ICONEMI

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Università degli Studi di Bergamo - Centro Studi sul Territorio “Lelio Pagani”

QUADERNI 19

a cura di Fulvio Adobati, Maria Claudia Peretti, Marina Zambianchi

BERGAMO UNIVERSITY PRESS

sestante edizioni


Con il contributo

Comune di Bergamo

Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Bergamo

Š 2010, Bergamo University Press Collana fondata da Lelio Pagani, diretta da Anna Maria Testaverde

ICONEMI alla scoperta dei paesaggi bergamaschi a cura di Fulvio Adobati, Maria Claudia Peretti, Marina Zambianchi p. 112 cm. 29,7 ISBN – 978-88-96333-60-0

In copertina: Fotografia di Francesca Perani

Ordine degli Ingegneri della Provincia di Bergamo


INDICE

MARIA CLAUDIA PERETTI, MARINA ZAMBIANCHI Presentazione

pag.

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ORDINE ARCHITETTI, INGEGNERI E AGRONOMI Territorio e paesaggio: analisi, progetto e governo delle trasformazioni attori&ruoli - culture disciplinari - figure professionali ................................................................

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FULVIO ADOBATI Introduzione. Sguardi per una ri-scoperta dei paesaggi bergamaschi .........................................

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MARIO PARIS Superluoghi: da prodotto immobiliare a produttore di territorio .................................................

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FABRIZIO BOTTINI OGM: oggetti genericamente metropolitani ..................................................................................

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LUCA TAMINI La territorializzazione dei superluoghi: nuove geografie e nuove questioni emergenti ................

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ANTONIO LONGO Paesaggio, forma e responsabilità del progetto spunti critici e temi di ricerca a partire dall’esperienza delle compensazioni ambientali per l’autostrada pedemontana lombarda ..........

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SERENA MAFFIOLETTI Oltre il guard-rail: ogni strada è una strada ..................................................................................

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MARIA CHIARA ZERBI Il paesaggio del gusto ......................................................................................................................

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RENATO FERLINGHETTI, GIANFRANCESCO RUGGERI Paesaggi minimi e sapienza territoriale ..........................................................................................

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DAVIDE PAGLIARINI Fare paesaggi minimi. Conservazione e attualizzazione attraverso la pratica del progetto ........

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MATTEO COLLEONI Dispersione degli insediamenti e mobilità territoriale ...................................................................

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CARLO SALONE Smart growth e paradigma dello sviluppo: affinità e divergenze, tra pratiche sociali e trasformazioni urbane ...............................................

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PAOLO BELLONI Alto o basso? Denso. .......................................................................................................................

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ANDREA GRITTI Edifici alti o edifici bassi? ...............................................................................................................

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MARIA CLAUDIA PERETTI Osservare i paesaggi. Piccola antologia di sguardi significativi ....................................................

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MARIA CLAUDIA PERETTI, MARINA ZAMBIANCHI

PRESENTAZIONE

Il 20 ottobre del 2000, a Firenze, il Consiglio d’Europa ha emanato la “Convenzione europea del Paesaggio”, cioè il testo che contiene i principi fondamentali a cui le democrazie di questo continente devono far riferimento nell’elaborazione e nella gestione delle politiche territoriali. Il testo della Convenzione sancisce in maniera chiara e definitiva l’inclusione dell’intero ambiente nel concetto di paesaggio, accostando alle situazioni eccezionali perché legate alla presenza di caratteri prevalentemente naturali e belli, situazioni “quotidiane”, urbane e minori. Paesaggio è un termine molto ampio che assume forme e identità diverse nel sistema complessivo di relazioni che si instaura, nel corso del tempo, tra l’ambiente e l’attività umana. Questo sistema di relazioni è fatto di aspetti concreti e di trasformazioni fisiche, ma anche di attribuzioni simboliche e di valore, che riflettono la capacità di dare un senso collettivo all’azione dell’abitare i luoghi. Sulla base di queste premesse, nel testo della Convenzione viene dato un grande peso alla percezione che le popolazioni hanno del proprio territorio: l’efficacia di qualsiasi politica di tutela e valorizzazione è infatti direttamente proporzionale alla conoscenza allargata e alla condivisione profonda degli obiettivi, che rende ogni abitante soggetto attivo nel loro perseguimento. Siamo molto lontani da una visione strettamente “vincolistica” e punitiva: le politiche territoriali non possono essere imposte calandole dall’alto, ma devono attuarsi attraverso un costante processo di educazione e sensibilizzazione che faccia emergere, rafforzandolo, un sistema collettivo di valori e renda possibile la partecipazione effettiva e responsabile delle comunità come soggetti responsabili. “Iconemi” raccoglie e sviluppa alcuni dei temi fondamentali della Convenzione europea.

Infatti, 3 sono le caratteristiche principali dell’iniziativa: 1) estendere la nozione di paesaggio affermando quella di “paesaggi” capace di comprendere le molteplici situazioni e i temi variegati del territorio di Bergamo e della sua Provincia. Del paesaggio fanno parte non solo le bellezze naturali e monumentali già riconosciute, ma anche aspetti meno noti legati al mondo della produzione e del commercio, del cibo, dell’agricoltura, delle infrastrutture contemporanee. 2) Associare momenti di approfondimento scientifico a momenti di divulgazione e di comunicazione più ampia, rivolta a utenze differenziate per età, competenze e interessi. Il calendario delle iniziative ha affiancato un ciclo di conferenze tenute da esperti di varie discipline alla raccolta di fotografie inviate da diverse categorie di abitanti, ai quali è stato richiesto di individuare, in base alla propria sensibilità e al proprio punto di vista, gli elementi significativi e rappresentativi del nostro territorio, i suoi “iconemi”. 3) La finalità è quella di sollecitare l’osservazione dell’esistente e di creare un confronto attivo e fertile tra i diversi codici di lettura, verso una percezione allargata e condivisa, che si basi sulla consapevolezza della complessità. L’osservazione dell’esistente è la premessa irrinunciabile di ogni “paesaggio”: non c’è paesaggio senza uno sguardo che osserva, seleziona, indaga e attribuisce valore a ciò che vede. Sarebbe auspicabile che l’iniziativa venga riproposta annualmente, focalizzando via via l’attenzione su diversi temi e nella convinzione che l’idea di paesaggio non sia statica e immobile, ma all’opposto, sia fortemente trasformativa e si adegui continuamente agli scenari che cambiano.


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In questo senso “Iconemi” interpreta pienamente la mission dell’Urban Center che ospita lo svolgimento dell’iniziativa: tale struttura vede infatti tra le proprie finalità principali quella di accompagnare il processo di costruzione condivisa di una cultura del territorio e delle sue trasformazioni attraverso l’atti-

vazione di un proficuo scambio e di un dibattito aperto e allargato ai cittadini, in-formando, coinvolgendo e sviluppando processi di partecipazione consapevole. MARIA CLAUDIA PERETTI MARINA ZAMBIANCHI


ORDINE DEGLI ARCHITETTI, PIANIFICATORI, PAESAGGISTI E CONSERVATORI DELLA PROVINCIA DI BERGAMO ORDINE DEGLI INGEGNERI DELLA PROVINCIA DI BERGAMO ORDINE DEI DOTTORI AGRONOMI E DOTTORI FORESTALI DELLA PROVINCIA DI BERGAMO

TERRITORIO E PAESAGGIO: ANALISI, PROGETTO E GOVERNO DELLE TRASFORMAZIONI attori&ruoli - culture disciplinari - figure professionali

PREMESSA Queste note intendono proporre una riflessione circa la evoluzione e la interazione delle competenze, dei ruoli, delle professionalità in campo, e rappresentano il contributo congiunto dei partecipanti alla tavola rotonda conclusiva del progetto ICOMEMI 2010 del 18 marzo 2010: Sergio Sottocornola ingegnere, Vittorio Gandolfi architetto, Mario Carminati dott. agronomo, Luigino Pirola architetto-paesaggista.

1. IL PASSATO REMOTO • chi operava sul territorio (in particolare nei territori montani e collinari), era al contempo: 1. committente - finanziatore - progettista - esecutore, 2. manutentore - valutatore del rapporto costi benefici, etc. • I comportamenti autoregolativi ed autorganizzativi (prevalenti su regole normativo/burocratiche) seguivano criteri frutto di una cultura materiale sedimentata lungo secoli. (fig. 1) • Tali criteri erano dettati da necessità primarie e limitatezza delle risorse, stringenti ed essenziali, e tuttavia venivano adattati allo specifico stato dei luoghi e alle circostanze date, con libertà interpretativa e creativa, anche sotto il profilo delle scelte formali, come testimonia la intrinseca qualità, anche espressiva, di tante opere di ingegneria ed architettura spontanee, di tanti insediamenti rurali. (fig. 2) • Questi processi e comportamenti hanno quindi dato forma a paesaggi variegati, connotati da forme politecniche durabili, conformi ai caratteri strutturali del territorio, agli aspetti geomorfologici e climatici, alle fonti di energia disponibili (per esemplificare: – la sapiente ubicazione degli insediamenti, che denota una profonda cognizione della geomorfologia, dei bilanci ener-

getici, dei caratteri idrogeologici dei siti; – il mirabile reticolo idrico della pianura lombarda, una “macchina idraulica” che l’ha resa una delle aree a maggior produttività agricola in Europa, dotata di una estesa varietà di paesaggi ed ambienti ricchissimi di biodiversità).

2. IL PASSATO PROSSIMO Il passato più recente è connotato da una presenza plurima di soggetti (apparati amministrativi; figure professionali) con competenze, modelli di riferimento e regole assai più estesi ma segmentati, con difficoltà a connettersi per determinare competenze e conoscenze esaurienti relativamente ad una specifica situazione, con le sue irripetibili connotazioni. • A ciò si è aggiunta la progressiva attenuazione degli stati di necessità (o della loro percezione), parallelamente alla crescita esponenziale delle potenzialità dei mezzi tecnici e delle risorse economico/sociali a disposizione. Questi fattori hanno indotto trasformazioni di inedita concentrazione temporale: in pochi decenni gli scenari territoriali, socio economici e demografici sono mutati come in passato non era avvenuto nemmeno nell’arco di secoli. (fig. 3) • Si è pertanto determinata la progressiva riduzione in condizioni di marginalità di tanta parte dei territori rurali e della produzione agricola, soggetti deboli del “miracolo economico”. Tali territori sono stati sottoposti, negli ambiti investiti dai processi conurbativi, alle pressioni delle rendite di posizione determinate da questi processi (incommensurabilmente più alte del reddito medio derivabile dalle attività agricole). (fig. 4) Altrove, per contro, gli stessi territori rurali hanno subito invece processi di accelerato abbandono (nelle zone meno produttive, di montagna


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ORDINI ARCHITETTI, INGEGNERI E AGRONOMI

Fig. 1. Il paesaggio tradizionale è frutto della capacità di adeguamento alle condizioni del territorio, in una condizione di risorse scarse che imponeva il massimo rispetto del territorio. Scanzorosciate, Serradesca

Fig. 2. Paesaggio dello Strachì Tunt; la tutela dei paesaggi di qualità passa anche attraverso la corretta gestione forestale, la tutela dei prodotti tipici e l’adozione di adeguati disciplinari di produzione. Pizzino, Valtaleggio

Fig. 3. L’espansione urbanistica comporta la continua distruzione del suolo, una risorsa non rinnovabile, e la scomparsa di ambienti e paesaggi frutto del lavoro millenario dell’uomo. Scanzorosciate, vista dal Monte Bastia

Fig. 4. La valorizzazione dei territori rurali ha particolare importanza nelle aree di margine tra città e campagna, dove le trasformazioni antropiche sono tuttora effettuate soprattutto a spese delle aree agricole-forestali. Stezzano, a sud dell’abitato

e collina) oppure, in alternativa, drastiche alterazioni a seguito del mutamento degli stessi processi di produzione agraria. • Si è così determinata una progressiva obsolescenza (o “museificazione) delle competenze e delle tecniche storicamente consolidate. La trasformazione delle tecniche agrarie (particolarmente per le aree agricole “ricche”, a produzione intensiva), ha determinato la perdita crescente di quote di naturalità e di mitigazione ambientale connesse all’attività agricola (figg. 5 e 6), con crescenti criticità indotte dalle esasperazioni del sistema agroindustriale e dalle storture del sistema distributivo, sia a livello locale che globale. Una trasformazione caratterizzata dal triplice esito negativo di: – mettere in difficoltà l’imprenditoria agricola, soprattutto quella medio/piccola, che, pur costituendo elemento caratterizzante la specificità italiana, denuncia una continua, costante diminuzione;

– rendere difficile l’obiettivo di una calmierazione dei prezzi finali all’utente, nonostante una effettiva minore retribuzione del prodotto all’origine, che viene però ampiamente vanificata dai costi e dalle strozzature della catena distributiva – depauperare le specificità del rapporto agricoltura/territorio, così ricche ed uniche nella tradizione italiana. • Le modalità di pianificazione e governo del territorio, le relative competenze, le figure sociopolitiche e professionali emergenti sono divenute prevalentemente quelle funzionali ai processi di rapida urbanizzazione, di utilizzazione edificatoria dei suoli, di valorizzazione del patrimonio edilizio esistente, con graduale estromissione dai processi pianificatori delle “sapienze” e competenze che avevano plasmato nei secoli precedenti il paesaggio italiano. • Tutto ciò ha portato ad un abbassamento generalizzato della sensibilità culturale per il paesaggio


TERRITORIO E PAESAGGIO: ANALISI, PROGETTO E GOVERNO DELLE TRASFORMAZIONI

e della “cultura del progetto di paesaggio”, rispecchiato in una serie di interventi, anche di piccole dimensioni ma diffusi sul territorio, che hanno contribuito ad una sostanziale modificazione del paesaggio stesso, o meglio, alla formazione di un nuovo paesaggio spesso banale, disordinato e insipiente, che è quello che oggi vediamo nella cosiddetta “città diffusa”. (fig. 3) • L’attenzione al territorio rurale esteso, laddove esiste, si è rivolta principalmente al rischio idrogeologico, soprattutto in rapporto agli ambiti interessati dalle espansioni edilizie. (Per altro, le analisi geologiche e pedologiche hanno rappresentato una delle prime estensioni codificate del campo di attenzione della pianificazione “urbanistica” tradizionale). Si sono estese, per contro, anche le forme di salvaguardia e tutela di ambiti particolarmente connotati (principalmente quelli fluviali, naturalistici e forestali). Stenta però a decollare una progettualità regolativa che vada oltre la mera salvaguardia passiva per proporne una di tipo intelligentemente attivo e non limitata ai soli ambiti “speciali”.

3. L’OGGI Continuano i processi descritti del recente passato, ma crescono contraddizioni e fragilità, alimentando controtendenze: • Nella opinione pubblica: crescono consapevolezza e dibattito (e la percezione di un lievitare di “stati di “necessità”), su temi quali: – l’equilibrio ecologico e la allarmante estensione della quota di suolo edificato; – la crescita di fattori inquinanti e il parallelo degrado della qualità dei fattori vitali primari e della produzione alimentare; (fig. 7) – la perdita stessa di identità e fruibilità del territorio, quale bisogno primario, a fronte dell’avanzare di una sorta di grande “blob” urbanistico indifferenziato e pervasivo, che omologa in negativo l’intero orizzonte territoriale. (fig. 8) • A livello politico/istituzionale: Permane la difficoltà di un equilibrato coordinamento tra i tradizionali livelli istituzionali di programmazione e spesa (Comuni, Provincie, Regione), secondo una scala territoriale congruente alle questioni del concreto governo del territorio che oggi si richiede. Le criticità crescenti, e il doversi allineare con

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normative europee, inducono importanti innovazioni di principio. Per quanto attiene, ad esempio: – la redazione dei Piani Territoriali di Coordinamento Provinciali PTCP); – la sperimentazione di un nuovo network comunale di atti e processi di pianificazione e governo del territorio (PGT: Piani di Governo del Territorio); – le nuove politiche agricole comunitarie, con le loro potenzialità e contraddizioni; – i criteri di sostenibilità e partecipazione nei processi che regolano le trasformazioni territoriali e dei paesaggi (in particolare le procedure partecipate di Valutazione Ambientale Strategica - VAS - e Impatto Ambientale - VIA - recepite anche dalla legislazione regionale). Queste innovazioni di principio trovano tuttavia difficoltà a tradursi in metodi e pratiche che incidano effettivamente sullo stato delle cose. Forte è il rischio che si riducano a pratiche “dovute”, burocratiche o nominalistiche, non cogenti. Le procedure di VAS (una delle principali innovazioni) sono particolarmente esposte a questa deriva. • A livello delle strutture produttive Anche i caratteri insediativi delle strutture della produzione presentano una accentuata diffusione dispersiva, in relazione anche alla disaggregazione in un elevato numero di unità produttive a piccola/media dimensione. Caratteristiche che presentano oggi elementi di criticità sia per quanto attiene gli assetti equilibrati del territorio e i livelli di infrastrutturazione, sia per quanto riguarda le condizioni stesse di competitività, a fronte di un mercato a scala sovranazionale. • A livello culturale e disciplinare. si assiste ad una evoluzione delle elaborazioni e dei dibattiti culturali, ai vari livelli, con l’innovazione dei processi formativi e connotativi delle figure professionali, sui temi dell’analisi, del progetto e del governo delle trasformazioni del territorio, dell’ambiente, del paesaggio. Si evidenziano, in merito: 1. processi di individuazione di competenze più specialistiche e mirate, all’interno ed all’esterno delle professioni tradizionali (riguardanti, ad esempio, ambiti tematici quali: l’ingegneria idraulica e naturalistica; l’ingegneria dei trasporti e della mobilità; le scienze e le tecniche dei bilanci energetici, delle fonti rinnovabili di energia, dell’ecologia del pae-


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ORDINI ARCHITETTI, INGEGNERI E AGRONOMI

Fig. 5. Il territorio rurale ha un valore che esula dalla sua parziale, totale o nulla edificabilità: è ambiente e paesaggio, è fonte di sussistenza alimentare ed energetica, approvvigionamento di acqua, legno, verde, energia. Spirano, verso Cologno al Serio

Fig. 6. È necessario promuovere forme di agricoltura che mantengano un buon arredo naturale ed un sufficiente grado di biodiversità, contribuendo a connettere tra loro le aree seminaturali residue attraverso “reti ecologiche”. Comun Nuovo lungo il Morla

Fig. 7. Un “ecosistema filtro” è in grado di assorbire gli elementi inquinanti, polveri, aerosol, gas, liquidi e rumori, nonché di trattenere, modificare o rallentare il loro flusso verso l’ambiente e gli insediamenti antropici. Urgnano, retro via S. Pertini

Fig. 8. Obiettivo primario della tutela del paesaggio non è la ricerca del più alto grado di naturalità ma il mantenimento dei rapporti uomo-ambiente tipici delle identità culturali che esso rappresenta. Scanzorosciate, Montecchio

saggio; l’architettura del paesaggio; le scienze della pianificazione territoriale; le scienze agronomiche e forestali applicate alle politiche territoriali e paesaggistiche; la geologia della pianificazione territoriale; le scienze naturalistiche; gli studi economici e sociologici sulle dinamiche territoriali; le scienze dei modelli gestionali, per una complessiva sostenibilità economica, oltre che ambientale, per le modalità partecipative; etc. 2. Il recupero (seppur ancora largamente inadeguato) di competenze per troppo tempo poco o nulla presenti nelle varie istanze di pianificazione e governo del territorio (quali quelle, ad esempio, relative al rapporto dei territori con i temi agronomici e forestali, paesaggistici, ecologici e naturalistici). Competenze tuttavia spesso ancora viste co-

me portatrici di un apporti “settoriali”, specialistici, le cui risultanze rischiano di rimanere confinate in relazioni scritte, anche interessanti, ma destinate a non tradursi in “progetti” che incidano sulla realtà. 3. La ricerca di più efficaci e sinergiche relazioni interdisciplinari, vista anche come la chiave principale del progresso di quelle stesse discipline sopra citate. Quanto più ciascuna delle competenze specialistiche approfondisce il proprio specifico orizzonte, tanto più avverte la necessita di mettersi in relazione con le altre, di interagire, nel confronto disciplinare e sul campo. Qualsiasi considerazione ed iniziativa sui temi di cui qui ci occupiamo non può prescindere da questo aspetto1. • Le figure professionali.

1 Diverse forme associative, per altro, vedono da tempo compresenti figure culturali e professionali varie ed integrate, nei campi della architettura, della ingegneria, della pianificazione territoriale, delle scienze agronomiche e forestali, geologiche, naturali ed ecologiche, etc. Ne citiamo due: A.I.A.P.P (Associazione Italiana di Architettura del Paesaggio); I.N.U. (Istituto Nazionale di Urbanistica).


