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Da Bob Wilson e Calixto Bieito a ricci/forte l’opera come terreno di sperimentazione

SIMON BOCCANEGRA, di Gaetano Donizetti. Regia di Calixto Bieito. Scene di Susanne Gschwender. Costumi di Ingo Krügler. Luci di Michael Bauer. Orchestra e Coro dell’Opéra National di Parigi, direttore musicale Fabio Luisi, maestro del coro José Luis Basso. Con Ludovic Tézier, Maria Agresta, Francesco Demuro, Mika Kares, Nicola Alaimo, Mikhail Timošenko, Cyrille Lovighi, Virginia Leva-Poncet. Prod. Opéra National, PARIGI.

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Sul palcoscenico spoglio, ferito solo da caravaggesche luci radenti, un uomo si rannicchia al proscenio, gli occhi smarriti nel vuoto. Alle sue spalle un imponente dispositivo scenico, posto su un girevole, lo assale, lo circonda, lo accoglie: tutt’intorno è buio, tenebre, nero. Con pochi, ma folgoranti tratti Calixto Bieito racconta Simon Boccanegra, tragedia della solitudine del potere - ma anche dell’uomo tout court, - omettendo un elemento fondamentale della partitura verdiana, quel mare che si respira lungo tutto il

corso dell’opera e che qui risulta obliterato, luminoso unicamente nelle trasparenti trame orchestrali di Luisi. È come se si fosse ritratto, lasciando arenato lo scafo di una barca: che è scheletro della nave del marinaio, eletto doge suo malgrado; ma diventa anche rifugio dove riscoprire gli affetti domestici e un rapporto tra padre e figlia considerato perduto; e infine, sede di un potere che schiaccia chi lo esercita, fonte di violente lotte fratricide. Sarà anche lo schermo di proiezioni video, in parte riprese dal vivo, in cui giganteggiano sentimenti individuali e passioni collettive: lo sguardo espressionista del protagonista (Tézier), che scava negli anfratti della memoria per ricostruire una storia d’amore bella ma impossibile e l’immagine del ricordo di lei; e i mille volti di una folla dall’empito incontenibile, alla Ejzenštejn, tragico memento del furore rivoluzionario di ogni tempo. Ne scaturisce uno studio sulla psicologia dell’uomo in cui anche chi pretende di rappresentare il bene è costretto a sporcarsi le mani: come Boccanegra, che invoca la pace e, crocifisso dal volere popolare in una poderosa imitatio Christi, vorrebbe farsi carico di tutto il male del mondo. Ma poi è costretto a giustiziare il suo primo amico, Paolo (Alaimo), che lo ha tradito per interesse personale. Per questo non muore soltanto avvelenato: mostra chiari sintomi di un decadimento fisico, di un tremore che denuncia malessere, disagio esistenziale. E il nero lo inghiotte, sulla tolda della nave, nell’ultimo viaggio senza approdo. Giuseppe Montemagno

LA TRAVIATA, di Giuseppe Verdi. Regia di Deborah Warner. Scene di Justin Nardella, Chloé Obolensky, Jean Kalman. Costumi di Chloé Obolensky. Luci di Jean Kalman. Le Cercle de l’Harmonie, Chœur de Radio France, direttore musicale Jérémie Rhorer, maestro del coro Alessandro Di Stefano. Con Vannina Santoni, Saimir Pirgu, Laurent Naouri, Aurélia Thierrée, Catherine Trottmann, Clare Presland. Prod. Théâtre des Champs-Élysées, PARIGI. Si può ancora dire qualcosa di nuovo sulla Traviata? L’inizio del preludio del primo atto, struggente anticipazione dell’ultimo, rivela un palcoscenico vuoto, occupato solo da letti d’ospedale in cui s’aggira una donna malata. L’espediente non è nuovo. Qui, tuttavia, il doppio della protagonista è Aurélia Thierrée, figlia d’arte, straordinaria per il rigore, ma al tempo stesso l’accorata trepidazione con cui si fa ombra silenziosa, premonizione della fine, specchio di Violetta: faro di una scena trafitta dalle luci di Kalman, che moltiplicano l’azione riflessa sul piancito. Deborah Warner racconta La Traviata per sottrazione: intorno agli anni Cinquanta, quando la tubercolosi miete le ultime vittime, in un ambiente trasparente, tutto bianco per la prima parte, quando l’amore sembra trionfare; tutto nero nella seconda, quando prevalgono l’interesse e la grettezza della morale borghese. Violetta (una strepitosa, toccante Santoni, autentica rivelazione della serata) fende questo mondo indossando uno smagliante abito rosso ma a piedi nudi: perché si oppone a un coro che è massa compatta e impenetrabile, attraversa le corsie dei letti e spariglia stereotipi e convenzioni; fino alla purezza del quadro à la campagne, che la regista inglese ricrea unicamente col suo marchio di fabbrica, bianchi velari che oscillano al vento. E i piedi di Violetta sfiorano fiori, nella prima festa, i petali di quelle camelie che ne hanno segnato l’identità; e calpestano banconote, in casa di Flora, quando “zingarelle” e “matadori” rendono esplicita una sessualità senza freni, governata dal potere del denaro. Lì si ricongiunge per sempre con il suo alter ego: prima di una morte che si consuma sotto una luce sfolgorante, malata terminale, vittima di accanimento terapeutico, donna per pochi istanti solo quando ritrova il conforto di Alfredo. Nell’estremo slancio di una passione bruciante, incandescente, sublime. Giuseppe Montemagno

