Tutti i soldi del mondo

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JOHN PE A R SON TUTTI I

SOL DI DEL

MONDO Traduzione di MASSIMO GARDELLA PAOLO LUCCA FLAVIO SANTI


ISBN 9788-88-6905-332-0 Titolo originale dell’edizione in lingua inglese: All the Money in the World © 1995, 2017 John Pearson Prima edizione: 1995 Macmillan, con il titolo Painfully Rich Nuova edizione aggiornata: 2017 William Collins An Imprint of HarperCollins Publishers Motion Picture Artwork © 2017 Columbia Tristar Marketing Group, Inc. All Rights Reserved. Traduzione di Massimo Gardella, Paolo Lucca, Flavio Santi Realizzazione editoriale: studio pym / Milano Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa edizione è pubblicata per accordo con HarperCollins Publishers LLC, New York, U.S.A. © 2017 HarperCollins Italia S.p.A., Milano Prima edizione HarperCollins dicembre 2017


A mia moglie Lynette, il cui amore vale piĂš di tutti i soldi del mondo



Il denaro è l’unica cosa che non verrà mai sottomessa. Finché c’è vita c’è denaro, o la brama di possederlo; ma bisogna avere la mentalità giusta per guadagnarlo, sempre a patto che la testa funzioni a dovere. Samuel Butler, Taccuini


George Franklin Getty = Sarah Catherine McPherson Risher (1852-1941) (1855-1930) Gertrude Lois (1880-1890)

Eugene Paul (Jean Paul, Jr.) (1932-2003)

Jean Ronald (1929-2009)

George Franklin II (1924-1973)

= Karin Seibl (sp. 1964)

= 1. Gloria Gordon (sp. 1951; div. 1967) = 2. Jacqueline Riordan (sp. 1971)

= 1. Gail Harris (sp. 1956; div. 1964) = 2. Talitha Pol (1940-1971) (sp. 1966)

Anne Catherine (n. 1952)

Caroline Marie (n. 1957)

Christopher Ronald (n. 1965)

Cecile Karin Margarita (n. 1970)

= Pia Miller

= Earhart

Stephanie Marie (n. 1967) = Alexander Weibel

Claire Eugenia (n. 1954) = 1. Mazzota = 2. Perry

Christina Therese (n. 1975)

Jean Paul III (n. 1956) = Gisela Martine Zacher (sp. 1974; div. 1993) Isabel Byron Perry

Sara

Somerset Perry

Nicholas Beau Maurizio George Getty-Mazzota (n. 1979)

Maria Theresa

Sebastian Perry

Paul Balthazar (n. 1975)

C


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Jean Paul (1892-1976) = 1. Jeanette Dumont (sp. 1923; div. 1927) = 2. Allene Ashby (sp. 1926; div. 1928) = 3. Adolphine Helmle (sp. 1928; div. 1932) = 4. Ann Rork (sp. 1932; div. 1936) = 2. Douglas Wilson = 5. Louise Dudley ‘Teddy’ Lynch. (sp. 1939; div. 1958)

Timothy Ware (1946-1958)

Gordon Peter (n. 1933)

Jr.)

Donna Wilson

= Ann Gilbert (sp. 1964)

71)

Gordon Peter, Jr. (n. 1965) = Shannon Bavaro (sp. 2017)

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Andrew Rork (n. 1967)

John Gilbert (n. 1968)

William Paul (n. 1970) = Vanessa Jarman (sp. 1999)

Tara Gabriel Galaxy Gramaphone (n. 1968) Aileen (n. 1957) = Christopher Wilding (sp. 1982)

Mark (n. 1960) = Domitilla Harding (sp. 1982)

Alexander Joseph

Caleb Wilding

Andrew Wilding

Julius

Natalia

Ariadne (n. 1962) = Justin Williams (sp. 1982)

