3 minute read
exit
Addio Eimuntas Nekrošius: un condottiero nella Fortezza dell'Arte
Si spegne prematuramente il talento materico e magico del regista lituano che, a partire dalla trilogia shakespeariana, alla fine degli anni Novanta, ci aveva sorpreso con il suo immaginario scenico potente e visionario.
Advertisement
di Giuseppe Liotta
Avrebbe compiuto 66 anni il 21 di novembre del 2018, invece due giorni prima è morto nella sua Vilnius il regista teatrale più importante di questo inizio di secolo e della fine di quello scorso, lasciando in eredità agli studiosi e agli appassionati del suo teatro soltanto trenta spettacoli, molti dei quali presentati in Italia, e alcuni nati proprio nel nostro Paese, coinvolgendo anche giovani attori italiani. Aveva già cominciato a lavorare all’Edipo a Colono di Ruggero Cappuccio da presentare all’anfiteatro di Pompei per il Festival di Napoli del prossimo giugno, invece uno degli ultimi Maestri veri del teatro europeo se ne è andato troppo presto addolorando tutti noi che, ancora prima di capire fi no in fondo il suo lavoro, ci eravamo emozionati con i suoi spettacoli originali, spiazzanti, intensi che sembravano piombare sui nostri palcoscenici da un altro pianeta teatrale. Questo fu il primo effetto della sua celebre trilogia shakespeariana (Hamletas, 1997, Makbetas, 1999, Otelas, 2000), che sconvolgeva il tessuto drammatico delle rispettive opere per restituircelo in un inedito immaginario scenico fatto di quegli elementi primari barbarici: il fuoco, l’acqua, la terra, il ferro, e poi lo spazio, soprattutto mentale, visionario, della foresta, l’uso costante del legno (come per un pittore può essere l’ossessione di un colore, di una bottiglia, del grano) quasi una cifra di riconoscimento registico/autoriale. Ma prima aveva rappresentato in Italia, al Teatro Festival di Parma i due folgoranti spettacoli Pirosmani Pirosmani e Dédé Vania che l’avevano consacrato in Russia come il più innovativo regista di quel tempo e inaugurato le sue successive presenze con la trilogia di Puškin (1994) e le Tre sorelle di Cechov (1995). Qui scopriamo l’altra anima di Nekrošius, non quella grezza, che ritrova la materialità perduta della scena, ma quella magica, del sogno, visionaria, poetica che lo ha portato a regalarci spettacoli di semplice e straordinaria bellezza come Il gabbiano (2000), Anna Karenina (2008), o il Paradiso (2012) dantesco e il Libro di Giobbe (2013). Accanto a questa, un’intensa attività laboratoriale con giovani
attori, nei due anni 2012-2013 in cui fu direttore artistico della stagione dei Classici al Teatro Olimpico di Vicenza. Nel 1998 fonda a Vilnius la sua compagnia teatrale Meno Fortas (La Fortezza dell’Arte), un teatro-studio sulle orme dei grandi Maestri della regia russa del primo Novecento – Stanislavskij, Mejerchol’d – finalizzato alle produzioni della Compagnia e non concentrato esclusivamente sul lavoro con l’attore e le sue tecniche espressive ma orientato al linguaggio teatrale nel suo insieme, includendo la scenografia, la musica, le luci, il costume, gli oggetti: tutto ciò che permette alla scena di prendere vita, perché per Nekrošius «nel teatro, tutto si muove attraverso la vita». Il teatro diventa così uno spazio in cui si concentra e sviluppa una nuova e particolare energia che connette gli attori fra loro e la scena col pubblico. Un teatro che emoziona con la sua capacità di mostrare il mondo in maniera nuova e diversa, attraverso la materialità di segni che si impongono allo sguardo, nella pienezza di un linguaggio capace di scavare a fondo nei fatti e nelle persone per mostrarcene la versione teatrale più fertile e contemporanea. Il suo rimane un teatro molto semplice, facile da capire ma nello stesso tempo forte, ricco di una complessità segreta, nascosta dietro quel volto di marmo, senza tempo. Più che le immagini rimangono nella mente sequenze sceniche memorabili come il suicidio di Anna Karenina inghiottita da un mantello con due accecanti fari che avanzano inesorabili dal fondo. Insieme a tutti gli elementi che popolavano il suo immaginario registico come la scena: tronchi d’alberi che tagliavano lo spazio come fosse il loro terreno naturale, una teoria di secchi pieni d’acqua in uso nella steppa adoperati nella doppia chiave simbolica e metaforica, come le pietre o i cumuli di fascine a fare da scenografia mobile; o il ghiaccio e i cappotti invernali per il suo indimenticabile Hamletas. Un immaginario per occhi occidentali sorprendente, che ha ampliato la nostra percezione dei testi (non solo “classici”) e delle possibilità di un teatro senza confini, nato essenzialmente dalla creatività del regista. Grazie per gli spettacoli che ci hai dato il privilegio di vedere e concedici il triste rimpianto per tutti quelli perduti che potremo soltanto immaginare. ★