Hyperkulturemia #15 Ago-Oct

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AUG - SEP - OCT 2018


FRANK LLOYD WRIGHT E L’ARCHITETTURA ORGANICA Alessandro Arcioni Studente della Laurea Magistrale in Storia delle Arti e Conservazione dei Beni Artistici, Università Ca’ Foscari Venezia, Italia QUANDO I VIAGGIATORI ANDAVANO ALLA RICERCA DEL PRIMITIVO Eleonora Erriu Laureata in Beni Culturali e laureanda in Economia e Gestione delle Arti e delle Attività Culturali Cagliari, Sardegna

EL ARTISTA QUE DOTÓ DE ALMA A LOS SOMBREROS Begoña Ibáñez Doctora en Historia del Arte Granada, España

FOR THE TIME BEING Caroline Ellen Liou Art historian and curator Los Angeles, CA, USA

GLI ABITI DI MARIA ANTONIETTA Alessia Nardi Mediatrice Culturale e Operatrice di didattica museale Firenze, Italia

DEPARTMENT STORES OR ART MUSEUMS? Chiara Villa Intern at Lux Vide for the scenography department of the third season of the tv series ‘Medici: Masters of Florence’ Rome, Italy


AUG-SEP-OCT 2018

Begoña Ibáñez Doctora en Historia del Arte Granada, España Eleonora Erriu Laureata in Beni Culturali e laureanda in Economia e Gestione delle Arti e delle Attività Culturali Cagliari, Sardegna

Alessandro Arcioni Studente della Laurea Magistrale in Storia delle Arti e Conservazione dei Beni Artistici, Università Ca’ Foscari Venezia, Italia

Caroline Ellen Liou Art historian and curator Los Angeles, CA, USA

Alessia Nardi Mediatrice Culturale e Operatrice di didattica museale Firenze, Italia

Chiara Villa Intern at Lux Vide for the scenography department of the third season of the tv series ‘Medici: Masters of Florence’ Rome, Italy




Mulier Occultata Metaxù Project Un pomeriggio fui ispirata dalle parole dello scrittore, Alejandro Jodorowsky. Egli scrive: "Chiudete gli occhi e ricominciate." Ho chiuso gli occhi nelle ore successive e davanti ai miei occhi è apparsa questa figura, una donna nascosta da un iris. Un'immagine che vuole essere una forma di denuncia contro l'eccessiva importanza che diamo oggi all'immagine estetica - argomento che mi sta molto a cuore. La donna si fonde quasi con l'iris che simbolicamente rappresenta il trionfo della verità e la promessa della speranza; insieme sostano al di là di un cerchio che è emblema di perfezione senza principio né fine. Siamo semplici esseri umani, figli della terra, che nell'attaccamento morboso all'immagine cercano approvazione all'interno del microcosmo che viviamo senza capire che c'è un mondo reale pronto ad accoglierci con amore, semplicemente per quello che siamo, come un cane cieco che ama indistintamente il suo padrone. Questo per me rappresenta un pensiero positivo per “ricominciare". Chiara Fontana


FRANK LLOYD WRIGHT e l’architettura organica


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Continua la rubrica di Alessandro Arcioni, studente di Storia delle Arti e Conservazione dei Beni Artistici, dedicata a Frank Lloyd Wright. Non perdere i prossimi numeri di Hyperkulturemia per scoprire il maestro dell’architettura contemporanea! Frank Lincoln Wright nasce l’8 giugno 1867 a Richland Center, nel Wisconsin, da Anna Lloyd Jones, maestra elementare, e William Carey Wright, musicista e pastore metodista. Dopo la fondazione del movimento degli unitariani in Galles (1726), la famiglia della madre, di origine celtica, decide, come molti altri assieme a loro, di emigrare in America (1844) in cerca di maggiore libertà e con la speranza di un nuovo inizio. Gli stretti legami familiari sui quali è strutturata la società celtica, nonché la particolare concezione filosofico-religiosa con la quale i Lloyd Jones riescono a plasmare la visione del mondo del giovane architetto, saranno poi alla base della sua decisione di cambiare il proprio nome da Frank Lincoln Wright a Frank Lloyd Wright, divenendo così a tutti gli effetti membro del clan. Sebbene cresca tra la lettura delle opere di Emerson, Thoreau, Göthe, Hugo, Blake, Ruskin, Viollet-le-Duc e Jones (solo per citare i nomi più importanti) e le musiche di Bach, Beethoven, Schubert e Mendelssohn – tutto ciò, lungi dall’essere dimenticato, andrà anzi a costituire il nucleo centrale della sua personalità e della sua particolare concezione architettonica – la sua carriera era però già stata determinata: Frank Lloyd Wright sarebbe dovuto diventare architetto,

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così aveva stabilito la madre. L’educazione che Anna Lloyd Jones decide di impartire al figlio è infatti basata sulla teoria pedagogica dei “doni” o giochi froebeliani: strumenti di apprendimento tramite i quali poter sviluppare una prima percezione spaziale e tattile. Inoltre, con la speranza forse di agire a livello del subconscio, Anna decide di appendere alcune incisioni di antiche cattedrali inglesi sopra la culla del figlio. Così, Frank Lloyd Wright diventa architetto. Un primo avvicinamento alla materia si ha nel 1886 quando al giovane Wright è concesso di partecipare alla supervisione dei lavori di costruzione della Unity Chapel, realizzata presso Spring Green (Wisconsin) – “The Valley of the God-Almighty Joneses”, così era conosciuto quel luogo – dall’architetto di Chicago Joseph Lyman Silsbee, presto suo primo datore di lavoro. Nel gennaio di quell’anno (1886) Wright decide così di iscriversi alla Facoltà di Ingegneria Civile dell’Università del Wisconsin ma già nel 1887 egli lascia la città alla volta di Chicago. Qui, dopo un breve periodo di formazione presso lo studio di Silsbee, Wright entra a lavorare nello studio di Dankmar Adler e Louis H. Sullivan, ove rimane fino al 1893. Dopo il terribile incendio dell’aprile 1871, la città è in pieno

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fervore di ricostruzione e rinascita; per un architetto come lui, quindi, il lavoro non manca. Assieme ad Adler e Sullivan, Wright viene infatti coinvolto nella progettazione di alcuni tra i più importanti edifici dell’America di quel tempo: l’Auditorium Building (1886-1890) – inizialmente Wright avrebbe dovuto lavorare solo sui disegni degli interni per l’auditorium ma, ben presto, viene affidata a lui anche parte del progetto decorativo, funzionale e acustico dell’edificio –, la tomba per Carrie Getty (1890) e quella per Charlotte Wainwright (1892), il Wainwright Building (1890-1891) a Saint Louis, il Tr a n s p o r t a t i o n B u i l d i n g p e r l’Esposizione internazionale di Chicago (1893), lo Union Trust Building (1892-1893) e lavora anche alle prime fasi di progettazione dell’edificio per la Borsa di Chicago. Ma questi non sono gli unici progetti realizzati da Wright in un momento così proficuo. Oltre al lavoro “a tempo pieno” in studio, egli realizza infatti anche tutte le case private di abitazione che Adler e Sullivan non possono rifiutare a causa di obblighi sociali con clienti importanti: una fra tutte, la James Charnley House (Chicago, 1891-1892). Dovendo mantenere la propria famiglia, a partire dal 1890 egli decide di accettare anche l’incarico per altri progetti «clandestini»28 di abitazioni;

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tra questi figurano, per esempio, la Allison Harlan House, la George Blossom House (1893), la Warren McArthur House, la Robert Parker House, la Thomas Gale House (1893) e la Robert Emmond House. Tutte queste case condividono un aspetto esterno relativamente sobrio e tranquillo, mentre l’organizzazione degli spazi interni è spesso molto innovativa e dinamica; abbandonati ormai gli stili storici, questi rappresentano i primi esempi di quello che diventerà un modello destinato a durare per tutta la carriera di Wright. Ma tali progetti «clandestini» sono anche la causa della rottura del sodalizio lavorativo; nel 1893 Frank Lloyd Wright lascia infatti lo studio di architettura di Adler e Sullivan. Del suo “Lieber Meister”, l’amato maestro (come lui era solito chiamare Sullivan), Wright porterà però sempre con sé numerosi insegnamenti: la concezione della natura come fonte delle forme architettoniche, il modo di concepire la decorazione come manifestazione e fusione di natura e cultura (entrambi, non a caso, avevano letto The Grammar of Ornament di Owen Jones), il ruolo della macchina – mentre gli appartenenti al movimento delle Arts and Crafts di William Morris consideravano la tecnologia come fattore disumanizzante, Sullivan e Wright la ritengono invece uno strumento