August



Introduzione Jean Paul Getty morì a ottantatré anni dopo essersi sottoposto a tre interventi di lifting facciale, il primo a sessant’anni mentre l’ultimo, riuscito male, lo faceva sembrare fin troppo vecchio. Considerato l’uomo più ricco d’America ancora in vita, negli ultimi tempi voleva soltanto sentire Penelope che gli leggeva le storie d’avventura di ragazzi vittoriani del romanziere G.A. Henty. Penelope Kitson – che lui chiamava solo Pen – era una donna alta e avvenente, per più di vent’anni era stata la sua amica più intima oltre che amante, e leggeva bene nella sua voce schietta da aristocratica inglese quale era. Getty possedeva un’ampia raccolta delle opere di G.A. Henty, che forse lo aiutavano a immaginare la giovinezza audace che non aveva avuto, una vita di avventure reali che avrebbe desiderato condurre. Getty credeva nella reincarnazione ma era terrorizzato dalla morte. Convinto di essere stato l’imperatore romano Adriano in una vita precedente, e considerata l’esistenza agiata che aveva avuto in quella attuale, temeva di non essere così fortunato al terzo giro di giostra.

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Getty reincarnato come un portatore indiano, figlio degli slum più poveri di Calcutta? Era possibile che Dio avesse un senso dell’umorismo così perverso? Era una prospettiva da tenere in considerazione e che lo intimoriva. Il più giovane dei suoi figli ancora in vita volò a Londra dalla California, accompagnato dalla moglie, e cercò di convincerlo per giorni interi a tornare a casa con loro sul Boeing noleggiato. La casa in questione era la villa dei Getty a Malibù, affacciata sul Pacifico, ma il vecchio aveva paura di volare e da oltre vent’anni non metteva piede né a Malibù né sul suolo natio degli Stati Uniti. Poteva ancora considerarla casa sua? «Sai una cosa, Pen? Vogliono che torni laggiù perché credono che stia per morire» dichiarò con il suo accento del Midwest che sembrava conteggiare il prezzo di ogni sillaba, poi chiuse la discussione come avrebbe fatto un contabile con un conto corrente. J. Paul Getty, miliardario, non si sarebbe mosso di un centimetro. Si rifiutava persino di andare a letto. «A letto si muore» diceva, palesando l’intenzione di non morire se poteva evitarlo. Negli ultimi tempi viveva sulla poltrona, con uno scialle appoggiato sulle spalle. La morte è più ardua da affrontare per i ricchi che non per i poveri mortali, visto che i primi hanno molto più da perdere e da lasciare ai posteri; in questo caso, per esempio, l’imponente magione piena di spifferi. Costruita tra il 1521 e il 1530 da Sir Richard Weston, un cortigiano di Enrico VIII, Sutton Place era uno dei molti affari vantaggiosi conclusi da Jean Paul Getty, che l’aveva rilevata dal duca scozzese di Sutherland, in difficoltà economiche, nel 1959. Per lui rappresentava il concetto

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più simile a quello di una vera e propria casa, e nonostante i disagi e le scomodità amava quell’ammasso di mattoni rossi in stile Tudor, con le sue ventisette camere da letto, il salone in legno con tanto di palco per i musicisti, la fattoria nel terreno della proprietà e il fantasma che lo infestava (Anna Bolena, chi altri?), nella splendida cornice della campagna del Surrey a trenta chilometri di auto da Londra. Poi c’era il leone di Getty, Nerone, che ringhiava nella sua gabbia all’esterno. Il vecchio Getty lo amava moltissimo, per quanto potesse amare davvero qualcuno, e dal momento che lo nutriva di persona Nerone avrebbe sentito la sua mancanza. Dopo Nerone venivano le donne di Getty. «Jean Paul Getty è priapeo» dichiarò una volta Lord Beaverbrook per mettere in guardia la nipote, Lady Jean Campbell. «Cosa significa, nonno?» chiese lei. «Che è sempre pronto» rispose. Lo era sempre stato. Fin dalla sua giovinezza a Los Angeles le donne erano un lusso che il vecchio taccagno non si era mai negato. Come se l’era spassata negli anni d’oro! Giovani e meno giovani, grasse ed esili come modelle, majorette e duchesse, prostitute, celebrità ed esponenti dell’alta società. Fino a poco prima di morire assumeva dosi massicce di vitamine, oltre alla cosiddetta medicina del sesso, l’H3, per mantenere la virilità. Ma adesso era tutto finito, e a spingere le sue amanti a fargli visita a Sutton Place erano le voci sulla sua morte imminente anziché il sesso. Non le trattava con generosità, non più di quanto fosse generoso con se stesso. Era cortese con le donne, ma di rado si legava sentimentalmente per lungo tempo.

