Hystrio 2019 2 aprile-luglio

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LIRICA

Quando le opere liriche rileggono il presente

ATTILA, di Giuseppe Verdi. Regia di Davide Livermore. Scene di Giò Forma. Costumi di Gianluca Falaschi. Luci di Antonio Castro. Video di D-Wok. Orchestra e Coro del Teatro alla Scala di Milano, direttore musicale Riccardo Chailly, maestro del coro Bruno Casoni. Con Ildar Abdrazakov, Saioa Hernández, George Petean, Fabio Sartori, Francesco Pittari, Gianluca Buratto. Prod. Teatro alla Scala, MILANO.

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Impossibile non riconoscerlo, impossibile non avvertire un primo, devastante pugno allo stomaco. Il libretto prescrive «una piazza di Aquileja» messa a ferro e fuoco dagli Unni; ma Davide Livermore apre il sipario di Attila su una citazione d’autore: una donna viene fucilata, inutilmente soccorsa dalle grida del figlio, sotto lo sguardo impietrito di un sacerdote. Pina, don Pietro e il piccolo Marcello di Roma città aperta sono solo il primo riferimento di uno spettacolo prezioso per più di una ragione. C’è infatti

un uso dei video che non è mai pleonastico, ridondante, ma sempre perfettamente calato nell’azione: anche solo quando sull’imponente ledwall si addensa una spessa coltre di nubi, foriera di tempeste. C’è la scelta di un’atemporalità distopica, genericamente ascrivibile al secondo dopoguerra, che fa cogliere l’universalità delle persecuzioni, ripetutesi nei secoli fino a un tempo non poi così distante da noi. E per questa via ritorna alla ribalta uno dei caratteri fondamentali delle opere giovanili verdiane, che oggi si ama definire kolossal, ma che durante il Risorgimento era semplicemente corale: a indicare una partecipazione collettiva alla fondazione della nazione, così difficile da cogliere, ancor più difficile da rappresentare. Sotto ponti e arcate diroccate, cumuli di macerie e orge di straziante, lirica bellezza, Attila diventa serbatoio pressoché inesauribile di rimandi, echi, rifrazioni: i ripensamenti d’autore come quelli di Rossini, sapientemente restituiti dalla bacchetta analitica di Chailly; ma soprattutto un vasto repertorio cinematografico (dal Rossellini prima citato a quello di Germania anno zero, fino al Visconti della Caduta degli dei, alla Cavani del Portiere di notte e perfino al Blade Runner di Ridley Scott) che denuncia un’arte della citazione coltissima, raffinata, eloquente. Ma soprattutto di sconvolgente teatralità, nel Finale I, con la virtuosistica ricostruzione dell’Incontro di Leone Magno con Attila dipinto da Raffaello nelle Stanze vaticane: studiato da Verdi, mentre attendeva alla composizione dell’opera e ora rievocato sulla scena, per coniugare il soffio della Storia allo stupore magniloquente del melodramma. Giuseppe Montemagno CHOVANŠČINA, di Modest Petrovic Musorgskij. Regia di Mario Martone. Scene di Margherita Palli. Costumi di Ursula Patzak. Luci di Pasquale Mari. Orchestra e coro del Teatro alla Scala, direzione musicale di Valery Gergiev, maestro del coro Bruno Casoni. Con Mikhail Petrenko, Sergey

Skorokhodov, Evgeny Akimov, Alexey Markov, Stanislav Trofimov, Irina Vashchenko, Ekaterina Semenchuk, Maxim Paster, Evgenia Muraveva, Sergej Ababkin. Prod. Teatro alla Scala, MILANO. Spettacolo magistrale. Valery Gergiev dirige l’orchestra con’intensità, una profondità, un’intelligenza di lettura mai raggiunte. Bruno Casoni ottiene dal coro risultati insuperabili, a tratti così toccanti da domandarsi come mai si esegua così poco quest’opera. Margherita Palli, scenografa audace, straordinaria, piena di talento, capace di dare all’opera una dimensione visuale fortissima per novità ed energia. L’idea di trasportare l’azione in un imprecisato XXI secolo dà forza alla vicenda, ce la rende comprensibile, richiama conflitti a noi molto vicini. La regia di Mario Martone ha momenti davvero grandiosi. Muove le masse con sicurezza, i solisti sono per lo più tutti credibili, si muovono senza i soliti artifici operistici, diretti da mano autenticamente teatrale. Sublime, emozionante l’ultimo atto: un grande sole domina la scena nuda. Al centro il capo dei vecchi credenti, Dosifej, prima è da solo, poi entrano i fedeli che si avviano al sacrificio finale. Si lasciano bruciare nel loro eremo. Il sole sul fondo lentamente si infiamma, trasformando l’intera scena in un immenso rogo. Un quadro di una bellezza da togliere il fiato. Ma non tutto è perfetto. I costumi, per esempio, fagotti informi, indistinti, creano confusione fra popolani, vecchi credenti, strelcy. Dosifej sembra uno scaricatore di porto, Marfa un’impiegata dell’Enel, la vecchia credente Susanna assomiglia a Emma creando altra confusione. Insensati i passaggi muti della reggente Sof’ja con i due eredi al trono (il peggiore è quello con Golicyn che la bacia). Il pubblico, che già si orienta a fatica nella complicata storia, si domanda perché la signora, sempre muta, debba percorrere il palcoscenico senza nessun rapporto con gli altri personaggi. E poi la danza persiana, visto che siamo nel XXI se-


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