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lirica
Da Donizetti a Hindemith, cinque registi alla prova
DON PASQUALE, di Gaetano Donizetti. Regia di Damiano Michieletto. Scene di Paolo Fantin. Costumi di Agostino Cavalca. Luci di Alessandro Carletti. Orchestra e Coro dell’Opéra National di Parigi, direttore musicale Evelino Pidò, maestro del coro Alessandro Di Stefano. Con Michele Pertusi, Nadine Sierra, Lawrence Brownlee, Florian Sempey, Frédéric Guieu. Prod. Opéra National, PARIGI - Royal Opera House, Covent Garden, LONDRA - Teatro Massimo, PALERMO.
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Soffia una sana voglia di contestazione nel Don Pasquale che Michieletto firma a Parigi, in una città che quest’anno ricorda gli eroici furori del Sessantotto e i suoi scontri generazionali: lo dimostra il divario tra i costumi dell’attempato protagonista, con tanto di panciera, orrende camicie a scacchi e cravattone dai colori sgargianti, e gli influssi casual degli abiti giovanili, jeans e felpe col cappuccio, giubbini di pelle e occhiali da sole anche tra le pareti domestiche. Ed è proprio lo spazio angusto di una casa borghese, due camere più servizi, che l’ingegnosa scenografia di Fantin fa deflagrare: eliminando i muri, per lasciare intravedere le buone cose di pessimo gusto accumulate negli anni. Incorniciata da quinte nere, che muteranno in bianco dopo la ristrutturazione della casa imposta da Norina, l’azione si trasforma in un ritratto corrosivo e inquieto di una generazione al tramonto: cui fa difetto la leggerezza, e raramente si sorride,
mentre prevale una marcata critica sociale, che inutilmente appesantisce la pensosa, ma mai grave ispirazione donizettiana. Più sottile è l’inserto dei video di Rocafilm: perché associati ai mutamenti di identità di Norina, quasi interpretasse le sequenze di un film in cui assume pose e ruoli contrastanti: l’ingenua fanciulla e la ragazza hippy in un campo di fiori, la ballerina di uno studio televisivo o l’habituée dell’Opéra, in un gioco di teatro nel teatro certo divertente - ma già sperimentato da Carsen nei suoi memorabili Contes d’Hoffmann, vent’anni or sono, come da Marthaler, nella sua Traviata del 2007. E però l’idea è intrigante: perché se Malatesta è il regista di una recita, che ha Norina come protagonista, chi viene gabbato potrebbe non essere solo Don Pasquale, ma anche l’innamorato Ernesto. Il vecchio e il giovane si ritrovano così uniti dal medesimo destino, quella morale secondo la quale chi s’ammoglia va a cercar «noie e doglie in quantità». Giuseppe Montemagno
DON PASQUALE, di Gaetano Donizetti. Regia di Davide Livermore. Scene di Davide Livermore e Giò Forma. Costumi di Gianluca Falaschi. Luci di Nicolas Bovey. Orchestra e Coro del Teatro alla Scala di Milano, direttore musicale Riccardo Chailly, maestro del coro Bruno Casoni. Con Ambrogio Maestri, Rosa Feola, René Barbera, Mattia Olivieri, Andrea Porta. Prod. Teatro alla Scala, MILANO.