TERRITORIO E PAESAGGIO: ANALISI, PROGETTO E GOVERNO DELLE TRASFORMAZIONI

Riepilogando quanto sopra detto, per quanto attiene le figure professionali, se da un lato v’è la necessità di individuare e definire in modo più specifico le varie competenze, dall’altro occorre favorire forme di dialogo e sinergia interprofessionali, a fronte di questioni e tematiche (come appunto quelle che qui consideriamo) i cui contenuti sono trasversali rispetto alle specifiche figure professionali. Ciò dovrebbe riguardare, va sottolineato, tutti i momenti e le fasi in cui si articolano i ruoli professionali, in modo integrato, per evitare che la interdisciplinarietà decada a mero accostamento di apporti separatamente costruiti. Momenti che potrebbero essere così articolati: – Il momento, fondamentale, dell’approccio integrato con la pubblica committenza (e con l’opinione pubblica). – Il momento delle letture integrate dello stato delle cose, secondo modelli interpretativi e valutativi che consentano l’aggiornamento ed il feed back di queste letture nel tempo, secondo rapporti di causa/effetto (le valutazioni ambientali). Momento in cui si individuano anche le questioni e le domande prioritarie cui dare attenzione e risposte, anche in relazione a processi di partecipazione evolutiva attivati e in cui si individuano gli INDICI e le modalità da utilizzare per la gestione ed il monitoraggio dei piani, anche ma non solo a livello di VAS – Il momento delle progettualità integrate (comprese, con particolare evidenza, le progettualità di processo). Con l’analisi delle praticabilità (economiche, sociali, ambientali) e del rapporto costi/benefici, relativamente alle opzioni proponibili, anche alternative tra loro; – Il momento della attuazione integrata degli interventi progettati, con quanto consegue in termini di operatività, a verifica e messa a punto di quanto presupposto a progetto, compresi (fondamentali) gli aspetti gestionali: oggi, più che mai, un buon progetto di intervento pubblico è tale se accompagnato da una altrettanto buona gestibilità e gestione nel tempo. Riprendendo in parte anche quanto sopra detto, vorremmo infine sollecitare l’attenzione, per quanto in generale attiene i temi e la pratica del governo del sistema territorio/ ambiente/paesaggio, sulla importanza dei processi aggregativi che lo devono supportare, a tutti i livelli sopra citati, ed in particolare sui nessi che intercorrono tra questi tre termini:

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– “attori”; – “progettualità”; – “confronto partecipativo”. Nessi imprescindibili tanto per chi affronta quelle questioni dal versante politico/sociale, quanto per coloro che sono chiamati a dare apporto di competenze e professionalità, Se più attori partecipano, a diverso titolo, alla costruzione di un progetto, la qualità di quest’ultimo dipenderà il larga misura dalla qualità del loro confronto e dal livello di integrazione degli esiti del medesimo. Reciprocamente, buone proposte progettuali, che integrino vari approcci e competenze interdisciplinari, forniscono ulteriori stimoli ad un buon confronto partecipativo tra i soggetti coinvolti. E infine, un buon progetto integrato, costruito con un buon confronto partecipativo, è tale da contribuire alla qualità dei comportamenti stessi degli attori che vi partecipano, ad un processo evolutivo, per così dire, di “ecologia della mente” Al contrario, se uno degli elementi della terna è carente, ne deriva un effetto negativo sugli altri. Per esemplificare: – in tema di governo del territorio, in assenza di un valido ed effettivo confronto partecipativo, una buona progettualità risulta improbabile e comunque carente di verifiche; – così come è arduo attivare una buona partecipazione propositiva se non la si sostiene con valide proposte e competenze progettuali integrate; – infine, gli stessi ruoli dei vari attori in campo perdono in credibilità ed efficacia, in assenza di un valido binomio progettualità integrata/partecipazione (in particolare, anche quest’ultima, per essere efficace, va adeguatamente “progettata”, anche facendo leva su un elevato grado di integrazione dell’insieme delle competenze e degli approcci disciplinari in campo).

4. ORDINI PROFESSIONALI E TERRITORIO: QUALI SINERGIE? Le sinergie che in queste righe vengono ripetutamente auspicate hanno già trovato, per quanto attiene gli Ordini professionali in ambito bergamasco, momenti significativi, che aprono prospettive per il futuro 1. In particolare, nel 2008, l’AIAPP lombarda e gli Ordini Provinciali degli Ingegneri, degli Architetti PPC, dei dottori Agronomi e Forestali, con


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ORDINI ARCHITETTI, INGEGNERI E AGRONOMI

l’Ordine regionale dei Geologi hanno organizzato congiuntamente un corso propedeutico al progetto di paesaggio, articolato in otto pomeriggi con apporti sia a livello universitario, che espressivi della nostra specifica realtà. Corso frequentato da oltre sessanta corsisti, rappresentativi di tutte le categorie sopra elencate. 2. Nel corso del primo semestre del 2006, rappresentanti degli stessi Ordini hanno congiuntamente partecipato ad otto incontri promossi dalla Provincia di Bergamo, in varie località del territorio provinciale, per illustrare le novità introdotte dai nuovi PGT e confrontarsi sulle relative problematiche e opportunità. Nel corso di questa esperienza è stato prodotto un documento, condiviso da tutti i rappresentanti sopra citati, con proposte di linee guida e suggerimenti in merito a questi nuovi strumenti di pianificazione e governo del territorio2. 3. Nel corso del 2008-2009 rappresentanti degli stessi Ordini hanno partecipato congiuntamente ad approfonditi momenti interlocutori che hanno accompagnato le fasi preliminari e conclusive della redazione del PGT del Comune di Bergamo, producendo documenti di critica e di proposta relativi al preliminare ed alla versione definitiva del documento di Piano2.

4. Per dare continuità e rafforzare queste iniziative comuni si sta lavorando in Bergamo alla ipotesi di costituire una tavolo comune permanente di confronto ed iniziativa, una Consulta interprofessionale su questi temi. Cercando di interpretare nei fatti una linea di tendenza, diffusamente avvertita a tutti i livelli, ma che fatica a tradursi in atti e metodi conseguenti. (È da segnalare che in questa direzione va anche il recente Protocollo d’intesa sottoscritto da Regione Lombardia e Consulte regionali degli Ordini sopra menzionati, per la realizzazione di iniziative dirette al miglioramento della efficacia delle opere di difesa del suolo attraverso la promozione di buone pratiche e la diffusione e lo scambio delle conoscenze) Sottolineiamo infine che la stessa presenza in Bergamo di un moderno Urban Center costituisce una importante opportunità e stimolo per sviluppare confronti e sinergie. Rendiamo quindi merito al Comune di Bergamo per averla resa possibile (con l’auspicio che possa consolidarsi nel tempo) ed in particolare ai Colleghi che hanno organizzato l’evento ICONEMI, su temi che altrettanto auspichiamo possano continuare ad avere tutta l’attenzione e le sedi di confronto che meritano.

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I documenti sono consultabili sul sito www.ordineingegneri.bergamo.it, alla voce Piano di Governo del Territorio, entro la finestra IN EVIDENZA. Le foto a corredo del testo sono stralciate dalla presentazione curata dal dott. Mario Carminati per l’Ordine dei Dottori Agronomi e dei Dottori Forestali della Provincia di Bergamo.


FULVIO ADOBATI *

INTRODUZIONE SGUARDI PER UNA RI-SCOPERTA DEI PAESAGGI BERGAMASCHI

Piace introdurre questo volume muovendo dal titolo, Iconemi, così eloquente per chi conosce le opere di Eugenio Turri, e insieme chiave interpretativa così feconda per attraversare con gli sguardi la complessità del concetto di paesaggio e di un paesaggio, quello bergamasco, sospeso tra l’impeto delle variazioni e il valore delle permanenze di un’armatura territoriale-culturale consolidata. Per collocare il concetto di iconema, opportuno riferirci alla immagine dello stesso Turri del paesaggio come teatro: “un teatro nel quale individui e società recitano (…) le loro storie, in cui compiono le loro gesta piccole o grandi, quotidiane o di tempo lungo, cambiando nel tempo il palcoscenico, la regia, il fondale, a seconda della storia rappresentata. La concezione del paesaggio come teatro sottintende che l’uomo e la società si comportano nei confronti del territorio in cui vivono in duplice modo: come attori che trasformano, in senso ecologico, l’ambiente di vita, imprimendovi il segno della propria azione, e come spettatori che sanno guardare e capire il senso del loro operare nel territorio”. (Turri, 1998, p. 13).

Entro questa visione gli iconemi rappresentano “gli elementi della percezione che si pongono come segni fondamentali del paesaggio” (…) Detto in altro modo, sono dei quadri minimi, elementari, che isolano una porzione di paesaggio, ne incorniciano un elemento rappresentativo, assumendo una funzione denotativa del contesto, di quelle unità di paesaggio ricercate ansiosamente dagli urbanisti e dai pianificatori”. (Turri, 1998, pp. 171-172).

L’attenzione alla trasformazione dei paesaggi (negli ultimi decenni manifestatasi non di rado con prepotente insipienza), legata alle dinamiche territoriali in atto nel territorio bergamasco, va inscritta entro una lettura dei fenomeni che attraversano un’ampia regione urbana (Lanzani, 1997) che si estende dalla fascia pedemontana alla linea dei fontanili, ma che intreccia fortemente le sue relazioni con quell’entità più ampia che primo Jean Gottmann, in uno storico convegno tenutosi proprio a Bergamo nel 1977, definì Megalopoli Padana1. Proprio l’assunzione dei caratteri storico-identitari del territorio e del paesaggio lombardo invita ad assumere un atteggiamento aperto alla complessità dei fenomeni in atto. Un territorio fortemente plasmato dall’azione dell’uomo nei secoli, come mirabilmente ci ricorda Carlo Cattaneo: “Noi possiamo mostrare agli stranieri la nostra pianura tutta smossa e quasi rifatta dalle nostre mani; sicché il botanico si lagna dell’agricoltura che trasfigurò ogni vestigio della vegetazione primitiva. Abbiamo preso le acque dagli alvei profondi dei fiumi e degli avvallamenti palustri, e le abbiamo diffuse sulle àride lande. La metà della nostra pianura2, più di quattro mila chilòmetri, è dotata d’irrigazione; e vi si dirama per canali artefatti un volume d’acqua che si valuta a più di trenta milioni di metri cubici ogni giorno. Una parte del piano, per arte ch’è tutta nostra, verdeggia anche nel verno, quando all’intorno ogni cosa è neve e gelo”. (Cattaneo, 1844, pp. XCIX-C).

Le parole di Carlo Cattaneo rimandano a un pae-

* Università degli Studi di Bergamo - Centro Studi sul Territorio “Lelio Pagani”. 1 Per una trattazione aggiornata dei temi del convegno, si veda CESARETTI P., FERLINGHETTI R. (eds) (2009) “DINTORNI” n° 6, Edizioni Sestante, Bergamo. 2 Giova qui ricordare che nei secoli passati con Lombardia ci si riferiva a una realtà ben più ampia dell’attuale regione amministrativa; riprendiamo a tal proposito la definizione di Montesquieu tratta dagli appunti di viaggio del 1728 (pubblicati nel 1894 in “Voyage de Montesquieu, Gounouilhou, Bordeaux, Rouam & C., Paris): “La Lombardia è tutta quella pianura che si stende fra le Alpi e l’Appennino: queste due catene di montagne, unite all’inizio dal Piemonte, divergono, formando un triangolo con il mare Adriatico, che ne è come la base, e racchiudendo la più deliziosa pianura del mondo, che comprende il Piemonte, il Milanese, lo Stato veneto, Parma, Modena, il Bolognese e il Ferrarese”.


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FULVIO ADOBATI

saggio di qualità esito di progettualità attiva, di una trasformazione colta e consapevole del territorio. Nella difesa dei valori paesistici emerge oggi l’opzione di una salvaguardia fatta di un’apertura culturale verso una tensione innovativa, che la storia lombarda rivela in modo nobile ed eloquente. Un distacco dalla opzione di tutela passiva, che ha caratterizzato l’atteggiamento prevalente degli anni Sessanta e Settanta, dominati dalla contrapposizione tra conservazione e sviluppo. Conservazione quindi intesa come innovazione intelligente, non indebolimento delle forme di tutela ma moltiplicazione dell’impegno per la trasmissione dell’eredità territoriale alle generazioni future (Gambino 2009). Entro la più ampia prospettiva di sviluppo sostenibile, nelle sue dimensioni sociale, economica e ambientale, (sovente poste in conflitto tra di loro nel dibattito politico-decisionale) giova assumere (Gambino, 2009, p. 6) tre riferimenti di principio a guidare l’azione territoriale: – il “principio del limite”, che muove dalla constatazione della scarsità relativa delle risorse disponibili per ogni progetto innovativo ma che sembra oggi proporsi più come sfida che come confine o barriera insuperabile; – il “principio di diversificazione”, che muove dalla consapevolezza del ruolo insostitubile della diversità nell’attivare le relazioni vitali ecosistemiche, economiche, culturali e territoriali, in contesti tuttavia altamente conflittuali, che mettono a dura prova le identità locali e regionali; – il “principio di integrazione”, che muove dal riconoscimento dell’esigenza di azioni pubbliche coerenti per la tutela e la valorizzazione efficace del patrimonio naturale e culturale, con particolare riferimento agli effetti cumulativi delle diverse politiche territoriali, generali e settoriali.

Principi-guida per il territorio, inteso nella sua interezza, così come riconosciuto dalla Convenzione Europea del Paesaggio (CEP), che sancisce l’obbligo di riconoscere valenza paesistica a tutto il territorio, applicando nei diversi contesti misure diversificate orientate alla salvaguardia, alla gestione e alla pianificazione. Particolarmente feconda in questa direzione l’opera di Lelio Pagani: chiave paesistica, interscalarità, cittadinanza attiva, cultura dei luoghi; in questo

breve scritto sono tratteggiati i temi centrali di una riflessione sul paesaggio: “La Convenzione Europea del Paesaggio richiama il significato del paesaggio, dei paesaggi, per la vita dei cittadini – tutti i paesaggi, anche quelli minori, per tutti i cittadini –, e richiama anche una dimensione attiva, la necessità di un concorso diffuso e permanente dei cittadini stessi alla costruzione dei paesaggi, alla costruzione della qualità dei paesaggi. (…) Alla necessità di un nuovo discorso di scala, di un discorso d’area che tenga conto degli insiemi nonché dei reali o possibili livelli di reciprocità e di interrelazione, bisogna aggiungere la necessità, indifferibile, ineludibile, di dedicare attenzione al paesaggio: il discorso è di ordine di valori, è di filosofia della pianificazione e della gestione, è di metodo. Credo siano da investire energie innanzitutto per costruire a livello di cittadinanza una più articolata cultura dei luoghi, e poi per attivare un percorso, da parte dei tecnici e degli amministratori, volto a cogliere gli aspetti essenziali, i significati complessi dei nostri luoghi” 3.

“Ci interessa Tutto di Tutti i Luoghi”, amava ripetere Lelio Pagani. Iconemi parte da qui. *** Il volume ripercorre il percorso di riflessione condotto con Iconemi 2010, con sette incontri tematici tenutisi all’Urban Center di Bergamo nel febbraio-marzo del 2010. Il tema di apertura riguarda un argomento di grande attualità: le polarità del commercio, dello scambio, del viaggio, che grande diffusione hanno avuto a partire dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso; strutture urbane caratterizzate dai flussi, dalla velocità. Nonluoghi, Superluoghi, Iperluoghi 4, attraversando le diverse accezioni dei termini, Fabrizio Bottini indaga con efficace capacità critica il modello di sviluppo territoriale che genera nuove polarità e una nuova organizzazione territoriale di città/non città, importata da altri contesti (in particolare quello nordamericano) e fondata sull’uso dell’automobile privata. Mario Paris attraversa le dinamiche di trasformazione della città contemporanea e il ruolo assunto dai “superluoghi”, veri ma-

3 da FERLINGHETTI R. (ed) (2008) “Per una cultura dei luoghi. Antologia di scritti di Lelio Pagani”, Monumenta Bergomensia LXXIII, Bergamo, pp. 235-236. La selezione qui ripresa appartiene agli studi condotti per il Piano Territoriale di Coordinamento Provincia di Bergamo, Quaderno D3 Paesaggio e Ambiente, 2003. 4 Per la definizione di Non luogo si fa riferimento alla fortunata definizione di Marc Augé e alla dimensione identitaria, relazionale e simbolica propria di un luogo. Va fatto rilevare che lo stesso Augé ha ampiamente aggiornato la sua posizione; in particolare si rimanda all’articolo pubblicato su Repubblica del 12.07.2010 “I nuovi confini dei nonluoghi”. La definizione di superluogo va riferita alla manifestazione “Superluoghi. Notizie dalla metropoli quotidiana”, tenutasi a Bologna nell’ottobre-novembre 2007.


INTRODUZIONE. SGUARDI PER UNA RI-SCOPERTA DEI PAESAGGI BERGAMASCHI

gneti territoriali sempre più orientati ad integrare offerta di servizi commerciali e per il tempo libero; per collocazione e dimensione dei poli e dei “bacini territoriali” di riferimento, emerge la rilevanza di queste progettualità nella riorganizzazione della città (nelle diverse accezioni e scale) contemporanea. Tamini si interroga infine circa le opportunità offerte da queste nuove polarità, e dal modello di consumo che le esprime, entro una riorganizzazione (da governare) della geografia dei servizi della città e del territorio. Secondo tema affrontato è la progettazione e l’inserimento paesistico e ambientale delle infrastrutture di comunicazione. Il progetto di strade è l’oggetto del racconto di Serena Maffioletti, attraverso la trattazione di un ventaglio di progetti e interventi praticati nel contesto del Triveneto. Antonio Longo illustra poi un esempio, originato da un meccanismo di compensazione ambientale dell’opera autostradale, di progettazione integrata dell’Autostrada Pedemontana Lombarda; tale esempio rappresenta un avanzamento (parziale ma di grande interesse interdisciplinare) per l’allargamento del progetto al contesto territoriale, con un “risarcimento” tradotto in progetti di potenziamento del verde e del sistema territoriale implicato della mobilità lenta e dolce. Nei paesaggi del gusto Maria Chiara Zerbi, muovendo dalla dimensione multisensoriale del paesaggio, attraversa la riscoperta dei cibi e delle ricette locali come fattore di sviluppo locale, anche in chiave turistica. Paesaggio inteso anche come “moltiplicatore emozionale” per la promozione di un marchio territoriale, che si fonda sui prodotti, sui saperi e sul patrimonio territoriale ereditato, a partire dal patrimonio rurale. Il tema, innovativo, dei paesaggi minimi, esprime un’attenzione ai luoghi fondata sulla storia e sulla sapienza depositata nei contesti locali. Renato Ferlinghetti e Francesco Ruggeri muovono dalla condizione di intensità delle dinamiche di trasformazione territoriale che caratterizza il contesto lombardo, così ricco sotto il profilo della stratificazione storica, del valore paesaggistico, della varietà fisica e biologica. Il tema dei paesaggi minimi, giustapposto al noto “terzo paesaggio” di Gilles Clement, mira a una ri-significazione dei luoghi fondata su gesti e opere che denotano un modo civile di agire il territorio. Davide Pagliarini si interroga poi sulle impli-

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cazioni progettuali dell’attenzione alle forme di paesaggio minimo, su quanto l’architettura contenga, e possa contenere, un’adeguata forma di attenzione al portato del tema. Entro la cornice della sostenibilità dello sviluppo, il tema della mobilità territoriale entro la dimensione dell’estesa area metropolitana milanese è al centro del contributo di Matteo Colleoni. Attraverso la chiave di una domanda di mobilità degli individui sempre crescente e sempre più articolata nello spazio e nel tempo, rispondente alla modificazione degli stili di vita e alla organizzazione territoriale (o non organizzazione/dispersione degli insediamenti) determinatasi nell’ambito metropolitano, il saggio attraversa l’attuale assetto territoriale sotto il profilo della sua sostenibilità sociale e ambientale, e degli effetti sulla qualità della vita che ne derivano. Carlo Salone affronta poi il tema della qualità dello sviluppo o della crescita intelligente “smart growth”, muovendo dal dibattito in atto intorno a capitalismo, crescita e sviluppo. Emergono in modo efficace da un lato le ragioni che stanno alla base della dispersione urbana e dei comportamenti di consumo dominanti, dall’altro i segnali di una riscoperta di valori comunitari e di modelli di vita più attento alla dimensione locale: il “ripensamento borghese”. Edifici alti o edifici bassi è l’interrogativo alla base della trattazione di Paolo Belloni e Andrea Gritti. Paolo Belloni sviluppa una sua risposta a partire da tre domande di riscontro: Dove? Perché? Come? E attraversando riferimenti a un ampia letteratura architettonica inerente al tema, offre riflessioni sul contesto di Bergamo nei contesti della città consolidata, dell’ambito di trasformazione della stazione ferroviaria (“Porta Sud”), e della città intermedia che dà corpo all’area urbana di Bergamo. Andrea Gritti opera un percorso denso e sequenziale, fatto di domande, considerazioni, riferimenti ad autori/architetti celebri, occasioni di riflessione. Maria Claudia Peretti infine propone un concetto plurale di sguardo che sta alla base della percezione di paesaggio. Attraverso citazioni di opere pittoriche, fotografiche, cinematografiche, ci invita a riflettere sul nostro rapporto con i luoghi, sulle scale e sulla profondità del nostro osservare. Ci invita a pensarci, come insegna Turri, attori e insieme spettatori del “paesaggio-teatro”.


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SUPERLUOGHI: DA PRODOTTO IMMOBILIARE A PRODUTTORE DI TERRITORIO

1. LA CRISI DELL’IDEA DI CITTÀ MODERNA Le trasformazioni di carattere socio-economico legate al passaggio da un’economia della produzione a quella dello scambio, delle reti e delle informazioni hanno messo in crisi l’idea funzionalista di città, le sue categorie concettuali ed i suoi strumenti operativi. Già Amendola riconosce la difficoltà di pensare queste nuove realtà: “La città nuova sfugge, grazie alla sua nuova strutturale indeterminatezza o ambiguità, ai tentativi di comprensione e di interpretazione totalizzanti sia degli esperti che dei nuovi abitanti” (Amendola, 1997). E Soja lega questi limiti concettuali anche a strumenti disciplinari di quelle scienze che dovrebbero studiare il territorio e la città: “Non possiamo sperare di cartografare la metropoli moderna, poiché già non conosciamo ‘i suoi estremi, le sue frontiere, i suoi confini ed i suoi limiti’. Rappresentare la città come unità geografica, economica, politica e sociale discreta legata ad un suo intorno ed al suo hinterland risulta più difficile che mai. I limiti della città stanno diventando più porosi che mai, intorpidiscono la nostra abilità di tracciare linee chiare fra quello che è dentro e quello che sta fuori, tra la città e lo spazio agricolo, le zone residenziali e quello che non è città; fra una città-regione metropolitana e l’altra; tra il naturale e l’artificiale. Quello che una volta costituiva chiaramente un ‘altro spazio’ per la città, ora è entrato nella sua zona simbolica ampliata” (Soja, 2007). È molto importante non confondere la crisi dell’idea di città con la crisi dei fenomeni urbani. Poiché se da un lato i tentativi di interpretazione si sono moltiplicati (città diffusa, dispersa, infinita, megacittà, città-mondo, ipercittà, cibercity, post-it city, ecc.) dall’altro si è perso il contatto con le reali dinamiche territoriali. Mai si è parlato tanto della crisi della città e mai la città è cresciuta tanto velocemente. Uno sviluppo così rapido non ha fatto altro che

aumentare i problemi di comprensione di questi fenomeni, anche perché le teorizzazioni del pensiero post-moderne sono sbilanciate verso l’interpretazione della realtà per frammenti, e rinunciano alle interpretazioni complessive. Non è la sede questa per proporre un’ulteriore teoria analitica della città contemporanea, né per tentare di incasellare e irrigidire fenomeni per loro natura mutevoli e sfuggenti come quelli che emergono, evolvono, si trasformano nella società contemporanea. Tuttavia non si può nemmeno girare la testa dall’altra parte, evitare di fare i conti – partendo dalla capacità analitica e valutativa sviluppata praticando le “scienze del territorio” – con la presenza, spesso invadente e invasiva, provocatoria, sconcertante di alcuni luoghi generati dalle stesse trasformazioni che hanno messo in crisi l’idea della città (Morandi, 2009).