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Tutti quei soldi gli avevano dato la felicità? È abbastanza consolante il pensiero che i super ricchi traggano poca gioia dalle proprie fortune, e gran parte della indiscussa popolarità di Getty nasceva dall’aria afflitta che aveva imparato ad assumere per mostrarsi al pubblico. Come disse il famoso Claus von Bülow, ex amministratore delegato di Getty, sembrava sempre che stesse presenziando al proprio funerale. Ma l’astuto Claus aggiunse subito che dietro quella facciata uggiosa il suo capo si godeva appieno la vita, e che quel contrasto costituiva ciò che lui considerava il succo della commedia dell’intera esistenza di Getty. Magari il senso dell’umorismo di von Bülow era particolare, ma stando a lui Getty vedeva sempre il lato divertente delle cose. Forse era così, e non sapremo mai cosa trovasse di così divertente quel vecchio burlone nottambulo nelle placide notti del Surrey con in mano un registro di bilancio. Le sue fortune avevano raggiunto dimensioni surreali e, dal momento che quasi tutte le sue ricchezze erano investite meticolosamente per generare sempre più denaro, nemmeno Jean Paul Getty sapeva con precisione a quanto ammontasse il patrimonio. Basti sapere che all’epoca era equivalente al prodotto interno lordo dell’Irlanda del Nord, la terra dei suoi avi: più di quanto chiunque potesse spendere nell’arco di una vita per soddisfare i desideri più eccentrici. Avrebbe potuto donare a ogni uomo, donna e bambino degli Stati Uniti 10 dollari e sarebbe comunque rimasto ricco. Di certo era alquanto improbabile visto che, a differenza di John D. Rockefeller che abitualmente dispensava una moneta da dieci centesimi fresca di conio a

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qualunque bambino incontrasse, Jean Paul non era avvezzo a gesti di generosità disinteressata, punto e basta, anche se la sua celebre tirchieria non era proprio ciò che sembrava. «Ecco perché è così ricco» commentavano le persone. Ma avevano torto. Da sola, l’avarizia non sarebbe mai bastata ad ammassare nemmeno una porzione del suo patrimonio, e la spilorceria di Getty non era tanto la causa della sua ricchezza spropositata quanto il sintomo di qualcosa di più affascinante. In verità, Jean Paul Getty era un uomo appassionato che si era dedicato con tutto se stesso alla creazione di una fortuna incredibile, simile a un grande compositore che riversi la sua anima in una sinfonia. Il suo vero amore non erano le donne, quasi una presenza accessoria, ma il denaro, che invece non lo era, e lui si dimostrò un compagno fedele e romantico nel corso della relazione che ebbe per tutta la vita con la ricchezza, gelosamente accumulata per farla crescere ancora di più, in un periodo di oltre sessant’anni. La sua avarizia era un aspetto collegato a questo amore. Come poteva sopportare di gettare al vento l’oggetto di tanta adorazione? Come poteva sperperare quella incantevole solidità che, con l’avvicinarsi della morte, gli offriva le migliori speranze di raggiungere l’immortalità? Il benessere sconfinato gli aleggiava intorno come un’aureola, conferendogli caratteristiche divine non accordate ai mortali più poveri. Tramite il denaro era in grado di spostarsi di continuo in tutto il mondo, poteva permettersi le guardie private e i loro feroci pastori alsaziani a passeggio nel buio intorno alla sua residenza, le raffinerie di petrolio in funzione venti-

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quattr’ore su ventiquattro, le petroliere che solcavano oceani lontani e i pozzi di trivellazione che estraevano ricchezza dal fondale marino e dagli angoli più remoti dei deserti. Ma anche i poteri divini garantiti dalla ricchezza impongono dei limiti ai miliardari mortali, e non poté sottrarsi all’atto finale che lo attendeva. Era sempre stato un uomo tranquillo e solitario; così, la sera del 6 giugno 1976, ancora seduto sulla sua poltrona preferita, morì in silenzio e solo. La morte ha il potere di renderci piccoli, ed era strano che l’uomo più ricco d’America sembrasse tanto insignificante dopo essere spirato. In accordo con le sue ultime volontà, il corpo fu esposto nel salone di Sutton Place come un nobile dell’epoca Tudor. «Gli piaceva considerarsi John, duca di Sutton Place» commentò una delle sue amanti. Ma nonostante il suo immenso patrimonio non avrebbe potuto comprare il titolo di duca, e gli unici partecipanti alla veglia furono le guardie che accanto al catafalco controllavano che nessuno rubasse la salma. In seguito, sempre per rispettare le sue volontà, fu officiata una cerimonia commemorativa presso la chiesa anglicana di St Mark su North Audley Street, a Mayfair. Un evento che si svolse curiosamente in sintonia con il personaggio. Un altro duca (questa volta di Bedford) pronunciò un’orazione rivolgendosi a un’elegante congregazione che non versò una lacrima; solo uno dei figli ancora vivi di Getty, nonostante fosse afflitto dalle pesanti conseguenze dell’abuso di eroina e alcol, riuscì a presenziare; e il parroco non ricevette alcun compenso. Di certo non era colpa di Jean Paul, visto che aveva già compiuto il viaggio che lo spaventava così tanto

