piĂš forte del buio Traduzi on e d i Aureli a Di Me o
ISBN 978-88-6905-283-5 © 2018 HarperCollins Italia S.p.A., Milano Prima edizione HarperCollins gennaio 2018 La casa editrice ringrazia i Modà per la pubblicazione di alcuni brani tratti dalla canzone Come l’acqua dentro il mare. Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma.
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A Margherita, Maria e Michelle
L’unica battaglia che ho perso è stata quella che ho avuto paura di combattere. Ernesto “Che” Guevara
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IL DONO DELLA SCONFITTA Da dove iniziare Ci sono tanti modi per raccontare una storia. Per la mia, voglio iniziare da una sconfitta. Chi pensa che la sconfitta sia un dono alzi la mano. Questa è una provocazione, lo so; nessuno direbbe mai che perdere è divertente. La sconfitta porta sempre con sé qualcosa di negativo e sembra fatta apposta per mettere i bastoni tra le ruote. D’istinto lo credo anch’io. Quando sto facendo qualcosa, qualsiasi cosa, e sul più bello salta fuori un imprevisto, il primo pensiero che mi passa per la mente è: Cavolo, non ci voleva! Se mi succede in gara ho una reazione immediata, quasi fisica. Perché in una competizione io metto tutto, ma proprio tutto: il mio tempo, le mie energie, i miei sa-
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crifici, il lavoro di mesi e mesi, una preparazione lunga e studiata. Quando entro in pedana e prendo in mano il disco, quando comincio a parlargli e gli chiedo di andare il più lontano possibile – lo faccio ogni volta, perché in fondo siamo io e lui a giocarci il lancio –, allora lì ci sono anche la concentrazione, l’adrenalina e il desiderio grandissimo di fare il risultato. E se al posto del risultato arriva la batosta, be’, allora tutto salta per aria. Per cominciare c’è uno shock fortissimo perché perdere è davvero un colpo basso. Subito dopo subentrano lo spaesamento e la confusione, perché l’aspettativa di fare bene e tutto il carico di energia che mi ha sostenuto fino a quel momento improvvisamente se ne volano chissà dove, e io resto lì come un pollo, deluso e svuotato. Forse lo avete provato anche voi; al di là dello sport, credo che sia una cosa che capita spesso e capita a tutti. Eppure, se in un momento come quello fossimo capaci di fermarci e guardare avanti, catapultando il nostro sguardo nel futuro, scopriremmo che la sconfitta non è un fallimento ma una benedizione. Non è un ostacolo ma una risorsa. Non è la fine ma un punto di partenza. Senza la sconfitta, non ci sarebbe la possibilità di superarci, di andare avanti, di trovare dentro di noi tutto quello che abbiamo per metterci di nuovo in piedi e ripartire. C’è una frase che ho sentito un giorno e mi ha colpito tantissimo, e in questa frase si dice che nella crisi
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emerge il meglio di ognuno di noi. Le parole sono di Albert Einstein, e il testo che le contiene – pensate che ha quasi novant’anni! – si intitola Il mondo come io lo vedo. Ecco, sulla crisi anch’io la vedo così, e quando dico vedo non voglio solo dire che ne sono convinto, ma che vedo queste parole come le vedreste voi, e ancora più chiaramente ora che sono cieco. Perché da quando ho perso la vista ho scoperto che ci possono essere degli ostacoli, ma noi abbiamo il potere di abbatterli. Che ci possono essere delle difficoltà, ma noi possiamo trovare il modo per affrontarle. E che gli unici limiti sul nostro percorso sono quelli che mettiamo noi, e soltanto noi, nel momento in cui decidiamo che sono insuperabili. Può sembrare un paradosso, ma è esattamente quello che penso. E non stupitevi se mentre vi racconto la mia storia continuerò a dire vedo, oppure guardo; per me è normale. Per tanti è strano sentire queste parole da un cieco, e invece no; anche noi ciechi vediamo – a modo nostro, è chiaro. In fondo, ci sono molti modi per vedere. E se posso dirlo, io ho perso gli occhi, non la capacità di vedere. Anzi, dal giorno dell’incidente questa abilità l’ho persino migliorata. Perciò quello che ho vissuto non è una tragedia, ma una benedizione. Quindi, per tornare a quanto stavamo dicendo, la sconfitta è quanto di meglio possa capitarci. E per me, Oney Tapia, atleta paralimpico, la sconfitta coi fiocchi,
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la sconfitta con la S maiuscola, è quella ai Mondiali del Qatar nel 2015.