2. RISCRIVERE IL METALINGUAGGIO URBANO Già nel 1968 Henri Lefebvre diceva che “bisogna pensare alla città come a un sistema semantico, semiotico o semiologico, a partire dalla linguistica e considerare il linguaggio urbano e la realtà urbana come un insieme di segni. Durante la sua proiezione su di un piano (quello spaziale, ndr) il codice complessivo della società si modifica, il codice specifico della città è una modulazione, una versione, una traduzione di quest’ultimo, incomprensibile senza riferimenti all’originale. In effetti la città si può leggere perché può essere scritta, perché è stata scritta… Scrivere riguardo a questa scrittura, a questo linguaggio significa elaborare il metalinguaggio della città” (Lefebvre, 1968). La tesi che qui si vuole sostenere è che gli strumenti concettuali del funzionalismo, oggi inadeguati per progettare la città, lo sono anche per riflettere su di essa, ed è necessario impegnarsi a cercare altre

* Laboratorio Urb & Com - Politecnico di Milano e Instituto Universitario de Urbanistica de la Universidad de Valladolid (Ayuda FPI concessa con Res Rectoral del 20 settembre 2010).


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categorie per poter parlare del territorio e scriverne il metalinguaggio. Questa operazione aiuta l’architetto e l’urbanista a comprenderle la città, ripensarla e progettarla. In antitesi con l’idea di continuità del Movimento moderno, il territorio si è sviluppato per “frammenti”, alcuni dei quali sono luoghi dinamici e catalizzatori di trasformazioni. Essi rispondono alle esigenze del mercato (e degli utenti) e costruiscono nuove identità per il territorio dove sono localizzati. L’obiettivo di questo lavoro è riconoscere alcuni di questi luoghi, eccezionali per le scelte localizzative e gli effetti sul territorio, per i processi economici e sociali connessi. Una volta individuati quelli che chiameremo superluoghi, ci si occuperà di leggerne i caratteri specifici e cercarne una definizione, attraverso cui presentarne le caratteristiche.

3. COMMERCIO, TERZIARIO, PRODUZIONE IMMATERIALE: FUNZIONI DELLA CITTÀ CONTEMPORANEA

I temi del commercio, del tempo libero, così come le dinamiche dei sistemi ecologici, erano ignorati nel modello concettuale legato alla rapida crescita delle città di tipo fordista (Jacobs, 1961, Castells, 1985) sia in quanto fattori economici, sia come elementi strutturanti la forma della città. La dimensione spaziale e le esternalità economiche e sociali di queste attività passavano in secondo piano rispetto alle altre funzioni della città – abitare, lavorare e spostarsi – riconosciute nella carta di Atene. Il loro ruolo era considerato sussidiario, complementare e mai responsabile dei processi di costruzione del paesaggio urbano (De las Rivas, 2009). Diverso è il caso delle infrastrutture che, legate alle necessità industriali, assunsero il ruolo strategico che ancor oggi le rende un elemento chiave di qualsiasi tipo di territorio, anche se è indubbio che il ruolo di elemento ordinatore è legato alle funzioni residenziali e produttive. Alcune pratiche collettive – finora patrimonio esclusivo dei centri città – si stanno spostando all’interno di “recinti” che hanno il commercio, l’intrattenimento e la mobilità come funzione prevalente. Rem Koolhaas si chiedeva “La città contemporanea è come l’aeroporto contemporaneo (tutti uguali)?” (Koolhaas, 1995). Dietro questa domanda si nasconde la consapevolezza di un profondo cambiamento nelle strutture spaziali, della formazione di un territorio descritto come “metropolizzato” (Indovina, 2007) o post-metropolitano (Cacciari, 1995) e cioè uno spazio senza centro e senza limiti certi dove il mercato impone norme di difficile interpretazione

(Sennet, 1991), una città o una metapolis (Ascher, 2001) dove lo spazio è ordinato secondo relazioni di produzione, logistica e mercato del lavoro e dove si cerca di massimizzare la rendita di posizione data dallo sfruttamento dei flussi e dei bacini di prossimità. All’urbanistica ed ai suoi strumenti sono quasi sconosciute le norme che regolano questi processi, poiché esse sono sviluppate da altri campi del sapere, come l’economia, il marketing e l’ingegneria dei trasporti e perché derivano da letture di carattere econometrico o sociologico.

4. I SUPERLUOGHI Oggi alcuni tipi di attrezzature pubbliche – e di funzioni private che erogano un servizio di interesse generale, come nel caso del commercio – definiscono le nuove centralità della città contemporanea. Gli operatori legati al mondo dei consumi (di beni, servizi ed esperienze) hanno trasformato gli spazi commerciali e del tempo libero in luoghi ibridi, in cui si generano pratiche d’uso dello spazio di tipo urbano, soprattutto per quanto riguarda il transito e l’utilizzo del tempo libero all’interno di questi luoghi. Questa generazione spontanea avviene negli spazi di transizione, non sottomessi alle regole imposte dagli operatori del retail e del real estate, ma pensate – a volte male – dai progettisti. Questo è il tratto caratteristico e la differenza fondamentale che rende diversi questi luoghi dagli spazi per attività miste, dai luoghi monofunzionali tipici del periodo funzionalista e dai non luoghi definiti da Augé. Questi luoghi, prodotto di operazioni immobiliari, divenuti centralità del territorio contemporaneo sono stati definiti superluoghi (Boeri, 2005). L’aspetto che i progettisti ed i pianificatori devono riconoscere e ripensare, quando si trovano in presenza dei superluoghi, è che con i modi d’uso dello spazio che impongono agli utenti e con le pesanti esternalità territoriali che comportano, essi hanno assunto ormai un ruolo ordinatore nel territorio. Esempi di superluoghi sono le trasformazioni legate alle linee dell’alta velocità ferroviaria o al trasporto aereo, le progettualità attive sui grandi impianti sportivi o i parchi a tema. Queste operazioni, sviluppate dai grandi operatori del real estate, operano principalmente in due direzioni precise: – Sfruttare il valore posizionale strategico degli spazi dismessi o sottoutilizzati delle funzioni pubbliche o private ad uso pubblico. – Addensare funzioni accessorie in grado di aumentare la capacità attrattiva delle nuove centralità create.


SUPERLUOGHI: DA PRODOTTO IMMOBILIARE A PRODUTTORE DI TERRITORIO

Il territorio è stato costantemente segnato da trasformazioni di grandi dimensioni in cui erano insediati organismi polifunzionali. I superluoghi si differenziano da queste trasformazioni per tre ragioni principali: – Le logiche ordinatrici dello spazio nei progetti sono legate alle pratiche di mobilità, consumo e di vita della società post-moderna. – Nel progetto dei superluoghi gli operatori considerano nuove variabili, come i flussi d’utenza e la dimensione dei bacini d’attrazione, che afferiscono a discipline come l’economia, alla sociologia dei consumi ed al marketing. – Le trasformazioni che li originano portano a cambiamenti profondi nel contesto in cui sono localizzate mutandone la natura urbanistica, economica e sociale. I superluoghi non sono edifici con un carattere univoco, in cui ci si reca appositamente per acquistare (oggetti, servizi, esperienze), ma polarità localizzate nei nodi infrastrutturali dove si concentrano i flussi di persone che interpretano nei diversi momenti della giornata il ruolo di pendolari, utenti e consumatori. Recentemente ho proposto una definizione originale di superluogo, che descrivesse i superluoghi in funzione del loro ruolo urbanistico, economico e sociale. Un superluogo è uno “spazio polifunzionale vivo nelle 24 ore della giornata, che si sviluppa legandosi a condizioni peculiari di contesto, che crea e sfrutta flussi locali e sovralocali e si pone come nodo delle attività quotidiane delle persone e del territorio in cui è localizzato, motore di nuove territorialità” (Paris, 2009).

A livello locale essi si configurano come possibili centralità, in cui gli spazi di relazione connettono diverse funzioni urbane. A livello sovralocale essi rappresentano dei poli di attrazione rispetto a grandi bacini d’utenza potenziale, grazie alla connessione con le reti del trasporto pubblico di lunga percorrenza (rete autostradale, aeroporti e le stazioni dell’Alta Velocità). Questa doppio ruolo è uno dei caratteri dei superluoghi e crea un insieme di impatti sul territorio a scala variabile: la doppia natura dei flussi presente nei superluoghi li rende elementi nodali di scambio fra il sistema locale e quello globale. Spesso rivestono anche il ruolo di porta della città o di monumento grazie alla loro massa critica o alla presenza di 1 2

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progetti di firme dello star system dell’architettura internazionale. I superluoghi possono essere considerati un tema trasversale che caratterizza il territorio contemporaneo a scala globale. In essi si concentrano le immagini, le fantasie e il fascino della società contemporanea. La centralità dei superluoghi, sia nel territorio che nell’immaginario collettivo, determina l’importanza sempre maggiore della loro dimensione simbolica come luoghi di vita e della quotidianità. Nei superluoghi, osserva Anna Barbara, si “arriva a perdere il senso di comunità legato a fattori territoriali, in favore del senso di appartenenza ad una community. Questo sentimento è a-spaziale, generato da una condivisione di interessi legati a tendenze e mode globali, slegate dal contesto di appartenenza dei suoi membri” (Barbara, 2007). Proprio in quest’ottica Marco Torres parla di questi “spazi della socialità… dove si esprimono contatti sociali basati su comuni e temporanei modelli di consumo e di spesa del proprio tempo libero quotidiano” (Torres, 2000). Definire i superluoghi, e i diversi aspetti che li contraddistinguono è necessario per dare alla pianificazione nuovi strumenti di progetto per il futuro e di governance delle loro esternalità. Per raggiungere questo obiettivo bisogna affrontare il problema a diverse scale poichè le esternalità sono di tre tipi: sociali, economiche e territoriali. La dimensione delle trasformazioni che generano, influenza la città ed il territorio in cui si localizzano e innesca processi di trasformazione e, a volte, di sviluppo. La trasversalità di questi processi può portare a grandi disequilibri nei contesti ma anche ad accendere nuove forme di territorialità.

5. LE CARATTERISTICHE DEI SUPERLUOGHI Superluogo è una parola composta formata da: Pref. “super-” – sopra a, di sommo grado1. S.m. “luogo” – spazio occupato o che può essere occupato da un corpo qualsiasi2. Questo ha il ruolo di aumentare il grado del soggetto a cui viene associato, garantendone un ruolo di preminenza. Tutto ciò che è super ha caratteristiche eccezionali, legate alle proprie dimensioni o ai propri attributi. In questo senso i superluoghi dovrebbero essere gli spazi in cui le caratteristiche dei luoghi trovano sviluppo maggiore o estremo. Utilizzo il condizionale poiché il processo di costituzione

GIANNI A. (a cura di), 1987, Dir - Dizionario Italiano Ragionato. Firenze: Casa Editrice D’Anna, p. 1808. GIANNI A. (a cura di), 1987, op. cit., p. 1053.


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Fig. 1. Le grandi dimensioni dei superluoghi: aree di intervento e superfici edificate (dati 2008, Infografica by Studio PaStur).

dei superluoghi non è un semplice passaggio lineare dalla condizione di luogo, e le relative caratteristiche non subiscono solo un accrescimento. Le proprietà dei superluoghi sono date dalle particolari condizioni cui si trovano sottoposti alcuni luoghi e sono il risultato di stratificazioni storiche e strategie economiche sedimentate sul territorio. Aree specifiche dotate di alta accessibilità in cui si concentrano i flussi possono essere considerate occasioni puntuali di trasformazione. In questo senso, ed in particolari condizioni, questo può essere considerato il genius loci dei superluoghi, legato a esigenze ed istanze contemporanee, di mobilità veloce, di domanda di spazi di consumo e di alta concentrazione di attività. Durante il lavoro di ricerca, sono emerse alcuni elementi routinari nella composizione fisica, funzionale e temporale dei superluoghi. Attraverso un lavoro di confronto si intende esemplificare in maniera chiara le loro quattro caratteristiche principali: – la grande dimensione dell’intervento

– la polifunzionalità – la poliutenza – la cadenza temporale di utilizzo degli spazi Queste quattro caratteristiche possono aiutarci a riconoscere nel territorio quelli che davvero possono essere considerati i superluoghi e, in funzione di quest’operazione, a costruirne una geografia. Per illustrare queste caratteristiche prendiamo ad esempio 8 casi studio: gli aeroporti di Bergamo Orio al Serio e Torino Caselle, le stazioni dell’Alta Velocità di Roma Tiburtina e Malaga, il futuro stadio Global Center di Brescia e l’Amsterdam ArenA, il Parque Warner Madrid Resort y Parks di Madrid e il Polo Turistico integrato di Valmontone a Roma3. La prima caratteristica dei superluoghi è la grande dimensione dell’intervento di cui sono parte. Questo poiché non va considerata semplicemente la superficie di intervento del progetto ma la portata e la complessità – urbana e territoriale – di questi progetti.

3 Per la trattazione dei casi studio si rimanda al capitolo 3 e 4 di Paris M., 2009, Urbanistica dei superluoghi, Maggioli Editore, Milano.


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Fig. 2. Funzioni insediate ed in progetto nei superluoghi (dati 2008, Infografica by Studio PaStur).

Già negli anni ’50 e ’60 alcuni architetti tanto in Europa quanto in Giappone riflettendo sugli edifici “le cui caratteristiche significative fossero la flessibilità, la multifunzionalità e l’interconnessione”. Di questi venivano studiati i rapporti fra le funzioni ed i comportamenti degli utenti, come esempio per costruire un edificio che funzionasse come un sistema urbano, relazionando la grande dimensione ad aspetti tipologici. Così la presenza all’interno dell’edificio di reti, nodi o infrastrutture poteva influenzare l’esito formale e tipologico di un edificio-città, entro cui comprimere le diverse funzioni urbane. I superluoghi sono l’esempio contemporaneo di questo tipo di spazi, in cui la pura dimensione, la bigness, da vita a un programma ideologico indipendente dalla volontà dei suoi progettisti (Koolhaas, 1995). Nella figura 1 si può notare come le nuove trasformazioni progettate coinvolgano aree sempre più grandi e comportino un aumento deciso delle superfici costruite. Questo aspetto è legato al sistema di promozione immobiliare da parte degli operatori che sviluppano questi luoghi, che propongono spazi

sempre più densi, facendo della “congestione” (Koolhaas, 2000) un valore positivo. La seconda caratteristica è la polifunzionalità ed è legata alla densità delle funzioni presenti nei superluoghi. Le funzioni maggiormente presenti, oltre al commercio ed alla ristorazione, sono quelle ricettive e relative all’intrattenimento: cinema, sale conferenze e palestre. Ad esse si affiancano spesso funzioni logistiche e terziarie. Nei casi analizzati si evidenzia la presenza (o il progetto) di almeno tre funzioni distinte che sottolineano questa caratteristica. I casi virtuosi non riguardano solo l’inserimento di strutture commerciali ma anche funzioni museali, ricettive e di servizio. Un tema di grande interesse è quello relativo alla funzione residenziale. L’insediamento di questa funzione è direttamente collegato alle caratteristiche ed alla natura delle funzioni presenti nei superluoghi poiché spesso si evidenzia un problema di compatibilità: il carattere di nodo infrastrutturale spesso rende poco appetibile la localizzazione di residenze per una fascia di reddito medio-alta, che sono le


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Fig. 3. Ore di attività in una giornata tipo nei superluoghi (dati 2008, Infografica by Studio PaStur).

uniche che garantiscono un cash-flow paragonabile a quello delle funzioni commerciali o terziarie. La minor redditività dell’investimento quindi induce gli sviluppatori ad escludere questa funzione. Non è comunque raro incontrare, nel caso delle trasformazioni di carattere urbano, una quota residenziale, anche di carattere pubblico o convenzionato. Ad esempio lo stadio di Basilea, inaugurato nel 2001, integra all’impianto sportivo da 40.000 persone un centro commerciale da 16.500 mq di SdV, e localizza nelle aree di pertinenza un palazzetto dello sport, una palestra e un centro anziani da 107 appartamenti. La presenza della residenza in aggiunta alle altre funzioni giustifica la dotazione, all’interno dei superluoghi, di funzioni pubbliche. Parchi e nuove piazze o strutture costruite come caserme ed uffici pubblici si inseriscono nelle trasformazioni. Esse rappresentano in molti casi elementi di compensazione territoriale e mitigazione degli impatti di interventi di grande dimensione. In presenza di trasformazioni in cui l’attore pubblico ha ben recitato

il ruolo di controllo e guida, queste dotazioni possono rappresentare un tassello di un progetto più ampio. In funzione delle quantità in gioco esse possono essere la chiave per un ripensamento della dotazione di servizi di un quartiere, di un comparto urbano o dell’intera città. La vitalità nelle 24 ore della giornata è il terzo fattore decisivo per l’individuazione dei superluoghi. È chiaro che maggiore è la complessità del superluogo, maggiore è il tempo di permanenza al suo interno. Gli stimoli si susseguono senza soluzione di continuità attraverso i quali viene sollecitato il consumatore, il suo immaginario ed i suoi comportamenti d’acquisto. La presenza di funzioni con apertura serale (per esempio cinema o locali notturni) o che pratichino un orario d’apertura spalmato durante il corso della giornata, permette l’animazione costante dei superluoghi. Tutto ciò ha ricadute di due ordini di grandezza, relativi all’interno del superluogo ed al suo esterno. Nel perimetro del superluogo si ha un flusso di utenti che si spostano e lo rendono vivo. In questo


SUPERLUOGHI: DA PRODOTTO IMMOBILIARE A PRODUTTORE DI TERRITORIO

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Fig. 4. Visitatori divisi per tipologia (dati 2008, Infografica by Studio PaStur).

modo si allungano i tempi di vita media delle strutture che altrimenti risulterebbero inutilizzate per gran parte del giorno o della settimana. Un esempio significativo è quello degli stadi: essi hanno un utilizzo medio di 12-15 ore alla settimana in concomitanza degli eventi sportivi. Grazie a funzioni accessorie collegate alla pratica sportiva (come centri sportivi aperti al pubblico, musei delle squadre e negozi specializzati) e dedicate all’intrattenimento, possono raggiungere un utilizzo di oltre 80 ore settimanali. Il posizionamento di grandi monofunzioni urbane ha rappresentato per la società moderna l’isolamento di alcune parti di città. Queste vivevano solo in determinate ore del giorno o in corrispondenza di alcuni eventi e, per il tempo restante esse rappresentavano un vuoto urbano o una barriera. La vitalità durante l’arco della giornata dei superluoghi permette di ovviare a questo isolamento. Trasformazioni ben progettate possono intervenire per risolvere problemi di permeabilità, come ad esempio la nuova stazione di Roma Tiburtina che, ideata come un ponte sui binari, permette il superamento di ciò che si era consolidato come una barriera fisica per la città.

La quarta caratteristica dei superluoghi è la poliutenza. Soprattutto nei casi di localizzazioni urbane, la prima tipologia di frequentatori di questi spazi sono i residenti nel loro intorno. Essi vi si recano in funzione di logiche di prossimità, poichè spesso i superluoghi rappresentano l’unico spazio di centralità – non pubblico, è bene sottolinearlo – cui possono accedere. Insieme a questi altri frequentatori abituali sono i pendolari, lavoratori costretti a servirsi dei nodi della mobilità collettiva come punto di arrivo e partenza quotidiano e rappresentano un target nuovo, che ha espresso una domanda di spazi ricettivi, commerciali e di intrattenimento. Questa domanda è direttamente proporzionale all’aumento della velocità degli spostamenti possibili, che lasciano tempo per acquistare merci o svagarsi nei tempi di attesa. La frequentazione quotidiana ha quindi influito anche sull’offerta merceologica, che si è ampliata, integrando l’offerta di alta gamma presente da sempre nei luoghi del transito con spazi commerciali dedicati all’alimentare ed all’acquisto di beni di consumo.


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La domanda ha coinvolto anche funzioni ludiche o di entertainment: ad esempio nel centro commerciale Orio Center, prossimo all’aeroporto di Orio al Serio, la palestra della catena Fitness First dà la possibilità di utilizzare una tessera di abbonamento valida in tutta Europa, posseduta da molti dipendenti delle compagnie aeree e utenti del centro congressi annesso all’hotel. Altri esempi sono relativi alle opportunità di abbonamento a cinema e centri sportivi legati a catene internazionali. La terza tipologia di utenti non residenti è quella dei turisti, che utilizzavano i nodi della mobilità come porta per il territorio e ora frequentano i superluoghi come punto di arrivo. Si visitano le stazioni, gli stadi ed i parchi a tema, soggiornando presso le strutture recettive e vivendone gli spazi commerciali come parte integrante o motivo stesso della visita. Le tre tipologie di utenti dei superluoghi evidenziano la forza attrattiva di questi spazi polifunzionali. Le trasformazioni che hanno portato all’evoluzione di alcuni nodi della mobilità in superluoghi sono legate a condizioni di eccezionale accessibilità di alcuni contesti. Presenti su tutto il territorio continentale hanno evidenziato una diffusione del fenomeno che richiama i processi globali di presidio d’insegna dei grandi gruppi della distribuzione organizzata. La funzione commerciale però non è il motore della trasformazione; essa è parte di un processo di trasformazione di pochi nodi favoriti dalla contemporanea presenza di flussi, domanda di nuovi spazi e opportunità economiche.

