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FEB - APR 2019
FRANK LLOYD WRIGHT E L’ARCHITETTURA ORGANICA Alessandro Arcioni Studente della Laurea Magistrale in Storia delle Arti e Conservazione dei Beni Artistici, Università Ca’ Foscari Venezia, Italia PSICOLOGÍA Y CINE: UNA BENEFICIOSA Y NECESARIA UNIÓN Alberto Bonoso Criado Graduado en Psicología Jaén, España Psicología y cine: una beneficiosa y necesaria unión
ALLA SALUTE Brunella Fili Regista e Produttrice Bari, Italia
EL LEGADO ARTÍSTICO DE RENOIR: DEL LIENZO AL FOTOGRAMA Begoña Ibáñez Doctora en Historia del Arte Granada, España
"ART SOON ART POSSIBLE". POLÍTICAS DEL VAIVÉN ENTRE MUSEOS, SOHOS Y CENTROS CULTURALES EN MÁLAGA Ramón Melero Historiador del arte Cazorla, Jaén, España
FEB-APR 2019 Alberto Bonoso Criado Graduado en Psicología Jaén, España albertobonoso@gmail.com
Begoña Ibáñez Doctora en Historia del Arte Granada, España bibanez@correo.ugr.es Ramón Melero Historiador del arte Cazorla, Jaén, España rmeleroguirado@gmail.com Alessandro Arcioni Studente della Laurea Magistrale in Storia delle Arti e Conservazione dei Beni Artistici, Università Ca’ Foscari Venezia, Italia 866117@stud.unive.it
Brunella Fili Regista e Produttrice Bari, Italia filibrunella@gmail.com
Frank Lloyd Wright e l’architettura organica
Con questo articolo termina la rubrica di Alessandro Arcioni, studente di Storia delle Arti e Conservazione dei Beni Artistici, dedicata a Frank Lloyd Wright… Buona lettura! Frank Lloyd Wright e l’italia Sebbene Wright avesse già avuto un primo contatto con l’Italia durante il soggiorno a Fiesole tra il marzo e il settembre del 1910, con lo scopo di preparare il testo e i disegni per la monografia da pubblicare presso l ’ e d i t o r e Wa s m u t h d i B e r l i n o (Ausgeführte Bauten und Entwürfe von Frank Lloyd Wright – Frank Lloyd Wright. Gli anni della formazione. Studi e realizzazioni), è solamente con la V Triennale di Milano del 1933 che si comincia a conoscere l’architettura del grande maestro americano. Tra il 1935 e il 1941, l’opera di divulgazione del suo pensiero viene portata avanti dalla rivista Casabella, a quell’epoca diretta da Edoardo Persico – «Wright è il vero maestro dell’architettura moderna»88 –, e nel 1941 Giulio Carlo Argan pubblica su CostruzioniCasabella una recensione di An Autobiography di Frank Lloyd Wright. Ma il vero interesse per l’opera dell’architetto americano si mostra prepotentemente dal 1945, all’indomani della Liberazione, grazie al lavoro di diffusione condotto da Bruno Zevi che, in quello stesso anno, pubblica il testo Verso un’architettura organica (chiaro
riferimento al volume di Le Corbusier Vers une architecture) – la cui unica illustrazione, posta in copertina, riproduce la Casa sulla cascata – e fonda a Roma l’Associazione per l’architettura organica (APAO). Per gli intellettuali italiani antifascisti, infatti, l’opera di Wright incarnava quegli aspetti di libertà, indipendenza e democrazia così violentemente repressi durante il ventennio fascista. Tutto è pronto, quindi, per un secondo viaggio del maestro americano in Italia. Il 24 giugno 1951, come riferito precedentemente, viene infatti inaugurata nelle sale di Palazzo Strozzi a Firenze l’esposizione itinerante Frank Lloyd Wright: Sixty Years of Living Architecture, importante riconoscimento tributato dall’Italia al grande architetto americano. A curarne l’organizzazione sono Oskar Stonorov e Carlo Ludovico Ragghianti, assieme ad alcuni rappresentanti dell’Istituto universitario di architettura di Venezia (IUAV): il direttore Giuseppe Samonà e i professori Franco Albini, Ignazio Gardella, Luigi Piccinato, Carlo Scarpa e Bruno Zevi. Dopo l’enorme successo della mostra fiorentina, Wright si reca a Venezia dove, con una solenne cerimonia a Palazzo Ducale, gli viene
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conferita la laurea ad honorem in architettura dall’Università di Venezia (IUAV). È in questa occasione che Frank Lloyd Wright approfondisce la conoscenza di Carlo Scarpa – «Il maestro americano si reca alla fabbrica Venini di Murano ed esamina una collezione di oggetti vitrei: “I want this and that, then, this, this and that”. Scelta impeccabile. Tutti i pezzi, senza eccezione, sono disegnati da Carlo»90 – e del suo allievo (nonché futuro collega), Angelo Masieri. Quest’ultimo commissiona all’architetto americano un progetto per la propria residenza veneziana, nel punto in cui Rio Nuovo si immette nel Canal Grande, vicino a Palazzo Balbi e di fronte a Ca’ Foscari. A Wright si presenta dunque un’occasione unica: scolpire anche il proprio nome tra le pietre di Venezia. Per la discussione dei dettagli del progetto, Masieri si reca a Taliesin; ma, il 28 giugno 1952, perde la vita in un incidente automobilistico a Bedford, in Pennsylvania. Dopo la sua morte, la finalità del programma muterà e il progetto dell’edificio veneziano, che avrebbe dovuto rappresentare l’omaggio di un allievo al maestro, diventerà, invece, l’omaggio del maestro all’allievo scomparso: il Masieri Memorial, con la funzione di pensionato per studenti dell’Università di Venezia (IUAV). Il progetto presenta un edificio a pianta triangolare, staccato dall’adiacente Palazzo Balbi tramite una calle stretta ad uso privato, ricavata lungo il lato obliquo; una seconda calle, perpendicolare al canale, consente poi l’accesso alla via d’acqua. La struttura avrebbe dovuto avere cinque livelli: un Alessandro Arcioni
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piano terra a doppia altezza con la biblioteca e gli spazi comuni, un piano ammezzato con le camere da letto e, in ciascuno dei piani superiori, un grande soggiorno comune verso il canale e le camere distribuite lungo il lato obliquo; al di sopra, infine, una terrazza-giardino avrebbe dovuto fungere da copertura dell’edificio. Tra il 1953 e il 1954 Wright propone quattro varianti del progetto, differenti ma simili nella sostanza. L’ondata di dissenso che si sviluppa, però, è troppo forte; Frank Lloyd Wright, accusato di non rispettare le “preesistenze ambientali” – l’inserimento dell’architettura contemporanea nei centri storici, in particolar modo in una realtà come quella veneziana, ha infatti sempre suscitato furiose polemiche –, decide così di abbandonare il progetto. Senza perdere la speranza, nel 1962 la Fondazione Masieri incarica Valeriano Pastor di elaborare un nuovo progetto; anche questo, però, scartato dalla commissione edilizia del comune di Venezia. Tocca quindi a Carlo Scarpa il compito di studiare una sistemazione definitiva per la casa dello studente, con la facciata esposta sul Canal Grande sottoposta a vincolo di conservazione. Tra il 1968 e il 1969, l’architetto italiano elabora così tre successive proposte progettuali, l’ultima delle quali, presentata nel dicembre del 1969, ottiene la definitiva approvazione nel maggio del 1973. Essa definisce l’edificio in tre piani analoghi, con camere per cinque studenti in ciascun livello, e si conclude nel sottotetto, abitabile da sei studenti; i collegamenti verticali vengono inoltre resi possibili tramite un’unica rampa collocata in prossimità dell’accesso laterale e tramite un ascensore. Dopo la morte