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– dentro una bara nella stiva di un Boeing diretto in California – e a quel punto il suo corpo era parcheggiato nella camera mortuaria nel cimitero di Forest Lawn a Hollywood, mentre la famiglia e le autorità di Los Angeles litigavano su dove seppellirlo. Ma, in un certo ambito, la forza vitale di quest’uomo imperscrutabile era ancora pienamente attiva: il testamento con le ultime volontà, puntualmente pubblicato dai suoi avvocati londinesi. Era un documento affascinante – sia per ciò che dichiarava sia per le estromissioni – che enfatizzò il mistero della relazione barocca tra il defunto, la sua enorme fortuna e i membri della sua famiglia molto frammentata. Il testamento è un’occasione per esprimere un giudizio sulle persone amate prima di affrontare la propria fine. Era un’opportunità apprezzata da Jean Paul, vissuto all’ombra del testamento di suo padre, risalente a mezzo secolo prima. E, proprio come suo padre, seppe sfruttarla appieno. Negli ultimi dieci anni di vita ogni volta che Lansing Hays, il suo canuto e pimpante avvocato inglese, volava da Los Angeles per incontrarlo, Getty aveva sempre qualche modifica da approntare a quel pauroso documento, c’era sempre qualcuno da aggiungere – o da togliere con rabbia – alla lista degli eredi. Getty era un uomo di spiccata precisione, e il testamento diventò l’espressione meticolosa dei suoi desideri. Non si era mai interessato in misura eccessiva alla gente comune, e la gente comune che faceva parte della sua vita ricevette misere briciole dalla tavola più ricca d’America. Léon Turrou, il fidato capo della sicurezza, e Tom Smith, il massaggiatore di origine indiana a cui Getty si affidò negli ultimi anni per alleviare i

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suoi dolori, dissero che aveva promesso di ricordarsi di loro ed entrambi restarono amareggiati scoprendo che invece li aveva dimenticati. I giardinieri di Sutton Place ricevettero l’equivalente di tre mesi di stipendio; il maggiordomo Bullimore, con la sua espressione vacua e solenne, ne ricevette sei; persino la sua fedele segretaria, Barbara Wallace, che per vent’anni era stata una sorta di mamma chioccia per lui, fu fortunata a ricevere 5.000 dollari. Lo ricorda con più generosità di quanta gliene abbia dimostrata lui: «Era fatto così. Gli volevo bene, ciò che conta non sono i suoi soldi ma l’esperienza di aver lavorato con il personaggio più straordinario che abbia mai conosciuto». Con altri fu ancora meno caritatevole, visto che sfruttò il testamento per puntualizzare ciò che pensava delle donne presenti nella sua vita. Alla casta signorina Lund, suo avvocato, destinò 200 dollari al mese, forse per ribadire le sue considerazioni sulla castità. D’altro canto, alla poco casta Rosabella Burch, nicaraguense, spettò poco di più, quindi è possibile che le ragioni di Getty fossero diverse. L’unica amica di Getty che non poté lamentarsi fu la signorina Kitson, che ricevette azioni della Getty Oil per un valore di 850.000 dollari. Quando all’inizio degli anni Ottanta il valore della società raddoppiò, lei fu l’unica persona al mondo a diventare milionaria per avere letto le storie di G.A. Henty. La frugalità di questi lasciti testamentari era del tutto in linea con il personaggio e probabilmente era pensata per sottolineare il grande stupore contenuto in questo documento molto ponderato. Infatti, con un insolito gesto di profonda magnanimità, Jean Paul Getty

