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teatromondo

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Quando le opere liriche rileggono il presente

ATTILA, di Giuseppe Verdi. Regia di Davide Livermore. Scene di Giò Forma. Costumi di Gianluca Falaschi. Luci di Antonio Castro. Video di D-Wok. Orchestra e Coro del Teatro alla Scala di Milano, direttore musicale Riccardo Chailly, maestro del coro Bruno Casoni. Con Ildar Abdrazakov, Saioa Hernández, George Petean, Fabio Sartori, Francesco Pittari, Gianluca Buratto. Prod. Teatro alla Scala, MILANO.

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Impossibile non riconoscerlo, impossibile non avvertire un primo, devastante pugno allo stomaco. Il libretto prescrive «una piazza di Aquileja» messa a ferro e fuoco dagli Unni; ma Davide Livermore apre il sipario di Attila su una citazione d’autore: una donna viene fucilata, inutilmente soccorsa dalle grida del figlio, sotto lo sguardo impietrito di un sacerdote. Pina, don Pietro e il piccolo Marcello di Roma città aperta sono solo il primo riferimento di uno spettacolo prezioso per più di una ragione. C’è infatti un uso dei video che non è mai pleonastico, ridondante, ma sempre perfettamente calato nell’azione: anche solo quando sull’imponente ledwall si addensa una spessa coltre di nubi, foriera di tempeste. C’è la scelta di un’atemporalità distopica, genericamente ascrivibile al secondo dopoguerra, che fa cogliere l’universalità delle persecuzioni, ripetutesi nei secoli fino a un tempo non poi così distante da noi. E per questa via ritorna alla ribalta uno dei caratteri fondamentali delle opere giovanili verdiane, che oggi si ama definire kolossal, ma che durante il Risorgimento era semplicemente corale: a indicare una partecipazione collettiva alla fondazione della nazione, così difficile da cogliere, ancor più difficile da rappresentare. Sotto ponti e arcate diroccate, cumuli di macerie e orge di straziante, lirica bellezza, Attila diventa serbatoio pressoché inesauribile di rimandi, echi, rifrazioni: i ripensamenti d’autore come quelli di Rossini, sapientemente restituiti dalla bacchetta analitica di Chailly; ma soprattutto un vasto repertorio cinematografico (dal Rossellini prima citato a quello di Germania anno zero, fino al Visconti della Caduta degli dei, alla Cavani del Portiere di notte e perfino al Blade Runner di Ridley Scott) che denuncia un’arte della citazione coltissima, raffinata, eloquente. Ma soprattutto di sconvolgente teatralità, nel Finale I, con la virtuosistica ricostruzione dell’Incontro di Leone Magno con Attila dipinto da Raffaello nelle Stanze vaticane: studiato da Verdi, mentre attendeva alla composizione dell’opera e ora rievocato sulla scena, per coniugare il soffio della Storia allo stupore magniloquente del melodramma. Giuseppe Montemagno

CHOVANŠČINA, di Modest Petrovic Musorgskij. Regia di Mario Martone. Scene di Margherita Palli. Costumi di Ursula Patzak. Luci di Pasquale Mari. Orchestra e coro del Teatro alla Scala, direzione musicale di Valery Gergiev, maestro del coro Bruno Casoni. Con Mikhail Petrenko, Sergey Skorokhodov, Evgeny Akimov, Alexey Markov, Stanislav Trofimov, Irina Vashchenko, Ekaterina Semenchuk, Maxim Paster, Evgenia Muraveva, Sergej Ababkin. Prod. Teatro alla Scala, MILANO.