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essenziale per liberare l’individuo dalla dura schiavitù del lavoro ripetitivo29 –, la necessità di esplorare le possibilità offerte dai nuovi materiali, la continua ricerca di uno “stile americano” contro l’ormai logora riproposizione dei cosiddetti “stili storici”, nonché la passione per la cultura orientale e primitiva oltre a un certo gusto per l’esotico. Al funzionalismo di Sullivan però, secondo il quale «la forma segue la funzione»,30 Wright replica sostenendo invece che «forma e funzione sono una sola e unica cosa; la struttura dell’edificio, i materiali e i sistemi di costruzione devono quindi amalgamarsi per creare un tutto organico, adatto alle esigenze umane».31

Nel 1889, dopo essersi sposato con la giovane Catherine Tobin, Wright si trasferisce a Oak Park, non lontano da Chicago; qui, modificando più volte il progetto iniziale, decide di costruire la propria casastudio. La facciata, un enorme frontone piramidale interamente rivestito di assi di legno, troneggia sopra l’ingresso rientrato, il tutto appoggiato su un basamento in pietra e protetto dal parapetto del terrazzo. Al suo interno, la casa è costituita da quattro spazi principali posti al piano inferiore: l’entrata con le scale, il soggiorno, la sala da pranzo e la cucina, il tutto inscritto all’interno di una

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pianta quadrata con al centro, come fulcro tanto fisico quanto spirituale, il focolare – concezione, quest’ultima, alla base anche dell’architettura domestica tradizionale giapponese. Mentre l’esterno appare chiuso e solido, quasi monumentale, all’interno Wright decide invece di rimuovere gran parte delle pareti che normalmente separavano le stanze principali: un accenno a ciò che diventerà, più tardi, la pianta aperta. 32

Dopo un primo ampliamento nel 1893, Wright decide di apportarne un secondo (1895-1897): il suo studio, un vasto ambiente di lavoro dove svolgere la propria attività. Poiché esso costituisce di fatto una “aggiunta” rispetto alla struttura iniziale, trasmette l’idea di un’architettura percepita come opera aperta, non finita e sempre potenzialmente modificabile, vivente: un’architettura “organica”. Caratteristica della costruzione è poi la “plasticità”, ottenuta inglobando gli arredi e le decorazioni alle superfici murarie di ogni ambiente. Anche le fonti di luce naturale giocano infine un ruolo fondamentale: grazie alle aperture superiori e laterali, la luce penetra inondando e plasmando lo spazio interno.33 Dopo cinque anni di lavoro con Adler e Sullivan, nel 1893, mentre a Chicago aveva luogo l’Esposizione universale colombiana, vero e proprio terreno di scontro tra i due indirizzi “indigeno” e “classico” dell’architettura americana, Wright apre il proprio studio. Primo cliente sarà William H. Winslow, per il quale l’architetto realizza la William H. Winslow House (1893-1894).

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Anche in questo caso è il camino a fungere da centro attorno al quale ruota lo spazio interno: l’ingresso, il soggiorno, la sala da lettura e la sala da pranzo; il tutto culminante nel bow-window semicircolare di quest’ultima, con la sua fascia continua di finestre in vetro piombato. L’importanza conferita allo spazio del focolare testimonia quindi, nuovamente, l’influenza esercitata su di lui dall’architettura del Sol levante: la traduzione del tokonoma, elemento costante di ogni interno giapponese nonché fulcro della contemplazione e del cerimoniale domestico, nel suo corrispettivo occidentale, il camino.34 La facciata in mattoni levigati presenta poi una striscia orizzontale ornamentale di piastrelle in terracotta – testimonianza della persistenza in Wright della lezione del suo Lieber Meister (si veda, come esempio, la Tomba Getty) – che, assieme al tetto aggettante e poco inclinato, funge da elemento anticipatore di quello che diventerà, di lì a breve, il suo stile maturo, il Prairie Style.

dimensioni e ottimizzarne l’organizzazione, limitare il numero delle stanze cercando di riunire le diverse attività familiari e creare una unione tra mobilio e decorazione interna; un ideale di architettura capace quindi di coniugare l’utile al bello. D’ora in avanti, la filosofia da perseguire sarà l’”architettura della ritrattistica”: come sostiene Wright, «ci dovrebbero essere tanti tipi diversi di case quanti sono i diversi tipi di individui, perché dovrebbe essere l’individualità dell’occupante a fornire il carattere e il colore dell’edificio».36 É questo infatti il caso delle principali Prairie House quali, per esempio, la Susan Lawrence Dana House (1902), la Ward W. Willits House (1901-1903), la Darwin D. Martin House (1903-1904), la Frederick C. Robie House (1907-1909) e la Avery Coonley House (1907-1908).

Si sviluppa così un nuovo concetto di abitazione: l’idea di integrarla con il paesaggio circostante, semplificare la forma del tetto – «Ero convinto che i piani orizzontali negli edifici, i piani paralleli alla terra, si identificassero con il terreno, facessero sì che l’edificio appartenesse al terreno» 35 –, portare all’interno la luce naturale, ridurne le

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Nel 1902 la ricca ereditiera Susan L. Dana commissiona a Wright la costruzione della propria casa presso Springfield, nell’Illinois. Le stanze della Susan L. Dana House sono completamente aperte l’una dentro l’altra, facilitando così gli incontri e un’esperienza condivisa degli spazi; è la rottura della scatola edilizia e la conquista dello spazio vissuto: «un’architettura che nasce dal profondo fascino che attrae le persone verso gli altri, un’architettura che riconosce la passione, la carnalità e la socialità».37 Anche per questa casa è sempre Wright a disegnare tutto, dal progetto dell’edificio alle decorazioni interne, dal mobilio alle particolari lampade “a capanna” fino ai vetri, realizzati poi con il metodo della “elettrovetratura” (rame e vetro insieme)38 – si veda, come esempio, il raffinato motivo a farfalla che decora la porta d’ingresso.

probabile tentativo di replica (o, forse, omaggio) in muratura della vegetazione presente dentro e fuori dalla casa. Anche nella Darwin. D. Martin House la luce del sole filtra attraverso una successione di finestre a piombo decorate con particolari motivi geometrici e floreali e viene riflessa dalla foglia dorata modellata nei punti di giunzione orizzontali dei mattoni. Assai caratteristiche, infine, sono le lampade “a clessidra”, piramidali e a forma di globo (queste ultime tenute sospese, quasi attanagliate, da una struttura metallica) che ornano tavoli e pareti dell’abitazione. Paragonata a una nave a vapore, a causa dell’insieme di masse orizzontali parallele in scorrimento che abbracciano il terreno,39 la Frederick C. Robie House viene realizzata a Chicago nel 1909. Costruita per Frederick

Del 1903 è invece la Darwin D. Martin House, residenza privata progettata a Buffalo per Darwin D. Martin, direttore della Larkin Company. Il complesso, costituito da quattro strutture indipendenti (edificio abitativo, giardino d’inverno, garage e stalla) collegate tramite una galleria, si articola su una pianta disegnata con una serie di padiglioni cruciformi; anche in questo caso, infatti, la pianta a croce viene riproposta da Wright per consentire ai quattro bracci di aprirsi su tutti i lati, fornendo così più visuali del paesaggio circostante. L’interno dell’edificio, decorato come l’esterno da una tessitura di mattoni a vista, presenta poi un intreccio di pilastri e travi,

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Robie, fondatore e presidente della Excelsior Manufacturing Company, essa risulta famosa soprattutto per il suo unico grande spazio, con il soggiorno e la camera da pranzo separati solo da un camino e con porte a vetri a tutta altezza che corrono lungo tutto il lato sud della stanza, nonché per il suo audace tetto a sbalzo sporgente a est e a ovest, la cui struttura è realizzata con travi d’acciaio nascoste. Tale straordinario progetto non trascura neppure l’efficienza energetica: il 21 giugno, il giorno più lungo dell’anno, il sole viene infatti schermato dal tetto e lambisce soltanto il bordo della porta a vetri rivolta verso sud, mentre il 21 dicembre, il giorno più corto dell’anno, il sole entra liberamente attraverso la sala da pranzo e il soggiorno, scaldando il pavimento in cemento.40