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aveva stabilito di sbarazzarsi di tutto il suo patrimonio personale, incondizionatamente e senza alcuna riserva. Era sempre stato un uomo capace di sorprese astute e non aveva mai fornito alcun indizio a nessuno, a parte Lansing Hays, su come avrebbe aperto i rubinetti della sua enorme ricchezza a beneficio di un unico, insospettabile beneficiario: il modesto J. Paul Getty Museum a Malibù, che aveva plasmato poco alla volta e senza clamore nella sua villa ma non aveva mai osato visitare. In termini museali l’eredità di Getty era vasta. Alla sua morte il patrimonio personale ammontava a circa un miliardo di dollari (calcolando l’inflazione attuale oggi sarebbe il doppio). Con questo denaro, il curioso museo che aveva meticolosamente creato come un’antica villa romana sulla riva del Pacifico si trasformò dalla sera alla mattina nell’istituzione più facoltosa della sua categoria nella storia moderna. Stando a Norris Bramlett, assistente personale di Getty: «Il museo incarnava la sua speranza di diventare immortale. Desiderava che il nome Getty fosse ricordato fino alla fine della civiltà stessa». Inoltre, come sapeva bene, rappresentava un modo di disporre di un capitale cospicuo senza incorrere in tasse. In California il museo era considerato un ente benefico e, a patto che i direttori spendessero su base annua il 4 per cento del capitale per nuove acquisizioni, il fisco degli Stati Uniti non avrebbe tassato quel denaro. Getty era sempre stato un accanito oppositore delle tasse e, a differenza dei cittadini più poveri che la pensavano come lui, le aveva pagate solo di rado. Al di là di questi fatti, il testamento non forniva alcuna spiegazione sulle ragioni per cui aveva deciso di disporre in questo modo dei propri soldi, né del perché

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i direttori del museo non avessero restrizioni su come spenderli. Quando Armand Hammer, il petroliere rivale di Getty, istituì il suo museo ben più piccolo a Los Angeles, lasciò disposizioni precise fin nei minimi dettagli. Il barone dell’acciaio Henry Clay Frick era quasi riuscito a imporre legalmente che nessuno potesse toccare l’aspidistra nell’atrio della Frick Collection a New York – figuriamoci un dipinto. Invece, se gli amministratori fiduciari del J. Paul Getty Museum avessero deciso, nella loro infinita saggezza, di vendere all’improvviso l’intera collezione e usare i proventi per aprire un museo della bicicletta, il J. Paul Getty Museum sarebbe irrevocabilmente diventato un museo della bicicletta. Se da una parte il testamento gettava poca luce sulle motivazioni che spinsero Getty a disporre di tutto il suo patrimonio in questo modo, dall’altra lasciava nell’ombra un mistero ancora più intrigante: il destino finanziario dei membri della sua famiglia o, come lui preferiva chiamarla, la dinastia Getty, composta da figli e nipoti di tre dei suoi cinque matrimoni falliti. Visto che nel testamento erano citati a malapena, che ne sarebbe stato di loro? Se n’era semplicemente dimenticato oppure li aveva diseredati tutti in blocco? Quando gli archeologi scoprivano le tombe dei faraoni più ricchi, a volte dietro la camera mortuaria trovavano un’ulteriore stanza, piena di manufatti ancora più splendidi che contenevano lo spirito del defunto. Accadde qualcosa del genere anche con i soldi lasciati da Jean Paul Getty: in linea con l’indole furtiva, alle spalle della fortuna personale lasciata in eredità al museo, ne aveva costruita una persino maggiore attraverso un fondo non contemplato dal suo testamento. Questo fondo immenso era sempre stato completa-