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di Scarpa, i lavori vengono affidati all’ingegnere G. Maschietto e all’architetto F. Semi; disponendo di risorse limitate, però, la Fondazione Masieri riesce a portare a termine solo parte del progetto scarpiano. La mostra Frank Lloyd Wright negli ultimi dieci anni. L’Uomo al di sopra della macchina, allestita da Carlo Scarpa nell’ambito della XII Triennale del 1960, sarà, infine, l’ultima occasione per poter ammirare il progetto di Wright per il Masieri Memorial, ormai definitivamente archiviato. Frank Lloyd Wright – Carlo Scarpa – Tadao Ando Passione per la cultura e per le antiche tradizioni architettoniche orientali, per le stampe e per le incisioni giapponesi; maestria nella scelta, nell’interpretazione e nell’impiego artigianale di materiali quali cemento, vetro e metallo; totale devozione alla natura e volontà di istituire con essa un rapporto di scambio reciproco, particolare e soggettivo; traduzione di elementi naturali quali acqua, aria e terra in vere e proprie componenti strutturali; capacità di saper creare luoghi e spazi dedicati all’introspezione e alla meditazione; fedeltà alla concezione dell’architettura come processo in continuo divenire, vivo e vitale: riassumendo in un unico concetto, è l’esaltazione della Gesamtkunstwerk, della suprema armonia e dell’opera d’arte totale. Questi, come molti altri, sono i punti di contatto che possono essere riscontrati nelle opere e nei programmi ideologici di tre personalità che, ognuna con il proprio stile, hanno saputo indirizzare e imprimere svolte decisive all’architettura contemporanea. Tenendo a mente la poetica wrightiana dell’architettura organica, resa concreta in opere incredibili quali la Casa sulla cascata (1935-1939), in questo breve approfondimento si tenterà di mettere in luce le suddette affinità tramite l’analisi di due creazioni ritenute perfetti paradigmi del pensiero dei rispettivi autori: la Tomba monumentale Brion (Carlo Scarpa, 1969-1978) e la Church of the Light (Tadao Ando, 1988-1989).
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«Una persona era morta, in Italia, la famiglia voleva onorare il merito di un uomo venuto dal popolo, noi diciamo “dalla gavetta” e che, col suo lavoro, era diventato una persona importante. A me bastavano cento metri quadrati, invece sono duemila e duecento metri quadrati. Però il proprietario deve ben costruire un muro di cinta! Allora ho fatto la cosa che avete visto. Ho deciso di mettere qui la tomba, i sarcofaghi, come si potrebbe dire. Per la tomba, il posto al gran sole, allora qui: visionepanorama. L’uomo morto chiedeva di essere vicino alla terra, perché è nato in questo paese. Allora io ho pensato di costruire un piccolo arco, che chiamerò “arcosolium” (“arcosolium” è un termine latino dei primi cristiani). Nelle catacombe, le persone importanti o i martiri venivano seppelliti con una formula più costosa, si chiamava arcosolium: non è altro che un semplice arco, così. È bello che due persone che si sono amate in vita si pieghino l’una verso l’altra per salutarsi dopo la morte. Non potevano essere diritti perché è la posizione dei soldati. Questo diventava arco, diventava ponte: ponte in cemento armato, arco in cemento armato sarebbe rimasto un ponte: per non avere questa sensazione di ponte bisognava decorarlo, dipingerne la volta. Invece ho messo il mosaico, che è nella tradizione veneta, interpretata a mio modo, che è un modo diverso. Il grande viale di cipressi che porta al cimitero è nella tradizione italiana: è un percorso. Questo percorso è chiamato “propilei”, vuol dire porta in greco, entrata, questo è il portico. Si comincia da qui: questi due occhi sono la visione. Per questo il terreno era troppo grande, intanto è diventato prato. Per giustificare il grande spazio, ho pensato che sarebbe stato utile un piccolo tempietto per fare funebre, funerale è una parola orribile! Ancora troppo grande; allora abbiamo rialzato il terreno perché io possa veder fuori. Da qui posso veder fuori e da fuori non si può vedere niente. E allora: tomba, familiari, parenti, tempietto, altare. Dal paese si arriva per un ingresso speciale, la chiesa, il funerale, poi il cimitero del paese, la cappella: questa appartiene a tutti, il terreno è del demanio. La famiglia ha soltanto il diritto di essere sepolta. Qui un percorso privato fino a un piccolo
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padiglione d’acqua, unica cosa privata. Questo in sintesi, è tutto. Il luogo dei morti ha il senso di un giardino: del resto i grandi cimiteri americani del diciannovesimo secolo a Chicago sono dei grandi parchi. Non è il cimitero di Napoleone, terribile! Ci si può andare in automobile. Adesso i cimiteri sono fatti di pile di scatole da scarpe sovrapposte meccanicamente. Ho voluto però rendere il senso naturale del concetto di acqua e prato, di acqua e terra: l’acqua è sorgente di vita». Con queste parole, intrise di tradizione funeraria giapponese, Carlo Scarpa (1906-1978) descrive il suo “testamento costruito”, sublime e perfetta traduzione architettonica del proprio pensiero progettuale. Commissionata da Onorina Brion Tomasin in memoria dell’amato coniuge Giuseppe Brion, prematuramente scomparso, la Tomba monumentale Brion (1969-1978) si estende su un terreno di circa duemila metri quadrati, disposto a “L” intorno a due lati del vecchio cimitero di San Vito di Altivole, nei pressi di Asolo. Proseguendo lungo l’asse segnato dal percorso principale del cimitero del paese, a cui si arriva tramite un lungo viale di cipressi – il viaggio è esso stesso parte integrante dell’esperienza –, si raggiungono i “propilei”, parzialmente coperti dalle fronde cadenti di un cedrus atlantica glauca pendula. Tre gradini, spostati verso sinistra rispetto all’asse e frapposti a due gradoni a doppia alzata – distanziare i gradini, variarne le altezze e spostarli dall’asse centrale è una soluzione che
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Scarpa aveva già adottato in altre strutture (si veda, come esempio, la scala interna del Negozio Olivetti in Piazza San Marco a Venezia), probabile ricordo od omaggio ai piani fluttuanti della Casa sulla cascata di Wright –, immettono al passaggio coperto che, con percorso perpendicolare all’ingresso, conduce a sinistra alle tombe dei coniugi e, a destra, al “padiglione della meditazione” – concetto, quest’ultimo, fortemente caratterizzante anche le opere di Frank Lloyd Wright (come, per esempio, il Solomon R. Guggenheim Museum di New York) e di Tadao Ando (uno fra tutti, il Meditation Space UNESCO di Parigi). Sulla parete di fondo, realizzata in cemento a vista impresso dal legno grezzo delle casseforme, si aprono due cerchi o anelli intrecciati (probabile richiamo alla simbologia dell’infinito, dell’amore coniugale, del maschile e del femminile) – elemento che ritorna più volte all’interno dello stesso complesso monumentale Brion (nelle acquasantiere presenti all’interno del tempietto e nell’arcosolio) come anche in altri progetti scarpiani (si veda, per esempio, la facciata del Negozio Gavina di Bologna) –, decorati con un giro di tessere musive disposte in modo che l’ordine, rosa a sinistra e azzurro a destra, rimanga identico all’interno e all’esterno del supporto murario e che, quindi, ogni cerchio presenti entrambi i colori – la tradizione della decorazione a mosaico, sempre presente nelle opere di Scarpa, è un chiaro richiamo e omaggio all’antico legame tra Venezia e Bisanzio, qui rielaborato in modo completamente unico e personale da «un maestro di età bizantina casualmente vissuto nel XX secolo che, conseguentemente, usa scritture attuali per far parlare verità antiche».