Doha, ottobre 2015 Chi non è mai stato in Qatar non sa che cos’è l’umidità. Appena arrivati, si ha la sensazione di qualcosa di strano: un caldo pazzesco, con 45 gradi all’ombra e un’umidità impressionante. Se nella Pianura Padana la gente si lamenta dell’afa, non sa quello che dice. Bisogna andare nel Golfo Persico per scoprire cos’è davvero il caldo umido. Ecco, sono atterrato a Doha da pochi minuti. Mi siedo nel pulmino che collega l’aereo al terminal arrivi, con l’aria condizionata che sarà più o meno a 3 gradi sottozero, poi esco all’aperto e di gradi ce ne sono quasi 50. Entro in albergo, e la musica non cambia. Fuori, un’afa esagerata; dentro, tutti i condizionatori spinti a manetta. Negli spazi comuni noi atleti siamo quasi costretti a girare con la giacca. Un giorno, nella speranza di ottenere una temperatura accettabile, ci mettiamo a protestare con la direzione dell’albergo. I tecnici che vengono a controllare, spengono di colpo l’impianto e spalancano le finestre. Immediatamente i vetri della sala da pranzo si appan-
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nano per lo sbalzo termico e l’umidità. Sento un brusio di stupore: dev’essere una scena da non credere! Naturalmente, dopo nemmeno dieci minuti arriva il capo dei servizi generali e fa una scenata ai suoi uomini, con il risultato che l’impianto di condizionamento riparte subito, con il freddo sparato a mille. E a noi non rimane che battere i denti e sperare di non fare la fine dei ghiaccioli. Questo è il mio arrivo in Qatar. Per un momento è proprio la sensazione fisica dovuta alla temperatura a catturare tutta la mia attenzione: quello strato di aria spessa che mi si attacca alla pelle ogni volta che esco all’aperto, insieme ai 50 gradi percepiti si trasforma in una morsa gigantesca che mi avvolge, mi stringe alla gola e mi rende faticoso anche respirare. Ma il corpo ha le sue risorse, lo so; la capacità di adattamento del nostro fisico è sorprendente. Quello che mi preoccupa invece è l’aspetto psicologico della faccenda, un pensiero che all’inizio è come una vocina che riesco a sentire appena, ma nel tempo diventa più insistente. Perché Doha è la mia prima esperienza con la nazionale italiana di atletica paralimpica; la federazione, la televisione e i giornali hanno cominciato a interessarsi ai miei risultati, e l’impressione che mi arriva forte e chiara è di essere sotto i riflettori. Ne sono contento, è ovvio, ma una parte di me è lì che se la fa sotto.
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Certo, c’è anche un’altra parte, decisamente più ottimista, che è gasatissima. Per quanto riguarda il lancio del disco, arrivo in Qatar con la migliore prestazione dell’anno. I 39 metri e 72 conquistati ai Campionati italiani a Cernusco sul Naviglio, pochi mesi fa, mi hanno spedito al primo posto del ranking mondiale. Allora cerco di far tacere quella voce che non vuole stare tranquilla, e penso: Oney, andrà tutto bene. Devi concentrarti. La cosa migliore è cominciare a lavorare, così io e il mio allenatore ci mettiamo subito all’opera. Guido Sgherzi è il tecnico che mi segue dal 2013 (cioè dagli inizi) e a cui devo moltissimo, perché mi ha tirato su da zero, in due anni mi ha insegnato a lanciare e mi ha fatto arrivare ai Mondiali, realizzando un’impresa importante, e tanto più incredibile se pensate che, prima di me, non aveva mai avuto a che fare con atleti disabili. Senza nulla togliere al lavoro con i normodotati, insegnare a chi non vede non è una passeggiata. Ma questo ve lo racconterò meglio più avanti. In allenamento tutto fila liscio, anche se il caldo è davvero tosto, e dobbiamo trovare una strategia di emergenza, perché non siamo abituati a lavorare in queste condizioni. Per esempio, sotto il sole i dischi si scaldano parecchio. Lo scopriamo il giorno in cui Guido
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mi fa muovere in pedana e mette i dischi a terra. Dopo qualche minuto si china a riprenderli e sento che fa un salto: «Oney, non toccarli: bruciano!». Io allora provo a sfiorarli, e sì, sento le dita ustionarsi. Bisogna trovare una soluzione. Facciamo una pausa e ci avviciniamo a uno dei distributori di acqua all’interno dell’impianto sportivo. Ci guardiamo intorno e, bum, ecco l’idea che stavamo cercando: prendiamo un paio di bottigliette, le usiamo per bagnare le nostre magliette, poi innaffiamo i dischi e li avvolgiamo nelle magliette per tenerli al fresco. Ce la caviamo con questo trucchetto, ma le temperature mettono in difficoltà un po’ tutti. Per esempio gli atleti amputati, quelli che corrono o saltano con le protesi, certi giorni si allenano con le lamine che sembrano fuoco vivo; i miei amici me le descrivono come lampi incandescenti. Alla fine delle sessioni di allenamento sento persino qualcuno che se le ritrova deformate per il caldo! Per fortuna le gare sono programmate nel tardo pomeriggio, quando l’aria si rinfresca e fa quasi freddo. Magari si comincia che il clima è ancora soffocante, ma poi si raggiunge quella temperatura che è una via di mezzo tra il caldo e il freddo, in cui si sta da dio. Il primo appuntamento per me è il getto del peso, categoria F11.
