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Meg Stuart, Alain Platel, Kinkaleri & Co si danza la leggerezza dell’essere

PROJECTING [SPACE[, coreografia di Meg Stuart. Drammaturgia di Jeroen Peeters. Scene di Jozef Wouters. Costumi di Sofie Durnez. Luci di Sandra Blatterer. Musiche di Klaus Janek. Con Jorge De Hoyos, Mor Demer, Márcio Kerber Canabarro, Roberto Martínez, Renan Martins de Oliveira, Sonja Pregrad, Mariana Tengner Barros, Sigal Zouk. Prod. Meg Stuart/ Damaged Goods, Jeroen Peeters & Jozef Wouters, BERLINO.

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Una radura sulla riva dello Sprea in un quartiere periferico di Berlino, il crepuscolo e i contorni del paesaggio intorno che si sfuocano dando allo scenario post-industriale circostante un carattere ancora più surreale. È qui, nell’area delle Reinbeckhallen, una serie di capannoni un tempo adibiti alla trasformazione di energia elettrica e ora spazio per l’arte, che il teatro Hebbel am Ufer ha inaugurato la sua stagione teatrale con lo spettacolo Projecting [Space[ della coreografa Meg Stuart, Leone d’Oro alla Biennale Danza 2018. Come suggerito dal titolo, lo spettacolo è un’esplorazione architettonica che attiva in parallelo un processo di immersione collettiva in uno spazio emotivo e fisico, permeato dalla presenza degli altri. Si comincia all’aperto dove i danzatori arrivano su un auto “vestita” di stoffe colorate in tenuta da clubbing underground (tutine argentate, pantaloni di pelo, slip glitterati) e interagiscono con quello che offre il paesaggio: una bicicletta, una ruspa, l’acqua del fiume. Ci si addentra poi in due spazi interni successivi. Il primo, più angusto, riempito di scaffali industriali (congeniale la scenografia di Jozef Wouters) che fungono sia da palco per i performer sia da seduta per gli spettatori. Le azioni sono diffuse e decentrate, i movimenti, soprattutto di mani e braccia, abbozzano un vocabolario di gesti misteriosi a cui il pubblico viene iniziato attraverso giochi di interazione sottili e mai invasivi. Nel secondo spazio, più ampio, lo spettacolo cresce progressivamente di intensità supportato dal live sound di Klaus Janek: impegnati in una serie di rituali imperscrutabili (il tentativo inutile di volo con un paracadute, il cospargere il corpo e il pavimento con polvere di caffè, frenetiche danze collettive), i performer sembrano tendere verso uno stato “altro”. Quando, infine, le porte si aprono e torniamo all’aperto l’impressione è quella di essere stati parte di un percorso iniziatico, misterioso, assurdo, inspiegabile ma che in qualche modo ci ha trasformati. Elena Basteri

REQUIEM POUR L., regia, coreografia e scene di Alain Platel. Drammaturgia di Hildegard De Vuyst. Costumi di Dorine Demuynck. Luci di Carlo Bourguignon. Musiche di Fabrizio Cassol. Con 15 danzatori della Compagnia Les ballets C de la B. Prod. Les ballets C de la B, Gand (Be) - Festival de Marseille (Fr) - Berliner Festspiele (De) e altri 12 partner internazionali. FESTIVAL TORINODANZA, TORINO.

La nostra società, tanto concentrata a vivere, pare aver accantonato la riflessione sulla morte, relegandola, in quanto assai disturbante, in un angolo oscuro. A ricordare quanto la morte non sia che il naturale esito dell’esistenza umana, giunge in Italia lo spettacolo-concerto di Alain Platel che, partendo dal Requiem di Mozart, costruisce una meditazione laica e anti-retorica, universale e sensitivamente razionale. Il musicista Fabrizio Cassol contamina l’opera incompiuta di Mozart con melodie africane e musica religiosa occidentale, eseguite dal vivo da un ensemble di musicisti e cantanti africani ed europei (percussioni, fisarmonica, chitarra e basso elettrico, likembe). Il corposo e mirabile ensemble, in abiti scuri e stivali di gomma, si muove all’interno di un labirinto di parallelepipedi/bare neri, di varie dimensioni, che ricorda il Museo dell’Olocausto di Berlino, a segnalare la dimensione non solo privata della morte. Sul fondo del palco, uno schermo sul quale sono proiettati gli ultimi momenti di vita di L., amica di Platel, circondata dai propri cari. Un video in bianco e nero che, riprendendo forse involontariamente esperienze artistiche quali quella di Sophie Calle, non genera né pathos né angoscia, bensì mostra un fatto, un passaggio esistenziale. Una tonalità che contraddistingue l’intero spettacolo, che utilizza l’armoniosa eterogeneità della musica, la danza fatta di movimenti semplici, eseguiti in gruppo, quasi rituali e lo spazio scenico, per ri-svelare l’essenza della morte, con il coraggio di guardarla negli occhi - quelli di L. - e riconoscerne la certo dolorosa eppure naturale realtà. Platel articola un discorso rigorosamente non patetico né toccante, bensì razionale e stringente, che forse non emoziona superficialmente ma certo scava nel profondo dell’animo dello spettatore, costringendolo a mettere in discussione il proprio approccio alla morte, aldilà della religione come pure di un diffuso, spensierato edonismo. Laura Bevione