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A sinistra, nel punto più soleggiato dell’intero complesso, le tombe dei coniugi sono collocate nell’area circolare coperta dall’arcosolio: la simbologia funeraria del ponte, o della grotta, ha infatti da sempre rappresentato la metafora del passaggio dalla vita alla morte, l’inizio e la fine, il ricongiungimento degli opposti nell’unità (si veda, come esempio, il Monumento funebre a Maria Cristina d’Austria di Antonio Canova). Al di sotto del ponte in cemento e lamine di bronzo, i sarcofaghi si protendono l’uno verso l’altro – come in vita, così in morte –, ciascuno realizzato in pietra chiara e scura; i nomi dei defunti, in ebano e avorio, sono poi intarsiati su legno di palissandro. Per ricoprire la superficie
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dell’intradosso, inoltre, anche in questa occasione Scarpa fa uso della decorazione a tessere musive d’oro e colori smaltati, producendo effetti di luminosità particolari e riverberando le tonalità del prato circostante; le urne sembrano così fluttuare e oscillare tra riflessi di luce. Isolate e separate da un ampio manto erboso, le tombe dei parenti sono poste, invece, all’interno di una struttura squadrata, una “caverna”, la cui copertura a falde asimmetriche è tagliata in alto per permettere alla luce di penetrare. In direzione opposta rispetto alla tomba dei coniugi Brion, vi è poi il tempietto, destinato alle funzioni funebri della famiglia e di tutto il paese.
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Ruotato di quarantacinque gradi rispetto all’asse di percorrenza, tale “cubo” in calcestruzzo è isolato dall’acqua che lo circonda, risparmiando, però, i due lati opposti dell’accesso-uscita – perfetta interiorizzazione e reinterpretazione dei tradizionali giardini e templi giapponesi. Camminando sopra blocchi di cemento separati e affioranti dalla superficie dell’acqua – sembrano quasi galleggiare –, si entra all’interno del tempietto; qui, la copertura piramidale evoca ricordi di soluzioni wrightiane (si veda, come esempio, la Beth Sholom Synagogue o il progetto per il Nakoma Country Club) e di antiche architetture lontane.
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La porta, a riquadri in gesso bianco lucidato inscritti in un’intelaiatura metallica – chiaro omaggio ai pannelli divisori presenti nelle abitazioni tradizionali giapponesi –, si apre su un piccolo ambiente da cui si passa, attraverso un’apertura a cerchio quasi completo, allo spazio raccolto della cappella, magistralmente illuminata. Un cono di luce che dall’alto cade sull’altare e il riverbero dell’acqua condotto all’interno tramite aperture praticate nell’angolo dietro di esso, all’altezza del pavimento, inondano e avvolgono infatti lo spazio interno creando un’atmosfera di religiosa tranquillità. La dentellatura del calcestruzzo, inoltre, motivo decorativo ricorrente in tutta l’opera di
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Scarpa, «confonde qui interno ed esterno, aria, materia e acqua, cadenza il cavo soffitto ligneo, modula le superfici, dissolve i profili, si immerge nel lago». L’utilizzo della cornice a dentelli, però, non ha solamente un mero scopo decorativo: essa, infatti, funge da guida ottica durante tutto il percorso, richiama e mette in comunicazione – assieme all’acqua – tutti gli “episodi architettonici” presenti, sottolinea i profili dei volumi e le qualità degli accostamenti materici, è un segno di contorno, evidenzia i rapporti dimensionali tra le parti e convoglia l’attenzione su dettagli e particolari nodi formali.100 Modellata con cura e sapere artigianale, infine, essa rievoca ricordi e suggestioni di wrightiana memoria: si pensi, per esempio, alla tecnica del Textile Block elaborata da Wright per le sue ville californiane.
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Ritornando ai “propilei” e percorrendo, questa volta, la direzione opposta a quella verso le tombe, si giunge alla porta di vetro-cristallo che il meccanismo di pesi e contrappesi posto sulla parete esterna fa affondare o emergere dall’acqua. Superato questo divertissement ingegneristico, si arriva così al “padiglione della meditazione”: una “scatola” lignea dal profilo spezzato, aperta in basso e chiusa in alto, posta a copertura di un’isoletta circondata da acqua in cui nuotano pesci (soprattutto carpe giapponesi) e sono sospese ninfee; un vero e proprio giardino orientale. A racchiudere e abbracciare l’intero complesso monumentale Brion, infine, un muro in calcestruzzo corre lungo tutto il perimetro, come una cornice; inclinato verso l’interno, tale “limite” apre e chiude la visuale, separa e
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mette in comunicazione. Per chi osserva la costruzione dall’esterno, infatti, la recinzione costituisce una barriera, sul cui orizzonte si stagliano i corpi di fabbrica interni della tomba; per coloro che, invece, si trovano all’interno del recinto, questo appare come una sottile linea che inquadra il paesaggio. L a To m b a m o n u m e n t a l e Brion, quindi, non è semplicemente un “luogo per fare funebre”, un cimitero. È un’esperienza; un percorso di introspezione e meditazione per ritrovare se stessi; un momento di serena riflessione in stretto contatto e armonia con la natura; un luogo di pace e tranquillità escluso dal mondo esterno; la completa esaltazione dei sensi; va vissuta. Una volta all’interno, la molteplicità dei luoghi e delle mete possibili che fin dall’inizio si propongono al visitatore – ne è conferma la possibilità di ripercorrere strade già seguite – frammenta il tema funerario, spostandolo
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progressivamente dalla dimensione privata (della famiglia) a quella universale (del paese e di noi stessi), giungendo così all’assenza di ogni gerarchia e alla più totale libertà di movimento e, soprattutto, spirituale. Acqua e pietra – i loro giochi, la loro interazione – costituiscono gli elementi centrali su cui si edifica lo spirito del luogo: l’acqua bagna la pietra e la pietra si riflette e si immerge al di sotto dello specchio d’acqua. Anche in questo caso, vi è un significato allegorico: secondo la tradizione orientale, infatti, la pietra bagnata dall’acqua rappresenta il sorgere del mistero della vita. Altro che cimitero, quindi; come scrive Manfredo Tafuri, la Tomba Brion è una «necropoli ludens». Non a caso, lo stesso Scarpa ha desiderato essere sepolto in questo luogo. «Non c’è cultura senza tomba, non c’è tomba senza cultura. Si vis vitam, para mortem. Se vuoi poter sopportare la vita, disponiti ad accettare la
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morte» – Carlo Scarpa. Stessa spiritualità e medesima sapienza artigianale infusa nel trattare i materiali – cemento, vetro e metallo –, seppur con esiti differenti, sono riscontrabili nelle opere dell’architetto giapponese Tadao Ando (1941): una fra tutte, la C h u rc h o f t h e L i g h t (1988-1989). Costruita presso Ibaraki, un sobborgo residenziale a nord-est di Osaka, su commissione del reverendo
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Noboru Karukome per la congregazione Ibaraki Kasugaoka, appartenente alla Chiesa Unita di Cristo in Giappone, la Chiesa della Luce si sviluppa su una superficie di soli centotredici metri quadrati in cui una struttura a “scatola” rettangolare in cemento viene attraversata, con un’angolazione di quindici gradi, da un muro autoportante che obbliga quindi il visitatore a girarvi attorno per entrare nella cappella. All’interno, le pareti in cemento – grigie,