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Nel mondo paralimpico ci sono un sacco di sigle come questa; individuano i gruppi in cui ogni atleta viene classificato in base alla propria disabilità, o, se volete, alla propria specificità. Nel mio caso parliamo di F11, dove F sta per field, cioè il campo, dove si disputano i lanci, e l’11 si riferisce alla disabilità visiva. I deficit della vista si dividono in 11, 12 e 13, e queste sottocategorie rappresentano rispettivamente: quelli che non vedono niente o quasi (i ciechi come me); quelli che vedono poco (gli ipovedenti); quelli che vedono qualcosina in più (gli ipovedenti lievi). A seconda delle gare, poi, le categorie si possono combinare in modo diverso. Per esempio, in Qatar io gareggio sia nel peso sia nel disco, ma mentre il getto del peso è una gara mista, in cui si è tutti insieme, nel lancio del disco noi atleti F11 abbiamo una competizione e una classifica a parte. Allora al Mondiale parto proprio dal peso, e il mio risultato migliore è 12 metri e 45, una misura che mi frutta il tredicesimo posto. L’oro va all’ucraino Roman Danyliuk, che con 16 metri e 64 strappa anche il record del mondo nella categoria ipovedenti F12. Per vederla in maniera positiva, non è andata male: sono il secondo della mia categoria. Per vederla in maniera realistica, considerato che di ciechi assoluti siamo solo due, dire che sono il secondo significa anche che
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sono l’ultimo. Ma questa è una competizione mista, e il risultato ci sta tutto. Fra l’altro, sul peso so che posso migliorare ancora molto. Voglio però concentrarmi sul disco, perché quello è il mio obiettivo numero uno. Arriva il giorno della gara e le sensazioni sono positive; in allenamento ho fatto delle buone misure, in prova ho lanciato anche a 40 metri, con Guido lì a spronarmi: «Bene così, Oney… Grande!». Come sempre si parte dai tiri di qualifica. Nel disco ogni atleta ha a disposizione tre lanci, con i quali deve cercare di strappare la misura stabilita per entrare in finale. Oggi si tratta di raggiungere i 35 metri. Ripensando ai risultati che ho ottenuto quest’anno, mi dico: Si può fare! Quando però viene il momento, comincio a entrare in crisi. Nello stadio c’è molto rumore; intorno a me sento anche parecchio tifo, ma l’effetto è un caos che quasi mi stordisce. La confusione manda in tilt il mio GPS personale, quel sistema di riferimenti che ho dovuto ricostruire per tornare a muovermi nello spazio senza vedere. Non è la prima volta che mi succede. Dal giorno dell’incidente dentro di me è cambiato tantissimo l’equilibrio tra la vista e l’udito. Perdendo l’una, si è ampli-
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ficato l’altro, e questa è una cosa abbastanza naturale, anche se la sensibilità ai rumori che ho adesso è proprio esagerata. Devo imparare a gestirla meglio, altrimenti finisco k.o. Così, mentre mi preparo per la gara, mi dico: Oney, stai calmo. Respira. Ma vicino a me tutti urlano: «Dai, Oney! Vai, vai, vai!». E io mi ripeto: Stai calmo, Oney, ho detto che devi stare calmo, ok? E la gente: «Dai, Oney! Spacca!». Accidenti, tutte queste voci, dentro e fuori di me, stanno facendo a pugni. Io comincio a essere molto molto agitato. In realtà, quando viene il mio turno, mi pare di essere tornato calmo. Arrivo in pedana con Guido, perché nelle gare noi atleti F11 abbiamo sempre un accompagnatore. In questo caso è l’allenatore che mi porta dentro la gabbia e mi mette in posizione. Qualche volta mi dice anche qualcosa, magari mi dà un’indicazione per raddrizzare le spalle o per correggere la posizione dei piedi, oppure mi incoraggia, ma oggi non sento niente, sono come in trance. Ci sono ma non ci sono. Poi Guido lascia la pedana, e resto solo. A questo punto devo aspettare il segnale di gara, dopodiché toccherà soltanto a me tirare fuori il lancio e la misura.