«Nelle sue architetture riconosco l’espressione di un principio».41 Per questo motivo Avery Coonley decide di affidare a Frank Lloyd Wright la progettazione del suo edificio abitativo: la Avery Coonley House (1907-1908). In tale occasione, l’architetto propone di trasferire l’intera zona giorno al piano superiore dove le stanze, costruite come padiglioni, sono protette dalle superfici ripiegate del tetto. Visto l’interesse della signora Coonley nei confronti delle novità nel campo dell’educazione, nel 1912 Wright progetta anche una casetta per i giochi dei bambini: la Avery Coonley Playhouse. Le famose finestre qui realizzate fungono da spia del nuovo interesse che l’architetto nutre per un simbolismo decorativo che si spinge ben oltre la stilizzazione dei motivi floreali o la semplice riproposizione di disegni astratto-geometrici; è il raggiungimento delle forme pure: cerchio, triangolo e quadrato – trasposizione su vetro di risultati di kandinskijana e mondrianesca memoria. Come si è potuto notare, nelle Prairie House Wright sperimenta l’integrazione di materiale, struttura e decorazione in progetti di grande complessità spaziale. In queste proposte si equilibrano e armonizzano i temi dei suoi precetti per un’architettura organica, il concetto che abbraccia funzionalismo, uso della tecnologia, sviluppo spaziale, creazione di un linguaggio formale moderno ed esperienza metafisica: sono case “a misura d’uomo”. Intanto, per i suoi clienti della Larkin Company, tra il 1903 e il 1906 Wright si

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cimenta nel progetto e nella costruzione di un edificio per uffici, un vero e proprio «tempio del lavoro»:42 il Larkin Building a Buffalo. Esso costituisce una delle manifestazioni più significative del modernismo nella sua opera, incarnando a un tempo i principi del razionalismo e l’intento moralistico del committente, ovvero la celebrazione del lavoro.43 A implicita critica della struttura del grattacielo, il Larkin Building è organizzato attorno a una spaziosa corte interna centrale, l’atrio – la “Corte della luce”44 –, illuminata naturalmente tramite ampie finestre disposte sulle pareti laterali e lucernari, soluzione adottata da Wright anche nel suo studio a Oak Park, nello Unity Temple e nel Solomon R. Guggenheim Museum di New York. Se, dall’esterno, l’edificio in mattoni di quattro piani appare decisamente massiccio, all’interno, invece, gli spazi lavorativi vengono totalmente invasi dalla luce. Nel Larkin Building, Wright decide di introdurre una serie di innovazioni d’uso e tecniche che da questo momento entrano stabilmente a far parte della pratica di

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progettazione di edifici per uffici: la soppressione della suddivisione a “cellette” – gli impiegati lavorano infatti in uno stesso spazio, in una grande e alta sala rettangolare su cui si aprono le gallerie dei piani superiori –, l’inserimento delle scale e del sistema di riscaldamento e condizionamento all’interno di colonne poste nei quattro angoli della struttura, il fissaggio dei servizi alle pareti per facilitare la pulizia nonché la creazione di appositi spazi di incontro e socializzazione per i lavoratori. La sistemazione degli uffici segue poi una concezione “anti-classista” della società: quelli dei dirigenti al piano terra, “dominati” dall’alto da quelli degli impiegati. Particolarmente innovativa risulta inoltre la sala mensa, posta all’ultimo piano, i cui tavoli vengono progettati da Wright in modo che le sedie non possano essere messe a capotavola, costringendo quindi i dirigenti e il personale a sedersi a tavola alla pari. Prendendo spunto dalle frasi che esaltano i valori dell’etica del lavoro, fatte incidere dall’architetto sulle pareti della corte centrale, la direzione della Larkin Company decide di installare al centro un organo per fare ascoltare la musica ai propri dipendenti

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e, durante le pause dal lavoro, vengono proposte letture tratte dalle opere di Emerson45 – rituali riproposti poi da Wright anche nella sua casa-studio di Taliesin. Tali pratiche moraleggianti caratterizzano infine anche l’ingresso principale, da dove gli impiegati entrano oltrepassando una cascata d’acqua che sgorga da un rilievo recante l’iscrizione “Il lavoro onesto non ha bisogno di padroni, la giustizia autentica non richiede schiavi”.46 Scopo del progetto è, quindi, la creazione di un ambiente organico e totale. Dal sacro focolare domestico (Prairie House) alla sacralità del lavoro (Larkin Building) alla sacralità religiosa: lo Unity Temple. Progettato per la congregazione unitariana di Oak Park, esso costituisce una perfetta realizzazione della completa integrazione tra materiale, il cemento armato, e spazio; una unione di luogo ed esperienza. Wright decide di destinare alle attività dei fedeli due distinti edifici: il tempio, sede del culto, a pianta quadrata e la “Casa dell’Unità”, sede della parrocchia, con pianta a croce greca. Tecnologia, funzione e significato si fondono; vi è l’unità di forma e scopo; il

tempio dimostra uno dei principi più significativi dell’architettura moderna: che lo spazio interno di un edificio è la sua vera realtà primaria.47 L’ambiente interno è complesso. Wright decide di eliminare la rigida separazione imposta dalle pareti per aprire lo spazio; un intrico di filiformi strutture lignee, lampade “a globo” discendenti dall’alto e arredi fissi (quasi anch’essi elementi architettonici) conferisce poi estrema plasticità all’edificio. Il santuario, illuminato dall’alto tramite venticinque lucernari a cassettoni di colore ambra, presenta una pianta quadrata intersecata a una pianta a croce in modo da formare quattro basse balconate lungo le pareti laterali. La sala centrale è poi sostenuta da quattro massicci pilastri quadrati che reggono i carichi strutturali e portano aria calda, dietro ai quali sono collocate quattro scalinate agli angoli esterni. Entrando, si svolta sette volte, passando attraverso bassi corridoi prima di arrivare nell’ampio e luminoso santuario che presenta quattrocento posti a sedere in uno spazio allo stesso tempo intimo e monumentale, che ispira la discussione tra i partecipanti all’assemblea religiosa.

Alessandro Arcioni Studente della Laurea Magistrale in Storia delle Arti e Conservazione dei Beni Artistici, Università Ca’ Foscari Venezia, Italia 866117@stud.unive.it

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QUANDO I VIAGGIATORI ANDAVANO ALLA RICERCA DEL PRIMITIVO


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Dopo la diffusione del Grand Tour nel XVII secolo e prima delle esplorazioni degli antropologi culturali del XIX secolo, si sviluppa una diversa tipologia di viaggio che soddisfa entrambi gli interessi di scoperta del mondo e delle diverse razze che lo abitavano. Ispirandosi ai racconti di viaggio di missionari, esploratori ed ufficiali, e influenzate dal pensiero settecentesco, queste nuove esplorazioni sono animate dalla scoperta della persistenza dell’uomo naturale, primitivo, in un mondo ormai investito dalla Modernità. Difatti l’Illuminismo, in accordo con ideali progressisti, sostiene un’evoluzione unilaterale della Storia, in cui le diverse popolazioni occupano tappe diverse, di maggior o minor sviluppo. Funzionale a tale teoria è la creazione dell’uomo primitivo, secondo due accezioni: una rousseauiana e gulliveriana, del “buon selvaggio” integrato nello stato di natura; e una volterriana e hobbesiana, del selvaggio perturbante fuori dall’evoluzione storica. Questo pensiero si salda nell’Ottocento nell’antropologia evoluzionista, la quale sostiene l’esistenza di popolazioni civilizzate e di altre primitive, ovvero ancora ai primordi dell’evoluzione della cultura e quindi fuori dal “fiume della grande Storia”. E viene esasperato da

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quel ramo dell’etnologia che, rifacendosi alle tesi darwiniste, sostiene un rapporto tra biologia e storia, ovvero tra evoluzione fisica, specialmente cranica, ed evoluzione sociale e culturale. Teorie sposate da studiosi tanto rinomati da essergli affidata validità scientifica, anche se priva di effettive prove. Di fatto si utilizza come prova inconfutabile il solo esempio vittoriano e illuminista: qualora non venga rispecchiato dalla società presa in esame, questa si dichiara automaticamente arretrata, ma ancor più selvaggia, e per questo motivo di attrazione per studiosi e curiosi che ben