levigate e “forate” costituiscono la firma di Ando –, i pavimenti e le panche in legno grezzo, realizzati con assi da impalcatura dipinte di scuro, enfatizzano la sobrietà e il minimalismo del progetto. Secondo una soluzione tanto insolita quanto geniale, il pavimento digrada poi verso l’altare – fulcro e simbolo della fede –, posto accanto al muro posteriore dove due aperture, una orizzontale, l’altra verticale, formano una croce da cui penetra la
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luce; l’attenzione, così, viene fatta convergere nel punto in cui è resa concreta l’analogia Dio-Luce. Inizialmente, l’architetto giapponese aveva proposto di non inserire il vetro nelle fenditure che formano la croce, per consentire al vento di soffiare liberamente attraverso la cappella alla stregua della luce; soluzione, però, ovviamente respinta a causa del freddo invernale, in quelle zone particolarmente pungente. Significativa,
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tuttavia, è l’enfasi costantemente posta da Ando nel cercare di includere nelle sue creazioni qualunque aspetto e manifestazione della natura: «nella mia architettura cerco di creare situazioni dove l’uomo e la natura possano unirsi, entrare in comunione. All’interno dei miei edifici voglio realizzare degli spazi che inducano a dialogare con i materiali naturali, dove sia possibile sentire la luce, l’aria e la pioggia»; molto del significato delle opere di
Tadao Ando può essere infatti colto in quei rapidi attimi in cui la presenza della natura va e viene oltre le pareti di cemento. Lo spazio, il silenzio, la nuda geometria, il cemento levigato e traforato, il vetro, il metallo, la forte materialità, la tangibilità, il contrasto tra luce e oscurità, tra pieno e vuoto, tra solido e leggero, l’aria e la luce che penetra dalle aperture spostando il simbolo della croce sulle pareti in maniera differente a seconda del momento della giornata:
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questi sono gli elementi che costituiscono lo spirito della Chiesa della Luce, uno spazio trascendentale regno della tranquillità e della meditazione, un luogo in cui la normale percezione dello spazio e del tempo risulta sospesa. Come per Frank Lloyd Wright e per Carlo Scarpa, infine, anche per Tadao Ando l’acqua assume un ruolo fondamentale, vera e propria linfa vitale della sua architettura. «Ovunque si costruisca, esiste già un panorama e per me la lettura del panorama è una fase estremamente importante. È necessario costruire qualcosa di unico per quel
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luogo specifico. Portare alla luce l’esclusività del panorama, ecco ciò che cerco di fare. L’architettura ha infatti dimenticato che lo spazio può essere fonte di ispirazione. Per i giapponesi, l’acqua non è avvertita soltanto come presenza fisica, ma anche come fattore spirituale. Per esempio, esiste un modo di dire secondo cui si può dimenticare il passato gettandolo nell’acqua. L’impiego dell’acqua nella mia architettura fa dunque parte del tentativo di inserire una dimensione spirituale, direttamente connessa al pensiero e alla tradizione giapponese». Insomma, Viva l’Arte Viva!
La relación entre cine y psicología ha sido fructífera desde los albores de ambas disciplinas. De hecho podríamos decir que prácticamente nacieron al tiempo, al final del siglo XIX. Por supuesto que la llamada psicología filosófica, el estudio del alma humana, es tan antigua como la historia del pensamiento, pero es habitual situar el nacimiento de la psicología científica en el año 1879, cuando Wilhelm Wundt crea en Alemania el primer laboratorio de psicología experimental.
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PSICOLOGÍA Y CINE una beneficiosa y necesaria unión
Wilhelm Wundt en su laboratorio, de pie en el centro y flanqueado por Diettrich, Wirth, Klemm y Sander, de izquierda a derecha.
Alberto Bonoso Criado
Psicología y cine una beneficiosa y necesaria unión
Este laboratorio se funda quince años antes de que aparecieran las primeras imágenes proyectadas por los hermanos Lumière el 28 de diciembre de 1895 (la llegada de un tren a la estación, Figura 2), fecha que se ha considerado como el origen del séptimo arte. Pero este invento tuvo varios antecedentes también ilustres, que coinciden en el tiempo con el laboratorio de Wundt. Por ejemplo, en 1872 Eadweard Muybridge realizó una serie de fotografías sucesivas de la carrera de un caballo. Las introdujo en una rudimentaria máquina conocida como “linterna mágica” y las proyectó rápidamente, lo que generaba en los espectadores la sensación de movimiento.
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Psicología y cine una beneficiosa y necesaria unión
La relación con la psicología no podía ser más estrecha en sus orígenes, ya que lo que estudiaban los primeros psicólogos son cuestiones relacionadas con la percepción y la sensación. Lo que realmente les interesaba era relacionar el mundo físico y el mental a partir de experimentos contrastados. El cine encajaba perfectamente en estas preocupaciones iniciales de los psicólogos experimentales. Imágenes fijas que nos parece que están en movimiento. Es en nuestra mente donde se produce lo que entonces se consideraba poco menos que un milagro y los primeros psicólogos se afanaban por explicar con técnicas muy rudimentarias.
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Psicología y cine una beneficiosa y necesaria unión
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Aquellos últimos cinco años del siglo XIX y los primeros del XX fueron muy importantes para la consolidación del cine y para el arranque de la psicología como ciencia y como profesión. El año en que nació el cine, Sigmund Freud y su colega Breuer
americano John Dewey escribe un artículo que da origen al movimiento funcionalista que es el antecedente directo del conductismo junto a la escuela rusa de psicología, y poco más tarde el fisiólogo ruso más ilustre de la época, Ivan Pavlov, presentó en
pequeño estudio de grabación en París iniciando la ficción cinematográfica con películas como Viaje a la luna, Alfred Binet construye en su gabinete los primeros tests para la medida de la inteligencia. El mismo año en que los Lumière jugaban con su
publicaron el libro Estudios sobre la histeria, que todo el mundo coincide en señalar como el comienzo del psicoanálisis, un año después el psicólogo
1904 en Madrid su teoría sobre los reflejos condicionados. Por otro lado, mientras el prestidigitador francés George Méliès monta su
invento se leía en París el libro Psicología de las masas de Gustavo Le Bon, uno de los primeros textos de psicología social.
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Psicología y cine una beneficiosa y necesaria unión
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Desde su nacimiento, el cine y la psicología han establecido sólidos lazos. Numerosas películas basan su argumento en teorías o experimentos psicológicos, otras muchas exploran los principios básicos de la atención, la memoria o la percepción para
realidad comportamientos, modas y estilos. El cine sacó de los elitistas g a b i n e t e s vieneses los principios del psicoanálisis, popularizó la profesión del psicólogo y, sobre todo, amplió el
sorprendernos, emocionarnos o asustarnos. Además, del cine y de su sucedáneo televisivo, han saltado a la
abanico de actitudes, emociones y conductas que antes se propagaban lentamente a través de la literatura o el teatro.