Spettacolo magistrale. Valery Gergiev dirige l’orchestra con’intensità, una profondità, un’intelligenza di lettura mai raggiunte. Bruno Casoni ottiene dal coro risultati insuperabili, a tratti così toccanti da domandarsi come mai si esegua così poco quest’opera. Margherita Palli, scenografa audace, straordinaria, piena di talento, capace di dare all’opera una dimensione visuale fortissima per novità ed energia. L’idea di trasportare l’azione in un imprecisato XXI secolo dà forza alla vicenda, ce la rende comprensibile, richiama conflitti a noi molto vicini. La regia di Mario Martone ha momenti davvero grandiosi. Muove le masse con sicurezza, i solisti sono per lo più tutti credibili, si muovono senza i soliti artifici operistici, diretti da mano autenticamente teatrale. Sublime, emozionante l’ultimo atto: un grande sole domina la scena nuda. Al centro il capo dei vecchi credenti, Dosifej, prima è da solo, poi entrano i fedeli che si avviano al sacrificio finale. Si lasciano bruciare nel loro eremo. Il sole sul fondo lentamente si infiamma, trasformando l’intera scena in un immenso rogo. Un quadro di una bellezza da togliere il fiato. Ma non tutto è perfetto. I costumi, per esempio, fagotti informi, indistinti, creano confusione fra popolani, vecchi credenti, strelcy. Dosifej sembra uno scaricatore di porto, Marfa un’impiegata dell’Enel, la vecchia credente Susanna assomiglia a Emma creando altra confusione. Insensati i passaggi muti della reggente Sof’ja con i due eredi al trono (il peggiore è quello con Golicyn che la bacia). Il pubblico, che già si orienta a fatica nella complicata storia, si domanda perché la signora, sempre muta, debba percorrere il palcoscenico senza nessun rapporto con gli altri personaggi. E poi la danza persiana, visto che siamo nel XXI se-

colo, è sostituita da un numero da Crazy Horse: quattro sgallettate ballerine in tenuta sadomaso dimenano il sedere e si rotolano per allietare il protagonista. Anche nel XXI secolo l’erotismo può essere meno banale. Non bisogna inoltre dimenticare che Musorgskij ha scritto una musica magnifica per voluttà e morbidezza: ascoltando quella musica, i movimenti delle ballerine scelte per interpretare quella danza sono un pugno in un occhio. Fausto Malcovati

LES TROYENS, di Hector Berlioz. Regia e scene di Dmitri Tcherniakov. Costumi di Elena Zaytseva. Luci di Gleb Filshtinsky. Orchestra e coro dell’Opéra national, direzione musicale di Philippe Jordan, maestro del coro José Luis Basso. Con Stéphanie d’Oustrac, Ekaterina Semenchuk, Brandon Jovanovich, Stéphane Dégout, Michèle Losier, Aude Extrémo, Cyrille Dubois, Bror Magnus Tødenes, Véronique Gens e altri 7 interpreti. Prod. Opéra national, PARIGI.

Le scatole di Tcherniakov. Sono ormai innumerevoli i “contenitori” in cui il regista russo predilige riprodurre l’azione con spirito da entomologo, pronto a infilzare le sue vittime per rivelarne nevrosi, complessi, tare. E non si allontanano da questo principio neanche questi contestati Troyens, ben lontani dagli intenti celebrativi con cui erano stati programmati (il 350° anniversario della fondazione dell’Opéra di Parigi, il 150° dalla morte del compositore, il 30° dell’inaugurazione della sede di Bastille). Del mito non rimane più traccia, naturalmente, perché La presa di Troia è ambientata al giorno d’oggi: tra le macerie della città che s’individua sullo sfondo, livida nelle luci fumanti di Filshtinsky; e nell’uffi cialità disfunzionale della famiglia di Priamo, in un riquadro al proscenio, sormontato da un nastro pubblicitario su cui scorrono gli aggiornamenti dal fronte. Il quadro è, come sempre, ridondante (non è poi così utile far derivare l’ipersensibilità di Cassandra da uno stupro infantile perpetrato dal padre) e rischia di far scivolare la saga verso una dimensione soap, forzatamente ironica, non sempre produttiva. Ma è dalla fine della prima parte che si schiudono ben più incandescenti orizzonti: quando il fantasma di Ettore e poi la stessa Cassandra diventano torce umane, pronte a immolarsi per la collettività; e soprattutto quando Creusa si suicida perché non vuole più stare al fianco di Enea, complice degli invasori. Per questo risulta ulcerante la seconda parte, in cui il racconto dei Troiani a Cartagine si svolge in un centro di riabilitazione per vittime di guerra: dove Didone avrà lo stesso, orrido vestito giallo di Creusa, e con lei Enea sarà alle prese con un’elaborazione del lutto ora teneramente affettuosa, ora tragicamente straziante, come in quel Chiaro di luna che li unisce unicamente con gli sguardi, su tavoli separati di un algido refettorio. Minutamente calcolato, il suicidio di Didone diventa una doppia rinuncia alla vita: ai giochi di ruolo, imposti dal trattamento sanitario; ma ancor di più all’artificio del teatro, con un lacerante salto verso il buio che sbigottisce e lascia senza fiato. Giuseppe Montemagno