6. QUAL È L’URBANISTICA DEI SUPERLUOGHI? “I superluoghi saranno le nuove città in questo secolo?”4, si chiedono Agnoletto, Delpiano e Guerzoni chiudendo il volume La civiltà dei superluoghi. Rispondere a questa domanda significa ammettere che la velocità con cui si sono diffusi questi oggetti nel territorio ha superato le previsioni dei ricercatori. Essi sono città poiché ormai sono un’entità strutturata nel quotidiano della vita dell’uomo contemporaneo. Svolgono un ruolo importante perché sono i luoghi del vissuto degli abitanti, ma anche “oggetti a reazione mediatica”5 che i turisti visitano e dei quali i media proiettano immagini nell’immaginario collettivo. La forza di questa proiezione è tale da sostituire o affiancare nel sentire comune l’immagine del centro città come luogo della vita pubblica e dello scambio. 4 5

Studiare i superluoghi è importante per riuscire a colmare la distanza tra la realtà questi oggetti che ormai hanno colonizzato il territorio e la disciplina accademica che, soprattutto per quanto riguarda l’urbanistica, ancora guarda a loro con strumenti e linguaggi inefficaci a descriverne caratteristiche, portata ed effetti. Comprendere il loro ruolo territoriale è oggi – e sempre più lo sarà in futuro – la chiave per capire il ruolo che architetti ed urbanisti possono giocare nell’ambito di queste trasformazioni, affinchè possano cambiare il proprio ruolo rispetto al territorio nel quale vengono localizzate. I superluoghi possono diventare da elementi esclusivamente auto centrati ed introversi a parte di un sistema territoriale, da elementi di una rete globale indifferenti alle realtà locali a luoghi di scambio tra queste due scale. I progettisti ed i pianificatori devono saper riconoscere le criticità prodotte dai superluoghi, così come devono valorizzarne le esternalità positive per renderle parte integrante di una strategia di promozione, trasformazione e conservazione del territorio.

Bibliografia AGNOLETTO M., DELPIANO A., GUERZONI M. (a cura di), 2007, La civiltà dei superluoghi, Damiani, Bologna. AMENDOLA G., 1997, La città postmoderna: magie e paure della metropoli contemporanea, Laterza, Roma. AUGÉ M., 1993, Nonluoghi: introduzione a una antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano. BOERI S. (a cura di), 2005, Superluoghi, a proposito di due recenti metafore della globalizzazione in Domus 885. CASTELLS M., 1999, La nascita della società in rete, Bocconi edizione, Milano. GIANNI A. (a cura di), 1987, Dir - Dizionario Italiano Ragionato. Firenze: Casa Editrice D’Anna. JACOBS J., 1961, Vita e morte delle grandi città: saggio sulle metropoli americane, Edizioni di Comunità, Torino. KOOLHAAS R., 1997, The Generic City in Domus 791. LEFEBVRE H., 1976, Il diritto alla città, Marsilio, Padova. PARIS M., 2009, Urbanistica dei superluoghi, Maggioli Editore, Milano. SOJA E.W., 2007, Postmetropoli, Pàtron, Bologna. SORKIN M. (a cura di), 2005, Variaciones sobre un parque temàtico. La ciudad americana y el fin del espacio publico, Editorial Gustavo Gili, Barcellona.

Agnoletto M., Delpiano A., Guerzoni M. (a cura di), 2007, La civiltà dei superluoghi. Bologna, Damiani. Ciorra P., 2006, L’Utopia Glocale. in http://www.univ.trieste.it.


FABRIZIO BOTTINI *

OGM: OGGETTI GENERICAMENTE METROPOLITANI

Quando consideriamo le innovazioni introdotte dai grandi operatori territoriali, è quasi spontaneo soffermarsi sull’oggetto in sé. Specie nel caso dei cosiddetti superluoghi, recente riabilitazione mediatica e ripensamento si spera critico dei non-luoghi stigmatizzati dal Marc Augé. Ma proprio in quanto innovativi e particolarmente ingombranti, questi nuovi oggetti forse meritano di essere considerati anche in una prospettiva un po’ diversa, in quanto prodotti dell’immenso laboratorio suburbano che domina l’insediamento da qualche generazione. La domanda a cui vorrei ameno tentare di costruire uno sfondo nei paragrafi che seguono suona: è in grado, la città contemporanea, di accettare come parte integrante, a volte dominante, questi nuovi organismi? Possono convivere, e come, i grandi contenitori integrati di funzioni composite, determinate dalle contingenze del mercato, e le reti di stratificazione storica e sociale di cui si compone la città contemporanea, specie quella italiana?

UN PO’ DI STORIA È passato più o meno un secolo da quando Henry Ford e gli altri fabbricanti di automobili profetizzavano la fine della città occidentale. Una fine sin troppo facilmente riducibile (per loro, naturalmente) a profezia da autoavverarsi senza nemmeno met-

tere il naso fuori dalla bottega, ma che (per tutti gli altri) ha creato problemi non di poco conto1. Prendiamo i sostenitori della città giardino. Problemi organizzativi e finanziari a parte, il vero ribaltamento delle intenzioni di partenza avviene proprio quando le automobili iniziano a invadere fisicamente e concettualmente quel territorio ordinato ed equilibrato fra città e campagna, residenza, industria, agricoltura, ambiente. Anche il primo grande portato positivo di questa cultura, la neighborhood unit, cresciuto a New York negli stessi anni in cui si elabora il concetto di freeway (e freeway business center)2 finisce per essere sì un’oasi familiare e pedonale ben servita e almeno a misura di ceto medio emergente, ma già saldamente ancorato e isolato nella grande maglia autostradale. Le arterie per l’automobile e gli spazi correlati finiscono poi per demolire in gran parte anche l’altro filone dell’idea di città novecentesca, ovvero quello modernista delle grandi densità che interpreta a modo suo l’esigenza di rinnovamento urbano sino a forme di riqualificazione che, spesso confusamente avversate dalla cultura conservazionista, più sistematicamente criticate nei risultati pratici ad esempio da Jane Jacobs, finiranno per rafforzare quell’onda lunga di fuga dalla grande città, e in generale di cultura antiurbana, che alimenta l’ideologia del suburbio. Suburbio dentro al quale alcune funzioni urbane iniziano a insediarsi, a mescolarsi, a ricomporsi3.

* Politecnico di Milano. 1 La citazione letterale, spesso ripresa da storici e studiosi di scienze del territorio, è: “The modern city has been prodigal, it is today bankrupt, and tomorrow it will cease to be” (My life and work, 1922). 2 Il quartiere integrato moderno come entità autonoma, anche se derivato dal modello tradizionale filtrato attraverso gli schemi spaziali della città giardino, deriva sostanzialmente dalla sovrapposizione del modello di sviluppo stradale automobilistico, di fatto imposto, che a partire da New York si estenderà poi alla cultura del progetto a livello internazionale. Si vedano a questo proposito: Clarence Perry, The Neighborhood Unit, Regional Survey of New York and its Environs, Volume VII, Neighborhood and Community Planning, New York 1929; Edward M. Basset, “The Freeway. A New Kind of Thoroughfare”, The American City, febbraio 1930; Robert A. Caro, The Power Broker. Robert Moses and the Fall of New York, Random House, New York 1974; Anthony Flint, Wrestling with Moses, Random House, New York 2009. 3 Si vedano a questo proposito sia Anthony Flint, op. cit. sia la raccolta curata da William Whyte, The Exploding Metropolis, Doubleday, New York 1958, in cui il saggio fondativo di Jane Jacobs, che aprirà la strada al suo più noto la vita e la morte delle grandi città, viene accostato a studi comparati sul degrado e la fuga dei ceti medi verso la città suburbana dispersa.


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Così come dell’idea originaria di città giardino, evaporato qualunque anelito di sociale “path to a real reform”, nelle sinuose vie dei platani suburbane rimangono solo gli stili simil-tradizionali dei villini, anche la grande piazza urbana, ridotta negli ambienti originali a poco più di uno svincolo di traffico, comincia la sua mutazione. All’inizio, negli schemi diagrammatici di Ebenezer Howard, la piazza è il grande spazio verde centrale dopo gli anelli concentrici della fascia di verde agricolo e dei gruppi di unità di vicinato. Il riformatore sociale ci racconta qualcosa di più in un interessante brano recuperato da Peter Hall e Colin Ward nel loro libro per il centenario dell’idea di città giardino: un palazzo di cristallo, poco più di una enorme serra, nel mezzo del parco, rappresenta al tempo stesso punto di riferimento visivo e luogo di incontro, protetto dal maltempo, dove si possono scambiare due chiacchiere, bere qualcosa, e intanto che si aspetta il bel tempo per uscire all’aperto magari approfittare dei chioschi per comprarsi qualcosa. Evidente, il modello modernizzato della piazza tradizionale, sulla quale stavolta non incombono i palazzi del potere, religioso o politico4. Ma il palazzo di cristallo, nel mondo reale, fuori dal tempo idilliaco e sospeso garantito dalle tre famose calamite della Città Giardino, finirà per doversi mescolare e contaminare con inopinati vicini. Vicini di varia origine e nobiltà, che vanno dal grande mercato coperto ottocentesco in tutte le sue varianti ed evoluzioni, fino al department store urbano trapiantato nel suburbio e attrezzato coi primi grandi piazzali dei parcheggi dedicati. È così che gradualmente si costruisce l’idea dello shopping mall moderno, a partire da una pura razionalizzazione tecnica del gruppo di negozi o arteria commerciale, attraverso vari passaggi e sperimentazioni in forme aperte, semplificate, più complesse, fino alla perfezione (almeno dal punto di vista degli operatori) del paradigma introverted a clima controllato, ovvero del classico cubo a facciate cieche circondato dai parcheggi, che evidenzia la propria eventuale articolazione e accoglienza solo dall’interno. E non è tutto. Concepito dal suo ideatore, Victor Gruen, davvero come la piazza dell’era moderna, viene rapidamente riassorbito dal settore commercial-immobiliare ai soli usi del consumo, nonché sottoposto alle

note limitazioni di libertà oggetto di infinite cause legali, che se necessario ne sottolineano ancora di più la natura lontanissima da qualunque idea di ambiente pubblico5.

MITO E REALTÀ Quasi contemporaneamente al perfezionamento della paradigmatica scatola di Gruen, emerge dal laboratorio suburbano anche un secondo OGM. Come nel caso del centro commerciale, anche il parco divertimenti moderno affonda le sue radici in parecchi modelli, da quelli più ovvi delle tradizionali giostre e attrazioni paesane, a certe macchine complesse usate storicamente per il sollazzo dei ceti dominanti, al contributo determinante del teatro nella sua accezione di città virtuale. Con Disneyland nell’epoca di boom della suburbanizzazione balza in primo piano proprio questo aspetto: lasciate le città a sé stesse, riprodotto nell’insediamento disperso il solo modello della casetta individuale con giardino, segregato nello shopping mall il simulacro della piazza pubblica, il parco a tema diventa sfogo a pagamento della nostalgia per l’ambiente di villaggio. Proprio come lo spazio pubblico, luogo della espressione di cittadinanza, scivola con lo shopping mall suburbano dalla categoria dei diritti a quella delle merci proposte sul libero mercato, nel parco a tema l’atmosfera del quartiere/villaggio, azzerata nell’individualismo delle villette segregate dalla mobilità esclusivamente automobilistica, si riproduce con ingresso a pagamento. In questo senso, anche le più mirabolanti attrazioni appaiono come aggiunte non sostanziali, sostituibili: parafrasando McLuhan, il messaggio è il contenitore.

DECLINAZIONI LOCALI GLOBALIZZATE Nel contesto europeo, in quello italiano poco più tardi, questi modelli a ben vedere fanno la loro comparsa quasi contemporaneamente agli originali, e le varianti di sviluppo e impatto paiono più determinate dalle disparità nel reddito diffusamente disponibile, che non da particolari resistenze o declinazioni culturali e politiche locali. Basta qualche

4 La citazione di Howard è troppo lunga per poterla riprodurre qui oltre la breve sintesi riassunta, si veda Peter Hall, Colin Ward, Sociable Cities: the legacy of Ebenezer Howard, Wiley & Sons, Chichester 1998; il brano è riportato a p. 21. 5 La genesi dello shopping mall moderno, secondo il suo ideatore più noto davvero “piazza suburbana” da affiancare a un riformato modello di spazio pubblico centrale urbano, è ben ricostruita da M. Jeffrey Hardwick, Mall Maker. Victor Gruen, Architect of the American Dream, University of Pennsylvania Press, Filadelfia 2004; dello stesso Gruen, sul rapporto fra spazi suburbani e applicazione di alcuni metodi lì sperimentati allo sviluppo urbano, si veda “Dynamic Planning for Retail Areas”, Harvard Business Review, novembre-dicembre 1954.


OGM: OGGETTI GENERICAMENTE METROPOLITANI

esempio alla rinfusa. Lo shopping mall americano, di cui si decantano (ovviamente, acriticamente) i vantaggi tecnologici, organizzativi, le possibilità di scelta del consumatore, suscita il primo vero interesse critico nei contesti nazionali a più avanzata suburbanizzazione e diffusione media di ricchezza, Svezia e Gran Bretagna, e pur nelle ovvie differenze locali tutto pare ruotare intorno ai due grandi temi: automobile privata, effettiva comodità per le famiglie. Svarioni compresi6. Più specificamente in Italia, val la pena di accostare ad esempio la celeberrima citazione di William Levitt, “chi possiede una casa con giardino non può diventare un comunista”, alle quasi contemporanee e quasi identiche perorazioni del partito di maggioranza a favore del piano INA-Casa, che introduce tra l’altro per la prima volta in senso proprio da noi l’idea di neighborhood unit. Qualcosa di simile si può dire per il debutto, ancora contemporaneo, della grande distribuzione organizzata, di cui uno dei pionieri ha recentemente raccontato a modo suo il percorso, il progetto sottilmente anti-urbano, non tanto nella collocazione fisica quanto nella radicale alternativa alle reti sociali e distributive dell’epoca7. Unico discrimine, ancora una volta, il reddito disponibile, e la consequenziale scarsa diffusione dell’auto privata. Gli elementi base però ci sono già tutti, anche se la cosa sfugge agli osservatori contemporanei, compreso Lodovico Quaroni quando cerca di definire regole per i nuovi villaggi esaminando Lo “Shopping-Center” e la lotta per l’egemonia nel quartiere8. Il modello del centro commerciale organizzato moderno, e del parco tematico, in un modo o nell’altro si insediano quindi nei territori come una sorta di bomba a tempo, pronta a deflagrare (nell’articolazione, nella diffusione, e/o nelle sole dimensioni) nel momento in cui il contesto raggiunge una determinata massa critica. Che si compone abbastanza automaticamente di reddito disponibile diffuso, propensione a certi consumi, contesti insediativi e di culture. Forse solo un fattore culturale, ad esempio, ha fatto sì che anche i mezzi di informazione di massa iniziassero ad accorgersi della mutazione genetica

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del rapporto fra spazi e società molto in ritardo, dopo che quasi un’intera generazione era cresciuta integrata nel cosiddetto tecnoburbio9, dove identità e appartenenza locale si affiancano a percezioni e simboli diversi: dalle serate nelle varie discoteche della megalopoli padana, al passeggio nei villaggi outlet della moda, alle piazze virtuali del web. Nel nostro paese il processo cosiddetto di globalizzazione, poi, fa sì che si acceleri – almeno rispetto alle altre forme dell’insediamento – sia il percorso evolutivo degli organismi mixed-use in quanto tali, sia il loro migrare, storicamente dalla città al suburbio, oggi in forme più articolate. Avviene così che da un lato prosegua la crescita più o meno dispersa dell’insediamento suburbano, con tutto ciò che ne segue in termini di produzione di altri luoghi o non luoghi che dir si voglia (dal centro commerciale extraurbano al nucleo storico di fatto desertificato da ogni presenza residenziale), dall’altro a una sorta di ritorno a casa del figliol prodigo, che però risulta ormai irriconoscibile. E ahimè piuttosto ingombrante. Un OGM.

OGGI Sostanzialmente dalla convergenza di vari percorsi, che ho qui tentato di schematizzare brevemente, nasce quanto oggi la pubblicistica chiama superluogo. Anche al di là del successo giornalistico della definizione (il che significa che qualcosa comunque ci azzecca) va riconosciuto che il prefisso super qui non è affatto fuori luogo. Fuori scala paiono infatti sia le dimensioni delle aspettative di investimento, sia l’intreccio di interessi, sia le potenzialità innovative di questi nuovi o rinnovati nodi territoriali. Ma una questione resta aperta: cosa sono, esattamente? L’iniziativa sponsorizzata qualche tempo fa dalla Provincia di Bologna e da un ampio ventaglio di operatori privati sul tema, in effetti fornisce una risposta abbastanza parziale, non molto dissimile da quelle che di solito caratterizzano la discesa in campo dei vari formati proposti sul mercato immobiliare: superluogo è tutto quanto (naturalmente, a determinate condizioni) definiscono tale i promotori10. E le con-

6 Cfr. Camera di Commercio di Stoccolma, Swedish Shopping Centers, Stoccolma 1961; Josephine P. Reynolds, “Suburban Shopping in America. Town Planning Review, aprile 1958. 7 Cfr. Bernardo Caprotti, Falce e Carrello. Le mani sulla spesa degli italiani, Marsilio, Venezia 2007; Emanuela Scarpellini, La spesa è uguale per tutti. L’avventura dei supermercati in Italia, Marsilio, Venezia 2007. 8 Cfr. Ludovico Quaroni, “Città e quartiere nell’attuale fase critica di cultura”, La Casa, numero unico, 1956. 9 La definizione di tecnoburbio, molto efficace e attuale nella descrizione degli stili di vita quotidiano indotti (ad esempio nel pendolarismo metropolitano circolare di mamme e nonni per parcheggiare e raccogliere figli e nipoti tra le varie attività scolastiche e post-scolastiche), è di Robert Fishman, Bourgeois Utopias, The Rise and Fall of Suburbia, Basic Books, New York 1987. 10 Il limite fondamentale, anche se non unico, di questa molto pubblicizzata iniziativa, sta nell’immagine pubblica garantita a un approccio sostanzialmente privato e particolare, nonché alla sostanziale modestia degli strumenti divulgativi di approfondimento, specie se comparati alla notevole visibilità mediatica su televisioni, quotidiani ecc. Addirittura, caso più unico che raro, lo stesso sito web


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dizioni indispensabili sembrano ripercorrere a grandi linee quelle dei cosiddetti transit oriented development nordamericani, almeno nella versione più metropolitana e caratterizzata sul versante terziariocommerciale. Anche se non sempre, va detto, la componente accessibilità risulta davvero determinante. Certamente più attenta e sistematica l’indagine sul medesimo tema (o slogan) condotta da Mario Paris, che ne propone una definizione generale al tempo stesso verifica di coerenza: si tratta di prodotti immobiliari, che ospitano numerose funzioni, in grado di garantire attività su tutto l’arco della giornata, che intrecciano rapporti proficui sia con il territorio locale che con l’ambito sovra locale a varie dimensioni grazie al fatto di essere nodi di accessibilità e scambi11. A ben vedere, senza esagerare di molto, esiste già qualcosa del genere, ed è la città, o parte qualificata/qualificante di città. Ciò che sembra cambiare, col superluogo, è semplicemente il suo nascere come proposta integrata e innovativa. Ma lo è davvero? La risposta è si, e arriva da un preciso passaggio della definizione di Paris, quello che li qualifica come “prodotti immobiliari” pronti da servire in tavola, e quindi in teoria in grado di ricostruire in qualche modo, pur in assenza di componenti apparentemente essenziali (prima fra tutte la sedimentazione storica) complessità urbana e si auspica anche capacità autorigenerativa. Ma, specie in un contesto relativamente delicato come quello italiano, si pongono da subito ameno due questioni. La prima riguarda la possibilità e capacità degli enti preposti al governo del territorio, ehm… di governarlo in qualche modo, questo territorio, ovvero di svolgere nei confronti dell’operatore (che in questo caso è un soggetto in grado di mettere in campo notevole potere di negoziazione) una autentica e produttiva mediazione fra interessi particolari, aspirazioni sociali diffuse, e aspetti più complessi e delicati come sostenibilità ecc. La questione della sostenibilità introduce il secondo aspetto, che sostanzialmente si ricollega a tutto quanto esposto nei paragrafi precedenti, ovve-

ro della genesi sostanzialmente extraurbana dell’OGM mixed-use: è in grado di adattarsi effettivamente alla complessità di un tessuto urbano, di svolgere quei ruoli di riqualificazione che si impongono oggi come fronte principale delle trasformazioni territoriali, oppure alimenta in un modo o nell’altro solo altro sprawl, consumo di suolo, nuova domanda di infrastrutture, degrado e/o segregazione funzionale della città consolidata? Una possibile risposta indiretta, e sostanzialmente positiva, a questi quesiti, si può trarre da una vicenda emblematica ancora in corso, singolarmente caratterizzata da: un percorso storico-insediativo-funzionale sostanzialmente inverso rispetto a quello seguito di norma dai grandi complessi mixed-use; una forte e articolata struttura decisionale pubblico-privata, ad elevato coefficiente di positiva conflittualità interna e capacità decisionale e strategica; una localizzazione centrale metropolitana, molto vincolata e al contempo assai complessa e aperta nelle opzioni.