Quanto sei bella, Roma, nel Don Pasquale di Livermore! Perché si ride, e di gusto, quando si scopre che questo attempato signore, esponente di un’aristocrazia al tramonto, riesce a sfuggire alle grinfie di una madre che ha i tratti autoritari e castranti di Tina Pica, per cercare una sposina che ne soddisfi gli ultimi languori. Ma il regista torinese identifica nel capolavoro donizettiano forse il primo - e più sublime - esempio di quella commedia di carattere, che diventerà il genere per eccellenza del cinema neorealista italiano del Dopoguerra. Per questo precipita l’azione all’interno di un film in bianco e nero, tra primi piani e mirabolanti sequenze, in cui Roma e i suoi monumenti sembrano usciti dalle pellicole di De Sica e Visconti, di Germi e Flaiano, di Risi e Monicelli. Le rovine della romanità quasi si specchiano nella dimora cadente, e perfino puntellata del protagonista (l’ingegnoso, stupefacente dispositivo scenico architettato con il team di Giò Forma), espressione di una generazione che, lungi dal costruire, si apprestava a lasciare macerie - morali, prima ancora che materiali. Norina non si limita, allora, ad attentare alle virtù del promesso sposo, ma costituisce un’autentica ventata di novità, spavalda rappresentante del boom economico, fondato su una nuova classe imprenditoriale, alle prese con la tronfia bonomia di un maiuscolo Ambrogio Maestri, umanissima, palpitante copia di Aldo Fabrizi. Ma almeno due momenti sono capolavoro autentico e indimenticabile: la partenza di Ernesto, novello Moraldo dei Vitelloni , accompagnato da un assolo di tromba che pare pensato da Fellini, e ha tutta la poesia nostalgica di Gelsomina, la straziante vertigine onirica del clown Polidor; e il clima pasoliniano della serenata finale, immersa in un’alba livida, all’ombra dei proverbiali pini di Roma: in compagnia di lucciole e puttanieri, mentre sullo sfondo si stagliano le impalcature dell’incipiente speculazione edilizia, pronta a ghermire e devastare il Bel Paese. Giuseppe Montemagno
ORFEO ED EURIDICE, di Christoph Willibald Gluck. Regia di Robert Carsen. Scene e costumi di Tobias Hoheisel. Luci di Robert Carsen e Peter Van Praet. I Barocchisti, Chœur de Radio France, direttore musicale Diego Fasolis, maestro del coro Joël Suhubiette. Con Philippe Jaroussky, Patricia Petibon, Emőke Baráth. Prod. Théâtre des Champs-Élysées, PARIGI - Teatro dell’Opera, ROMA - Canadian Opera Company, TORONTO - Lyric Opera, CHICAGO.
All’alzarsi del sipario, per un istante, si ha quasi l’impressione di assistere a uno spettacolo di Bob Wilson, tale è la (apparente) economia di mezzi e, al tempo stesso, la limpida, icastica eleganza della composizione visiva. Ma, a ben guardare, ci sono tutti i tratti che definiscono l’ultima stagione del tea-
tro di Carsen, e che perfettamente si coniugano con la scabra essenzialità richiesta da Orfeo ed Euridice: basta un declivio interamente occupato da una distesa di sabbia che sfiora l’orizzonte, su cui è facilmente identificabile la fossa scavata per dar sepoltura al corpo di Euridice, punto di contatto con l’aldilà. Poi si aggiungeranno unicamente altri elementi naturali, l’acqua e il fuoco, per un’azione teatrale che è, al tempo stesso, elaborazione del lutto, viaggio iniziatico, itinerario interiore e cammino collettivo in cui ci si confronta con la morte. Il regista canadese raggiunge qui vertici di compattezza visiva e di lirica intensità drammatica grazie all’ambientazione, che è al tempo stesso atemporale e mediterranea, con le ronde del coro in abiti neri, cerchio magico entro il quale morte e vita si oppongono, s’intrecciano, miracolosamente convivono. La magia di un rito esoterico si rinnova nella sobria teatralità di silhouettes scolpite nel calore dell’ocra e nel gelo dell’argento, grazie a un sapiente alternarsi di luci, opportunamente sfumate per potenziare sentimenti e passioni dei personaggi. Senza soluzione di continuità, i tre atti di Gluck vengono cadenzati secondo i canoni di una potente tragedia greca, fino a una catarsi di aulica purezza, in un lieto fine che assume il valore del ritorno a equilibri naturali, incorruttibili, eterni. Giuseppe Montemagno
CARDILLAC, di Paul Hindemith. Regia di Valerio Binasco. Scene di Guido Fiorato. Costumi di Gianluca Falaschi. Luci di Pasquale Mari. Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino, direttore Fabio Luisi, maestro del coro Lorenzo Fratini. Con Martin Gantner, Gun-Brit Barkmin, Ferdinand von Bothmer, Pavel Kudinov, Johannes Chum, Jennifer Larmore, Adriano Gramigni. Prod. Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, FIRENZE.