DANÇA SINFÔNICA e GIRA, coreografie di Rodrigo Pederneiras. Scene di Paulo Pederneiras. Costumi di Freusa Zechmeister. Luci di Paulo Pederneiras e Gabriel Pederneiras. Musiche di Marco Antônio Guimarães/Metá Metá. Con la Compagnia Grupo Corpo. Prod. Grupo Corpo, BELO HORIZONTE (Br).

La compagnia brasiliana Grupo Corpo si conferma una delle realtà internazionali più interessanti, grazie alla propria cifra stilistica che lega cultura alta e radici ataviche e ai suoi danzatori di altissimo livello e notevole presenza scenica. Nessuna barriera posta alla creatività e la capacità di coniugare colto e popolare portano la compagnia a un graduale e crescente successo internazionale, suggellato tra il 1996 e il 1999 con la residenza alla Maison de la Danse di Lione. Dopo oltre quarant’anni, la loro creatività non si è spenta. A dimostrarlo sono proprio i due titoli presentati al Teatro Comunale di Vicenza, entrambi su coreografia di Rodrigo Pederneiras, scenografie del fratello Paulo (autore anche delle luci insieme a Gabriel) e costumi di Freusa Zechmeister, creati

però su sonorità differenti. Già collaboratore di lunga data per il gruppo mineiro, Marco Antônio Guimarães firma le musiche di Dança Sinfônica, lavoro ideato nel 2015 per celebrare il 40° anniversario dell’ensemble. Inediti si stemperano qui in evocazioni melodiche e coreografiche dallo stesso repertorio del Grupo Corpo per dipingere un grande affresco metateatrale, enfatizzato da sipari di velluto rosso e dal suggestivo fondale, un mosaico di foto che mostrano quattro decadi di vita quotidiana. Alla religione afro-brasiliana dell’Umbanda e ai suoi riti sincretici si ispira il potente Gira del 2017, creato sulle musiche dei Metá Metá ispirate a Exu. Proprio a questa figura del pantheon yoruba, intermediaria tra umano e divino, si richiama il rosso dei colli dei danzatori che, a torso nudo e con ampie gonne bianche, evocano momenti di possessione. Ridisegnati i gesti e movimenti percussivi tipici delle danze Orixás di ascendenza africana, dal costante andamento jazzato appare un finissimo e limpido ordito. Carmelo A. Zapparrata

LAST WORK, coreografia di Ohad Naharin. Scene di Zohar Shoef. Costumi di Eri Nakamura. Luci di Avi Yona Bueno (Bambi). Musiche di Grischa Lichtenberger. Con Batsheva Dance Company. Prod. Batsheva Dance Company, TEL AVIV (Il) e altri 2 partner internazionali.

Ormai consolidata hub nel planisfero della danza contemporanea, Tel Aviv è ben rappresentata dal cartellone 2018-2019 del Teatro Comunale di Ferrara che ha modellato la sua stagione di danza soffermandosi proprio su Israele e sulla sua creatività. Oltre ai vari progetti e site-specific sviluppati al costituendo Meis-Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah di Ferrara e all’attesa di Sharon Eyal in primavera, l’appuntamento centrale è stato segnato dall’unica data italiana della Batsheva Dance Company. Con più di cinquant’anni di tradizione, l’ensemble pare adesso aprire un nuovo capitolo della sua storia. Da settembre 2018, infatti, Naharin ha passato il testimone della direzione artistica a Gili Navot. Classe 1952, il fondatore dell’innovativo Gaga ha assunto quindi la posizione di “coreografo residente”. A indagare il valore del tempo e il peso delle relazioni umane sono state le suggestioni portate sul palcoscenico ferrarese dal potente Last Work. Creato nel 2015 sulle musiche originali di Grischa Lichtenberger, contrariamente al titolo, non rappresenta l’ultimo lavoro di Naharin ma una sua intima riflessione sull’intricata matassa delle relazioni di causa-effetto nella vita umana. Mentre sul fondo una donna in abito azzurro corre incessantemente, diverse scene si susseguono a voler comporre una sorta di mosaico di sensazioni-situazioni per evocare stati di prigionia, attraverso architetture umane, e il contrasto tra edonismo e spiritualità (vedi la donna in corto tutù bianco attorniata da ministri in talare nero). Trasudando linfa vitale in ogni singolo gesto dei danzatori, lo spettacolo fa detonare l’energia accumulata in arguti momenti d’insieme in cui variazioni di canone portano sino all’epica e misteriosa conclusione, dove la donna in azzurro sventola una bianca bandiera e il gruppo unito dal nastro adesivo si scioglie estatico nella preghiera. Carmelo A. Zapparrata

OTTO, progetto e realizzazione di Matteo Bambi, Luca Camilletti, Massimo Conti, Marco Mazzoni, Gina Monaco, Cristina Rizzo. Con Filippo Baglioni, Chiara Bertuccelli, Andrea Sassoli, Mirco Orciatin. Prod. Kinkaleri, Prato. CONTEMPORANEA FESTIVAL, PRATO.