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presto organizzano spedizioni in terre lontane, come la Patagonia, per documentare tale diversità affascinante. La curiosità rimane parzialmente giustificata finché la diversità la si ritrova tra i popoli che geograficamente vivono lontani da quei Paesi che stanno attraversando il fiume della Modernizzazione. Tuttavia quando si scopre che questa “barbarie, incivilizzazione e primitività” persiste anche molto più vicino, in un’isoletta al centro del Mediterraneo civilizzato, quella necessità di ricerca dell’Alterità perturbante e per questo affascinante finisce

per risultare più comoda da soddisfare. Già nel Settecento la Sardegna viene osservata da numerosi occhi, alla ricerca di quella Identità altra, mentre altrettante numerose mani lavorano per trasporre, spesso forzatamente, nell’Isola tutti quegli elementi di sauvagerie che avevano già trovato e creato nelle terre fino allora studiate. Tanto che Lawrence nel 1921 ancora ci definirà “aborigeni degenerati”. Ma cosa cercavano davvero quei viaggiatori? Cercavano un paesaggio incontaminato, selvaggio e inesplorato; gli uomini primitivi, non baciati dalla Modernità; usanze

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barbariche; costumi pittoreschi, discordanti con le mode parigine e delle metropoli; il paysage moralisé, ovvero la perfetta corrispondenza tra paesaggio e antropologia. E anche quando lo sguardo non percepiva secondo le aspettative, il viaggiatore sapeva sempre trovare anche quell’unico esempio che confermava il suo pensiero pregiudiziale; oppure ricorreva a non dichiarate citazioni di osservazioni e giudizi di viaggiatori precedenti, perpetrando quei cliché reiterati giunti con lo stesso meccanismo fino a noi.

La formazione dello stereotipo inizia così.

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Questo stereotipo si sviluppa in tre fasi: nel Settecento l’accento viene posto sul paesaggio naturale, incontaminato e primitivo, lasciando sullo sfondo l’elemento antropico; successivamente l’Ottocento dà vita alla figura del sardo delinquente e del bandito, con l’antropologia criminale, in parallelo a una valutazione molto severa intorno alla generale primitività dei costumi sardi; infine il primo Novecento sviluppa una nuova riflessione sul contrasto tra la Modernità cittadina e le zone interne ancora primitive, arretrate. Fil rouge dello stereotipo che attraversa i secoli è da presto l’artificiale divisione delle

zone costiere e delle zone interne: le prime emblema della Modernizzazione, seppur anch’essa retrograda; le seconde invece della pura primitività barbarica e incontaminata. La costruzione dell’Alterità, negativamente intesa e sulla quale specchiarsi per legittimare la propria superiorità, inizia con la constatazione che le città e i paesini della Sardegna erano architettonicamente e urbanisticamente lontani dai modelli “civili” europei noti. In più, in tali paesaggi non toccati dalla Modernità, vi abitavano personaggi dai costumi arretrati ma pittoreschi, dalle maniere

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rozze e dalle usanze discutibili, almeno secondo lo sguardo esterno del viaggiatore cosmopolita e civilizzato. Si evidenziano da subito la mancanza del controllo rigido della espressione corporea, e quindi delle norme dei cerimoniali di Corte, come imponeva la civilizzazione, per esempio quando si trovano uomini mischiati con animali in un unico spazio abitativo. Così come scene pruriginose e di impudicizia sessuale, esagerate e generalizzate anche dal celebre Balzac, ma non proprie della cultura sarda o comunque non diverse dalle abitudini delle città europee.

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Scene disconfermate dall’evidenza di fotografie che mostrano, per esempio, donne sarde al mare completamente vestite, proprio nel luogo in cui avrebbero avuto maggior ragione di scoprirsi. Rientrano in tale discorso moralizzante le condizioni igieniche isolane, tanto perturbanti per la pruderie europea, ma poi perfettamente omologhe, se non migliori, rispetto alle catastrofiche condizioni igieniche delle più importanti città europee, descritte meravigliosamente da Mozart a Parigi. Risulta altrettanto perturbante la denuncia degli eccessi

legati ai piaceri della tavola, in contraddizione con altrettante descrizioni di povertà e fame documentate nelle varie esplorazioni; mentre non sempre altrettanto stupore desta l’ospitalità riservata allo straniero proprio da parte di quegli abitanti considerati disagiati e primitivi. Anzi, si preferisce porre l’accento sui pochi casi in cui il sardo risulta poco ospitale e mostra i “difetti caratteriali e razziali della popolazione”. Ennesimo esempio di giudizi affrettati e ideologicamente orientati che hanno avuto grande fortuna nei secoli fino a essere codificati in stereotipi ancora oggi praticati nel marketing turistico.

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A confermare il quadro a tinte fosche creato dei viaggiatori, viene posta in evidenza la “ignoranza strutturale” dei sardi, in fatto di cultura scritta universitaria, escludendo appositamente tutto il ricchissimo patrimonio della cultura orale agro-pastorale che dimostra invece grandissime conoscenze e competenze in ambito astronomico, botanico e paesaggistico. Si tratta di una perfetta trasposizione di quanto la cultura antropologica dell’epoca predicava, attribuendo un valore superiore alla cultura scritta rispetto alla cultura orale, considerata emblema di primitività. Quel principio di autorità della parola scritta che permise una vera e propria circolazione letteraria dei pregiudizi. Tale principio di autorità risulta confermato con maggiore evidenza dal supporto fotografico (i materiali analizzati ricoprono un arco temporale che va dal 1854 al 1913). Difatti i viaggiatori che si recarono in Sardegna per documentare la sua affascinante Alterità non erano solo scrittori, ma si possono trovare anche numerosissimi fotografi alla ricerca degli stessi stereotipi, quando non era lo stesso scrittore a lasciare

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anche una testimonianza iconografica, come il Delessert. Spesso trovano risposta favorevole nel paesaggio, ricercando appositamente quello descritto dalla penna degli scrittori: per esempio documentano la fossilità della Sardegna ritraendola nelle calde ore pomeridiane, durante le quali le famiglie si ritiravano dai raggi del sole, e vendendo tali scene come una perenne situazione quotidiana di desolazione e spesso anche squallore quando si fotografano paesini, immortalando difatti polvere e sterpaglie e case calcinate dal sole. La città si presta invece alla sola rappresentazione fantasma, con tutto il corredo di strade moderne ma vuote e finestre chiuse. Se si ritraggono abitanti, questi appaiono come spettri dalle finestre, come comparse sullo sfondo di una generale arretratezza. I ritratti degli abitanti mostrano solo i costumi pittoreschi e demodé tanto descritti in letteratura, ma ahimè non si trovano così facilmente quelle tanto millantate bellezze femminili dei resoconti di viaggio. Anzi, le donne sarde appaiono inquadrate in una perturbante povertà o come statue a disagio davanti all’obiettivo che le ritrae come reperti da mostrare, anche

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quando a essere inquadrata è una scena di lavoro che richiede una determinata postura e movimento, la fotografia mostra pose innaturali, esemplificate dalle filatrici ritratte in piedi e non invece sedute come richiede l’attività. FOTO 8 Manca l’interesse dell’autore, che sia iconico o grafico, a uno studio antropologico e sociologico, alla ricerca di quel codice comunitario; vi è sempre decontestualizzazione e destoricizzazione, costruzione funzionale e artificiosa delle pose che devono rendere l’idea della fissità e quindi arretratezza. Esemplare è la scena che fotografa gruppi di lavoratori in pausa dal lavoro, i quali vengono ritratti come buoi nella medesima attività di sosta. FOTO 9 e 10 Di grande impatto risultano le immagini che ritraggono la “caccia grossa”, quella ai banditi, intesi come emblema della inferiorità morale dei sardi in cui il primitivo si trasforma in barbarico. Tanto selvaggi e privi di dignità da esserne immortalati i cadaveri giacenti per terra come bestie abbattute in un safari, con i gendarmi affianco mostranti fieramente i fucili. Se le donne in costume vengono ritratte secondo