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Impugno il disco, ma c’è qualcosa che non va, come se la situazione mi stesse sfuggendo dalle mani. Al primo lancio, il disco non riesce a uscire e rimane nella rete: risultato nullo. Uff! Guido viene a riprendermi e mi dice: «Stai tranquillo, Oney. Va tutto bene». Ma niente, anche al secondo lancio faccio un errore e anticipo il movimento; è uno sbaglio dettato dalla fretta, col disco che urta la rete della gabbia, viene deviato all’interno del settore di lancio e finisce il suo viaggio praticamente davanti ai miei piedi, a 8 metri e 63. La misura è uno schifo, diciamolo. Con una lunghezza così, a Doha non vado nemmeno a bere il caffè; altro che finale! Adesso sento che Guido è preoccupato. Se io sono in tilt, anche lui si sta agitando. In fondo è la prima volta al Mondiale per tutti e due. Nel frattempo David Casinos Sierra, il campione spagnolo, ha lanciato a più di 39 metri e ha messo la firma sulla finale. Sento che c’è una specie di consulto tra Guido e i tecnici della FISPES, la federazione paralimpica italiana. Qualcuno dice di farmi lanciare da fermo, per cercare di piazzare il risultato senza correre rischi. Alla fine siamo d’accordo, farò così. Ma la tensione è nell’aria, potrei tagliarla con il coltello.
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Lanciare da fermo significa che, anziché lavorare sulla rotazione che imprime al lancio tutta la carica e la spinta propulsiva, rimarrò statico, in modo da semplificare il più possibile il movimento. Ok, sono pronto, determinato: voglio buttare giù questa benedetta barriera che si è alzata tra me e la finale. Sento il segnale, mi preparo e lascio partire un lancio lunghissimo. La misura sarebbe anche buona, ma il disco ricade nettamente fuori dal settore. Ho sbagliato completamente la direzione. E va bene, con questo terzo tentativo nullo, finisco al quattordicesimo posto e posso dire addio alla finale e anche al Mondiale. Sento intorno a me lo sconforto e la sorpresa, e quando esco dalla pedana sono abbattuto, demotivato e arrabbiatissimo, non solo per il risultato. Percepire la delusione di Guido, sentirmi dire che non ho capito niente, che tutto finisce qui, mi fa andare il morale sottoterra. Mi viene in mente che soltanto pochi mesi fa ho dovuto gareggiare da solo, a Savona. Quella volta Guido non poteva venire, e io ho preso il toro per le corna. Sono andato in gara senza allenatore, ed è stato strano e difficile, perché se sei un atleta cieco l’allenatore non solo ti guida fuori e dentro la pedana, ma ti carica, ti sostiene, ti fa capire quello che sta succedendo durante la gara e ti corregge per migliorare il risultato. E questo
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avviene prima del lancio, ma soprattutto tra un lancio e l’altro, perché è un po’ come se lui diventasse i tuoi occhi; ti dice com’era il movimento, ti consiglia su quello successivo. Per esempio ti può dire: «Ora non muovere le spalle, entra con le anche». Oppure, al contrario: «Vai e dacci dentro, Oney, prova a entrare con le spalle, adesso, vai con le anche, metticela tutta». E poi l’allenatore decide quando iniziare a scaldarti, quando fermarti, quando metterti a provare il movimento, per non lasciar cadere la concentrazione. Ha un ruolo importantissimo! Eppure, se quella volta a Savona la difficoltà mi ha fatto tirare fuori un primo posto e un’ottima misura, a Doha il meccanismo si è inceppato. Dopo la premiazione, che incorona vincitore lo spagnolo Casinos, con 39 metri e 51, cala il gelo su tutto: su Doha, su di me e su questa gara finita in modo così amaro. Immaginate una tempesta di ghiaccio che congela tutto; una tempesta nel deserto, che si scatena, travolge ogni cosa, per poi lasciare il paesaggio immobile e silenzioso.
