi meravigliavo di quanto fossero fondamentali. Mi sentivo più vicina a loro di quanto mai avrei creduto possibile. Tornare in ufficio mi aiutò parecchio a superare la pervasività. Nella tradizione ebraica esiste un periodo di lutto molto intenso di sette giorni chiamato shiva, dopo il quale ci si può dedicare di nuovo alle attività quotidiane. Gli psicologi dell’infanzia e gli esperti del lutto mi consigliarono di far riprendere la routine ai miei figli il prima possibile. Quindi, dieci giorni dopo la morte di Dave, tornarono sui banchi e io ricominciai a lavorare durante l’orario scolastico. All’inizio in ufficio fu come essere immersa nella nebbia. Ero il direttore operativo di Facebook da più
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di sette anni, eppure tutto mi sembrava poco familiare. Durante la prima riunione pensavo: Ma di cosa diavolo stanno parlando e perché questo dovrebbe avere importanza? Poi, all’improvviso, mi coinvolsero nella discussione, e per un secondo – forse anche meno – mi scordai di tutto. Dimenticai la morte, dimenticai l’immagine di Dave sul pavimento della palestra e della sua bara che veniva calata nel terreno. Quel giorno durante la terza riunione mi addormentai per qualche minuto. Mi svegliai perché la testa mi cadde in avanti, ma per quanto mi sentissi in imbarazzo provavo anche gratitudine, e non soltanto perché non stavo russando: per la prima volta ero riuscita a rilassarmi. I giorni diventarono settimane, e poi mesi, e io restavo concentrata sempre più a lungo. L’ufficio era un luogo dove potevo essere me stessa, e la gentilezza dei colleghi era la prova che non tutti gli aspetti della mia vita erano terribili. Ho sempre creduto che le persone abbiano bisogno di sentirsi appoggiate e comprese sul posto di lavoro, e adesso so che questo è ancora più importante nel caso di un evento tragico. Devo ammettere con rammarico che è meno comune di quanto dovrebbe: dopo la morte di un familiare soltanto il 60 percento degli impiegati di aziende private ha diritto a giorni di permesso retribuiti e in genere sono pure pochi. Quando si rientra al lavoro il lutto può interferire con le prestazioni lavorative. Lo stress economico che spesso segue il lutto è come un pugno in faccia. Soltanto negli Stati Uniti, la perdita di produttività legata a un lutto può costare alle società ben 75 miliardi
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di dollari l’anno. Essa potrebbe ridursi se i datori di lavoro riuscissero a fornire assistenza economica, concedere giorni di permesso retribuiti, orari lavorativi ridotti e flessibili. Le società che offrono ai propri dipendenti assistenza sanitaria, un piano pensionistico e benefit familiari hanno notato che nel lungo termine questo investimento li ripaga con maggiore produttività e più lealtà verso l’azienda. Fornire sostegno è la cosa più compassionevole e saggia da fare. Sono grata a Facebook per avermi concesso la possibilità di prendermi dei giorni di permesso, e dopo la morte di Dave ho lavorato con tutto il team per promuovere questa politica aziendale. Per quanto mi riguarda, la più difficile delle tre P fu la permanenza. Non importava cosa facessi, avevo la sensazione che questa angoscia debilitante non se ne sarebbe mai andata. Chi ha vissuto una tragedia simile mi diceva che col tempo la tristezza si sarebbe attenuata, che un giorno anch’io avrei ripensato a Dave sorridendo. Non ci credevo. Quando i miei figli piangevano mi proiettavo nel futuro e immaginavo le loro vite senza un padre. Dave non si stava perdendo una partita di calcio, ma tutte le partite di calcio. Tutti i tornei e le gare. Tutte le feste. Tutte le cerimonie per il diploma. Dave non avrebbe mai accompagnato nostra figlia all’altare. La paura di restare per sempre senza di lui era paralizzante. Non ero l’unica ad avere queste terribili previsioni per il domani, perché tendiamo a proiettare la sofferenza verso l’esterno. Diversi studi sulla cosiddetta previsione affettiva – ovvero come noi ipotizziamo di sentirci in fu-
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turo – rivelano che sovrastimiamo la durata degli effetti degli eventi negativi. Ad alcuni studenti fu chiesto di immaginare la fine delle proprie relazioni amorose e di fare una previsione di quanto sarebbero stati infelici a distanza di due mesi. Ad altri invece fu chiesto di descrivere la propria felicità due mesi dopo una reale separazione. Quelli che avevano vissuto una vera separazione si rivelarono molto più felici di quanto ci si fosse aspettati. Alcuni assistenti che non avevano ottenuto una cattedra erano convinti che avrebbero avuto il morale a terra per almeno cinque anni. Gli studenti invece erano convinti che sarebbero stati infelici se fossero rimasti bloccati in un pessimo dormitorio. Non era vero in nessuno dei due casi. E poiché all’università anche a me era stato assegnato il dormitorio peggiore – per ben due volte – posso affermare che lo studio è veritiero. Come il corpo ha un sistema immunitario fisiologico, anche il cervello ha un sistema immunitario psicologico. Se qualcosa non va per il verso giusto, istintivamente attiviamo un meccanismo di difesa: vediamo un lato positivo, una luce in fondo al tunnel, lo zucchero insieme alla pillola da mandare giù. Iniziamo ad aggrapparci ai cliché. Dopo aver perso Dave, però, non ero in grado di fare niente di tutto ciò. Se provavo a ripetermi che le cose sarebbero migliorate, una vocina dentro la mia testa ribatteva che nulla sarebbe mai migliorato. Mi sembrava chiaro che né io né i miei figli avremmo mai più provato un momento di gioia pura. Mai più. Seligman ritiene che parole come mai e sempre siano
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evidenti segni di permanenza. Proprio come ho dovuto rimuovere dal mio vocabolario l’espressione mi dispiace, ho dovuto fare lo stesso con mai e sempre, e tentare di sostituirle con ogni tanto e ultimamente. «Proverò questo dolore per sempre» diventò: «Proverò questo dolore ogni tanto». Non era una prospettiva confortante, ma almeno era un passo avanti. Mi accorsi inoltre che c’erano dei momenti in cui il dolore sembrava temporaneamente ridursi, come quando un mal di testa lancinante comincia a darti tregua. Me ne ricordai appena sprofondai nuovamente nel dolore più profondo; sapevo che, per quanto mi sentissi triste, prima o poi sarebbe arrivato un attimo di sollievo: grazie a questo pensiero ebbi l’impressione di avere un po’ di controllo sulla mia vita. Tentai anche una tecnica di terapia cognitivo-comportamentale che prevede di scrivere su un foglio tutto ciò che è fonte di angoscia e di riesaminarlo per dimostrare che è falso. Partii dalla mia paura più grande: I miei figli non vivranno mai un’infanzia felice. Mi si strinse lo stomaco, eppure vedere quella frase scritta nero su bianco mi fece rendere conto che il mio timore era infondato: avevo incontrato diverse persone che avevano perso i genitori in giovane età, e le loro vite erano andate avanti. Un’altra volta scrissi: Non starò mai più bene, poi realizzai che soltanto quella mattina qualcuno aveva fatto una battuta e avevo riso: anche se solo per un minuto, quella frase era stata falsa. Un amico psichiatra mi spiegò che gli esseri umani, per natura, sono predisposti ad affrontare il dolore e creare dei legami: chiunque ha a disposizione gli stru-
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Questo volume è stato stampato nel settembre 2017 presso la Rotolito Lombarda - Milano