AN AMERICAN IN PARIS, di Craig Lucas. Regia e scene di Giorgio Bellone. Costumi di Chiara Donato. Luci di Valerio Tiberi. Musica di George e Ira Gershwin. Orchestra e Coro del Teatro Carlo Felice, direttori Daniel Smith e Francesco Aliberti. Con Giuseppe Verzicco, Marta Melchiorre, Simone Leonardi, Tiziano Edini, Alice Mistroni, Mimmo Chianese, Marco D’Alberti, Annamaria Schiattarella, Donatella Pandimiglio e 12 danzatori. Prod. Teatro Carlo Felice, GENOVA - Wec World Entertainment Company, BOLOGNA. È nato al cinema, il musical An American in Paris, col film di Vincente Minnelli (1951) e da lì ripartono gli autori della versione teatrale che ha esordito nel 2014 allo Châtelet di Parigi e ora, italianizzata, al Carlo Felice di Genova. La colonna sonora assembla, oltre alla composizione del titolo, parte del Concerto in Fa e altri brani. Le canzoni sono tutte comunque della Ditta Gershwin Brothers e si rendono funzionali alla commedia. Il nuovo libretto ricalca la sceneggiatura di Alan J. Lerner e, con qualche incongruenza e ingenuità, punta al divertimento d’una storia ambientata nella capitale francese dopo la Seconda Guerra Mondiale, pronta a recuperare la proverbiale verve della Ville Lumière. Tant’è che due militari Usa non rimpatriano, per seguire i loro sogni artistici e una ragazza incontrata per caso. Giorgio Bellone sfrutta un palco girevole, usa modelli pittorici come scenografia e considera paritetiche le componenti dello spettacolo: finalizza la recitazione alle gag del dialogo e alla musicalità, nella condivisione delle canzoni e della danza, estendendo questa a balletti autonomi, quali la parata con piume e lustrini e il ballo mascherato. Le suites più famose generano evoluzioni e pas-de-deux, in stili che rivisitano le classiche punte, scandiscono scattanti sincronie modern; poi passi di tiptap, per il simpatico e irruento Jerry di Giuseppe Verzicco, co-protagonista con Marta Melchiorre, una Lise di notevole espressività canora (inevitabile, l’amplificazione?), lieve e seducente danzatrice che interpreta, sotto la Tour Eiffel, il tema principale. Tiziano Edini incarna in Adam (anche narratore) un “altro” Gershwin romanticamente ispirato. Simone Leonardi (Henri) è il cantante francese, fidanzato di Lise. Alice Mistroni, una Milo aristocratica e sentimentale, sensibile al pittore più che alla sua pittura. Successo pieno e caloroso. Gianni Poli

LE TROUVÈRE, di Giuseppe Verdi. Drammaturgia di José Enrique Macián. Ideazione, regia, scene e luci di Robert Wilson. Costumi di Julia Von Leliwa. Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna. Maestro concertatore e direttore Roberto Abbado. Maestro del coro Andrea Faidutti. Con Giuseppe Gipali, Franco Vassallo, Marco Spotti, Roberta Mantegna, Nino Surguladze, Tonia Langella, Nicolò Donini, Luca Casalin. Prod. Teatro Regio, PARMA - Fondazione Teatro Comunale, BOLOGNA - Change Performing Arts, MILANO.