UN PERCORSO INVERSO C’è una vecchia canzone di Neil Young che racconta la storia di un grande parco giochi chiamato Sugar Mountain, dove si vorrebbe stare per sempre a fare i bambini, su e giù dalle giostre, con lo zucchero filato in una mano e l’altra a stringere quella rassicurante dei genitori. È un sogno, naturalmente, che come ogni sogno rischia di scivolare nell’incubo se non si impara a maneggiarlo con cura. Come nel caso recente dei programmi di rivitalizzazione urbana che interessano proprio un immenso luna park, anzi “il” luna park per antonomasia: l’area di Coney Island affacciata sull’oceano nella fascia meridionale di Brooklyn. Cresciuta curiosamente (ma troppe coincidenze, ci insegnano i giallisti, sono un indizio) sul finire del XIX secolo in parallelo alla primordiale suburbanizzazione della fascia metropolitana di New York, a partire dall’investimento di Alexander Stewart per la Garden City a Long Island12.

attivato contemporaneamente alla mostra e ai convegni, che raccoglieva molti materiali pluridisciplinari che non avevano trovato posto nel piccolo e modesto catalogo, è stato oscurato (anziché ad esempio sviluppato e arricchito) alla fine dell’iniziativa. Cfr. Matteo Agnoletto, Alessandro Delpiano, Marco Guerzoni (a cura di), La Civiltà dei Superluoghi, Damiani, Bologna 2007. 11 Cfr. Mario Paris, Urbanistica dei Superluoghi. Esternalità territoriali, economiche, sociali dei luoghi del consumo della società postmoderna, Maggioli, Rimini 2009. 12 A descrivere l’ambiente naturale-rurale in cui inizia a svilupparsi praticamente privo di vincoli questo superluogo ante litteram (e che vale naturalmente poi per qualunque innovazione insediativa suburbana anche di epoca successiva) si veda ad esempio la breve serie di articoli in cui The New York Times riferisce dell’evoluzione del progetto Garden City: “Hempstead Plains. Another purchase by A.T. Stewart. The lands and the improvements. The New-York and Long Island Bridge project” (7 febbraio 1870); “Our prospective gardens. The awakening of enterprise and consequent improvements on Long Island. The effect of a new railway line, and A.T. Stewart capital” (20 marzo 1870); “Garden City: the inhabited park on the great Queens County plateau” (2 aprile 1882; i testi sono tutti disponibili, insieme a moltissimi altri contributi, continuamente aggiornati, sulla storia e la cronaca del suburbio e dell’insediamento commerciale, sul mio sito http://mall,lampnet.org.


OGM: OGGETTI GENERICAMENTE METROPOLITANI

Oggi a delineare il potenziale incubo rappresentato dal degrado urbanistico e sociale dell’area, concorrono almeno due fattori. Da un lato il moltiplicarsi dell’offerta di spazi e attrazioni per il tempo libero, che iniziata a metà del Novecento con l’enorme diffusione dei parchi tematici in tutto il paese e il resto del mondo, ha intaccato il primato dei pur straordinari storici impianti sull’Isola dei Conigli (Coney Island deriva dall’olandese originario Konijnen Eiland che significa appunto isola dei conigli), e ultimo ma non in ordine di importanza con le evoluzioni tecnologiche e l’intrattenimento interattivo virtuale via internet che sottrae centralità ai luoghi. D’altro canto, tornando più direttamente alle questioni della città e del territorio, attorno agli impianti delle grandi giostre e attrazioni di Coney Island sull’arco di tutto il secolo si è sviluppato un insediamento metropolitano che da un lato ne alimenta in parte le attività economiche, dall’altro da tempo esercita pressioni crescenti (di varia natura e direzione) perché quei relativamente pochi ettari di enclave destinati al divertimento si integrino di più al

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resto del tessuto, fisico, sociale, ai tempi della metropoli. Nascono da queste premesse sia la Vision per il rilancio complessivo dell’area, che il conseguente processo di variante urbanistica promosso dall’amministrazione Bloomberg. Il programma strategico di massima così come delineato nella Vision della Coney Island Development Corporation pubblico-privata, pur nella necessaria genericità delle indicazioni specifiche, sottolinea proprio questa necessità di adeguarsi al metabolismo metropolitano, di uscire da un non più sostenibile ruolo di enclave privilegiata ma separata da tutto il resto. Un adeguamento fatto di tempi e di spazi, a ben vedere – salvo le dimensioni del compito – non diversissimo dal riuso di spazi produttivi o commerciali così come spesso avviene con altre sacche urbane vuote o parzialmente svuotate dai processi evolutivi e di crisi ciclica. Un adeguamento che si riassume, così come vuole la logica di una Vision, secondo due mosaici paralleli di progetti: quelli per introdurre una mescolanza più varia di


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attività economiche, a coprire posti di lavoro e tempi morti (della giornata, delle stagioni); quelli per riorganizzare la rete degli spazi secondo una maggiore permeabilità, da un ambito all’altro13. Alla variante urbanistica il compito di sostanziare e coordinare questi obiettivi, attraverso gli strumenti propri del rezoning, ovvero della graduale trasformazione dei quartiere dei divertimenti e delle due fasce urbane “normali” confinanti, in un sistema più integrato. Sistema in cui le zone residenziali e le arterie di scorrimento est-ovest assumono un ruolo intermedio, di transizione fra gli spazi tradizionali a carattere quasi suburbano della fascia metropolitana affacciata sull’oceano, e la downtown del divertimento con la sua superconcentrazione di attività e impianti. Gli strumenti sono quelli abbastanza sperimentati di un maggiore mix funzionale (overlay zoning, ovvero ambienti stradali di tipo più europeo con commercio e servizi ai pianterreni e sovrapposta residenza e/o studi), incrementi di densità con la saturazione dei lotti vuoti o sottoutilizzati, e la possibilità di nuova edificazione di aree morte come superfici interne o grandi parcheggi. Una riorganizzazione parallela riguarda però anche l’ex enclave dei divertimenti, che pure dovrà subire qualche tipo di infill, sia materiale che qualitativo, diversificando l’offerta (ad esempio con attività ricettive, nuovi impianti più piccoli ecc.), aumentando la permeabilità e articolazione dei tessuti interni, favorendo complessivamente usi che possano svi-

lupparsi su tutto l’arco dell’anno e della giornata, anche rivolti al settore urbano/metropolitano, e non solo al mercato nazionale e internazionale del turismo da intrattenimento occasionale14.

A TITOLO DI CONCLUSIONE Il percorso, quindi, come anticipato, è di progressivo riassorbimento pilotato del superluogo (chiamiamolo così per comodità) nel tessuto urbano e socioeconomico locale15. Probabilmente anche di questo riassorbimento fa parte il sistema di conflitti e di processo partecipativo più istituzionale codificato nella U.L.U.R.P. (Unified Land Use Review Procedure), che fa emergere le contraddizioni fra i lodevolissimi obiettivi generali, della Vision pubblico-privata e del rezoning pubblico, e quanto si prospetta praticamente: una vera e propria invasione edilizia del quartiere dei divertimenti da parte di puri volumi che semplicemente sfruttano a fini propri e particolari lo sfondo e l’indubbio fascino degli impianti sulla costa. Da qui, essenzialmente, le proteste di abitanti e operatori per quello che sembra, in sostanza, un tentativo di cancellare la vitalità dell’area, in qualche modo monumentalizzando le attrazioni storiche16. Ma è un aspetto, questo, del tutto normale per qualunque parte di città che voglia definirsi così. Anche se derivata da un Organismo Genericamente Metropolitano.

13 Cfr. Coney Island Development Corporation, Coney Island’s Next Act. A Glorious Past Meets a Limitless Future, opuscolo, s.d. Ulteriori dati e indicazioni sul sito http://www.thecidc.org. 14 Cfr. City of New York, Coney Island Comprehensive Rezoning Plan (approvazione 30 luglio 2009), tutti i materiali analitici, di progetto, di valutazione ambientale, scaricabili dal sito del Planning Department http://www.nyc.gov/html/dcp/home.html. 15 Coincidenza, ma forse non più di tanto, il fatto che la signora Amanda Burden, messa dal sindaco Bloomberg a capo del Plannign Department, sia una allieva di William Whyte, formata al suo Project for Public Spaces, a cui ha ispirato molta parte della recente azione di piano a New York come riconosciuto a livello nazionale dal premio conferito dall’Urban Land Institute, Cfr. Trisha Riggs, “New York City Planning Commissioner Amanda M. Burden Is the 2009 Laureate of the Uli J.C. Nichols Prize for Visionaries In Urban Development”, Yahoo News, 13 ottobre 2009. 16 Per alcune polemiche e conflitti sulla riorganizzazione dell’area di Coney Island si vedano: “Scompare il mito di Coney Island il primo Luna park d´America”, la Repubblica, 1 dicembre 2006; Nicola Bertasi, “Un viale del tramonto chiamato Coney Island”, il manifesto, 4 gennaio 2007; Barbara Kiviat, “Will Coney Island Survive its Revival?” Time, 17 giugno 2007; Irene Alison, “Mani sul lungomare”, Alias (supplemento culturale del sabato a il manifesto), 10 novembre 2007; Robert Yaro, “Yes To Reinventing Coney Island”, Spotlight on the Region, 8 febbraio 2008.


LUCA TAMINI *

LA TERRITORIALIZZAZIONE DEI SUPERLUOGHI: NUOVE GEOGRAFIE E NUOVE QUESTIONI EMERGENTI

L’interesse di ricerca al tema della territorializzazione dei superluoghi è correlato alla lettura della rilevanza di alcuni recenti processi insediativi che riarticolano la relazione spaziale ed economica tra la pluralità di tipologie d’offerta integrata di servizi residenziali e del consumo, sportivi e del tempo libero e i loro effetti localizzativi e gravitazionali a scala locale e sovralocale. Il superluogo come categoria interpretativa prende atto del superamento della nozione classica di grande funzione urbana e si confronta con la sottovalutazione e l’ampio deficit conoscitivo e progettuale esistente sulle inedite e nuove forme di urbanità e territorialità: le nuove autonomie funzionali focalizzate sull’offerta di servizi e di beni di consumo non banali sono, oggi, caratterizzate da estesi processi di innovazione sociale connessi alla straordinaria valenza collettiva e popolare dei grandi contenitori attrattivi. Esprimono simultaneamente uno sganciamento dal contesto e una nuova presa sul territorio, un ancoraggio che contribuisce a riconfigurare gli ambienti locali della vita urbana (Società Geografica Italiana, 2008). Le nuove geografie guidate dalla progressiva emersione di rinnovate identità territoriali legate al posizionamento dei superluoghi sono, infatti, l’esito del successo di politiche settoriali orientate alla costruzione di urbanità “apparentemente basate sulla prossimità spaziale tra residenza e consumo” (Annunziata, Cossu, 2010), dove i luoghi perdono il loro carattere di stock per assumere quello di flusso (Mazzette, Sgroi, 2007) attraverso il trasferimento di pratiche consolidate di disegno e di uso dello spazio presente nelle centralità urbane aumentandone,

in modo esponenziale, la scala, il raggio di influenza e le esternalità. La “timidezza verso il centro città sentita come terra incognita” da parte delle comunità insediate in contesti periferici, come ad esempio, quelli romani (Siti, 2008) rappresenta un paradigma del successo del superluogo sempre più orientato ad intercettare estesi segmenti trasversali e plurali di popolazione (non più e non solo giovanile) che esprimono la propria “vita in pubblico” all’interno dell’articolazione e delle opportunità di presidio spaziale e di invenzione di un luogo (Augè, 2010) offerte dalle nuove centralità extraurbane. Il caso delle nuove polarità commerciali di Roma restituisce gran parte delle dinamiche evolutive in atto, guidate, in parte, dalla strategia policentrica del nuovo PRG: nelle recenti geografie dell’offerta commerciale del territorio romano emerge con forza il ruolo attrattivo dell’anello infrastrutturale del Grande Raccordo Anulare (68 km di estensione e 44 svincoli) che, in forma inintenzionale, da sistema di viabilità si è progressivamente trasformato in matrice insediativa e accessibilità esclusiva per i nuovi superluoghi romani (fig. 1). La lettura territoriale del superluogo rappresenta un caso concreto “di come si può creare inclusione partendo dai modelli di consumo” (Gaggi, Narduzzi, 2006) e si esplicita, ad esempio, nel forte presidio di insegna extraurbano e nella densificazione territoriale degli outlet center1 (Tamini, 2010) specializzati in beni problematici (fig. 5) e negli estesi bacini d’utenza2 dei big box dell’arredamento moderno, oltre che nelle molteplici strategie di sviluppo delle nuove compagnie aeree, del settore bancario e assicurativo, dell’ambito medico e dell’assistenza legale.

* Laboratorio Urb & Com - Politecnico di Milano. 1 Progressivamente assimilati a strutture di vendita organizzate in forma unitaria, i Factory Outlet Center (FOC) sono costituiti da un’aggregazione di esercizi di vicinato riconducibili a una media o da una grande struttura, localizzata in luogo diverso da quello di produzione, in cui più aziende produttrici, direttamente o indirettamente, effettuano la vendita di prodotti appartenenti al settore merceologico non alimentare al fine di esitare prevalentemente prodotti invenduti, di fine serie, fallati, collezioni di anni precedenti e prodotti campionari. 2 Fino a 90 minuti di percorrenza automobilistica.


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Nell’attuale fase di contrazione dei consumi il superluogo aumenta, infatti, la sua attrattività e il suo profilo competitivo attraverso il consistente effetto low cost del suo sistema integrato di offerta, dove il consumatore vive la consapevolezza che un basso costo non sia sinonimo di un inferiore posizionamento di mercato, ma sia correlato alla fornitura di prodotti e servizi di qualità che soddisfano molteplici esigenze (Rizzo, 2010). Il format insediativo degli outlet, in particolare, costruisce, attraverso la configurazione urbanistica e architettonica, un singolare effetto Truman Show3, di natura spaziale e relazionale, declinato sul disegno di un contesto di vita collettiva orientato a una artificialità intenzionale sempre più connessa a esperienze reali di consumo e di tempo libero svolte in mall all’aperto molto simili a un grande set televisivo e a un sistema di quinte cinematografiche e teatrali (figg. 2 e 3). In questo quadro dinamico, una delle principali questioni emergenti poste dalla problematizzazione territoriale del tema in oggetto è l’inerzia, la debolezza e l’inefficacia dei processi di governo e di regolazione delle nuove articolazioni e vocazioni del produrre e del consumare espresse dai superluoghi. Se l’attivazione di una polarità non è mai una decisione che venga lasciata al mercato (Mingardi, 2010) ma a forti discrezionalità dell’attore pubblico locale attraverso forme di regolazione urbanistica locale orientate più alla disciplina dell’offerta di servizi (Mengoli, 2010) che alla costruzione di opportunità territoriali, la prevalenza di un approccio regolativo di matrice numerica e vincolistica ha enfatizzato, nel tempo, più gli effetti perversi e le esternalità negative che gli esiti virtuosi attesi dal decisore pubblico. Il nodo problematico è che il contesto e lo scenario evolutivo dei superluoghi – orientato con forza al disegno di figure insediative e a piattaforme di comunicazione di carattere integrato e multifunzionale generatrici di flussi da parte di poliutenze – non può essere governato attraverso le inefficaci e frequenti barriere all’ingresso poste dalla pianificazione quantitativa (Deodati, Tamini), ma attraverso la regolazione dei processi urbanistici di riorganizzazione spaziale dell’offerta e di ottimizzazione economica dei valori posizionali di luoghi esistenti (stadi calcistici, stazioni ferroviarie, aeroporti, “chinatown” urbane) focalizzata su principi di sostenibilità territoriale e di responsabilità sociale degli interventi.

In definitiva, l’idea che l’accesso al mercato e la pianificazione dei superluoghi siano realizzati attraverso un meccanismo programmatorio di contingentamento dell’offerta e di severo zoning funzionale non è stata garanzia di modernizzazione, di governo delle esternalità, di qualità realizzativa, di pluralismo delle forme distributive, degli attori in gioco e delle utenze coinvolte e rappresenta una consistente questione aperta nelle politiche insediative dei servizi urbani e territoriali.

Riferimenti bibliografici ANNUNZIATA S., COSSU M., 2010, “Roma oltre il Piano: forme di urbanità per la città contemporanea”, Atti della XII Conferenza Società Italiana degli Urbanisti Città e crisi globale: clima, sviluppo e convivenza, Roma, 25-27 febbraio 2010. AUGÈ M., 2010, “I nuovi confini dei nonluoghi”, Corriere della Sera, 12 luglio. DEODATI M., TAMINI L., Dai limiti alla libertà. Governare il commercio ai tempi della liberalizzazione, Rimini, Maggioli, in corso di pubblicazione. GAGGI M., NARDUZZI E., 2006, La fine del ceto medio e la nascita della società low cost, Torino, Einaudi. MAZZETTE A., SGROI E., 2007, La metropoli consumata. Antropologie, architetture, politiche, cittadinanze, Milano, Angeli. MENGOLI G., 2009, “Il tramonto del diritto urbanistico e della città”, paper, seminario La città rende liberi, Milano, Istituto Bruno Leoni, 30 ottobre 2009. MEZZACAPO F., 2010, Roma shopping center. Centralità urbane e polarità commerciali, Tesi di laurea, Politecnico di Milano, Facoltà di Architettura e Società, febbraio. MINGARDI A., 2010, “Il commercio ha fame di spazi”, Il Sole 24 Ore, 28 luglio, n. 205, p. 10. RIZZO G., 2010, Low cost mania. Moda passeggera, scelta obbligata o nuovo stile di vita, Milano, Il Sole 24 Ore. SITI W., 2008, Il contagio, Milano, Mondadori. SOCIETÀ GEOGRAFICA ITALIANA, 2008, “Città senza confini, territori senza gerarchie” in L’Italia delle città. Tra malessere e trasfigurazione, Scenari italiani 2008, Rapporto annuale, pp. 23-40. TAMINI L., 2010, I Factory Outlet Center in Italia: dimensionamenti, presidi d’insegna, configurazioni urbanistiche, Infocommercio Report, Imola, aprile.

3 “The Truman Show è un film drammatico del 1998, diretto da Peter Weir e interpretato da Jim Carrey in un ruolo non più comico, premiato con il Golden Globe e riconosciuto come una delle sue prove attoriali più apprezzate. Il film si ispira alla moda allora nascente di raccontare la vita in televisione attraverso i reality shows, immaginando una situazione paradossale portata all’estremo” (fonte: Wikipedia).


LA TERRITORIALIZZAZIONE DEI SUPERLUOGHI: NUOVE GEOGRAFIE E NUOVE QUESTIONI EMERGENTI

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Fig. 1. Roma: centralità urbane e polarità commerciali. Fonte: Mezzacapo F. (2010).

Fig. 2. Effetto Truman Show: “On the air. Unaware” (“In onda. Senza saperlo”) (Fonte: http://it.wikipedia.org/wiki/The_Truman_Show).

Fig. 4. Amsterdam Arena Boulevard: proiezione stereografica tra Heineken Music Hall e Decathlon (Fonte: Hans Ruijter, 2009).

Fig. 3. Serravalle Designer Outlet, Summer nights jazz (Fonte: Urb&Com, 2010).


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Fig. 5. Geografia dell’offerta degli Outlet italiani. Fonte: Tamini (2010) (Cartografia a cura di Federica Spini).


ANTONIO LONGO *

PAESAGGIO, FORMA E RESPONSABILITÀ DEL PROGETTO. SPUNTI CRITICI E TEMI DI RICERCA A PARTIRE DALL’ESPERIENZA DELLE COMPENSAZIONI AMBIENTALI PER L’AUTOSTRADA PEDEMONTANA LOMBARDA

1. UN PROGETTO OPERATIVO E SPERIMENTALE Questo testo sviluppa alcune riflessioni a margine del progetto predisposto tra il 2007 e il 2010 per le opere e le misure di compensazione degli impatti non mitigabili della nuova Autostrada Pedemontana Lombarda. Il gruppo di lavoro incaricato1 ha definito progressivamente la forma del progetto, rispondendo alle richieste della committenza e ad un insieme di presupposti e vincoli di legge, toccando i differenti registri del piano generale a scala regionale, dello schema urbanistico riferito a parti di territorio, dello studio di fattibilità e della progettazione definitiva di opere paesaggistiche. Il tempo relativamente breve in cui ciò è avvenuto, prima a stretto contatto con le strutture tecniche e amministrative di APL, quindi in collaborazione con il consorzio CIIL incaricato per la progettazione definitiva, ha posto in stretta relazione temi di lavoro, competenze e ruoli che raramente in un progetto di questa complessità risultano connessi: pianificazione urbana e disegno delle politiche pubbliche, progetto di architettura e paesaggio, ingegneria nelle molte specializzazioni implicate da una grande opera, gestione e management del progetto. Questa condizione originale ha permesso al gruppo di lavoro di assumere un punto di vista riflessivo informato, filtrato dalla corresponsabilità continua pur nei limiti di ruolo. Va infatti sottolineato come il disegno delle

opere di compensazione sia stato necessariamente contraddistinto da una forte operatività, a volte resa necessaria da condizioni di urgenza che hanno imposto al lavoro ritmi serrati: nella comprensione dei contesti e delle specifiche esigenze dei territori e delle amministrazioni destinatarie degli interventi; nella comunicazione dei contenuti e nell’organizzazione del progetto; nella prefigurazione di scenari e possibili alternative; nell’interlocuzione e nell’orientamento delle decisioni. Nel contempo l’attività di progettazione, che per il perfezionamento del progetto definitivo ha impegnato il gruppo di lavoro fino all’estate del 2010, ha rappresentato un’occasione intensiva di riflessione e sperimentazione interdisciplinare. Creando uno spazio di ricerca “politecnica” nella pratica e attraverso la pratica, ha fatto emergere, anche a fronte di evidenti limiti e aspetti critici, importanti temi e spazi di possibile innovazione. L’intento di queste pagine è trattare in particolare due temi che in diverso modo hanno condizionato lo sviluppo del progetto: il rapporto tra ideazione e formalizzazione; il ruolo della committenza e delle istituzioni di riferimento e i necessari spazi di innovazione nella prospettiva della realizzazione delle opere e la loro futura gestione. Come si vedrà i temi condividono alcuni presupposti. Il primo presupposto potrebbe apparire scontato: ogni progetto deve includere una fase di ideazio-

* DiAP Politecnico di Milano. 1 I progetti per le compensazioni ambientali sono stati sviluppati in due fase da gruppi così articolati: Masterplan per conto di APL: Arturo Lanzani e Antonio Longo (coordinamento) Alessandro Alì, Christian Novak, Paolo Pileri (compensazione ecologica e forestale), Paola Pucci (impatti della viabilità complementare), Daniela Gambino, Alessandro Giacomel, Guglielmo Caretti, Cecilia Rusconi e Valentina Mazza. Studi di fattibilità e i progetti definitivi per conto di CIIL Consorzio Infrastrutture Lombarde: Arturo Lanzani (cordinamento scientifico) Alessandro Alì (Ubistudio srl - direzione tecnica), Antonio Longo (responsabile greenway), Christian Novak, Emanuel Lancerini (responsabile progetti locali); Guglielmo Caretti, Daniela Gambino, Alessandro Giacomel, Talita Medina, Giovanni Nardin, Chiara Lamanna, Francesco Curci; Massiliano Spadoni (opere architettoniche greenway), Federico Mazzola (strutture), Chiara Bresciani (normativa e nodi); Paolo Pileri, Dante Spinelli (aspetti tecnicoambientali ed agronomici), NaturCoop (rilievi) per conto di CIIL - Consorizio Italiano Infrastrutture Lombarde. Per APL - Autostrada Pedemontana Lombarda Spa tutte le fasi di progettazione sono state seguite dall’ufficio ambiente, coordinato da Barbara Vizzini ed Evelin Giovannini, insieme all’ufficio tecnico, diretto da Giuliano Lorenzi e composto da Giovanni Cannito, Francesco Domanico, Matteo Boroni, Sabrina Lattuada, Giuseppe Rinaldi, Giuseppe Bilancia e Sara Dognini.