Una grande sfida È passato un giorno. Io e Guido ci parliamo appena. Siamo nella stessa stanza d’albergo, ma ci ignoriamo. Pro-
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babilmente ognuno vorrebbe essere da solo, altrove, e invece siamo qui, uno girato da una parte e uno dall’altra, e nemmeno ci guardiamo. Io credo che lui sia stato duro con me; forse l’ha fatto per darmi uno scossone e farmi reagire, ma il suo gesto mi ha ferito. Lo so, Guido è un tecnico eccezionale, ma è anche un uomo molto serio, a volte rigido, e di poche parole. Io lo rispetto moltissimo, anche se non sempre riesco a comprenderlo, devo essere sincero. Alla fine non ce la faccio più ed esplodo. «Tu dici che non ho capito» gli grido, «ma forse a non capire sei tu. Tu non hai capito proprio un cavolo di me, perché questo non è la fine di niente, è l’inizio.» Ed è vero. Questa sconfitta mi sta già dicendo tantissime cose: mi sta insegnando che da oggi in poi devo essere più pronto, più reattivo. Mi sta mostrando che devo imparare a mantenere i nervi saldi e la mente concentrata. Guido mi dice solo: «D’accordo, vedi tu». Poi torniamo a tenerci il muso. Passa un po’ di tempo, ed è lui a rompere il silenzio: «Dai, usciamo». Ma io gli rispondo che non ne ho alcuna intenzione. Gli dico: «Vai tu, Guido. Io sto qui». «Ma non si può, tra poco dobbiamo lasciare l’albergo» risponde lui.
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Allora, un po’ controvoglia, esco, anzi usciamo, e andiamo insieme sulla spiaggia. Ci mettiamo a passeggiare lungo la riva, e lì il ghiaccio si scioglie – è la parola giusta – perché l’acqua del mare è talmente calda che non si possono mettere dentro i piedi senza sentirli bollire. Ci sembra così strano, che quasi quasi ci viene da sorridere. Per un momento sento che una parte del peso che mi ha schiacciato in questi giorni scivola via; sulla spiaggia io e Guido riusciamo anche a parlare, a scaricarci un po’, e così ci prepariamo a tornare in Italia. Al mio arrivo a casa, però, sono punto e a capo. Vengo accolto da musi lunghi e fiumi di lacrime. Tutti sono dispiaciuti e delusi per la sconfitta di Doha. E io li capisco, sarà il loro modo di partecipare alla mia impresa, ma tutta questa negatività mi ricade addosso pesantissima. Di sicuro ho accusato la tensione, ma adesso è il momento di liberare il passato, di lasciarlo andare. Inutile rimuginare: quello che è stato è stato. Anzi, sapete che cosa c’è, ragazzi? Ho preso una batosta, non è la prima né l’ultima, ma la vita continua. Non ho bisogno di farmi coccolare da nessuno. Ripenso a mia mamma, che quando mi aspettava e mi sentiva muovere nella pancia, diceva a tutti: «Questo bambino non mi lascia tranquilla un momento, ha un’energia inesauribile, è proprio un guerriero». Perché
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sì, sono sempre stato in movimento, e ancora prima di nascere, pim pum pam, mi agitavo, tiravo colpi a destra e a manca, non stavo mai fermo. Poi, quando sono venuto al mondo, ero un torello, i miei parenti mi chiamavano melón (che a Cuba è l’anguria), perché ero grande, grosso e forte. Mi mettevo nei guai, ne combinavo di ogni, cadevo ma poi mi rialzavo sempre. Ecco, penso, anche stavolta farò così. Terrò a mente una cosa semplice ma importante, una cosa in cui credo moltissimo. Noi abbiamo il potere di cambiare la nostra giornata in ogni momento; noi abbiamo la possibilità di dare alla nostra vita il senso che andiamo cercando, perché questo senso non è fuori di noi, è dentro. E il primo passo per trovarlo è non mollare. Davanti a qualsiasi difficoltà bisogna provare, insistere e non arrendersi mai. Bisogna cadere per poi rialzarsi. Chi si arrende, perde prima ancora di cominciare. Bene, con questo pensiero nella mente pianto tutto e decido di tornare per un po’ a Cuba, il posto in cui sono nato e cresciuto; mi prendo una pausa per ripensare al mio percorso e fare il punto della situazione. Quando atterro all’Avana, sento subito un’aria diversa; mi dico che ho fatto bene a staccare, a mettere le distanze tra me e quello che è successo. Adesso ho bisogno di rielaborare.