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Alberto Bonoso Criado
Psicología y cine una beneficiosa y necesaria unión
Alla Salute A FILM BY BRUNELLA FILì
Synopsis “Can one be happy despite being gravely ill?” This is the question that Nick Difino, a famous food performer, is asking himself after he has been diagnosed with cancer. Nevertheless, Nick doesn’t want to give up to what makes him happy: his job, his beloved ones… and Food. Luckily, lifelong friends are on his side: not just common friends but chef and artists from all over Italy. Simone Salvini, Roy Paci, Paola Maugeri: interchanging their voices to the main character’s video-tale, these special guests cook Nick’s favorite dishes, trying - between a crudaiola pasta and some eggplant parmesan- to answer the same question. Besides, as Nick says: “happiness can be found everywhere… it’s better if you find it at the table!”. OFFICIAL TRAILER * https://vimeo.com/273780865
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PRODUZIONE/PRODUCED BY: OFFICINEMA DOC e NIGHTSWIM PRODUCERS : Brunella Filì, Ines Vasiljievic, Nicola Lusuardi, Stefano Sardo SUPPORTED BY : - istituto Tumori iRCSS Giovanni Paolo II Bari - Apulia Film Commission VINCITORE DEL FONDO APULIA REGIONAL FILM FUND 2017 Assessorato all’ Agricoltura - Regione puglia PREMIERE STATUS: International Premiere DIRECTED BY : Brunella Filì COUNTRY: ITALY - DURATION : 75 MIN - YEAR: 2018 GENRE: FEATURE DOCUMENTARI WRITTEN BY: ANTONELLA GAETA - BRUNELLA FILÌ – NICOLA DIFINO WITH: NICOLA DIFINO - SPECIAL PARTICIPATION BY ROY PACI, SIMONE SALVINI, PAOLA MAUGERI, DON PASTA, DIEGO ROSSI, AND NICOLA IGNOMERIELLO, LELLA POVIA, ATTILIO GUARINI, VINCENZO DELUCI. UNIT MANAGER: FORTUNA MOSCA CINEMATOGRAPHY: DAVIDE MICOCCI EDITING: ANDREA FACCHINI CON ALESSANDRO ALLIAUDI SOUND: TOMMASO DANISI SOUNDTRACK: GABRIELE PANICO, VINCENZO DELUCI - CON LA PARTECIPAZIONE DI ROY PACI - PRESS: POOYA POST VIDEO: OCTOPOST LAB POST AUDIO: ALESSANDRO FUSAROLI E BORIS D’AGOSTINO FORMAT: DCP – 16:9 - COLOR AWARDS 2018 - WINNER BIOGRAFILM FESTIVAL 2018 - Lifetales Award JURY PRIZE - WINNER BIOGRAFILM FESTIVAL 2018 - AUDIENCE AWARD - WINNER - Human Rights Award for Best Film - COMPETITION - Cinema del Reale 2018 Specchia - SPECIAL SCREENING - DIALOGHI DI TRANI 2018 - CLOROFILLA FILM FESTIVAL 2018 - FESTIVAL TUTTI NELLO STESSOPIATTO 2018 LifeTales Award | Biografilm Italia 2018, motivations: “To the most compelling story in competition. The award is given to a film that describes the dramatic story of his protagonist with an honest, light and humorous approach. Although the same subject has been dealt with in many other films, it manages to convey an optimistic and unexpected message of hope”. Best Feature Film Award - Human Right Film Festival 2018: “With an ironic and sometimes cruel language, but never tragic, Alla Salute presents a world in which openness and community are an integral part of the therapy. Turning the aesthetics of sel- fie upside down, the author Brunella Filì tells us about cancer, a taboo that each of us knows, and that continues to arouse fear and shame. Last step of a road undertaken, with less levity, by Wen- ders and Moretti. It shows, with courage, realism and irony, the effort necessary to reach the other side of the sea and of evil. Difino, chef in TV and in daily life, reminds us that food is the primitive form of sharing, caring and integration of cultures “.
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DIRECTOR’S STATEMENTS “Hello, nick, i’m replying just now because i needed time to process everything. i apologize for not saying much to you over the phone. With an instant flashback i recalled the time when it happened to my father. I was 14 years old and he was everything to me. i was just a girl. i remember the hair in the sink, the labyrinth of white hospital corridors, the sign “visitors not allowed”. i remember my father waving goodbye to me from a window of a sterilized room; i remember doctors talking above my head. i remember my mother talking on the phone and my grandmother cooking: because eating healthy was of the utmost importance. The outside world was fading. All that existed was the hospital room where our lives lingered suspended. After some time he finally had the marrow transplantated and started to get better. Seeing him struggle and overcome obstacles with a smile, coping with this process both physically and mentally, gave birth to a spring of energy that was vital for his recovery. That is why i feel we have to document this and create a touching story that could, as i assume, help others too. i am very flattered that you chose me to direct it. i am at your disposal and will be by your side during your journey. What i ask of you is to record everything in detail: thoughts, activities, calls, moments of solitude, meetings with people and the hospital staff, the beginning of your treatment, your happy days and your bad days; starting from today. you can use any device you like, the quality of the video is not important. What matters is to maintain a connection between the emotions that you experience, in order to reconstruct them bit by bit and put the pieces of the puzzle together. i believe it’s what you had in mind when you called me, and i am here”. (Brunella Filì, director; e-mail from 14/5/2015)
The overall view of the “video diary” triggered a huge emotional power inside me. This was so- mething that i had predicted, only partially though because what i felt was even more powerful than i had thought. it helped me to overcome the habitual pressure that emerged as i had to confront my emotions once again. The intuitive idea that a disease can give birth to happiness revealed itself as authentic, despite being a huge paradox. it shook up energies, rouse groups to action, brought changes and generated incidental moments of joy. Therefore: Can one be happy despite being gravely ill? The answer is in the footage produced during the course of the disease, which is going to be reviewed and edited with Cinema’s instruments and vision, to go deeply inside with an artistic and emotional interpretation of what happened. Red line of the narrative structure is, of course, Food, a daily presence, that i used also to propose a reflection on the act of cooking, on the collective, choral, almost cathartic as well as therapeutic act of cooking/eating, very far from the commercial trend of the last tv-shows. I decided to keep the ironic language of the protagonists, always light, also in sometimes terrifying situations, typical of many southern parts of the world - to underline the power of the community, as part of the therapies, and never forcing on the tragic aspect of the pain.
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Brunella Fili Regista e Produttrice Bari, Italia filibrunella@gmail.com
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EL LEGADO ARTÍSTICO DE LA FAMILIA RENOIR
DEL LIENZO AL FOTOGRAMA
Jean Renoir afirmaba que el cine es todo lo que tenga movimiento en una pantalla y si hay un gigante del Impresionismo que capte en sus lienzos el dinamismo y la espontaneidad de lo que ocurre a su alrededor ese es su padre, Pierre-Auguste Renoir. Los dos creadores compartieron a lo largo de su vida mucho más que la típica relación paterno filial, pues ambos han quedado unidos por lo que se aportaron el uno al otro, por las mujeres que protagonizaron momentos claves en su desarrollo creativo y, sobre todo, por la huella que sus producciones han dejado.