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mente separato dal patrimonio personale di Getty e nel corso della sua vita si era accresciuto grazie alle vincite della partita segreta che aveva giocato con il mondo per oltre quarant’anni. Su questo fondo aveva depositato ingenti somme di denaro che, in base al complesso regolamento di questo gioco, alcuni discendenti avrebbero ereditato… mentre altri, con grande clamore, no. Sebbene questo avesse soddisfatto i propositi di Jean Paul Getty di creare una specie di salvadanaio a prova di tasse, in origine era stato creato come un cosiddetto fondo antisperpero allo scopo di placare Sarah, la sua temibile madre, che lo conosceva così bene da diffidare delle sue intenzioni. Fu grazie alle sue insistenze che il fondo venne istituito a metà degli anni Trenta, per proteggere gli interessi finanziari dei nipoti da ciò che lei considerava l’attitudine da scialacquatore di Getty, e per questo era intitolato a suo nome: Sarah C. Getty Trust. Era piuttosto strano proclamare pubblicamente il tirchio più ricco d’America come uno scialacquatore. Ancora più strano era l’atteggiamento quasi ossessivo con cui Paul si prodigava per aumentare il deposito del fondo, generando così un ammasso prodigioso di denaro esentasse. Quando infine fu suddiviso tra i beneficiari nel 1986, ammontava a più di 4 miliardi di dollari (e da allora il capitale è più che raddoppiato). Era plausibile pensare, come probabilmente fece Sarah, che il fondo antisperpero avrebbe assicurato ai suoi discendenti i vantaggi e i piaceri offerti dalla ricchezza lungo tutto il corso tortuoso delle loro vite: liberi da ansie e preoccupazioni, avrebbero potuto permettersi il meglio di ogni cosa, amici fidati e – possiamo dirlo? – felicità. Assolutamente no!

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Il grande mistero irrisolto della fortuna di Getty riguarda le ragioni per cui – almeno in apparenza – ha devastato così tanti dei suoi beneficiari. Perché questo immenso bacino di ricchezza si è rivelato non solo la più cospicua ma anche la più devastante fortuna dei nostri tempi? E perché – mentre milioni di persone muoiono dalla voglia di arricchirsi e altri milioni tendono a schiavizzarsi, tramano, uccidono, sgobbano e si sottomettono solo per ottenere una briciola di tutti quei soldi – una cosa piacevole come la sicurezza del denaro ha portato tanta miseria e distruzione agli eredi di Getty? Le perdite umane cominciarono a sommarsi quand’era ancora in vita. Un figlio si suicidò tre anni prima della sua morte. E un altro sembrava deciso a seguire lo stesso destino a causa della dipendenza da alcol ed eroina. Un terzo figlio, diseredato fin dall’infanzia, aveva sviluppato un rancore crescente verso il padre per via del trattamento che gli aveva riservato. Solo il quarto figlio, il più giovane, conduceva quella che potrebbe essere definita una vita normale e piena, a patto però di non occuparsi né della Getty Oil né delle altre attività di suo padre. Quando il vecchio morì, la sventura cominciò ad abbattersi sulla generazione successiva. Il nipote più grande di Getty era stato sequestrato dalla mafia italiana; in quell’esperienza perse l’orecchio destro, poi si imbarcò in un’esistenza a base di droga, alcol e dissolutezza che alla fine lo avrebbe distrutto quasi completamente. Sua sorella, in seguito, contrasse l’Aids. Negli anni successivi alla morte di Jean Paul Getty la sua famiglia sembrò in più di un’occasione intenta ad autodistruggersi, con uno scontro in tribunale tra fratel-

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li che avanzavano diritti sulla vasta e velenosa eredità. Come dichiarò un giornalista, negli anni Ottanta il nome Getty diventò «sinonimo di famiglia disfunzionale». Le grandi fortune possono avere effetti devastanti sugli eredi, di solito ricoprendoli di denaro fin dalla giovinezza. Nel caso dei Getty, la concentrazione di denaro non fu mai alla base delle miserie che colpirono la famiglia. Nessuno dei figli di J. Paul Getty crebbe nel lusso sfrenato, e nemmeno con l’aspettativa di ereditare un patrimonio enorme. E così i suoi nipoti. Anzi, avvenne il contrario. Balzac, affascinato dai patrimoni ingenti e dal loro effetto disastroso sulle famiglie di nouveaux riches nella Francia del Secondo impero, scrisse che dietro ogni grande fortuna si nasconde un crimine. Ma questa famiglia sarebbe riuscita a sorprendere persino lui. Anche se la creazione del patrimonio dei Getty poteva celare traffici illeciti o affari sporchi, non si poteva imputare a loro alcun reato, e di certo nessun vero e proprio crimine. Tuttavia c’era un aspetto più intrigante, che Balzac avrebbe adorato: la personalità infinitamente complessa di Getty stesso. La storia della sua fortuna, in sostanza, è la storia della sua vita, e le contraddizioni e ossessioni di questo californiano eccentrico svolsero sempre un ruolo cruciale nel suo successo. Rivestirono una parte ancora più importante nella sua problematica eredità, al punto che quanto capitò a figli e nipoti diventò parte integrante del suo lascito. Per alcuni di loro significò la distruzione mentre altri, sebbene con profonde cicatrici, riuscirono a venirne a patti; gli eredi più giovani delle generazioni successive, fin troppo consapevoli di ciò che era successo in passato, stanno cercando di compensare i pericoli per il futuro.