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La prima cosa che faccio quando vado a casa è parlare con mia mamma. Le racconto tutto. Lei mi ascolta senza battere ciglio, poi rimane in silenzio per qualche minuto. Alla fine mi guarda e mi dice: «Oney, io non c’ero né al Mondiale né a casa quando sei tornato, ma vuoi sapere una cosa? Prova per un momento a mandare tutti a quel paese, te lo dico così, senza giri di parole. Vedrai che se lo fai, ti liberi da ogni rabbia e frustrazione, e poi sei pronto a ricominciare, più forte di prima. Nessuno te lo insegna, ma un campione deve imparare anzitutto a perdere. Vincere, se ci pensi, è molto più facile». Tutto verissimo. In fondo, quando si dice che la mamma ha sempre ragione, un motivo dovrà pur esserci, no? E credo che la mia con quelle parole abbia fatto centro. Rimango a Cuba con i miei amici e la famiglia; mi rilasso, ma trovo anche il tempo per riflettere. E per allenarmi. Non mi piace stare con le mani in mano, e allora lavoro sodo, prendo il disco, faccio un bel po’ di lanci. Quando torno in Italia, qualche settimana più tardi, vado da Guido e gli dico: «Sono qui. Sono pronto». E lui: «Ricominciamo, allora. Ripartiamo da zero». No, non è da zero che voglio ricominciare. Ci ho ragionato a lungo, e la mia intenzione è di mettermi sotto, far salire il ritmo, aumentare le ore di allenamento.
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Sento che si può fare, anche perché la botta che ho preso a Doha si è trasformata in grinta, in energia. Adesso sono arrabbiato, ma nel modo giusto, e il mio pensiero è rifarmi, migliorare, provare a tirare fuori tutto quello che nessuno ha ancora visto. Dico a Guido che voglio allenarmi di più. Per lui, però, è meglio che io non perda d’occhio i tempi di riposo. «Riposare è importantissimo per recuperare» mi risponde. Io invece sento che devo darci dentro come un matto, ho la sensazione che se passo il tempo a riposarmi, rischio di perdere un’altra occasione. Può sembrare una cosa strana, ma sto solo ascoltando il mio corpo, con cui parlo di continuo. Decido di fidarmi di quello che mi dice. Così parto con una determinazione d’acciaio e comincio ad allenarmi cinque giorni su sette, dal lunedì al venerdì, facendo anche dieci, dodici ore al giorno, tra stretching, pesi, palestra e lanci. Guido mi segue nei tre giorni stabiliti, mentre gli altri due li passo a lavorare da solo. Adesso mi sento motivato e pronto a lottare per quello che voglio. Sento che la crisi mi ha dato una marcia in più. Capisco, ancora una volta, che dalla difficoltà può nascere qualcosa. Mi rendo conto che devo dire grazie a Doha, perché senza la sconfitta non sarei qui, su questo nuovo percor-
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so di crescita; se non avessi preso quel colpo, adesso non potrei raccogliere una nuova sfida. Perché la sfida – l’ho imparato sulla mia pelle – è la vitamina più potente che ci sia, è l’ingrediente segreto che può spingerci ovunque vogliamo.
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Questo volume è stato stampato nel dicembre 2017 presso la Rotolito Lombarda - Milano