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lo stereotipo del pittoresco rassicurante; i personaggi del fenomeno criminale servono invece a rappresentare funzionalmente il pittoresco inquietante, barbarico, che crea una vera e propria mitologia del sardo bandito. FOTO 11 Più di un viaggiatore si lamenta dell’assenza dei banditi come delle donne che non indossano più il costume tradizionale, affermando così che la Sardegna è riconoscibile e affascinante solo se arretrata. La Sardegna moderna non ha lo stesso fascino, e quindi non ha in sé la ragione di essere visitata. Lo dimostra la scarsità della produzione fotografica che documenta tale cambiamento. Accanto a questa produzione che funzionalmente e artificialmente mostra in termini iconografici la primitività come dato oggettivo e scientifico, sono documentabili anche una serie di foto che si pongono in contraddizione rispetto agli esempi della letteratura. È stato già citato l’esempio della pudicizia femminile mostrata in spiaggia – confermata dall’assenza di un solo ginocchio femminile scoperto in nessuna delle fotografie studiate, anche nonostante la calura estiva –, e la povertà di bellezze

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Quando i viaggiatori andavano alla ricerca del primitivo


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femminili documentate; così come mancano quelle scene sessualmente scabrose e quel nudismo degli abitanti che, a detta dei resoconti, si potevano incontrare facilmente nei paesini. Ma ancor di più si nota la mancanza di testimonianze fotografiche circa la aberrante sporcizia delle città e dei paesi, millantata come evidente tara antropologica, frutto di arretratezza e di ignoranza.

come prodotto esotistico alla pari dell’immaginario legato alle già conosciute e sconcertanti Africa, Asia, Australia e Patagonia. Un ulteriore esempio, forse ancor più sconcertante per la sua collocazione in contesto civilizzato e moderno, e quindi specchio ancor più valido e forte per l’affermazione della superiorità delle popolazioni che vi abitavano attorno.

Sostanzialmente tutte queste rappresentazioni, e scritte e fotografiche, che sono testimonianza del solo sguardo esterno, rispondono tutte a un’unica esigenza di marketing, ovvero di vendita della Sardegna

Tutto questo insieme di produzioni sono talmente forti e prodotte e supportate da menti celebri che, nonostante evidenti disconferme, persistono ancora oggi sotto mentite spoglie, per esempio del

pittoresco che oggi sostituisce il primitivismo criminale.

Ancora oggi è proprio questa Alterità, questo “selvatico” (che ha sostituito ipocritamente il selvaggio), a costituire il codice del marketing turistico.

Eleonora Erriu Laureata in Beni Culturali e laureanda in Economia e Gestione delle Arti e delle Attività Culturali Cagliari, Sardegna eleonora.erriu@hotmail.it

Eleonora Erriu

Quando i viaggiatori andavano alla ricerca del primitivo


EL ARTISTA QUE DOTÓ DE ALMA A LOS SOMBREROS


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A Eduardo Úrculo se le considera el representante español más importante del pop art, un personaje querido y admirado por muchos. Pero los comienzos nunca son sencillos, en el caso de Úrculo su infancia estuvo marcada por las penurias de la posguerra. Nacido el 21 de septiembre de 1938 en la localidad vizcaína de Santurce, pronto se trasladará junto con el resto de su familia a tierras asturianas, a Sama de Langreo, buscando una vida más próspera gracias a la minería. Sus primeros años no escaparon a la miseria que reinaba en estos momentos y a pesar de entrar en 1948 en el instituto de enseñanza media, pronto tuvo que abandonar los estudios para ponerse a trabajar como ayudante de topografía. Sin embargo, el azar va a querer que este período fuera provechoso para el futuro artista, siendo en estos momentos cuando se

despierte su interés por el dibujo, descubriendo la o b r a d e To u l o u s e Lautrec, Van Gogh o Modigliani. Este primer acercamiento se intensifica cuando cae enfermo de hepatitis en 1954 y tiene que reposar en cama durante largos meses, pues aprovechará este tiempo para dedicarlo al estudio de la pintura. Una vez recuperado no tarda en empezar a plasmar las casas y las calles de su alrededor siguiendo el estilo de estos primeros pintores que admira y trabajando a la peculiar manera impresionista, al aire libre. Pronto, estos trabajos empiezan a dar sus frutos montando su primera exposición en 1957 en La Felguera y mostrando estos rincones que habían dominado su infancia. En estos momentos había

comenzado también a dibujar cómics para el periódico asturiano La Nueva España y será entonces cuando el Ay u n t a m i e n t o d e Langreo le conceda una beca para asistir al Círculo de Bellas Artes y la Escuela Nacional de Artes Gráficas de Madrid. Un vez establecida su residencia en la capital sus lienzos se van a volver más comprometidos, pasando por una etapa de denuncia social donde muestra el ambiente demacrado de los suburbios madrileños. Esta etapa ha sido calificada de “expresionismo social”, con pinturas inundadas de tonos ocre tanto en sus personajes como en las chabolas y fábricas. En 1959 ve cumplido su sueño de viajar por primera vez a París,


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donde asiste a clases en La Grande Chaumiére, visita los grandes museos donde contempla las obras que habían despertado su pasión de niño y expone su cuadro Mineros de Asturias, siguiendo la línea de esa pintura social. Decide volver entonces a Oviedo, donde conoce al pintor Jesús Díaz “Zuco”, con quien decide compartir estudio y trabajar juntos en obras como un enorme mosaico para la empresa Alsa. También participa en una exposición colectiva al aire libre en La Escandalera de Oviedo. En 1960 tiene que realizar el servicio militar, hecho que también resultará provechoso para su formación pues tras estar en el Sáhara Occidental viaja a las Islas Canarias, donde entra en contacto con el artista surrealista

Begoña Ibáñez

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duardo Westerdahl y prueba a realizar algunos lienzos en ese estilo. Su círculo cultural y social se seguirá ampliando cuando exponga en 1961 en Marbella y conozca a Jean Cocteau, viajando de nueva a París para relacionarse con Giacometti, Man Ray y Max Erns. Sus obras se siguen moviendo en el expresionismo y aun no cuenta con una identidad definida, buscando su propio lenguaje.

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EL ARTISTA Eduardo Úrculo ha sido calificado como uno de los máximos exponentes del pop art en España. Con una formación que comenzaría de forma totalmente autodidacta, sus obras reflejan su visión propia del mundo, con un hombre ataviado con su singular sombrero y rodeado de maletas vacías para simbolizar la soledad de la vida moderna.

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En los siguientes años sigue realizando exposiciones y muestras, además de dibujos para la revista Triunfo y escenografías para obras teatrales. Se casa con la francesa Annie Chanvallon, con la que tendrá a su hijo Yoann. Pero en 1965 sufrirá una crisis creativa en la que acabará abandonando su pintura de corte social. Se instala en Ibiza y viaja por el norte de Europa, donde volverá a encontrar la inspiración que creía perdida al entrar en contacto con la obra de Warhol, Lichtenstein y Rauschenmberg, recobrando su fe en el arte al contemplar la pintura pop de estos importantes personajes en una exposición de Estocolmo. En 1968 participa en la Primera Bienal de la pintura asturiana en Gijón, exponiendo posteriormente en Frankfurt y Estados Unidos. A estas alturas su obra ya había sufrido un cambio radical, absorbiendo los postulados del pop art, cambiando el óleo por el acrílico y con una gama cromática más cálida. En lo referente a la temática, va a pasar en estos años por una “etapa erótica”, inspirándose sobre todo en el cuerpo femenino. Esta época la desarrollará durante toda la década de los 70, algo que resultará muy atrevido teniendo en cuenta la situación política del país, llegando incluso a vivir en carne propia la censura al retirar sus cuadros de muestras como la Bienal Hispanoamericana.