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Fig. 1. Diagramma strategico del progetto. L’Autostrada Pedemontana Lombarda attraversa un territorio densamente urbanizzato scandito da una sequenza di parchi territoriali e sistemi di naturalità disposti in direzione nord sud. Le opere di compensazione rafforzeranno i parchi e ricostruiranno la continuità ambientale tra Adda e Ticino. L’insieme delle opere di compensazione formerà un grande parco territoriale, la cui spina dorsale è formata dalla greenway, un percorso di spessore variabile che connette 50 progetti locali.

ne/progettazione e una fase di sviluppo e gestione, fasi in stretta relazione ma che è opportuno che mantengano una relativa, controllata indipendenza: si tratta di una questione di forma, che nella consuetudine dei progetti di opere pubbliche è un fatto assodato e regolato da precise norme, ma che rispetto ad un’idea processuale e relativamente libera e creativa dello sviluppo della forma dei progetti urbanistici può apparire controintuitiva e penalizzante. Al di là di una superficiale distinzione tra critica accademica e tecnicismo, la capacità di far dialogare queste due diverse e necessarie dimensioni del progetto nella prassi rappresenta un punto critico tecnico e culturale significativo le cui conseguenze sono ben visibili negli esiti spesso insoddisfacenti dei progetti contemporanei di opere esito di politiche pubbliche, in Italia in modo particolarmente evidente. Il secondo presupposto è che per ogni forma del progetto e in ogni fase dello stesso è sempre più necessario un approccio “politecnico”. Utilizzando un’analogia con la pratica musicale, il progetto deve svilupparsi come un’attività orchestrale e non solistica. Ciò significa che un insieme di tecniche, conoscenze, ruoli complementari, così come in passato hanno concorso a creare scuole e opere complesse, dovrebbero permeare ogni progetto contempora-

neo. Non si tratta di controllare tutte queste dimensioni con un atteggiamento olistico, bensì, di assumere nella necessaria specializzazione delle competenze ed entro una forte identificazione anche formale delle componenti del progetto, comuni capacità di ascolto, collaborazione, adattamento. Il terzo presupposto, che si relaziona strettamente con l’occasione di questo scritto, è che ogni progetto non debba cercare necessariamente l’innovazione (che si potrà eventualmente verificare a consuntivo), quanto piuttosto debba programmare entro le componenti di rischio la necessità di includere la ricerca e la sperimentazione continua, se necessario anche attraverso la forzatura di forme, modalità e strumenti ampiamente collaudati e in sé forse poco innovativi. Il progetto di paesaggio e di spazi aperti è per tradizione e storia di lungo periodo un’attività di scoperta e sperimentazione e rappresenta bene questa condizione. Progetto debole a fronte della forza (e talvolta della violenza) dei progetti di grandi opere di ingegneria, mobilitando risorse scarse, il progetto di paesaggio include la realizzazione nella gestione progressiva nel tempo, richiede una forte consapevolezza dei limiti e della necessità della formalizzazione, nonché una specifica capacità ideativa e di immaginazione nel rappor-


MASTERPLAN DELLE COMPENSAZIONI AMBIENTALI DI AUTOSTRADA PEDEMONTANA LOMBARDA

to tra ciò che è destinato a permanere nel tempo, ciò che è destinato a modificarsi e ciò che deve essere lasciato indefinito e suscettibile di essere sviluppato in futuro. In quarto e ultimo presupposto è la centralità del progetto di ri-composizione nei territori della città contemporanea. Il progetto per Pedemontana Lombarda consiste nella reinfrastrutturazione di una metropoli esistente di oltre due milioni e mezzo di abitanti: infrastrutture propriamente intese e paesaggio come infrastruttura, opera principale e opere di mitigazione e compensazione rappresentano interventi in grado di mobilitare risorse economiche nell’area pedemontana come forse mai in futuro accadrà. Interventi pervasivi e capillari, strade e paesaggio sono in grado di incidere non solo sulla superficie del suolo ma anche in profondità, ridefinendo lungo il tracciato i sottoservizi, monitorando e se necessario migliorando la qualità dei suoli, riportando entro il circuito vitale dell’organismo urbano parti sottoutilizzate. Da decenni ormai i migliori progetti urbanistici europei ricercano la riconfigurazione degli usi, del valore, dei paesaggi di parti estese di territorio, a volte di intere regioni, attraverso interventi mirati e necessariamente limitati, collocati al loro interno o ai loro margini. A questo scopo vengono adottate diverse strategie di selezione, hardware o software, che prevedono cioè interventi di costruzione o sostituzione di opere oppure azioni regolative. Il rapporto tra interventi limitati ed effetti estesi può essere deliberatamente cercato o a volte imprevisto, può talvolta produrre effetti indesiderati o negativi. La consapevolezza di queste potenzialità costituisce un presupposto necessario nel collocare ogni pur minimo nuovo intervento nel territorio e nella città esistente e ciò ancor più nelle attuali condizioni di scarsità di risorse.

2. IDEAZIONE E FORMALIZZAZIONE: IL PROBLEMA DELLA QUALITÀ EFFETTIVA DEL PROGETTO

Nella fase iniziale il progetto per le opere di compensazione ha praticato forme libere e sperimentali e si è caratterizzato per flessibilità e circolarità. Nella fase esecutiva si è tradotto in forme definite e organizzate secondo criteri codificati sia dalle norme che dalle convezioni interne di un gruppo di lavoro molto articolato. La difficile relazione e le evidenti discontinuità tra forme complementari (masterplan, progetto preliminare dell’opera principale, progetto definitivo, ecc.), derivanti da ragioni tecniche e culturali, hanno messo a rischio l’integrazione ottimale tra opere stradali, mitigazioni e compensazioni e la

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qualità complessiva degli esiti del progetto. Le modalità con cui è stato in parte posto rimedio a queste difficoltà evidenziano sia la necessità di restituire alle fasi formali dei progetti complessi, e in particolare al progetto preliminare) un ruolo centrale rispetto all’ideazione e all’organizzazione integrata dello sviluppo del progetto, sia la possibilità di incidere sulla sua qualità effettiva e sui suoi esiti attraverso la formazione di staff qualificati nell’integrazione delle diverse componenti progettuali. Il progetto per le opere di compensazione è stato costruito progressivamente concatenando e adattando modalità e tecniche diverse in funzione di obiettivi progressivamente aggiornati. Inizialmente l’impostazione generale è stata orientata culturalmente dagli obiettivi strategici del progetto Città di Città sviluppato dal DiAP del Politecnico di Milano per la Provincia di Milano tra il 2005 e il 2008, mentre le modalità di strutturazione del masterplan che ha dato avvio al progetto hanno interpretato alcune esperienze consolidate di pianificazione strategica europee, principalmente IBA Emscherpark. Analogamente a molti piani struttural-strategici europei degli anni recenti, il masterplan per le opere di compensazione, intitolato Un parco per la città infinita contiene un insieme di assiomi prestazionali e di principi fondativi (che si potrebbero definire una “carta”) che hanno orientato le strategie e le azioni per lo sviluppo dei progetti ambientali di compensazione. Questa parte del testo è servita come dispositivo di interlocuzione per la costruzione del progetto, ne ha definito i limiti invalicabili (a partire dal principio che “le compensazioni ambientali si debbono tradurre in progetti ambientali”) e, nel contempo, ha rappresentato il terreno rispetto al quale dare spazio alle specificità e alle declinazioni locali. Gli assiomi e i principi che informano il masterplan sono legati ad uno schema progettuale grafico, che interpreta e riprende schemi simili utilizzati nel corso dell’esperienza di rigenerazione della Ruhr negli anni ’90. Si tratta di una raffigurazione astratta e concettuale che descrive le condizioni geografiche, le potenzialità ambientali e gli elementi innovativi di ricomposizione promossi dal progetto: greenway e progetti locali accostati al tracciato dell’autostrada. Il masterplan, attraverso i principi e il disegno in esso contenuti, ha svolto il ruolo di dispositivo per l’interlocuzione, utile alla traduzione dell’idea di insieme in operazioni di dettaglio fattibili e condivise. Lo schema grafico ha reso possibile mettere in discussione punti di vista consolidati e a volte presupposti riduttivi e banalizzanti dei referenti istituzionali e dei destinatari del progetto; ha permesso di definire la geografia di riferimento del progetto ridimensio-


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nando il significato e il ruolo dei confini amministrativi, fondamentali per la quantificazione delle compensazioni ma non necessariamente per la loro conformazione; ha funzionato come dispositivo di ricomposizione di risorse esistenti, progetti, investimenti che spesso non dialogavano anche se confinanti; ha svolto una importante funzione comunicativa rappresentando un marchio riconoscibile del progetto ambientale della Autostrada Pedemontana. Le operazioni implicate dalla traduzione dello schema astratto in proposte concrete e circostanziate non sono state dissimili da molte analoghe operazioni che ricorrono nella pratica della pianificazione urbanistica operativa a scala locale: la mappatura delle progettualità e degli investimenti locali a fianco degli uffici tecnici dei Comuni e dei parchi; l’individuazione attraverso sopralluoghi e verifiche catastali degli spazi aperti da acquisire prioritariamente, da trasformare in spazi verdi pubblici, boschi, prati, da conservare all’attività agricola; la stima dei costi di acquisizione, realizzazione e gestione; la verifica della coerenza in corso d’opera con le scelte (mobilissime!) dei piani urbanistici e della pianificazione sovraordinata. Con i successivi approfondimenti, nella forma di studi di fattibilità per gli interventi locali e per la greenway il progetto si è nuovamente avvicinato ai luoghi. Nato da una visione geografica d’insieme dei paesaggi attraversati dall’autostrada, il progetto è tornato ad osservare i paesaggi nelle loro specificità e articolazione ad una scala molto ravvicinata. Si tratta di modalità consolidate della tradizione di lunga data del progetto paesaggistico, necessariamente prospettico e legato all’interpretazione delle condizioni e delle risorse esistenti. È stato necessario progettare direttamente “sul posto”, attraverso la verifica diretta di itinerari, brani di paesaggio da ricostruire, da rendere accessibili e connettere. Sono stati così scelti e disegnati gli interventi necessari sia alla funzionalità sia e alla riconoscibilità della greenway e dei progetti locali: le specie vegetali e la loro disposizione, le pavimentazioni, la aree di sosta, le protezioni, le soluzioni di attraversamento della viabilità, i ponti e i sottopassaggi. Ovviamente anche in questa fase il dialogo con le amministrazioni, che con associazioni, singoli soggetti portatori di conoscenze ed esperienze legate ai singoli luoghi, ha avuto un ruolo essenziale nell’attribuire al lavoro il maggior realismo e la maggior precisione possibile. Fin qui il progetto ha seguito un percorso vincolato unicamente dagli obiettivi sostanziali di compensazione, peraltro in costante adattamento monitorato attraverso matrici di valutazione degli impatti non mitigabili. Con la formalizzazione del progetto

definitivo successiva alla conclusione della gara e all’attribuzione dell’incarico per la progettazione al consorzio CIIL, le opere di compensazione sono state incluse nelle procedure rigorose di edizione e di validazione proprie di un progetto di opere pubbliche. Progetti locali e greenway sono stati dettagliatamente disegnati e quantificati in coerenza con le normative, rientrando entro un meccanismo lineare di produzione del progetto di ingegneria infrastrutturale, ora inteso prevalentemente come assemblaggio di unità di lavoro definite e concluse. Il progetto è stato così adattato e ridisegnato insieme all’opera principale autostradale e alle sue mitigazioni individuando precisi limiti catastali, codificando ogni elemento secondo unità separate e singolarmente valutabili predisposte ad essere eventualmente modificate senza incidere sulla tenuta dell’insieme. Questa fase del lavoro ha evidenziato il rapporto non semplice tra l’ideazione di un progetto complesso e la sua formalizzazione definitiva. Nella fase di ideazione il progetto ha come orizzonte di riferimento il processo di trasformazione, si adatta attraverso perfezionamenti circolari, si sviluppa nel dialogo con i referenti e i destinatari, è proiettato nel futuro. L’ingegnerizzazione del progetto definitivo ha invece un obiettivo prevalentemente interno, è riferita ad un tempo definito, è caratterizzata da modalità di realizzazione specifiche e codificate, da regole e normative a cui deve corrispondere e non tollera circolarità e reiterazioni. Il progetto definitivo assume dunque la forma astratta propria di un insieme di dispositivi esclusivamente funzionali alla gestione della realizzazione di un insieme coerente di opere. Ciò è possibile, senza produrre deformazioni ed errori negli esiti concreti, solo a condizione che sia stato preceduto da una fase di progettazione preliminare integrata ben fatta, aggiornata, che questa sia stata trasferita nella documentazione allegata alla gara d’appalto in modo completo, che nello sviluppo del progetto definitivo e nelle successive fasi esecutive e di cantierizzazione vi sia un continuo processo di monitoraggio e controllo sostanziale della qualità degli esiti, oltre la validazione formale. Nello sviluppo del progetto di Pedemontana Lombarda queste condizioni si sono verificate solo in parte evidenziando aspetti critici e difficoltà che hanno origini tecniche e culturali che travalicano la specificità del progetto stesso. Si può ben affermare che l’integrazione tra progetto infrastrutturale, territoriale e di paesaggio ha dovuto essere ricostruita a posteriori poiché, oltre a non essere stato sviluppato un piano urbanistico d’area (questione di cui si tratterà nel prossimo paragrafo), vi è stato un deficit nella qualità del progetto preliminare: nelle scelte


MASTERPLAN DELLE COMPENSAZIONI AMBIENTALI DI AUTOSTRADA PEDEMONTANA LOMBARDA

Fig. 2. Lo sviluppo progettuale dell’ambito territoriale interessato dall’opera nel contesto di Cesano Maderno.

per le singole opere e manufatti (tratte, svincoli, interferenze, opere connesse, ecc.), segnate da un’impostazione rivolta alla ricerca del consenso più che alla semplificazione e alla ripetizione di soluzioni tecniche efficienti ed economiche; nella mancanza di integrazione tra opera e progettualità esistenti e previste nei territori (infrastrutturali, di sviluppo urbano, ecc.); nella mancata integrazione tra opere

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stradali, progetto ambientale e valutazione e riduzione degli impatti. Ciò è avvenuto anche se il progetto preliminare avrebbe potuto, pur entro i limiti di codice e forse con qualche opportuna volontà di interpretazione o forzatura, attribuire all’autostrada il ruolo di un progetto integrato di opere pubbliche progettandola nella forma di una tangenziale urbana ben inserita nei territori attraversati. Il problema di colmare il difetto progettuale in corso d’opera si è posto con l’avvio nel 2007 della fase realizzativa che ha coinciso con la presidenza di APL di Fabio Terragni, manager pubblico proveniente da esperienze di gestione di progetti complessi di rigenerazione urbana e la direzione generale di Umberto Regalia, dirigente regionale con lunga esperienza nella programmazione di infrastrutture. Le iniziative messe in atto hanno interpretato la necessità di gestire le fasi formali del progetto, indispensabili a condurlo all’attuazione, ma recuperando nei limiti del possibile l’ideazione e l’organizzazione integrata del suo sviluppo, incidendo così sulla qualità effettiva e sugli esiti delle opere. Molti dei difetti propri del progetto preliminare e sopra accennati hanno costituito il cuore delle osservazioni del Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica (CIPE) ed hanno portato APL a riprendere e riconsiderare molti punti di dettaglio e, per quanto riguarda gli aspetti ambientali, l’impostazione stessa del progetto. A questo scopo è stato costituito uno staff tecnico interno composto da giovani ingegneri progettisti, esperti di stime e computi, direzione lavori, esperti ambientali, guidato per i progetti delle opere stradali da Giovanni Cannito, già progettista presso SPEA, e da Barbara Vizzini per gli aspetti ambientali, che ha istruito le gare per la progettazione definitiva e per gli appalti tramite la procedura di general contractor. Lo staff tecnico ha predisposto dossier correttivi di parti significative del progetto dell’infrastruttura principale, delle opere connesse, ed ha sviluppato abachi architettonici anche avvalendosi della collaborazione di consulenti esperti in architettura delle infrastrutture. Il lavoro di monitoraggio e di accompagnamento alla progettazione da parte dello staff tecnico di APL è proseguito (e prosegue attualmente) durante le fasi di progettazione definitiva della strada e delle opere di mitigazione e compensazione e di sviluppo del progetto esecutivo. La possibilità effettiva da parte dello staff tecnico di monitorare e guidare la coerenza complessiva del progetto rappresentano un aspetto significativo dell’esperienza che attribuisce in modo originale al soggetto appaltante il ruolo “politecnico” che spetterebbe ai progettisti e ai contraenti generali dell’opera. Si tratta di un’anomalia


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Fig. 3. Autostrada e greenway nel sistema ambientale pedemontano: uno schema di ricomposizione territoriale (dicembre 2007).

interessante e che lascia intuire come, forse, una responsabilizzazione civile e di supplenza istituzionale (come si vedrà nel prossimo paragrafo) nei confronti della realizzazione di un’opera, quale quella che ha caratterizzato l’azione di APL negli anni recenti, abbia creato le condizioni per il miglioramento della cultura e della prassi tecnica.

3. RESPONSABILITÀ ISTITUZIONALI E COMMITTENZA. UN RIDISEGNO NECESSARIO Il progetto delle opere di compensazione di APL ha reso evidenti i difetti istituzionali che ne hanno caratterizzato lo sviluppo. A fronte di tali difetti ha fatto emergere con forza, in particolare nel passaggio dalle linee di azione del masterplan ai progetti definitivi, la necessità di individuare soggetti operativi, istituzioni ”leggere” in grado di seguire con strumenti adeguati e con agilità le necessità di gestione del progetto. APL ha svolto e svolge un ruolo volontario e di supplenza che difficilmente potrà prolungarsi nella fase di realizzazione e gestione delle opere, due momenti che nel progetto di paesaggio nella sostanza coincidono.