Valerio Binasco debutta nella regia d’opera con la vicenda perturbante, musicata da Hindemith, di Cardillac, orefice-artista inebriato dalla bellezza dei suoi monili al punto da uccidere tutti coloro che ne possedevano uno. Binasco sposta l’azione dall’originale Parigi del Re Sole all’epoca in cui Cardillac fu scritta (1926), ambientandola in una metropoli forse tedesca, cupa, anonima, in un contesto visivo pur popolato di stanze e costumi coloratissimi. Nelle scene corali (il Popolo, così nominato nel libretto, è protagonista con Cardillac dell’azione) c’è qualcosa di Brecht, ma anche dei film di Lang, come denota il look dei personaggi (soprattutto Cardillac e la Figlia) pieno di citazioni del cinema espressionista tedesco. Gli squarci “cinematografici” di vario genere coesistono con situazioni da thriller. Subito scopriamo che a insanguinare Parigi è l’orefice assassino, sebbene in omaggio al politically correct vediamo il Popolo, sconvolto dai delitti in serie, prendersela dapprima con un clochard di colore, che viene protetto però da un prete. Binasco gestisce bene il suo spettacolo, con invenzioni curiose (il Carnevale del terzo atto, il Re debosciato), che vanno anche nel senso della “nuova oggettività” di cui Hindemith fu alfiere. Soluzioni intonate all’ambiguità di fondo dell’opera (il fidanzato della Figlia, che alla fine è il “buono” della vicenda, viene presentato all’inizio sinistramente, in una tenuta quasi da nazista). L’ambiguità è anche nel clima musicale della partitura, le cui dissonanze non stridenti né “gridate” ma gestite da Hindemith nel contesto di una scrittura rigorosa, dai perfetti contrappunti, instillano nello spettatore un crescente senso di spiazzamento e di disagio, anche e soprattutto perché le atmosfere musicali spesso contraddicono esplicitamente quelle dell’azione. Raffinata, come sempre, e da grande conoscitore di questo tipo di repertorio la restituzione musicale di Luisi, neodirettore stabile del Teatro del Maggio. I cantanti mostrano anche rispettabili doti sceniche a cominciare da Gantner, Cardillac memorabile sia come interpretazione vocale che come statura e profonda complessità del personaggio. Francesco Tei IL PRIGIONIERO, di Luigi Dallapiccola. QUATTRO PEZZI SACRI (Ave Maria, Stabat Mater, Laudi alla Vergine, Te Deum), di Giuseppe Verdi. Regia e coreografia di Virgilio Sieni. Scene e costumi di Giulia Bonaldi. Luci di Mattia Bagnoli. Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino, direttore Michael Boder, maestro del coro Lorenzo Fratini. Con Leven Takirci, Anna Mari Chiuri, John Daszak, Antonio Garès, Adriano Gramigni, Thalida Maria Fogarasi e 15 danzatori della Compagnia Virgilio Sieni. Prod. Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, FIRENZE.
Il prigioniero di Luigi Dallapiccola, una pietra miliare del teatro musicale del Novecento, opera dal contenuto tanto musicale quanto drammatico di rilievo assoluto. L’81° Maggio fiorentino, che ha celebrato con un ampio programma il suo autore, massimo alfiere della musica dodecafonica in Italia, ha affidato la messinscena di questo lavoro degli anni Quaranta (vi troviamo la possente religiosità di Dallapiccola ma anche l’eco della guerra e della Resistenza) a Virgilio Sieni, al suo debutto nella regia lirica. Il coreografo fiorentino crea una composizione teatrale in cui la danza, la presenza forte del movimento, dei gesti e dei corpi, occupano uno spazio preponderante. Sieni opera una
reintepretazione personale lirica, anche ispirata, de Il prigioniero, rendendo però complicata la comprensione dell’azione scenica, impossibile a chi già non conosca l’opera, affollando il palco di danzatori che accompagnano e quasi avvolgono - volutamente - i cantanti. Di grande bellezza le soluzioni visive che, accanto a citazioni di opere d’arte (la Madre, per esempio, ricorda la Maddalena di Donatello), siglano e segnano questo itinerario ideale che fa del Prigioniero, delle sue sofferenze e del suo martirio, un novello Cristo. Apprezzati, giustamente, gli interpreti vocali: sul podio Michael Boder, in sostituzione di Zubin Mehta. La seconda parte dello spettacolo è una versione scenica, coreografata alla sua maniera da Sieni (più sequenza di gesti e di azioni che danza), dei Quattro pezzi sacri di Verdi. In un desolato, straziante paesaggio umano e di oggetti, dipinto tutto di un unico color ocra - in contrasto con il bianco del Coro - si dipana un sorta di lento, astratto rito: una partitura per corpi solenne e dolente, con espliciti richiami alle odissee marine dei migranti. Francesco Tei
In apertura, Don Pasquale con le regie di Damiano Michieletto (foto: Vincent Pontet) e di Davide Livermore; in questa pagina, Cardillac, regia di Valerio Binasco.