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Esto no le impedirá seguir representando a la mujer en sugerentes posturas, introduciendo elementos como la vaca para representar la maternidad, influenciado por el embarazo de su mujer. Así, seguirá exponiendo por toda España y conocerá en estos momentos a Dalí y a Miró, enriqueciendo de nuevo su círculo artístico. En esta temporada participa también en la XXV Bienal Internacional de arte en Venecia, donde el director de cine Luchino Visconti, que se encontraba rodando Muerte en Venecia, compra dos de sus obras. El propio Úrculo escribirá de esta etapa que “mis trabajos de entonces

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participaban de algún modo de la llamada revolución sexual, tenía un propósito de lucha, de autoafirmación frente a un sistema represivo”. La fama que está alcanzando es innegable y parece que por fin ha encontrado su propio lenguaje, el cual alcanzará su punto álgido en la década de los 80, tras pasar una breve etapa realizando bodegones. Su obra se va a volver mucho más personal al poner en el centro de sus cuadros como protagonista al hombre solitario moderno, al viajero del mundo, un personaje que se considera un alter ego del propio Úrculo, pero acompañado de un característico sombrero y siempre dando la espalda al espectador. El propio autor afirma que es “una representación existencial del hombre, que como protagonista solitario de un periplo metafórico, bucea en los espacios de lo íntimo más allá de la ciudad vacía”. Son estas sus pinturas más reconocidas, sin salirse de esa paleta cromática cálida de colores vivos, inundando sus paisajes con sombreros y maletas, colocando a sus figuras ante fondos de grandes ciudades como Nueva York. Úrculo nos regala su visión interior del mundo, presentando las pasiones y los escenarios donde la vida tiene lugar. Por otra parte, en 1984 comienza a trabajar también como escultor, utilizando como material principal el bronce y exponiendo en la feria de arte contemporáneo ARCO. Así, dejará por un

“Fue gracias a aquellas reproducciones de escasa calidad que empecé a familiarizarme con unos cuadros que nunca había visto”.

Por otra parte, en 1984 comienza a trabajar también como escultor, utilizando como material principal el bronce y exponiendo en la feria de arte contemporáneo ARCO. Así, dejará por un momento de lado la pintura para centrarse en esta nueva faceta, elaborando tallas con la misma temática que estaba desarrollando en sus lienzos, la soledad del mundo que le rodea, con sombreros y maletas vacías como elementos característicos. Realiza importantes obras que se colocarán en lugares urbanos, como El viajero en la Estación de Atocha o El regreso de Williams B. Arrensberg en las calles de Oviedo. Él mismo se definió siempre como “ un pintor que hace esculturas”.

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En sus últimos años mostró una fuerte inclinación por la temática oriental, volviendo a centrarse más en la pintura que ahora se inunda de figuras de geishas, pero alejadas de su anterior “etapa erótica”. Ahora va a utilizar los kimonos como excusa para dotar a sus siluetas de una mayor geometría, flirteando con el cubismo.

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Recién llegado en 2003 de una exposición antológica en Pekín patrocinada por el Museo Reina Sofía, se encontraba en un momento de gran creación artística y mayor reconocimiento, además de estar preparando una nueva muestra para llevar a Nueva York. El 31 de marzo de ese año, durante una comida en

compañía de su segunda mujer, Victoria Hidalgo en la Residencia de Estudiantes de Madrid, sufre un infarto mortal. El mundo de la cultura y el arte lloraba su temprana pérdida y lo recordaba con palabras como las de su a m i g o Va rg a s L l o s a : “Eduardo encarnaba la vida y la pintura, en él ambas cosas se confundían”.

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Begoña Ibáñez Doctora en Historia del Arte Granada, España bibanez@correo.ugr.es

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For the Time Being

Upon arriving in Italy from the United States, the first thing one notices is the disparity of time. In the U.S., time is simply a unit of measurement: a tool for measuring productivity. It is straightforward. It marches on, connecting the past to the present in a direct line, its arrow pointing to a cohesive story of progression. In Italy, however, that steady counting of the clock seems to gain a new rhythm—like a waltz, bunched up all at once and then spread out, lively and languid at turn. Here, where the past slips so easily into the present, time seems to be weighed on a different scale: one that considers the wide span of human history and the brevity of human camaraderie in equal measure.


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This shift in perception was precisely one of the underlying goals in establishing the American Academy in Rome, after which RISD’s European Honors Program is modelled. Not only did its founders intend the Academy as an opportunity for American artists to acquaint themselves with Western history firsthand, but they also envisioned the Fellowship to be considered valuable as an experience in and of itself, without any necessarily quantifiable results. In recording the Academy’s history, C. Grant L a F a r g e w r o t e , “ To measure the efficiency of such an establishment in terms of per capita is to miss the point entirely,” emphasizing that their goal instead was to support “[n]ot merely Fellowships, but fellowship.” Indeed, all of the artists featured in the exhibition “_____” have been vital in forming the fellowship surrounding RISD’s European Honors Program. Beyond their role as artists, Enzo Barchi, Claudio Carli, Baldo Diodato, Leslie Hirst, Isabelle McCormick, and

Caroline Ellen Liou

Sezgi Uygur are also professors, supporting members, critics, or friends of the program and, whether involved for many years or just for a short period of time, are bound together through their collective s u p p o r t o f E H P. T h i s exhibition is a rare chance to be able to pause and acknowledge some of its contributors; in fact, it is perhaps fitting that the show will only be on view for one day, as it represents only one moment in time that make up the long history of the European Honors Program. Drawing their inspiration from Rome—the setting of EHP—all of the artists offer different ways to interpret the history that is implicit to the city. Baldo Diodato (b. 1938, Italy) and Leslie Hirst (b. 1962, USA), for example, both highlight its characteristic layering of time; on one hand, Diodato r e l i e s o n f ro t t a g e , o r rubbing, to capture the city’s unique texture, while Hirst, on the other hand, overlays a hybrid of signs and symbols to draw out their patterns and pull them apart. Both of their techniques invoke the

palimpsest that is visible on any wall in Rome— scratched away, gradually worn down, graffitied and built up again—that reflect the stratification of activity in the city itself. Similarly, Enzo Barchi (b. Italy) and Isabelle McCormick (b. 1992, USA) combine and collapse time, not physically on the canvas, but through their source material. Both artists quote directly from the art historical canon— Barchi as equally from classical Indian sculpture as from classical Greek sculpture, and McCormick from ____—yet reinterpret them using contemporary language, Barchi with the unconventional choice of using material such as Styrofoam, McCormick with the technicolor palette and inversion of the subject. Taken together, these works indicate the reciprocal nature of the past and the present, and the continual shaping and re-shaping of h i s t o r y. T h i s b r o a d e r perspective of time, full of ebbs and flows, is alluded to by the works of Claudio Carli (b. 1947, Italy) and Sezgi Uygur (b. 1982, Istanbul); though working on much different scales,

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both artists’ use of abstract form and repetition communicate a sense of introspection, meditation, and infinity. Art has the uncanny ability to fold time. According to art historian George DidiHuberman, a single image has the power to convey multiple temporalities at once, forcing the viewer to simultaneously contemplate the present of the experience, the past memory it evokes, and the future it promises. As Didi-Huberman summarizes, “Whenever we are before the image, we are before time.” The paintings of Caravaggio appear strikingly graphic and modern and Influences us and we, likewise, the continuity of time is broken; there is a more fluid understanding of the past blending into the present, and the present into the past. Standing in front of one of Caravaggio’s strikingly graphic paintings, one realizes that for all that they have undoubtedly influenced generations of artists, that the reverse is also true: “by visually ‘quoting’ Caravaggio, a number of contemporary artists are forever changing the baroque master’s work. “by visually ‘quoting’ Caravaggio, a number of contemporary artists are forever changing the baroque master’s work.

Caroline Ellen Liou

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Caroline Ellen Liou Art historian and curator Los Angeles, CA, USA caroline.ellen.liou@gmail.com

Caroline Ellen Liou

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GLI ABITI DI

Maria Antonietta DAL 11 FEBBRAIO AL 10 GIUGNO 2018 SI È SVOLTA PRESSO IL MUSEO DEL TESSUTO DI PRATO LA MOSTRA DEDICATA A MARIE ANTOINETTE “ I COSTUMI DI UNA REGINA DA OSCAR”. La mostra organizzata dal Museo del Tessuto, presenta per la prima volta una preziosa selezione di 24 costumi femminili e maschili, realizzati per il film Marie Antoniette ( 2006) diretto dalla famosa regista americana Sofia Coppola. I costumi realizzati dalla costumista di fama mondiale Milena Canonero in collaborazione con la Sartoria THE ONE, sono stati definiti dalla critica come la miglior reinterpretazione cinematografica mai stata realizzata nel campo dell’abbigliamento del XVIII secolo, le hanno infatti valso il Premio Oscar nel 2007.