Come si è sopra accennato, il progetto dell’Autostrada Pedemontana Lombarda è stato sviluppato in assenza di un Piano d’Area d’iniziativa regionale, istituzionalmente e tecnicamente possibile anche se certamente complicato, e di una qualsivoglia altra forma di gestione unitaria degli esiti territoriali, ad esempio di Piani Territoriali di Coordinamento provinciali concepiti anche in tal senso. A fronte di questo fatto, nel contempo, le leggi regionali hanno creato le condizioni perché venisse lasciata ai comuni la facoltà di sfruttare liberamente e in modo non coordinato le condizioni create dalle nuove infrastrutture. Delegati a decidere il futuro del proprio territorio, per necessità di bilancio (nei casi più virtuosi), i comuni sono diventati i primi alleati degli operatori della valorizzazione immobiliare e individualmente, spesso in totale ignoranza delle condizioni di contesto, hanno contrattato con le istituzioni sovra ordinate e con le autonomie funzionali le proprie opportunità. Il tracciato dell’autostrada, per incidere il meno possibile sul territorio di ciascun comune, ne ha ricalcato i confini (le colonne d’ercole della cartografia comunale), le viabilità complementari, in teoria funzionali al sistema viabilistico autostradale, sono state disegnate come somma, non


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sempre coerente, di scelte locali funzionali a nuovi sviluppi urbani. A questa condizione problematica si è tentato di porre rimedio attribuendo al progetto delle opere di compensazione obiettivi estesi e di sistema pur nel rispetto delle necessità di risarcimento dei singoli Comuni. Il progetto ha restituito attraverso il masterplan un’interpretazione complessiva delle condizioni di evoluzione dei territori che ha collocato sullo stesso piano emergenza e inadeguatezza viabilistica ed emergenza e rischio ambientale. Su questa base ha esplicitato nel dialogo con i comuni la natura inderogabilmente ambientale ed ecologica degli interventi di compensazione. È stato così possibile impostare la ripartizione dei 97 milioni di euro destinati alle compensazioni attraverso matrici di equa ripartizione e sviluppare nei dettagli il progetto, in una forma condivisa da tutti i soggetti deputati alla vigilanza dell’accordo di programma che guida la realizzazione dell’opera. Se l’idea di fondo è stata l’innesco di una strategia estesa di riqualificazione territoriale attraverso l’occasione delle compensazioni, va riconosciuto come ciò abbia rappresentato un’anomalia. La società committente e responsabile del progetto, APL, ha come obiettivo la realizzazione e la futura gestione di un sistema viabilistico innervato da un’autostrada ben fatta, fatto di per sé complesso, non certamente di costruire e gestire un sistema di parchi. E già nello sviluppo del progetto definitivo la strategia di riqualificazione territoriale è inevitabilmente scivolata in secondo piano rispetto ad un più diretto obiettivo di irrobustimento del progetto infrastrutturale principale sotto il profilo della sostenibilità ambientale, anche nel dialogo con le amministrazioni locali. Conclusa la fase di progettazione definitiva si apre quindi una nuova fase, di necessaria evoluzione del progetto, indispensabile ad evitarne la frammentazione. Con la realizzazione delle opere la natura paesaggistica degli interventi di compensazione ambientale torna in primo piano: evoluzione e cambiamento nel tempo, integrazione nei sistemi ambientali ed ecologici, realizzazione attraverso la gestione e continuo work in progress. Lo sviluppo e la tenuta nel tempo dei progetti, dopo una realizzazione leggera e in alcuni casi limitata alla semplice acquisizione e semina delle aree, dipenderà da una gestione in grado non solo di conservare e sviluppare la greenway e i molti interventi locali ma di riconoscere e fare emergere nuovamente, proprio grazie all’evidenza delle nuove realizzazioni, l’obiettivo generale per il quale sono state concepite. A questo fine sembra necessario risolvere l’ambiguità iniziale del progetto individuando i soggetti istituzionali in grado di affiancare e di raccogliere il testimone da

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Autostrada Pedemontana Lombarda. Si tratta di riprendere nella sostanza il senso di un progetto “vero”, è cioè in grado di produrre effetti concreti perché legittimo, finanziato e sviluppato, immaginando con realismo la nuova forma che necessariamente dovrà assumere per svilupparsi nel futuro. In questo passaggio torna ad essere centrale il ruolo delle istituzioni di governo del territorio che possono svolgere ruoli necessariamente “leggeri”, ovvero efficienti, complementari, funzionali all’obiettivo: le Province, per il ruolo attivo diretto e di coordinamento che possono assumere nelle politiche ambientali e dei parchi; i Comuni riuniti in consorzi e i parchi istituiti, che spesso sono in grado di mobilitare ottime capacità tecniche e amministrative, con il vantaggio delle redini corte nei rapporti con i territori e con soggetti economici pubblici e privati locali come i consorzi ambientali; la Regione che, tra molte azioni possibili potrebbe ridare forza, a distanza di quasi trent’anni dall’istituzione del Parco Nord Milano, ad istituti come i Parchi Regionali che rispondono alle finalità non solo di tutela di paesaggi naturali intatti ma di ricostruzione di condizioni di abitabilità e urbanità in contesti metropolitani fortemente degradati e ad elevato rischio ambientale. La questione in gioco, ovvero il futuro della realizzazione e della gestione delle opere e il perseguimento degli obiettivi strategici per cui sono state concepite non è di poco peso. Accettando l’impossibilità di una gestione unitaria di tutti gli interventi previsti e futuri, un possibile e forse necessario aggiornamento del disegno complessivo del progetto deve provare a comporre, all’interno della figura d’insieme che ne ha guidato fino ad ora lo sviluppo, gli spazi di responsabilità dei differenti soggetti istituzionali coinvolti, evitando che si polverizzi in troppi frammenti. Si tratta di capire chi potrà assumersene la responsabilità.

Fonti bibliografiche del progetto LANZANI, A., “Il masterplan delle compensazioni ambientali del sistema autostradale pedemontano”, in: Strade e autostrade, n. 69, maggio/giugno 2008. ECO C., maggio 2009, Autostrade e paesaggio: la Pedemontana e una Greenway tutta italiana, www.Archinfo.it. LONGO A. (a cura di), maggio/agosto 2009, Un parco per la città infinita, Urbanistica 139. BERETTA S., gennaio/giugno 2010, “Pedemontana, l’Impronta verde di APL”, Architettura del Paesaggio. Informazioni di dettaglio sul progetto sono contenute nel sito www.pedemontana.com.


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ANTONIO LONGO

APPENDICE La visione generale del masterplan e lo sviluppo dei progetti definitivi La progettazione delle opere di compensazione per l’Autostrada Pedemontana Lombarda è stata guidata da un disegno di struttura, concepito alla scala della metropoli pedemontana, che si fonda innanzitutto sul riconoscimento del ruolo di 12 Parchi Locali di Interesse Sovracomunale (Brembo, Rio Vallone, Molgora, Colline Briantee, Brianza Centrale, Grugnotorto Villoresi, Brughiera briantea, Lura, Rugareto, Rile/Tenore/Olona) e di 5 Parchi Regio-

nali (Adda, Lambro, Groane, Appiano Gentile, Ticino) attraversati e tagliati dal tracciato dell’autostrada. Lo schema mette in primo piano il ruolo degli spazi aperti residui e la loro necessaria valorizzazione ambientale ed ecologica. Sono spazi esterni alla tutela dei parchi e inclusi nelle aree urbanizzate più dense e problematiche. Gli obiettivi del progetto sono: il rafforzamento dei sistemi ambientali nord-sud nel territorio urbanizzato; la ricostruzione delle connessioni di un possibile corridoio verde trasversale regionale come strategia di presidio degli spazi aperti; l’accessibilità e la percorribilità dei sistemi ambientali trasversali. Il disegno di struttura è stato formalizzato in un master-


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plan (un documento complesso approvato in sede di comitato di vigilanza dell’Accordo di Programma nel maggio del 2008) fondato su: – un percorso ciclabile e un parco lineare, chiamati nel loro insieme greenway, nello schema una linea rossa, composta da molti materiali: asfalto, terra battuta, prati, filari, siepi, aree attrezzate, ponti, sottopassaggi, che unisce l’est e ovest e mette in contatto spazi grandi e qualificati con spazi piccoli e marginali da riqualificare; – progetti ambientali nei Comuni e nei parchi, da realizzare in parte attraverso opere dirette della società Pedemontana (progetti locali), in parte attraverso l’iniziativa dei Comuni e dei parchi (misure compensative). Nella proposta di masterplan, sviluppata in dialogo con tutte le amministrazioni coinvolte e attraverso un’indagine approfondita sulle progettualità locali già in atto, è stata data grande rilevanza all’integrazione con il progetto stradale e con le opere di mitigazione (le opere ambientali più direttamente connesse alla strada). Il progetto definitivo è stato sviluppato in assenza di un preliminare e sulla base di approfondimenti sviluppati in forma di studio di fattibilità. Nella fase definitiva del progetto la greenway è stata sviluppata come un percorso ciclabile e pedonale affiancato da aree verdi e ramificazioni locali che si sviluppa dal Brembo (Dalmine) al Parco del Ticino (Cassano Magnago) per circa di 100 km di lunghezza. Il percorso ha larghezza variabile da 2.50 a 4.00 m, e una fascia paesaggistica minima (che accoglie sempre una fascia verde, declinata in funzione dei paesaggi attraversati con diversi tipi di alberature, siepi, trattamento delle superfici) che può estendersi per molte decine di metri fondendosi con parchi esistenti e con i progetti locali, includendo filari, siepi, fasce a prato e bosco. Il percorso, che si inserisce nei sistemi della ciclabilità delle province, è scandito da punti di sosta progettati in forma modulare per accogliere semplici sedute o più articolati spazi di servizio, da deviazioni e innesti di percorsi secondari verso i centri storici, cascine, emergenze paesaggistiche, servizi, nodi della mobilità come stazioni ecc. Il ruolo della greenway nel progetto è duplice: consente di accedere senza utilizzare l’automobile (in uno spazio sicuro e confortevole) dalle città ai grandi parchi territoriali; favorisce la scoperta del valore esistente o ancora solo potenziale di alcuni spazi aperti della metropoli pedemontana da parte dei suoi cittadini, spazi oggi sottoutilizzati o abbandonati. In questo senso la greenway pedemontana e le sue ramificazioni locali possono avere una funzione di innesco e d’avvio di una strategia

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estesa di tutela attiva, di riqualificazione e bonifica ambientale. La realizzazione del progetto (e lo sviluppo dei dettagli) configurano la greenway come un intervento di rilevanza strategica funzionale alla riqualificazione estesa della città che attraversa. Per rispondere a questo obiettivo la greenway è connessa alle reti della ciclabilità sia alla scala europea (costituisce un tratto del sistema di connessioni europee Eurovelo) che alla scala regionale (è parallela e connessa con il percorso lungo il canale Villoresi, è connessa con le direttrici dell’Olona, le Groane, il Lambro, l’Adda, il Brembo), si relaziona infine con la rete capillare dei percorsi locali. I Progetti locali sono stati sviluppati, dal masterplan al progetto definitivo, individuando ambiti di priorità, disponibilità di aree pubbliche, progettualità in corso da completare, start up di iniziative che possono trovare successivi sviluppi. Dopo una prima individuazione e uno schema di massima sviluppato per il masterplan, ciascun progetto è stato sviluppato in forma di studio di fattibilità. Nella fase del progetto definitivo solo una parte dei progetti (29) è stata sviluppata affidando ai parchi e ai comuni lo sviluppo dei restanti (15). I progetti locali non vanno considerati in stretto rapporto con la progettazione del manufatto stradale (raramente progetti e greenway si appoggiano all’autostrada) piuttosto vanno letti in relazione all’obiettivo di consolidare e valorizzare il sistema degli spazi aperti esistenti rispetto ai quali agiscono per piccoli incrementi, sottolineature, ripuliture: si tratta spesso di interventi minimali ma importanti per dare senso a risorse paesaggistiche e ambientali esistenti. I progetti si articolano in forme differenti in ragione del loro inserimento in contesti paesaggistici ed insediativi specifici: la città Sempione e le connessioni con il parco del Ticino; il corridoio fluviale dell’Olona; i boschi tra l’Olona e la conurbazione lineare Varesina; le piane agricole comasche; le Groane; la Brianza centrale; il Lambro e le colline briantee; il Vimercatese; la valle dell’Adda; Isola Bergamasca e Brembo; la cintura verde di Varese; la piana di Grandate, Bassone e Montorfano. I progetti si confrontano con le specificità e le potenzialità paesaggistiche ed ambientali di ciascuno di questi contesti costituendo piccoli elementi di una più complessa strategia paesistico-ambientale, per ciascuno di essi utilizzando esclusivamente cinque materiali fondamentali: boschi, siepi, prati, filari, percorsi pedonali e ciclabili. Nei contesti più urbanizzati sono prevalsi gli interventi destinati a parco urbano e forestali con funzione ricreativa, mentre nei contesti in cui prevale il paesaggio agricolo o forestale dei parchi sono prevalsi gli interventi agroambientali e naturalistici.


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Le tappe procedurali del progetto Lo sviluppo dell’insieme di opere ambientali dell’Autostrada Pedemontana è legato ad una successione di atti formali e obblighi di legge che hanno fornito i criteri per definire la quota del budget ad esse destinato, i criteri di ripartizione tra gli enti interessati, e che ha necessariamente guidato le scelte progettuali, dallo schema generale ai singoli interventi. Lo sfondo generale è costituito dalla legge 23 dicembre 1996 n. 662 (definizione degli strumenti di programmazione negoziata) che regola la promozione di “accordi di programma quadro” da definirsi anche attraverso accordi parziali. Il successivo decreto legislativo del 18 agosto 2000, n. 267 ha precisato la disciplina generale degli accordi di programma per la definizione e attuazione di opere, interventi, programmi d’intervento che richiedono, per la loro completa realizzazione, l’azione integrata e coordinata di Comuni, Province e Regioni, di amministrazioni statali e altri soggetti pubblici (come i parchi). La procedura della programmazione negoziata attraverso l’accordo di programma è inoltre stata ulteriormente specificata nella legge regionale 14 marzo 2003 n. 2. Con la legge del 21 dicembre del 2001 n. 443 (delega al governo in materia di infrastrutture) e la contestuale deliberazione del CIPE è stato definito il programma per le infrastrutture strategiche di preminente interesse nazionale; tra queste Autostrada Pedemontana Lombarda. In merito legge ha introdotto due argomenti di grande importanza: il concetto di “sistema viabilistico pedemontano” ovvero la rilevanza non solo autostradale dell’opera, che si relaziona con un insieme di interventi infrastrutturali estesi nei territori; l’obbligo della compensazione ambientale degli impatti non mitigabili. Tale obbligo è stato successivamente specificato dal decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 che ha ripreso i contenuti del D.lgs n. 190 del 20 Agosto 2002. Il decreto ha identificato la necessità di progettazione di interventi di riduzione degli impatti valutati a partire dal progetto preliminare (attraverso la redazione di un apposito studio degli impatti ambientali) e ridefiniti sulla base del progetto definitivo. L’importo massimo delle opere di compensazione è stato fissato nella quota del 5% del budget complessivo. In sede di progettazione preliminare lo studio di impatto ambientale (SIA) ha prefigurato un fitto insieme di interventi ambientali senza tuttavia stabilire una chiara distinzione tra compensazioni ambientali, compensazioni generiche e mitigazioni ambientali. A seguito delle pre-

scrizioni della delibera CIPE 77/2006 connesse all’approvazione del progetto preliminare molte delle indicazioni del SIA sono state precisate in sede di revisione del progetto definitivo (dossier di gara) e il quadro degli interventi necessari a compensare gli impatti del progetto si è ulteriormente articolato. Le prescrizioni CIPE distinguono tra interventi di compensazione e mitigazione e richiedono in molti punti un principio di progettazione ambientale integrata. Dalla lettura delle osservazioni si ricava in modo inequivocabile come i fondi per le compensazioni non siano rivolti ad una generica soddisfazione del danno legato agli impatti territoriali e sociali, ma siano piuttosto rivolte a portare beneficio ai territori sia attraverso azioni di sistema, sia attraverso azioni specifiche di conservazione e di ricostruzione del paesaggio e dell’ambiente, con una stretta integrazione tra opere stradali correttamente inserite, opere di mitigazione diretta degli impatti, opere e misure di compensazione. Le prescrizioni hanno inoltre definito i criteri di massima di valutazione proporzionale dell’incidenza degli impatti e le tipologie di interventi ammissibili, elemento essenziale per stabilire la ripartizione economica degli interventi in rapporto ai comuni interessati. La fase successiva, dal progetto preliminare al progetto definitivo è più lineare: il progetto definitivo ed esecutivo è stato appaltato con due percorsi distinti. Per la tratta A (da Como a Lomazzo) e per le tangenziali di Varese e Como è stata bandita una gara per progettazione e realizzazione, attraverso l’individuazione di un contraente generale (marzo 2008), gara aggiudicata al consorzio di imprese Impregilo Spa con Astaldi, Consorzio Stabile e Pizzarotti & C. che ha consegnato il progetto esecutivo nel corso della primavera del 2010 permettendo l’avvio dei primi cantieri. Per le tratte B, C e D (da Lomazzo a Osio sotto) è stato affidato tramite gara l’incarico per la sola progettazione definitiva, gara vinta dall’associazione temporanea di imprese (CIIL) guidata da Technital con un ribasso sul prezzo pari al 44% ed un ribasso sui tempi di predisposizione dei progetti del 40%. La stessa ATI aveva ottenuto il maggiore punteggio per gli elementi qualitativi dell’offerta. Il progetto definitivo è stato sviluppato tra il luglio e dicembre del 2008, successivamente perfezionato, esaminato e approvato dal CIPE con una nuova fitta serie di osservazioni, quindi definitivamente concluso per essere messo in gara nel maggio del 2010. È seguita (luglio 2010) la gara per appalto integrato a procedura ristretta, in corso al momento della stesura di queste note.


SERENA MAFFIOLETTI *

OLTRE IL GUARD-RAIL: OGNI STRADA È UNA STRADA

Se le ragioni per la costruzione di una strada sono l’accessibilità ai luoghi e alle attività, le modalità di fruizione del paesaggio attraversato non sono ragioni né per l’elaborazione del tracciato, né per la progettazione degli elementi che la costituiscono: la strada è infatti generalmente intesa come tramite verso una meta, come distanza, sospensione, vuoto, attesa tra due punti, e non come percorso. Eppure, letteratura, musica, pittura, fotografia, cinema… cioè tutte le arti dell’uomo sottolineano la condizione esistenziale ed estetica dello spazio del movimento e del viaggio; eppure il paesaggio italiano dispone lungo le strade le sequenze della propria nobile storia e della propria imprescindibile arte. L’abbandono della progettazione per soluzioni-tipo e per sezioni-tipo – abbandono che va caratterizzando la più evoluta cultura internazionale – stimola un’interpretazione della strada secondo declinazioni locali del suo essere spazio pubblico, vissuto da molteplici utenti, destinato ad albergare attività e comportamenti diversificati. La complessità funzionale e morfologica dei territori serviti, così come l’interrelata mobilità di persone e merci impongono che il progetto di ogni strada sia inteso come interpretazione di temi e problemi attuali e specifici. E poiché il progetto delle infrastrutture stradali genera sempre un inedito incontro tra i nuovi manufatti e le modificate condizioni di fruizione/percezione del luogo, esso non è contemplabile entro ipotesi di sola salvaguardia del territorio. Questo nuovo incontro richiede infatti la predisposizione di strumenti progettuali produttori di nuove sintesi, che assumono luogo e strada come poli dialettici nella costruzione della nuova unità figurativa: non un’infrastruttura, ma un luogo infrastrutturato. La complessità morfologico-funzionale delle strade e il loro delicato inserimento in contesti fortemente edificati, caratterizzati da discontinuità ed eterogeneità, richiedono una progettazione fondata sul dialogo tra urbanisti* Università IUAV di Venezia.

ca, ingegneria, architettura, progettazione paesaggistica ed ecologico-ambientale…. Artefatto costruttore del paesaggio abitato, la strada è composta da molti e diversificati materiali progettuali, si specifica da luogo a luogo, si declina caso per caso: ad una visione del progetto derivata dalle geometrie del movimento è necessario oggi coniugare la consapevolezza che di ogni strada occorre esplorare la specifica valenza formale, definirne come per ogni architettura il carattere, cioè che la identifica e la rende memorabile nel tempo. Ogni strada è una strada, ogni strada è diversa, possiede una propria individualità, un proprio carattere. Ogni strada merita un proprio nome, non solo un numero: l’identità figurativa di un’infrastruttura diviene dunque obiettivo, scelta motivata dalla volontà di riconoscerla come spazio dell’uomo, principio d’ordine nella costruzione del territorio, dialogo profondo con il luogo. Che lo degradi o lo valorizzi, la strada interloquisce fortemente con il territorio attraversato, con le unità paesaggistiche che lo compongono, la sua multiformità, la sua complessità, sovente il suo disordine. Il problema dell’unità-identità del manufatto-infrastruttura non esiste se astratto da luogo, ma solo entro una più complessa e concettualmente vasta unità: l’identità paesaggistica dei luoghi. Non esistono i non-luoghi, esistono invece luoghi brutti, non funzionanti… Finalizzare il progetto di una strada anche all’elaborazione e alla percezione della struttura narrativa di un territorio apre dunque nuovi scenari nelle ipotesi dei progettisti e delle amministrazioni, inducendo altresì comportamenti più consapevoli del valore dei paesaggi culturali, della loro conservazione e promozione, così come atteggiamenti più moderati e responsabili nella conduzione dei veicoli. I progetti qui presentati arricchiscono le motivazioni consuete dell’elaborazione di una strada, riflettendo su che cosa essa serve, congiunge, rende accessibile e percepibile.


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1. LA STRADA STATALE 14 (VENEZIA-TRIESTE) Tracciato fondativo del territorio compreso tra Venezia e la Slovenia, la Strada Statale 14 costituisce un tratto fondamentale della viabilità del nordest e di questa regione condivide trasformazioni e destino. Lunga 160 Km, è connessione di livello nazionale e internazionale, così come collegamento locale per le importanti strutture insediative disposte sul suo percorso: Venezia-Mestre, San Donà di Piave, Portogruaro, Latisana, Cervignano, Monfalcone e Trieste. Essa costituisce inoltre la struttura viaria fondamentale che connette i numerosi tracciati diretti verso i centri turistici a nord e a sud del suo percorso, in particolare le stazioni balneari altoadriatiche, quali Jesolo, Caorle, Bibione, Lignano,

Grado, la riviera triestina… Queste città costituiscono i nuclei urbani più consistenti all’intero della galassia costituita dalla città diffusa, che trova nella SS14 una struttura connettiva prioritaria ed essenziale, cui si appoggia una complessa trama di strade e di relazioni di ogni tipo e intensità. La SS14 è fortemente segnata dal rapporto con il territorio, recando profondamente impresso nelle sue forme lo stratificarsi delle relazioni insediative che il Triveneto ha vissuto dal più lontano passato ad oggi. Una strada fortemente abitata, quindi, che riunisce paesi e città, assume ruoli e forme di centro urbano, si carica di nobili architetture, innerva le terre di bonifica, introduce a paesaggi suggestivi tra le alpi e le lagune, solca la piana veneto-friulana, costeggia la riviera triestina, disegna i rilievi carsici.

Fig. 1. La Strada Statale 14. Gruppo di progettazione. Serena Maffioletti con M. Dus, M. Gnes, M. Zazzeron, Convenzione Anas S.p.A./Università IUAV di Venezia, 2006-7. Nuove sezioni della SS14: la “strada-parco”.


OLTRE IL GUARD-RAIL: OGNI STRADA È UNA STRADA

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Fig. 2. Nuove sezioni della SS14: la “strada-mercato”.

Fig. 3. Nuove sezioni della SS 352 nell’area archeologica di Aquileia: la “strada museo”.