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Jean fue el segundo hijo de los tres que el matrimonio Renoir tendría, llegando al mundo cuando su padre ya era un pintor consolidado que había realizado obras maestras como Baile en el Moulin de la Galette o Almuerzo de remeros, máximas expresiones de su estilo. Jean va a crecer entre paredes cubiertas con esos cuadros que van conformando los recuerdos de su infancia, enmarcada por paisajes y desnudos. En el momento de su nacimiento, en 1894, entra a trabajar en casa de la familia Gabrielle Renard como niñera del pequeño, un personaje que tendrá una indiscutible influencia tanto en el padre como en el hijo. Jean crea un estrecho vínculo con su querida nodriza, a la que llamaba cariñosamente Bibon y a la que consideraba su segunda madre; a ella le debe sus primeros
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contactos con el mundo del cine cuando apenas contaba dos años de edad y lo llevó a ver un cinematógrafo en una sala de proyección. El futuro cineasta se definía a si mismo como un niño mimado que solo quería estar en brazos de Gabrielle y así será como su padre empieza a retratarlos a ambos para acabar encontrando en ella una de sus principales musas. Renoir realizó algunos de los retratos más sensuales y llenos de luz con Renard como modelo, además de ser un gran apoyo cuando el artista sufría de grandes dolores por culpa de su artritis y necesitaba ayuda para sostener el pincel entre sus dedos. Para Jean, Gabrielle se convirtió en un pilar esencial de su formación: lo llevó a ver el guiñol, que
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se convertirá en una temática recurrente de sus películas, acudían juntos a las representaciones de teatro que tenían lugar en los Grandes Bulevares, sobre todo dramas de sangre que él más tarde recogerá para crear sus propias historias, etc. Su niñera era también la única que conseguía convencerlo de que posara cuando su padre quería retratarlo, pues Renoir sentía una absoluta fascinación por la figura humana y solía plasmar en sus lienzos a los miembros de su familia en distintas situaciones. Del pequeño Jean le interesaba especialmente su larga cabellera dorada y él mismo recuerda como el pintor se quedaba absorto con el reflejo de la luz en su cabello afirmando que era como una cascada de oro. También comentaba que no era
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demasiado difícil posar para el maestro, ya que éste no exigía una inmovilidad total y más bien parecía huir de ella. El hijo se convierte de esta manera en un testigo único del arte y el trabajo de su padre, no podía imaginar su casa sin esos lienzos decorando cualquier espacio y le chocaba ver como algunos de ellos iban desapareciendo y no se quedaban con él. Gabrielle fue la primera gran conexión entre ellos y aunque dejó a los Renoir para casarse, cuando enviudó en 1955 se trasladó a vivir con Jean y su familia a Beverly Hills donde permaneció sus últimos años. El propio Jean dejó escrito sobre ella que “fue el criterio de todo cuanto estaba bien”. El joven terminó su estudios y con el estallido de la Primera Guerra Mundial
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se alista para terminar sirviendo en el cuerpo de aviación. En estos años le atrapará definitivamente su amor por el cine ya que aprovecha cada permiso para quedarse en París y empaparse de las películas de Chaplin, convirtiéndose en un verdadero fanático y empezando a interesarse por otras obras cinematográficas: “a veces era capaz de ver tres buenas películas diarias, dos sesiones de tarde y una de noche (…) el cine se me abría dispuesto a acogerme”. En su papel de espectador se entrega por completo a este nuevo universo que se muestra ante él, pero sin osar plantearse la posibilidad de que podría algún día formar parte del mismo. Su hermano mayor, Pierre, actor de teatro y que acabará protagonizando algunos de sus films, fue el primero que le habló de la
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« Quiero que un rojo sea auditivo y resuene como una campana, de no ser esto, añado todavía rojos y demás colores, hasta lograrlo. No soy más astuto en esto. No tengo reglas, ni métodos. »
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figura del director y de esta manera Jean se interesa por grandes nombres como el de Griffith, estudiando esos primeros planos de actrices como Lilian Gish que tanto llegarán a hipnotizarle. Entre tanto, la muerte de su mujer en 1915 había dejado en Renoir padre un profundo dolor y una soledad absoluta, ya que sus dos hijos mayores habían marchado a la guerra donde ambos fueron heridos. Será en estos momentos cuando entre en escena Andrée Heuschling, una modelo que trabajaba en la Escuela de Arte Decorativo de Niza y a la que todos conocían como Dédée. Ella le devolverá al pintor su ilusión y se convertirá en su última gran musa, protagonizando obras como Las bañistas.
« El elemento más importante en una fotografía no puede ser definido. »
Para Jean no será solo la última modelo a la que retratará Renoir, pues encontrará en Dédée a su futura esposa: “su aparición era como un toque de varita mágica (…) Dédée adoraba a mi padre y el sabía agradecérselo. Ella le parecía a Renoir muy capaz y deseaba vernos juntos trabajar modelando y decorando objetos útiles”. A pesar de que el pintor intentó transmitir a su hijo la pasión por la cerámica para que aprendiera un oficio, será Dédée la que finalmente consigue que Jean abrace su
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amor por el cine. El director llegará a afirmar que fue su mutua pasión por este mundo lo que les llevó a unir sus vidas, pues quería convertir a su mujer en una estrella.
« He estado cuarenta años para descubrir que el rey de todos los colores es el negro. » Begoña Ibáñez
Con la muerte del genio impresionista en 1919 la herencia que deja a Jean a través de sus cuadros será la herramienta que usará para comenzar su carrera como director: “cada paso estaba marcado por un sacrificio que me desgarraba el corazón (…) Cada venta me parecía una traición”. Los lienzos que le habían acompañado durante su niñez eran los que ahora costeaban sus progresos en el cine, sintiendo un profundo dolor cada vez que se desprendía de una obra de su padre. Afortunadamente podrá recuperar parte de su patrimonio familiar en la década de los 40, volviendo a comprar muchos de los cuadros del artista para su mansión de Beverly Hills, recreando el ambiente de su infancia y ejerciendo una importante labor de difusión del legado artístico de Renoir. Jean dirige su primera película, Catherine, en 1924. Un título que hace referencia al nuevo nombre que había adoptado su esposa, Catherine Hessling. Juntos realizarán otras cuatro películas, como La hija del agua o Nana, en las
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que la actriz ofrece una interpretación casi expresionista y se empieza a percibir el influjo que Renoir tuvo en su hijo, sobre todo en las escenas de espectáculos y los paisajes de estética impresionista. Aunque la acogida de sus primeras obras fue algo fría Jean no se rinde y con la llegada del sonoro unido al rodaje de La Golfa en 1931 hay un gran cambio en la carrera del cineasta. En estos momentos el matrimonio se separa y él se decanta por un entorno más realista para sus películas, con reminiscencias de los cuadros de su padre siempre presentes. Una de las cintas donde más se evidencia esta herencia es en Una salida al campo, de 1936, basada en un relato de Guy de Maupassant y donde Jean parece dar vida a los lienzos creados por su padre, sobre todo en lo que al tratamiento de la luz y el movimiento se refiere. Pero va mucho más allá para convertirse en un narrador de historias, para mostrar una sensibilidad mucho más profunda y no jugar solo con la belleza del paisaje. Ante el inminente estallido de la Segunda Guerra Mundial, Jean alumbrará entre 1937 y 1939 las que son consideradas sus obras maestras, demostrando su compromiso político e intentando transmitir un mensaje de paz: La gran ilusión, La bestia humana y La regla del juego, films que supusieron un
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absoluto fracaso en el momento de su estreno debido al inicio del conflicto bélico y que hoy son historia viva del cine. Jean se exilia en 1940 a Estados Unidos y tras una etapa donde filma ocho películas para Hollywood, vuelve a Francia y rueda en París entre 1953 y 1956 algunas de sus películas más importantes ambientadas en la Belle Epoque, como French Cancan o Elena y los hombres. Aprovechará este regreso para ofrecer un homenaje al París de su padre, al Montmartre de los impresionistas que recordaba de su niñez, siendo inevitable que cuadros como Baile en el Moulin de la Galette se vean reflejados en las escenas festivas que imagina. Sin embargo no solo se encuentran referencias al pincel de Renoir, sino que Jean bebe de otros artistas como TouluseLautrec para dar vida a los escenarios protagonizados por el cancán. Frenh Cancan es definida por su creador como “un homenaje a nuestro oficio, es decir el oficio del espectáculo”. Al definir el arte cinematográfico como oficio no hace sino una vez más parafrasear a su querido padre, que nunca aceptó el término “artista” y prefería definirse a sí mismo como “artesano”. Encontrando cada vez mayores dificultades para producir sus películas, Jean optará en sus últimos años por trabajar para la televisión y dedicarse a escribir, publicando un libro sobre Renoir y otro que será su propia autobiografía. Finalmente se retira en 1970 a Beverly Hills, donde muere en 1979. Su aportación al desarrollo de la historia del cine francés antes de que se iniciara la Nouvelle Vague, influyendo en la obra de directores clave como Truffaut, es absolutamente esencial.