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Il modo in cui tutto questo si è svolto costituisce una cronaca straordinaria dell’effetto di una mole immensa di denaro su un gruppo di esseri umani molto vulnerabili. Per comprendere come sia potuto accadere, è necessario partire dalle strane origini di questa fortuna, e dalla personalità del puritano solitario, spaventato e donnaiolo che si prodigò per diventare l’uomo più ricco d’America.

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Ringraziamenti Scrivere un libro che racconta una storia complessa come quella dei Getty significa contrarre debiti di enorme gratitudine per la generositĂ di quanti hanno messo a disposizione il proprio tempo e ricordi per renderlo possibile; oltre a ringraziare Gordon Getty per il permesso di utilizzare una citazione da una sua poesia a pagina 335, e E.L. Doctorow per la citazione da Ragtime a pagina 115, vorrei ringraziare le seguenti persone per aver parlato con me: Aaron Asher, Adam Alvarez, Brinsley Black, Michael Brown, Lady Jean Campbell, Josephine Champsoeur, Craig Copetas, Penelope de Laszlo, Douglas e Martha Duncan, Harry Evans, Malcolm Forbes, Adam Frankland, Lady Freyberg, Stephen Garrett, Gail Getty, Gordon Getty, Mark Getty, Ronald Getty, Christopher Gibbs, Judith Goodman, Lord Gowrie, Dan Green, Priscilla Higham, James Halligan, il dottor Timothy Leary, Robert Lenzner, Donna Long, Duff Hart Davis, John Mallen, Russell Miller, Jonathan Meades, David Mlinaric, il giudice William Newsom, Juliet Nicolson, Geraldine Norman, Edmund Purdom, John Ri-

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chardson, John Semepolis, June Sherman, Mark Steinbrink, Claire Sterling, Alexis Teissier, Lord Christopher Thynne, Bridget O’Brien-Twohig, Vivienne Ventura e Jacqueline Williams. Sono grato anche a Paul Shrimpton, il bancario più gentile che esista, per avere gestito con compassione rara il mio conto scoperto; Julie Powell, il mio genio informatico locale, per avermi salvato quando WordPerfect ha smesso di funzionare; Oscar Turnhill per avere verificato i fatti e controllato la punteggiatura; Edda Tasiemka del miracoloso Hans Tasiemka Archive per aver recuperato servizi giornalistici di cui nessun altro conosceva l’esistenza. Grazie a Ted Green per essere stato come sempre presente nel momento del bisogno e alla mia moglie perfetta, Lynette, la mia fonte di ispirazione e consolazione, per aver sopportato la terribile povertà mentre scrivevo dei super ricchi. J.P.


Indice

Introduzione 11

parte prima

1. Padre e figlio 2. Un’infanzia solitaria 3. Il primo milione di dollari 4. Febbre coniugale 5. Il segreto di Getty 6. Fiducia materna e fondi fiduciari 7. Il boom 8. Guerra e Zona neutrale 9. Paternità

27 35 50 57 68 75 90 101 117

parte seconda

10. L’uomo più ricco d’America 11. La dolce vita 12. Nuovi inizi 13. Matrimoni romani 14. Vittime

135 149 166 182 196


15. Rapimento e riscatto 16. La dinastia 17. Piaceri postumi

214 256 274

parte terza

18. Dalle droghe al coma 19. La rinascita 20. Gordon il pacificatore 21. Cavaliere dell’Impero britannico 22. Wormsley 23. Aileen 24. I superstiti 25. Il cerchio si chiude

293 310 320 336 356 370 385 409

419 Post scriptum Post scriptum all’edizione del 2017 422 Ringraziamenti 427


Questo volume è stato stampato nel novembre 2017 presso la Rotolito Lombarda - Milano


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