Gli abiti oltre che essere frutto di un lavoro di rigorosa ricerca e meticolosa indagine, sia dal punto di vista storico che da quello iconografico riguardante la moda del Settecento, diventano una parte fondamentale nella definizione dei tratti psicologici della protagonista. Il film ripercorre infatti, le fasi principali della vita di Maria Antonietta, interpretata dall’attrice Kirsten Dust, dalla madre patria Austria all’arrivo alla corte di Francia, all’incoronazione fino alla sua tragica fine. L’idea della regista Sofia Coppola è stata quella di non riproporre solo episodi storici, la sua volontà non era infatti documentaristica, bensì quella di valorizzare e indagare, la figura della giovane, dalla sua adolescenza all’età più matura di madre e regnante. La pellicola ha ottenuto un grande successo mediatico grazie soprattutto alla inedita rilettura in chiave contemporanea della figura della giovane, icona di stile e di eleganza divenuta la più famosa regina di Francia di tutti i tempi. Gli abiti di Milena Canonero non sono perfette ricostruzioni di abiti del tempo, grazie a piccole modifiche come linee addolcite e

tratti più morbidi, mescolanze di fogge sartoriali e licenze artistiche come l’inserzione delle scarpe Converse e delle Manolo Blanck permettono di evocare un clima e un’atmosfera senza paragoni. La selezioni di abiti esposti a Prato danno quindi la possibilità attraverso l’evoluzione e il cambiamento del gusto di ripercorrere i momenti importati nella vita della futura regina di Francia sia dal punto di vista storico che da quello personale. Maria Antonietta quindicesima figlia di Maria Teresa d’Austria e Francesco Stefano di Lorena nasce il 2 novembre del 1755 a Vienna. Nel 1767 per volere della madre allo scopo di risaldare l’alleanza con la famiglia Borbone, Maria Antonietta viene promessa in sposa al delfino di Luigi XV, suo nipote Luigi XVI. Dopo alcuni anni di accordi fra le due case regnanti, la giovane, dal carattere frivolo e dalla scarsa educazione, parlava a stento il francese e aveva molte difficoltà anche con il tedesco scritto, lascia l’Austria alla volta della sua nuova casa e del suo futuro sposo a Versailles.


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Durante il viaggio indossa un classico abito dalle linee severe e dai colori austeri in perfetta accordo con il gusto della madre Maria Teresa, molto diverso rispetto agli abiti sfarzosi che l’attendono nell’isola di Strasburgo dove spogliata di qualsiasi avere, smettere di essere austriaca e diventa a tutti gli effetti francese. A Maria Antonietta adolescente, innamorata dell’amore e ansiosa di incontrare il suo sconosciuto amato, durante il viaggio viene consegnato un piccolo ritratto di Luigi XVI, il quale sono dopo il loro primo incontro scoprirà essere stato ampiamente migliorato e non all’altezza delle sue aspettative. La giovane, appena quindicenne, giunta alla corte di Francia rimane sbalordita da preciso rituale intorno al quale tutto è organizzato. Le viene immediatamente affiancata una dama di compagnia che Maria Antonietta scherzosamente chiamerà “ Madame Etichette” il cui suo unico compito è quello di far sì che la delfina segua scrupolosamente tutte le operazioni che l’etichetta di corte impone al suo ruolo.

Alessia Nardi

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La futura regina, diviene ben presto preda dall’influenza delle tre zie di Luigi , definite “Covo di Serpi” che cercheranno in ogni modo di metterla contro ad alcuni membri della corte fra i quali Madame Du barry, nella pellicola interpretata dall’attrice Asia Argento, favorita di Luigi XV dopo la morte della regina. L’opposizione fra queste due donne di potere, rischiò di concludersi con un vero e proprio incidente diplomatico fra Francia ed Austria, e fu sventato solo attraverso l’intervento di Maria Teresa d’Austria che intimò alla figlia di concedere il saluto pubblico all’amante del re. La differenza di personalità fra, la futura regina e l’amante del re, sono rese perfettamente attraverso i loro abiti, la prima caratterizzata da abiti alla francese, con l’utilizzo della linea e dei motivi floreali su tessuti leggeri, la seconda definita da abiti di colori scuri e tessuti preziosi come velluti e pellicce. Un grande cambiamento di stile nell’abbigliamento di Maria Antonietta, avviene con

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il passaggio da delfina a Regina. Dopo la malattia di Luigi XVI, che viene colpito dal vaiolo durante una battuta di caccia, madame Du barry viene fatta allontanare da corte e i due giovani vengono chiamati ad assumere il ruolo importante di Re e Regina. Il 10 maggio del 1774, Luigi XVI e Maria Antonietta vengono incoronati e nel film Milena Canonero cerca di riprodurre la fastosità dei loro abiti attraverso l’inserzione di applicazioni di gigli d’oro ripresi da apparati liturgici del tempo. Maria Antonietta, regina poco interessata alla politica e alla diplomazia, ignorata dal marito Luigi XVI, che dopo quattro di matrimonio non ha ancora acconsentito a consumare la loro unione, comincia a dedicarsi alla moda e in breve tempo diviene una vera e propria icona di stile. Come una vera e proprio “influencer” ante litteram introduce la moda dei colori “Candy” nei suoi abiti, caratterizzati da colori pastello che riprendono le sfumature e le morbidezze dei dolci di cui lei era così golosa. In questi anni la regina si circonda di persone curiose e di grande interesse come: la pittrice Elisabeth- Louise Le Brun, ritrattista ufficiale della sovrana, il parrucchiere di fiducia Leonard, il quale si divertiva a realizzare acconciature esagerate ed eccentriche, dalle altezze incredibili attraverso l’uso di lacche e di cere e la sua sarta/ stilista di corte Rosa Berten la quale fu fra le poche che ebbero libero accesso alle stanze di

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Maria Antonietta. Il ruolo di Rosa Berten fu particolarmente importante, non fu solo un punto di riferimento per la sovrana come amica e confidente ma nel 1776 costituì la corporazione delle “ mercandame du mode”, una corporazione inizialmente accessibile solo agli uomini che successivamente divenne interamente femminile, che prevedeva la ricerca di stoffe e accessori che venivano scelte e presentate al mondo nobile. L’atelier di Rosa Bertem in Rue Santonorè a Parigi, divenne a tal punto esclusivo, che gli abiti che vi venivano esposti erano considerati vere e proprie opere d’arte approvate in persona dalla regina. Un momento di grande importanza nella vita di Maria Antonietta è con il tanto atteso incontro con l’amore, infatti dopo sette anni di unione finalmente il matrimonio fra lei e Luigi XVI viene consumato e la giovane appare più spensierata e leggera, ciò si riscontra nel cambiamento di abiti che non sono più abiti alla francese ma alla “polonaise”, caratterizzati da bombature sui fianchi e sul retro e da un’arricciatura sui bordi. La semplificazione del suo abbigliamento diviene ancora più accentuato a seguito della sua prima gravidanza. Nel 1778, a pochi mesi del parto Luigi XVI regala a Maria Antonietta il Petit Trianon, una costruzione staccata dalla corte dove la regina può finalmente vivere la sua indipendenza dalla soffocante etichetta di Versailles e nella sua intimità, portare avanti la

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Costanza Blaskovic


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suo grande amore per il Conte Fersten, nato fin dal 1774. L’esposizione si conclude con una selezione di abiti più cupi, relativi ai momenti più tragici della vita di Maria Antonietta: la morte della madre e l’ultima notte a Versailles. L’abito leggero di mussola del Petit Trianon viene sostituito dal più serio e pratico abito all’Inglese caratterizzato da una sopravveste e da una lunga marsina. La pellicola di Sofia Coppola ha avuto il merito di rivedere , mettendo sotto una nuova luce, la figura di Maria Antonietta, trasformandola in una vera e propria icona. Lo stile Candy, espresso dal sontuoso abito in rosa simbolo della regina è stato infatti preso a modello dalla moda contemporanea dei primi anni duemila e riproposto dalla protagonista Kirsten Dust, privato della pelliccia, sulla copertina di Vogue America.

La mostra “i costumi di una regina da Oscar” come già precedentemente la pellicola, è stata un grande successo, ha permesso di creare un legame fra passato e presente, mettendo a confronto l’ abilità degli artigiani del passato e la capacità dei professionisti del contemporaneo, richiamando al Museo del Tessuto di Prato un pubblico giovane amante del fashion e del cinema.