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El propio director escribió: “me he pasado la vida intentando determinar la influencia de mi padre en mí, saltando períodos en los que hacía todo por escaparme de esa influencia y otros donde utilicé fórmulas que heredé de él”. Padre e hijo estuvieron sin duda profundamente unidos por su amor a la naturalidad, a la espontaneidad, al proceso creativo, a la familia, a las figuras femeninas protectoras como fuente de inspiración, a Flaubert y a Zola, en definitiva a la sensibilidad artística que les acompañó a lo largo de toda su vida.
Begoña Ibáñez Doctora en Historia del Arte Granada, España bibanez@correo.ugr.es
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ART SOON Políticas del vaivén entre museos, sohos y centros culturales en Málaga
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Se habla de “efecto Guggenheim”, de “ciudad museo”, o incluso de “megamuseo”. Oímos hablar de un Soho, de “otro Soho”, o más bien “el verdadero Soho”, el alternativo. A un centenar y medio de kilómetros un macrocentro de creación contemporánea, justo al lado un palacio del XVII se derrumba, coyuntura que aprovecha el célebre arquitecto de turno para construir un bonito hotel resplandeciente, de lustroso oro macizo, en él se celebrará una bienal de arte contemporáneo que de seguro atraerá mucho turismo y será motor económico de la ciudad. Sin duda estamos asistiendo a un proceso de difícil definición, una especie de “boom”, aunque más bien deberíamos definirlo un “neo-boom”, porque no
somos nuevos en esto de las burbujas, aunque ahora en cierto modo sí: un boom museístico o artístico.
“Málaga pasa de la burbuja del ladrillo al ´boom´ de los museos”. La opinión de Málaga, 19 de octubre de 2014. Partimos del paradigmático presente malagueño, un presente que nos pisa los talones, que se transforma instantáneamente en pasado, una iniciativa reacciona a otra, se corta una nueva cinta, se inaugura un futuro incierto, incrédula la mirada de vecinos, gentes que subtitulan el nombre de su ciudad con la aposición explicativa “ciudad de museos”. Una región, Andalucía, cuyos destellos
de modernidad brillan reflejados en las resplandecientes placas conmemorativas que homenajean el distinguido mecenazgo de sus AA. II (Altezas imperiales), el Excmo. y Rvdmo. Dr. (excelentísimo y reverendísimo doctor), S. R. M. (su real majestad) o S. M. G. M (su muy graciosa majestad), destellos que se apagan con gestiones regionalistas delirantes. Proyectos urbanos que se compran con la fecha de caducidad vencida, cimentados en la utópica definición de una “ciudad contemporánea como una estructura pedagógica estable, continua y consistente en la construcción de ciudadanía y urbanidad, donde la cultura y la educación son los ejes transversales del proyecto político”.
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Titánicas empresas que se sirven de coyunturas socio-políticas, a veces tan fugaces, que sufren el aborto antes de haberse concebido. La evolución y definición del museo moderno como un laboratorio educativo, de urbanidad y de regulación social, está sometido, desde sus inicios en el siglo XVII, a las mutaciones que exige una sociedad en transformación. Se trata de procesos de aclimatación lentos que se prolongan en el tiempo y que en ninguno de los casos se debe corresponder con una época de “vacas gordas” y mucho menos con cuatro años de legislatura. Abrir un museo es crear un nuevo ecosistema que, voluntaria o involuntariamente, altera el orden de las cosas, significa implantar un centro que afecta de distinta manera a un entorno vivo y sumiso a sus sinergias, que establece distintos modos de interacción con el resto de elementos de una ciudad. El museo es un mediador por dos motivos, primeramente porque se encuentra en el medio de estas constelaciones urbanas, y en segundo lugar porque actúa como transmisor de un mensaje al público.
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Hablamos de dinámicas urbanas vivas, que convierten la ciudad en una especie de laboratorio de experimentación demasiado arriesgado. Si alguien dijo alguna vez “mucho museo para tan poco país”, en el tejido peatonal que compone el “centro comercial abierto” de Málaga existen aproximadamente una decena museos, todos ellos inaugurados en los últimos
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14 años. Una ambiciosa apuesta por la cultura que separa a una crítica, un tanto ambigua, entre aquellos que viven y se reconocen en un bullicioso presente y aquellos otros que apelan al despilfarro y la poca sostenibilidad. Más lejos de cualquier análisis político o reivindicativo, lo cierto es que la oferta cultural malagueña en la actualidad es amplia y continua.
En contraposición, existe cierto descontento en algunos sectores culturales autodeclarados “huérfanos” que contemplan como la ciudad presta sus máximas atenciones al arte contemporáneo. Esta inclinación de la balanza viene motivada por el afán de modernización que persigue manifiestamente la ciudad, para colocar su nombre en el circuito de las ciudades modernas de
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s ciudades modernas de Europa y América, con guiños al Soho neoyorkino y londinense, a las norias panorámicas de Londres y Paris o a los puertos de Marsella y Barcelona. Una ciudad en la que franquicias del arte han visto un nicho oportunista entre el turismo y la especulación, con sedes del Museo Ruso de San Petersburgo, del Museo Thyssen o el primer Pompidou fuera de Francia. En un intento por expandir y repartir la concentración de las instituciones culturales por diferentes zonas de la ciudad tradicionalmente excluidas del itinerario, se han utilizado edificios como el de la antigua Tabacalera como sede de la Colección del Museo Ruso de San Petersburgo/Málaga, Sin embargo, el centro histórico sigue centralizando la oferta, como consecuencia, la ciudad se está viendo irremediablemente replegada a la extensión intramuros que la delimitaba en el XVI. Como mencionamos con anterioridad, la función del museo como centro de un ecosistema que genera espontáneamente un tejido de infraestructuras a su alrededor, tales como restaurantes, tiendas, y
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ydemás locales turísticos, ha llegado incluso a institucionalizarse. Ahora el museo controla más allá de sus muros, estereotipando las calles que lo circundan con banderolas que aclaman estar bajo sus dominios, los barrios se “musealizan” y adquieren sus nombres. Es el caso del Entorno Thyssen, una red de más de 70 negocios, desde una tienda de vestidos de novia a un restaurante italiano, que han establecido una relación contractual y mercantilista con el museo. Básicamente consiste en respetar una serie de condiciones impuestas por la institución por las que a cambio se reciben una serie de beneficios, especialmente la reputadísima banderola rosa del Entorno Thyssen. Sus principios tienen como objetivo recuperar la identidad de “un entorno lleno de cultura, patrimonio y comercio” utilizando el peso del “Museo y su marca”. Con esta serie de afirmaciones entramos en grave conflicto con los principios teóricos que definen los museos de arte como instrumentos para mejorar la sociedad. Se incorporan conceptos, hasta ahora inéditos, como “comercio” junto a las palabras “cultura
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y patrimonio”, que nos hablan a gritos de la capitalización de la cultura, que hacen que establezcamos una especie de paralelismo entre el mundo del arte y el de los negocios sin que lleguemos a ser plenamente conscientes. El público comienza a interesarse por el valor económico de un cuadro, por las excentricidades de sus propietarios o por las “celebrities” que asistirán a la inauguración, más que por su valor cultural o incluso
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más allá de su propia subjetividad. Paradójicamente el centro de Málaga es a su vez “histórico” y “comercial abierto”, sin embargo, la mezcla es heterogénea, las antiguas sombrererías, camiserías, sastrerías, tiendas de abanicos, tejidos y demás almacenes, asisten a la implantación sistemática del negocio franquiciado, impersonal y automatizado del código de barras, que ocupa los bajos de palacios del XVII, flanqueando la catedral y el teatro romano.