Stringendo l’Ovomaltina, una tazzina di caffè, un piatto; impugnando il vasetto di yogurt, la confezione di besciamella, la carta igienica che, rotolando, taglia lo spazio in diagonale; portando in dote tovaglioli, un vassoio, una torta di panna; portando in dote soprattutto il proprio corpo che si mostra, passeggia, disegna brevi traiettorie o danza da solo, Otto torna dopo sedici anni - stessa coreografia, performer differenti - ripristinando le sue cadute reiterate, i suoi crolli plateali e rumorosi. Vecchio trucco comico, la caduta diventa metafora, condivisione di una condizione, dichiarazione politica compiuta per mezzi poetici: Otto dice così dei nostri fallimenti e delle piccole e grandi incompiutezze che ci appartengono e della nostra rovina, che avviene mentre qualcun altro, intanto, è distratto, guarda altrove, ignorando che il prossimo a cadere sarà lui. Ma Otto, con questa sua riapparizione, coerente con la pratica della retromarcia a cui si sta dedicando la scena italiana (da certe regie di Strehler a Tango glaciale di Martone), dice anche altro: che un’opera, se di straordinaria inventiva e di rara intelligenza, non muore, scompare solo per un po’; che il repertorio d’una compagnia è storia che parla ancora, confrontandosi con le urgenze del presente; che anche in ambito performativo è possibile il dialogo inter-generazionale, la trasmissione dei saperi e delle opportunità, il passaggio di testimone. E dice inoltre che quell’opera che sedici anni fa ad alcuni piacque ma che a molti fece anche dire: «Questa non è danza» e invece era danza, volutamente esausta, frammentaria, e perciò in grado di scardinare le norme coreografiche in vigore mettendo in discussione (e in crisi) una disciplina e i suoi adepti più conservatori. A Filippo Baglioni, Chiara Bertuccelli, Andrea Sassoli, Mirco Orciatin vanno gli applausi: per la ricostruzione meticolosa, affrontata con coraggio e con bravura. Alessandro Toppi

SOPRA DI ME IL DILUVIO, regia, coreografia, scene e costumi di Enzo Cosimi. Luci di Gianni Staropoli. Musiche di Chris Watson, Petro Loa, Jon Wheeler. Collaborazione alla coreografia e interpretazione di Paola Lattanzi. Prod. Compagnia Enzo Cosimi, ROMA.

Contiene moltitudini il corpo-teatro di Paola Lattanzi che, in stretta sinergia con la sapienza compositiva e maieutica di Enzo Cosimi, crea un dispositivo semplice e al contempo intriso di mille colori, che si muove senza posa, come su un piano inclinato, fra coppie di opposti: natura e cultura, ma anche forma e non-forma, stilizzazione e sovrabbondanza di segni, pars

costruens e pars destruens, requie e agitazione, sfrontatezza e pudore, presentazione e rappresentazione, insensatezza ed esortazione, primitivismo e post-modernità, narrazione e astrazione. Una sorta di erotismo disfatto intride la performer che, in tacchi alti e succinti abiti neri, perimetra con ampie falcate e poi abita una scena in cui trovano spazio alcune vecchie sedie imbottite, un vetusto televisore e una quantità di ossa evocanti un qualche imponente animale: suppellettili che veicolano le ossimoriche polarità di cui Lattanzi «si fa luogo», per dirla con Michel De Certeau, sorta di correlativo oggettivo dell’atletismo commovente e insensato, pervicacemente antigrazioso che connota il suo fare. Sopra di me il diluvio, spettacolo che pare affatto riduttivo, ancorché esatto, definire un assolo, prosegue un discorso dal sapore apocalittico iniziato (almeno) con il precedente Welcome to My World. Esso pare dichiarare una resa, nel rapporto uomo-natura: iniziata con espressioni muscolari (o meglio nervose) di forza e controllo sulla sghemba realtà circostante, la traiettoria performativa si conclude con un corpo coperto di bende. Soverchiato, vinto, finanche dolente. Le luci cupe e sognanti di Gianni Staropoli contribuiscono non poco a dare forma e ulteriore mobilità a un universo al contempo a sé bastante e pienamente specchio del mondo. Un luogo che si fa teatro: nutrimento dello sguardo, possibilità di visione. Michele Pascarella

In apertura, Projecting [Space[ (foto: Laura Van Severen); in questa pagina, Gira (foto: Jose Luiz Pederneiras).

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