Bob Wilson al suo meglio. Un Verdi come non lo si era mai visto, austero, asciutto, sobrio, emozionante nella sua icastica immobilità, nella cornice sublime del teatro Farnese di Parma. Pareti grigie, spoglie, costumi neri per tutti, volti bianchi illuminati da proiettori che li stagliano, movimenti impercettibili, stilizzati, posizioni per lo più frontali, il coro che forma una parete nera in controluce sul fondale. Disciplina perfetta, non una sbavatura: una lezione che andrebbe insegnata a tanti cantanti che imperversano tuttora nei nostri maggiori teatri lirici, ancora convinti che portarsi una mano al cuore e l’altra verso la platea sia il miglior modo per strappare l’applauso. Verdi con le sue passioni, gelosie, tradimenti, amore e morte e Bob Wilson con il suo stile algido, dove al geometrico rigore dei gesti si unisce l’incantevole fantasia onirica di certe improvvise apparizioni (una balia con carrozzina, una madre con due bimbe: echi, ovviamente, della complicata storia verdiana) che rompono la rigidezza del disegno gestuale, introducendo un soffio di inattesa poesia. Ghiaccio bollente. Eppure il risultato è magnifico: e l’intensità del canto è esaltata proprio dalla statuaria impassibilità degli interpreti. Che fra l’altro sono perfetti: Franco Vassallo, forse il miglior Conte di Luna oggi in Italia, Roberta Mantegna, una Leonora di grande precisione, Nino Surguladze, Azucena lampeggiante, lo svettante trovatore Giuseppe Gipali. Unico neo: l’introduzione dei balletti, che mai vengono eseguiti, vezzi filologici di direttori troppo scrupolosi. Qui Wilson si è scostato dalla sua inflessibile severità: ha introdotto una squadra di pugili, in tuta nera e guantoni rossi che corrono per il palcoscenico combattendo e azzuffandosi. Trovata divertente anche se astrusa: e va bene per cinque minuti, non per venti. Si torna con un sospiro di sollievo alla staticità perfetta dei protagonisti della truce storia verdiana. Fausto Malcovati

LA MANO FELICE, di Arnold Schönberg. IL CASTELLO DEL DUCA BARBABLÙ, di Béla Bartók. Progetto creativo di ricci/forte. Regia di Stefano Ricci. Scene di Nicolas Bovey. Costumi di Gianluca Sbicca. Luci di Pasquale Mari. Orchestra e Coro del Teatro Massimo di Palermo, direttore musicale Gregory Vajda, maestro del coro Piero Monti. Con Gabor Bretz, Atala Schöck, Giuseppe Sartori, Pierstern Leirom. Prod. Teatro Massimo, PALERMO e Fondazione Teatro Comunale, BOLOGNA.

Non è facile misurarsi con le avanguardie di primo Novecento, meno ancora con i tentativi sperimentali - come nel caso dei due atti unici, qui accomunati in occasione del centenario della prima esecuzione dell’opera di Bartók - che miravano a precipitare lo spettatore in un vortice di parole e musica, suoni e colori: agli albori della psicanalisi, era l’occasione per sondare le profondità dell’agire umano e la complessità delle sue motivazioni, ma soprattutto per evidenziare l’ineluttabile solipsismo cui era destinato il rapporto tra uomo e donna. È su quest’ultimo aspetto che si focalizza il

progetto creativo di ricci/forte, che assembla i due titoli allontanandosi - volutamente - dalle prescrizioni originarie per immergere l’azione in un universo onirico, visionario, spesso arduo da decifrare. Per questo risulta illuminante una lectio magistralis, affidata al mercuriale talento istrionico di Giuseppe Sartori, quasi un ponte ideale gettato tra le due parti: dove si indaga il tema dell’identità, del rapporto con il diverso e con l’altro da sé, delle interazioni tra un uomo e una donna che, nudi su due pedane da circo diventano oggetto di indagine. Infermieri e acrobati sono, dunque, i compagni di viaggio di un Uomo che forgia un gioiello per una Donna che si limiterà a illuderlo, come per il duca Barbablù, pronto ad aprire le porte del suo castello - e dunque del suo cuore - alla curiosità di Judit, ultima tra le spose che ne hanno costellato la gloriosa parabola. Appaiono, scompaiono tra le pieghe d’interminabili teli di cellophane trasparente, metafora di un percorso a ostacoli, montagne russe del sentimento ora improvvisamente svelate, ora pietosamente celate, tra corpi che si cercano, si toccano, si dileguano. Una minuscola bara bianca, presente al proscenio dal principio alla fine dello spettacolo, rivelerà un piccolo carillon, con una bambolina che ruota su se stessa, solitaria, inarrestabile: sintesi di un mondo fatto di illusioni, utopie, rimpianti. Giuseppe Montemagno

In apertura, Simon Boccanegra (foto: Agathe Poupeney); in questa pagina, La mano felice/ Il castello del duca Barbablù.

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