IL PRIMO OMICIDIO, di Alessandro Scarlatti. Regia, scene, costumi, luci di Romeo Castellucci. Drammaturgia di Piersandra Di Matteo e Christian Longchamp. B’Rock Orchestra, direzione musicale di René Jacobs. Con Kristina Hammarström, Olivia Vermeulen, Thomas Walker, Birgitte Christensen, Benno Schachtner, Robert Gleadow. Prod. Opéra national, PARIGI - Staatsoper Unter den Linden, BERLINO - Teatro Massimo, PALERMO.

Lo sguardo inquieto dello spettatore turba l’universo creativo di Castellucci: ne è fondamento irrinunciabile ma anche atto voyeuristico, violento, intrusivo. Questa sensazione aumenta se riferita al Primo omicidio, folgorante oratorio di Scarlatti - dunque privo di una destinazione teatrale - composto nel 1707 ma restituito alla dimensione esecutiva soltanto nel 1966. Perché questa volta si osa di più: non solo la partitura barocca debutta su un palcoscenico, adattata dalla luminosa bacchetta di Jacobs alle vaste proporzioni di Palais Garnier; ma soprattutto mette in scena la storia di Caino, in cui il crimine vive in una dimensione distaccata, straniante, onirica, difficile da immaginare, impossibile da rappresentare. Per questo lo spettacolo si biforca. La prima parte è ambientata infatti in un universo lattiginoso e impalpabile, animato da figure in abiti contemporanei che si stagliano sullo sfondo di impercettibili variazioni di colore, sospese tra il romanticismo visionario di Turner e gli enigmatici studi sul colore di Rothko, riflessione astratta eppur tragicamente avvertita sulla miseria della condizione umana. Il punto di crisi è segnato dal riferimento al chiasmo dantesco, Ave/Eva, in cui la prima donna si specchia nell’immagine capovolta della Madonna, che dall’alto precipita come una ghigliottina con una riproduzione dell’Annunciazione di Simone Martini. Lo straordinario dinamismo del trittico tardomedievale singolarmente contrasta con la fissità dei personaggi,

ignari del destino che li attende. Nella seconda parte saranno esiliati nella fossa orchestrale, per lasciare il posto a un lussureggiante paradiso terrestre in cui si muovono unicamente dei bambini, chiamati a raddoppiare non solo la prima famiglia umana, ma anche le presenze di Dio e di Lucifero. Il finale consolatorio, in cui si assicura la prosecuzione della stirpe di Adamo, nulla sottrae alla grandiosa eloquenza del gesto di Caino, che irriga con il sangue del fratello la terra intera, cancellando quell’età dell’innocenza che invece sulla scena appare naturale, indispensabile, vitale. Giuseppe Montemagno

In apertura, Il primo omicidio; in questa pagina, Attila e Chovanščina.

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