El ciudadano se encuentra ante un espacio ocupado, usurpado y normalizado, mientras que el turista se reconoce en un paisaje reconstruido y localizado, donde tiene al alcance todo aquello que busca, un espacio legible para todos los públicos, que asume los riesgos de convertirse en un no-lugar, un espacio del anonimato repleto de términos importados de la globalización más pragmática: bed & breakfast, resort, sunset, branding, photocall o selfie.
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También se menciona el término “marca” cuando se habla de museos, se vuelve a enfatizar su carácter mercantilista, estrategias que pretenden dotar de una personalidad autosuficiente a la entidad, permitiendo al público diferenciar el museo-producto entre los pasillos de la ciudadsupermercado. La marca personal (o institucional en este caso), consiste en considerar a determinadas personas (o instituciones en este caso) como una marca, que al igual que las marcas comerciales, debe ser
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elaborada, transmitida y protegida, con ánimo de diferenciarse y conseguir mayor éxito en las relaciones sociales y profesionales. Vistos de este modo, los museos y las obras que albergan en su interior se ven reducidos a souvenirs que se consumen de manera indiscriminada porque se consideran hitos dentro de un itinerario de recorrido casi obligatorio. En una entrevista concedida al periódico ABC, el artista uruguayo Luis Camnitzer reflexiona acerca del
presente y el futuro de los museos, en este caso monográficos, pero que bien podría extrapolarse a cualquier otro: “Los museos monográficos viven un dilema: ser depósitos documentales de obras que alguien determinó que son buenas y que se le presentan al público como algo que admirar y, por otro lado, está el proceso educativo de incentivar el potencial creativo del individuo que va al museo. También tenemos la idea de que cuanta más gente circule
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por los museos más importante es la institución, y, a mí, lo que me interesa es cuánta gente cambia su percepción y se libera de lo convencional después de haber visto una exposición”. ¿Acaso el público reflexiona antes de consumir y asumir estas imposiciones culturales del “mainstream”? ese “alguien, determinó que son buenas”, que son piezas de museo y que por tanto deben convertirse en “algo que
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admirar”, un souvenir, una portada, fondos de selfies, diseminarse en redes sociales y acabar convirtiéndose en una referencia de consumo. Nos preguntamos constantemente si las cosas se están haciendo bien, a veces parece que sí, la ciudad te convence, otras veces no. Surgen así las llamadas corrientes antimuseo. Movimientos que cobran especial impulso en el contexto de la cultura
reaccionaria desarrollada tras el 15-M, (debates emprendidos hace ya varias décadas con ejemplos como Tu c u m á n A r d e e n l a Argentina de finales de los 60). En Málaga, el fenómeno del anti-museo coincide aproximadamente con el movimiento ciudadano de 2011, paralelamente al crecimiento cultural de la ciudad. En torno a ese mismo año nació el Soho Málaga, un
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nombre que se vincula a la idea de barrio de las artes en general y a la ciudad de Nueva York en particular, donde, al igual que sucedió en el Montmartre parisino, el alquiler de lofts y estudios era accesible y asequible para los artistas. Sin embargo, el caso de Málaga nos resulta muy singular por tres motivos fundamentales: el primero es la ausencia de residencias y estudios de artistas, dando prioridad a la incorporación de espacios ocupados por
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distintas manifestaciones de arte urbano, donde grandes murales ocupan laterales de desvencijados bloques de pisos como si se tratase de paneles publicitarios cubreandamios. El segundo motivo en cambio, pasa por su propia autodefinición del Soho Málaga como “un Distrito Cultural que, bajo la marca internacionalmente conocida de ‘Soho’, dinamice el entorno y ofrezca, tanto a la población local como visitante, una moderna y diferenciada
oferta de ocio, cultura, comercio y negocio.” De nuevo, la ciudad y sus instituciones culturales reiteran los términos que verdaderamente les preocupan: “marca”, “comercio”, “negocio” y “ciudad moderna”, y en ningún caso problemáticas educacionales o sociales. Instituciones en crisis de valores, máxime cuando hablamos de un barrio de las artes que pretende ser independiente, alternativo y vivo.
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Por último, la singularidad del Soho Málaga pasa por ser una zona que ha nacido gentrificada, que ha renunciado al “rito de tránsito” por el cual un barrio de artistas, económico y céntrico se transforma en una zona esnob y exclusiva, tal y como sucedió con los casos estadounidense y británico. Sólo ahora nos damos cuenta de que el Soho Málaga es un producto más bajo el paraguas del “mainstream”. Como consecuencia, la ciudad reacciona otra vez:
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“El otro Soho está en Lagunillas”. Sur, 28 de abril de 2015. Un espacio urbano que se reivindica, que decora sus cochambrosas fachadas con murales de serie B, que se enorgullece de ser resistencia, pero que vuelve a caer en el tópico de buscar la identidad en la palabra “Soho” (la 4ª generación de Sohos) y que pide a gritos amparo institucional e “institucionalizante”. La “marca” es el remedio casero que propone Málaga ante una crisis de identidad, su logotipo podría ser la
biznaga o el espeto, pero en una ciudad museo, lo más lógico es que sea Picasso. Sobre este concepto juegan los “anti-museo” López Cuenca y Eugenio Merino en sus respectivas exposiciones Ciudad Picasso (2010) y Aquí murió Picasso (2017). Interesantes iniciativas que analizan sagaz e irónicamente los problemas y oportunidades que hemos estado tratando en estas líneas. Las débiles réplicas del seísmo político-cultural malagueño se dejan sentir en otros puntos de Andalucía con una fatigosa y envejecida puesta en escena. Jaén, una de las periferias culturales por antonomasia, admira los más de 10.600 metros cuadrados de un futuro que siempre parece llegar pero que nunca llega. En Sevilla mientras tanto, se planta una nueva sede de CaixaForum, en un clásico rascacielos, el más alto de Andalucía, donde puedes ir de compras, visitar la última exposición
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de arte y pernoctar en un hotel de altísima gama sin tener que salir del recinto. O Córdoba, donde un Centro de creación contemporánea “a la vieja usanza” se pierde entre sus propios delirios de grandeza. En cualquier caso, asistimos a un momento único, una inquietante recuperación
que se muestra imparcial y ambigua, un público que exige cambios, que consume cultura de un modo diferente, rápido, que necesita cambiar de estímulo. La ciudad desarrolla dos modelos culturales antagónicos que se retroalimentan. Este análisis pertenece a un
momento concreto y un lugar exacto, seguramente perderá toda su validez en un futuro próximo.
“¿Entonces qué somos? Sólo somos consumidores.” Tyler Durden, El Club de la Lucha (película), 1999.
Ramón Melero Historiador del arte Cazorla, Jaén, España rmeleroguirado@gmail.com
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Coordinated by Ramón Melero Designed and edited by Matilde Ferrarin Cover by Dävu Novoa