Alessia Nardi Mediatrice Culturale e Operatrice di didattica museale Firenze, Italia nardi.alessia.1989@gmail.com

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Department Stores or Art Museums? “When you think about it, department stores are kind of like art museums.” With this shocking statement Andy Warhol defined the beginning of what would become a new chapter for cultural production within a growing consumerist-oriented society. The appropriation of massmedia images by Pop artists would only be the beginning of an expanding condition of crosscultural exchange and contamination between the worlds of commerce and contemporary art. Looking at the ways in which fashion houses have used artists’ personas to promote their collections and add value to their brands, it is clear that a condition of increased collaboration between the worlds of art and fashion is becoming increasingly accepted as the norm in today’s society.

Chiara Villa

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Beginning in the 1920s we can see how the golden age of high fashion in Paris became intertwined with the city’s avant-garde movements of Cubism and Dadaism. While Coco Chanel and Picasso designed costumes for the Ballets Russes, her rival Elsa Schiaparelli was collaborating with Cocteau and Dalí on trompe l’oeil dresses and jackets. Travelling to the 1960s we can revel in the minimalistic elegance of Yves Saint Laurent’s Mondrian-inspired clothing line. In the 1990s we find Cindy Sherman starring in Comme de Garçons’s advertisements as well as world-renowned artists Richard Prince and Takashi Murakami applying their own designs to the iconic Louis Vuitton’s monogram. Today we find an ever-increasing blurring of lines between the realms of high art and that of fashion, with collaborations between fashion brands and artists becoming every day more popular. This phenomenon has been described by Alessandra Vecchi as a direct result of the commercial success of the contemporary art market. More precisely, Vecchi sees the contemporary art market as perpetuating the same model of exclusivity and elitism that has for long been a characteristic secluded to luxury and high-end fashion maisons. This means that the sharing of similar values between the realm of art and fashion makes these collaborations not only possible but also advantageous for both parties involved. In fact, despite what may be popularly believed, partnerships between contemporary

Chiara Villa

“When you think about it, department stores are kind of like art museums” artists and fashion labels today seem to be motivated by a desire for mutual brand-reinforcement that goes beyond purely financial interests. In a 2007 interview for The New York Times, Barneys’ creative director Simon Doonan expressed his views on this phenomenon by stating how the rising success of “art couture” has been the result of additional symbolic markers that “signify informed consumption”. To further add onto this argument, theorists such as Alessandra Vecchi have explored what lies beneath the surface of the collaborations by focusing on the transposition of symbolic features between the world of art and that of luxury fashion. A “contamination model” is the expression used by Vecchi to describe the leaking of contemporary art’s attributes such as “excellence, high culture, elite, and luxury” onto public evaluations of fashion luxury brands. According to Vecchi, this condition is facilitated by a current compatibility between contemporary art and the world

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of luxury management. As in the case of museums, galleries and auction houses adopting corporate identities, many artists are increasingly presenting themselves – and their work - through wellconstructed public personas. In this atmosphere, Louis Vuitton has been one of the most active fashion brands in setting up collaborations with accomplished contemporary artists such as the Chapman Brothers, Cindy Sherman, Richard Prince, Takashi Murakami and Yayoi Kusama. The partnership with Murakami was, without a doubt, one of the most memorable and extensive in terms of public reach, critical content and controversial press. Beginning in 2003 with the Murakami Multicolore Monogram collection, the 13-year long collaboration was characterized by the successful delivery of designs that re-configured LV’s traditional logo in light of Murakami’s own style, referencing Japanese kitsch and popular otaku culture. Murakami’s approach towards popular culture is what made this partnership so significant. The artist has been widely recognized as one of the

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key contributors in the production of “a new form of hybrid and hyper Pop art, often as high fashion items and other retail products,” which challenges “the concepts of art and its privileged status within cultural production.” In order to establish the relevance of his practice within contemporary globalized production, the Japanese artist elaborated the concept of ‘Superflatness’ to define a “flattened, self-mocking culture,” in which any distinction between ‘high’ and ‘low’ culture has become meaningless. Superflat art celebrates the up-and-coming new generation of global citizens whose “self-identity” and “aesthetic tastes [have been] influenced by the presence of technology and digital environments”, as described by Victoria Lu, Curator of the Museum of Contemporary Art, Taipei. Murakami’s international success resulted precisely from the creation of visual content that satisfied this new taste, beginning with the production of the anime and manga-inspired iconic character Mr. Dob in the early 1990s. Other than being integrated in his artworks, which often

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involve the use of heavily worked painted surfaces evoking traditional Nihonga techniques, characters such as Mr. Dob have been commercialized by the artist’s Kakai Kiki Company, Ltd. in the form of mass-produced products such as t-shirts, toys and keychains. In this context, what appears as most striking is Murakami’s reticence at drawing any distinction between his o w n a r t i s t i c p ra c t i c e a n d h i s collaboration with Louis Vuitton. Such !lattening of differences can be identi@ied in the artist’s production of an entire series of paintings featuring his redesigned LV logo that have been exhibited in many art gallery shows as well as in the most renowned Louis Vuitton shops and window displays. Despite the mitigating effect of these premises on public opinion, the opening of a LV store inside the Brooklyn Museum for the 2008 ©MURAKAMI retrospective was still the target of violent criticisms. Selling his Multicolor Monogram products as well as limited edition prints featuring his Monogramou!lage design, the presence of the retail store was condemned by art critic Dave Hickey for “turn[ing] the museum into a sort of upscale Macy’s.” In a similar tone, a faithful contributor to the NY Observer described the artist as a manipulative entrepreneur with no real artistic purpose, asserting that “he makes deals with the likes of Mr. Vuitton because he knows that Signi@icant Artists have their day in contemporary culture and that fashion is forever.” Such comments point to the highly problematic position taken by Murakami in placing art on the same level of a luxury good,

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and to the negative consequences that this action might have on the critical value of the art in question. On the other hand, there has been a series of art world professionals who have praised Murakami’s practice for being at the forefront of the new cultural mechanisms at play in a media-saturated society. Director of the New Museum of Contemporary Art (NY) Lisa Phillips regards his work as

“a very ambitious and far-ranging project”

defined as much by its content as by the artist’s multi-disciplinary approach of experimenting with “public sculpture, huge editions of objects, merchandising, working collaboratively.” The only way to prevent turning away with disgust from such a shameless display of commodified art is to start considering Murakami in the revolutionary spirit of the historical avant-gardes as much as in the guise of a 21st century Japanese Andy Warhol. Not surprisingly then, Murakami himself has often cited the father of Pop Art both to describe his relationship with commercialism and the related risks of devaluing or ‘cheapening’ his work. In an interview for the NY Times he opened up about the logic of production behind his l i m i t e d e d i t i o n LV M o n o g r a m canvasses, DOB and mushroom prints, justifying the low number of editions by

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En lo que respecta a la trama, si es que nos podemos ceñir al sentido literal de la palabra, el hilo conductor sigue siendo la misteriosa muerte de Laura Palmer a manos del ente maligno Bob, y todos los efectos que desencadena. Pero se añaden nuevos asesinatos, nuevas conexiones entre los personajes, nuevos embrollos amorosos, y sobre todo la guinda del pastel la encontramos en que ahora coexisten dos Dale Cooper: el agente especial del FBI y el Doppelgänguer de Cooper, el doble malvado. Vemos una vez más esa dicotomía personal entre el bien y el mal, entre lo real y lo sobrenatural. Al desdoblar al personaje de MacLachlan, Lynch no hace sino volver a confirmarnos que existen dos realidades, y no sabemos en cual de las dos podemos despertar, si es que lo hacemos. Porque no es una trama concreta a lo que tenemos que aferrarnos, sino a momentos, momentos que nos van a ser revelados. Como el que nos ofrece el capítulo ocho, que ya ha pasado a la historia de la televisión como uno de los más icónicos de la carrera de su director. En este episodio podemos decir que se nos presenta el origen del mal, el nacimiento de Bob, comenzando con una sobrecogedora imagen de la explosión de la bomba atómica en el desierto de Nuevo México al más puro estilo Kubrick en 2001, explosión que se presenta como el detonante principal, y siguiendo con una sucesión de escenas oníricas que muestran la diferencia entre los mundos que Lynch ha creado, entre la Logia Blanca y la Logia Negra.

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Chiara Villa Intern at Lux Vide for the scenography department of the third season of the tv series ‘Medici: Masters of Florence’ Rome, Italy chiaram.villa@gmail.com

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Coordinated by Ramón Melero Guirado Designed and edited by Matilde Ferrarin


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