Ripercorre i luoghi della fondazione preromana e romana e delle molte successive rifondazioni ad opera della Repubblica di Venezia, dell’Impero austroungarico e dell’Italia, nelle diverse geografie che i secoli hanno assegnato. Dal suo tracciato si dipana una trama di reti e si palesano scene che testimoniano la storia veneta attraverso sequenze di paesaggi: le aree archeologiche romane di Altino e Aquileia, per citare le maggiori, le opere idrauliche della Repubblica di Venezia, i grandi centri veneti e friulani che hanno in Venezia e in Trieste gli estremi essenziali, le diramazioni verso i centri balneari… Se le strutture insediative disposte sul percorso della SS14 sovente ne utilizzano tratti come assi urbani centrali, il traffico generato dai porti di Venezia e Trieste, dagli aeroporti Marco Polo e Ronchi dei legionari e dalla connessione con le reti esteuropee si pone come un insieme di funzioni specifiche che difficilmente convivono con la trama abitativa, originando pesanti conflitti funzionali e formali. Questo dato, tipico della rete stradale italiana, si è qui fortemente aggravato con l’accelerazione produttiva vissuta dal nordest negli ultimi vent’anni e con l’allar-

gamento a est dell’Unione Europea, fattori che hanno reso ulteriormente complesso l’uso e il ruolo della statale. La SS14 è quindi tra i principali luoghi dei rapporti funzionali, produttivi, insediativi del territorio attraversato; è tracciato di sedimentazione del patrimonio storico, culturale, archeologico, architettonico e artistico del Veneto e del Friuli Venezia Giulia; è strumento di partecipazione alla dimensione estetica del paesaggio veneto-friulano-giuliano, cui aspirano gli abitanti e gli europei, che, da viaggiatori e da turisti, attraversano il Triveneto o sono diretti ai centri litoranei balneari. La comprensione della sua complessità e ricchezza ha trasformato la Strada Statale 14 in un laboratorio progettuale in cui la sequenza dei paesaggi, dei temi e dei problemi che essa offre diventa punto di stazione attraverso cui sondare la capacità delle progettazione di produrre una tematizzazione che riconosca la strada come una struttura identitaria, costituita da una sequenza di luoghi specifici. La SS14 diviene così sequenza di figure che concorrono a definire e consolidare l’identità del paesaggio,


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ponendosi come sensibile struttura narrativa delle sue specificità: ed è da questo dialogo che la SS14 trae gli strumenti per la fissazione del suo stesso carattere, ritornando ad essere la “Triestina”. Tutte le ipotesi formulate in questa vasta sequenza di progetti sono iscrivibili in un solo obiettivo: la trasformazione della statale in una “strada territoriale” e in una “strada turistica”, il cui utente sono tanto l’abitante quanto il turista, il cui strumento è la consapevolezza del patrimonio umano e storico-artistico presente, il cui obiettivo è la qualificazione delle potenzialità paesaggistiche del territorio, di cui si propone come rete infrastrutturale funzionalmente ed esteticamente adeguata. Il progetto per la SS14 e per le strade che da essa derivano (SS352 e SS354) si articola in luoghi-tema, selezionati e indagati per la loro rilevanza, generalità ed emblematicità: la “strada-mercato” che serve le strutture della grande distribuzione, la “strada-parco” nel paesaggio agrario e nelle terre di bonifica, la “strada-museo” che attraversa le aree archeologiche di Altino e Aquileia, “la strada della laguna” che raggiunge Grado… La trasformazione della SS14 in strada turistica prevede inoltre di disporre nodi intermodali – automobile/bicicletta/barca/ferrovia – e servizi per i turisti, proponendo a questo fine anche il riuso delle case cantoniere.

2. LA STRADA STATALE DEL CERRETO Se i primi turisti sono gli abitanti del territorio, è importante non solo sviluppare un’infrastruttura in

funzione di un migliore collegamento e di un più efficace trasporto, ma anche caratterizzare le infrastrutture, affinché il paesaggio trovi nelle strade un elemento di fruizione e di valorizzazione. Viaggiare, osservando; viaggiare, sostando; viaggiare, conoscendo. La strada è l’opera con cui si garantisce il viaggio, ma è anche lo strumento attraverso cui determinare le condizioni materiali e sensoriali di definizione e comprensione del paesaggio: poiché la strada può divenire figura strutturale del paesaggio, svelando se stessa, essa svela la bellezza e la ricchezza del mondo che attraversa. Presupposto del progetto è che la strada sia una forma appartenente alla montagna, partecipi ai suoi pendii, si sviluppi tra i suoi rilievi: l’obiettivo trasforma il tracciato in questione progettuale centrale, cui consegue la scelta di limitare il ricorso ai viadotti, privilegiando la modellazione dei declivi, che rapportano il viaggiatore alle forme dei paesaggi appenninici, rinnovano punti di vista, aprono squarci visivi, inquadrano immagini salienti, avvicinando il turista e l’abitante alla natura più prossima o lontana. La diversificata e sensibile modellazione della sezione stradale e del suo rapporto con il terreno costituisce caratteristica fondativa del tracciato: le parti in rilevato aprono la vista sulle vaste prospettive delle valli appenniniche, le parti in trincea inquadrano nel loro spazio longitudinale elementi salienti del paesaggio, come avviene quando la vista è focalizzata sulla Pietra di Bismantova. Il carattere paesaggistico della strada è conseguito soprattutto attraverso una sequenza di sezioni finalizzate a disporla in armonia con la morfologia del

Fig. 4. La strada del Cerreto. Gruppo di progettazione: Serena Maffioletti e Roberto Sordina, con A. Mazzucato, A. Morandi, J. Nunes Ferreira, M. Pasetto, M. Vio e M. Dus, A. Faraguna, A. Lobello, S. Noventa, M. Restivo, concorso, 2007. Sezioni (in rosso lo stato di fatto).


OLTRE IL GUARD-RAIL: OGNI STRADA È UNA STRADA

terreno, ma anche attraverso la progettazione di luoghi destinati alla valorizzazione del suo potenziale turistico: punti di sosta, aree di riposo, luoghi panoramici collegati alle ippostrade e ai sentieri montani esistenti che consentono l’accesso alla campagna e ai monti, ai prati e ai boschi.

3. LA TANGENZIALE EST DI MILANO La tangenziale est s’impone nel contesto di Cologno Monzese come presenza dirompente per l’interazione violenta dell’infrastruttura con lo spazio urbano: tuttavia non è tanto la presenza, quanto l’irrisolto contatto tra la strada e lo spazio abitato ad aver trasformato in luogo di degrado e di abbandono questa parte della periferia milanese, una volta residenza operaia ampiamente dotata di servizi. Poiché questo tratto di tangenziale attraversa un contesto complesso e densamente abitato, il conseguimento di idonei standard acustici (come richiesto dal bando di concorso) non può essere un obiettivo settoriale, quanto lo strumento per una nuova qualità ambientale e insediativa: il progetto iscrive così la risoluzione dell’inquinamento sonoro nell’elaborazione di un nuovo rapporto tra l’autostrada e gli spazi urbani in accordo con le più aggiornate esperienze internazionali. Una visione che amplii lo sguardo dalla sede stradale ai luoghi da essa attraversati rivela infatti le potenzialità per un più consapevole ed aggiornato progetto urbano: “oltre il guard-rail” gli spazi ai lati dell’infrastruttura appaiono fortemente diversificati per i caratteri insediativi, a nord-ovest le zone produttive, a sud-est i quartieri residenziali. Affrontando il tema dell’adeguamento prestazionale dell’infrastruttura come parte di un più ampio e urgente problema urbano, la proposta prevede a sud-est di coprire la tangenziale con una galleria artificiale, che non solo garantisce idonei livelli di protezione acustica, ma ricostruisce l’unità tra le due parti di Cologno separate dalla strada, connettendo e ampliando attraverso il giardino previsto sulla copertura del tunnel le aree verdi esistenti ai suoi lati. A nord-ovest è invece proposto un semitunnel – galleria aerata – che, mentre risponde all’abbattimento dell’inquinamento sonoro, offre nuove opportunità nella ricostruzione dello spazio lungo la tangenziale. Solo un progetto che concili le opposte esigenze degli abitanti e degli automobilisti può infatti aspirare a superare il degrado e le conflittualità presenti: il semitunnel consolida la separazione dei luoghi della circolazione da quelli della vita urbana, ripensando entrambi in relazione alle

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specifiche funzioni. Il semitunnel diviene il nuovo limite tra città e autostrada: la copertura e le pareti rivolte verso il centro di Cologno sono “vegetali” e il verde, garantito in copertura dal manto di terra, si affaccia verso lo spazio urbano attraverso l’inerbimento reso possibile dal rivestimento con terre rinforzate della parete verticale in calcestruzzo e si estende nella città attraverso gli spazi a prato e le piantumazioni esistenti, riqualificabili attraverso un disegno generale. Liberato dal contatto con i luoghi residenziali e beneficiato da un campo visivo semplificato e non interferito, lo spazio autostradale è riferito ai soli temi della mobilità e della sicurezza dei viaggiatori; il tessuto urbano, sciolto dalle ingerenze infrastrutturali, è oggetto di riflessioni puntuali per la sua necessaria riqualificazione. Il progetto propone dunque il superamento di una logica miope a favore di uno sguardo allargato verso l’individuazione di soluzioni che permettano una possibile “convivenza“ tra le grandi infrastrutture e la complessità, ma anche fragilità, della costruzione urbana.

4. LA TANGENZIALE DI PORTOGRUARO Il completamento della tangenziale che, progettata negli anni ’80, solca un pregevole paesaggio fluviale e agrario attraverso una sequenza di viadotti, è occasione per implementarne la territorializzazione attraverso la sua ridefinzione come strumento di valorizzazione funzionale e formale di un ambito territoriale dalla forte complessità insediativa e culturale. Il progetto rinnova il senso stesso della tangenziale: non più semplice circonvallazione, essa diviene un fascio infrastrutturale polifunzionale, che coniuga, mediante sezioni complesse, la funzione di by-pass veloce del centro di Portogruaro con quella di connessione urbana e territoriale attraverso l’integrazione con la rete infrastrutturale esistente e di progetto, con gli itinerari turistici, che promuovono il patrimonio culturale del territorio, e con quelli ciclopedonali, che favoriscono la mobilità dolce. La tangenziale è riprogettata come elemento generatore di un corridoio infrastrutturale-paesaggistico che declina il carattere territoriale dell’infrastruttura. Disegnando in modo unitario le parti esistenti e quelle di progetto essa diviene tanto una strada-parco che, improntata da valori ecologico-ambientali ed espressiva degli specifici caratteri paesaggistici, connette spazialmente e percettivamente il contesto agricolo al tessuto urbano, quanto un anello periurbano, che connette i servizi esistenti per la città, per il territorio e per la stessa mobilità e lungo il quale si


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SERENA MAFFIOLETTI

Fig. 5. La tangenziale est di Milano. Gruppo di progettazione: Serena Maffioletti e Roberto Sordina, con A. Mazzucato, S. Morandi, J. Nunes Ferreira, M. Pasetto, M. Vio e M. Dus, A. Faraguna, A. Lobello, S. Noventa, M. Restivo, concorso, 2007. Pianta.

dispongono i futuri interventi, costruendo un ring attrezzato posto, tramite la tangenziale stessa, in una rete di relazioni a scala regionale e interregionale. Lungo il corridoio infrastrutturale-paesaggistico si dispongono le zone commerciali e sportive, la truckstation – al servizio dei camionisti soprattutto in transito da e per i paesi esteuropei –, le nuove attrezzature per i turisti poste in prossimità delle stazioni di servizio automobilistico e nei luoghi paesaggisticamente più pregevoli (pesantemente toccati dalla tangenziale in assenza di un progetto qualificante), quali i fiumi Reghena e Lemene. Dato precipuo della tangenziale è di essere composta da una sequenza di viadotti e rilevati, realizzati per sovrappassare i fiumi, e di essere dotata di un sistema di controstrade, necessarie alla sua manutenzione e alla ricomposizione dei fondi agricoli limitrofi: per esse è previsto l’uso anche come strumenti di connessione e potenziamento della rete ciclabile, urbana e territoriale, e degli itinerari ambientali-turistici. Per conseguire un quadro naturalizzante che mitighi il forte impatto visivo suscitato dai viadotti e dai rilevati si utilizzano in funzione di barriere antirumore terrapieni erbosi formati da terre rinforzate: questi terrapieni costituiscono un forte strumento di ambientamento, perché attraverso le pendenze, le alberature e l’inerbimento essi riprendono figure del paesaggio locale. L’attuale, pesante interferenza dell’infrastruttura con le aree di completamento residenziale localizzate lungo la tangenziale è risolta

attraverso una sequenza di orti-giardino, che nobilitano con caratteri fortemente locali e periurbani questo brano di tangenziale. Il progetto si avvale largamente di materiali botanici, che concorrono alla qualificazione paesaggistica della tangenziale e alla sua contestualizzazione, e colgono nel ridisegno dei suoi bordi l’opportunità per un progetto ecologico, affidando al rimboschimento l’abbattimento del CO2 e delle polveri sottili. La riduzione dell’impatto visivo della tangenziale è ottenuta altresì contenendo al minimo forme e colori dei suoi elementi costitutivi: i manufatti, prevalentemente costituiti da acciaio corten e da calcestruzzo, sono completati, là dove necessario, da barriere antirumore tali da integrare le opere d’arte maggiori con elementi matericamente e cromaticamente omogenei.

5. LA TANGENZIALE DI S. AGATA MILITELLO La costa tirrenica della Sicilia è incisa dal segno di un complesso fascio infrastrutturale costituito dalla Strada Statale 113, dalla linea ferroviaria Palermo-Messina, dall’autostrada A14: il fenomeno si ripete a Sant’Agata Militello che più che ricevere vantaggi dalla presenza di queste importanti infrastrutture, da esse ha tratto le ragioni di un progressivo degrado ambientale. Il completamento e il ridisegno della circonvallazione – avviata alcuni anni or sono e non portata a complimento – può introdurre un forte elemento di qualificazione nella vita dei cit-


OLTRE IL GUARD-RAIL: OGNI STRADA È UNA STRADA

tadini e dei turisti: non solo sarà possibile by-passare la città, liberando il centro e il litorale dal traffico, consentendo un facile passaggio dall’autostrada al porto turistico, che connette le isole Eolie, e al parco dei Nebrodi, ma, percorrendola, i viaggiatori potranno ammirare la città, la costa e i non lontani profili delle isole e delle montagne. L’obiettivo di ricomporre in un disegno unitario la strada e di porla al servizio di una crescente domanda turistica suscita una profonda riflessione sul carattere paesaggistico di questa infrastruttura, evocato dalla maestosa bellezza del vasto paesaggio me-

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diterraneo che la circonda, oggi negato dalla prossimità con le propaggini disordinate e dequalificate della crescita urbana. Aspetto dunque saliente e interessante per la generalità della questione sottesa è l’interpretazione del progetto come ricomposizione al proprio paesaggio di una strada, disegnata a suo tempo in risposta alla sola logica funzionale, tipica degli anni in cui fu ipotizzata: il progetto, cioè, diviene ora riscoperta dell’identità paesaggistica della strada e strategia di riappropriazione dei caratteri dei luoghi attraversati. La proposta ricompone la tangenziale nel trac-

Fig. 6. La tangenziale di Portogruaro. Gruppo di progettazione. Serena Maffioletti con S. Noventa, M. Zapua, Convenzione Anas S.p.A./Università IUAV di Venezia, 2009. Sezioni e prospetti.


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SERENA MAFFIOLETTI

Fig. 7. La tangenziale di S. Agata Militello. Gruppo di Progettazione: Serena Maffioletti e Roberto Sordina, con M. Pasetto, A. Musarra Tubi, M. Vio e M. Ambrosi, M. Dus, M. Gnes, A. Lobello, M. Mazza, S. Noventa, M. Zazzeron, incarico, 2005-7. Prospettiva.

ciato unitario di una strada-parco, che, nel circondare la città non tanto definisce il segno di un limite, quanto piuttosto ne salda le forme ai dintorni, ville, giardini, contrade, agrumeti, campi coltivati... cicatrizzando, attraverso il movimento morbido e verdeggiante della linea, l’antica ferita inferta alla bellezza del litorale. Il disegno paesaggistico usa solo specie mediterranee: mortella, camedrio femmina, lentisco, ilatro, fico d’India, palma da dattero, olivo... I dispositivi, necessari al controllo dell’inquinamento acustico nel contatto con lo spazio urbano, non sono elementi standard assunti dalla produzione corrente, ma muri a sezione trapezia in pietra locale su cui si arrampica la vegetazione, disposti a formare sequenze visive. Il ridisegno della strada ritrova forma adeguata ripetendo un lessico antico,

composto di muri lapidei e di vegetazione del luogo, rinnovando le immagini di sempre, quelle della memoria e delle tradizioni dei luoghi, quelle amate e cercate dai visitatori. Questa “strada mediterranea” non è una figura infrastrutturale appartenente a un ormai stanco avanguardismo sradicato, ma è visione e appartenenza alla terra di Sicilia. La dimensione e il contatto con le molte ferite che la mediocre costruzione recente del territorio ha depositato lungo il percorso, rendono il progetto di una nuova strada, ma soprattutto la riprogettazione di una esistente, un’occasione “terapeutica” di riordino, ricomposizione e riqualificazione dei luoghi attraversati, attivando una strategia articolata, complessa, colta, che si appropria dei materiali del progetto urbanistico, architettonico, stradale e paesaggistico.


MARIA CHIARA ZERBI *

IL PAESAGGIO DEL GUSTO

1. MULTISENSORIALITÀ DEL PAESAGGIO Una delle caratteristiche che nel dibattito contemporaneo viene riconosciuta al paesaggio è la multisensorialità. A lungo il paesaggio è stato collegato al senso della vista in modo quasi esclusivo. Nella geografia si può ricordare l’insegnamento di Umberto Toschi che fonda sulla visione, sul “tour d’horizon”, l’atto iniziale di ogni studio sul paesaggio. In realtà, negli anni del secondo dopoguerra, i geografi (sono almeno da ricordare Aldo Sestini e Renato Biasutti) erano arrivati a definire una nozione di “paesaggio sensibile”, in contrapposizione alla nozione di paesaggio geografico. Ma nonostante questo riconoscimento, la nozione di paesaggio sensibile non ha in realtà riscosso, fino ad anni recenti, l’interesse dei geografi. Solo sul finire dello secolo scorso, con la presa di coscienza del ruolo centrale del corpo e con la rivalutazione delle emozioni nei processi cognitivi (verificatasi sia in campo filosofico, che pedagogico e letterario…), il paesaggio è sfuggito all’“oggettivazione” fattane, a lungo, dalla geografia e dall’urbanistica, per diventare un’entità multisensoriale. Tatto, vista, olfatto, udito e perfino il gusto sono stati chiamati in causa come canali di informazione e di emozioni che alimentano le nostre rappresentazioni mentali. La contrapposizione tra approcci soggettivi al paesaggio – presenti in alcuni recenti orientamenti di studio che fanno posto alla percezione individuale e sociale e alle rappresentazioni – e approcci oggettivi – propri degli orientamenti più tradizionali – ap-

pare ormai priva di senso. Va restituito al rapporto sensoriale e edonistico con la natura il posto che gli compete, non in alternativa, ma a fianco di altri tipi di rapporto come quello scientifico e utilitaristico. Le luci del tramonto, la sensazione di ebbrezza al contatto con l’aria frizzante, l’odore della pioggia, i suoni del mondo sono componenti importanti del rapporto con l’ambiente che ci circonda. Dalla mera soddisfazione dei sensi ad una più evoluta esperienza estetica, che è in varia misura guidata dalla mente (l’apprezzamento per il trascolorare delle luci del tramonto ci deriva dall’educazione, non è un’attitudine congenita), vi è una straordinaria ricchezza di fenomeni nella relazione con l’esterno che attende di essere valorizzata. I “fenomeni di superficie” (per usare un’espressione cara a Yi-Fu Tuan) permettono di compiere esperienze fondamentali capaci di sviluppare, oltre ad una sensibilità nei confronti dell’ambiente, anche delle motivazioni a conoscerlo e ad assumersi delle responsabilità nei suoi confronti1. Il paesaggio, considerato come l’aspetto dell’ambiente percepibile attraverso i sensi, appare capace di influire sulla sensazione di benessere provata dagli individui2. Non si tratta di una relazione necessaria e neppure diretta, ma piuttosto di una relazione che passa attraverso la mediazione di una varietà di fattori personali e sociali: la cultura degli individui o dei gruppi, le loro aspirazioni, le loro condizioni esistenziali. Attraverso mediazioni diverse e senza alcun determinismo, una relazione positiva con il paesaggio risulta foriera di benessere. Senza affrontare il tema complesso e sfuggevole del benessere spirituale, se si limita l’attenzione al

* Università degli Studi di Milano. 1 I mutamenti che sono avvenuti nell’educazione ambientale riflettono questa presa di coscienza. Se si guarda retrospettivamente alle esperienze di educazione ambientale della fine degli anni Settanta, quando sono stati rovesciati nell’istruzione (e nella comunicazione) tutte le patologie ambientali, è immediato riconoscere come fossero state trascurate dimensioni importanti nel rapporto tra l’uomo e l’ambiente. A parte alcune eccezioni, si può notare come sia stato, in generale, sottaciuto il legame personale, affettivo con l’ambiente, un legame da cui ci si può attendere un importante rinforzo nell’adozione di comportamenti responsabili. 2 Si veda la sottolineatura di questo aspetto nella Convenzione Europea del Paesaggio (Firenze, 2000) e nel testo a cura di M.C. ZERBI, 2008, Il paesaggio dei sensi, Regione Piemonte-L’Artistica editrice, Savigliano.


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benessere fisico o fisiologico dell’individuo si può far emergere il ruolo che i cinque sensi hanno nel rapporto con il paesaggio. Può apparire sorprendente, ma è forse l’udito a costituire il senso che più direttamente è influenzato dall’ambiente esterno. Aspetti qualitativi e quantitativi dei suoni ambientali hanno una ripercussione immediata sulla sensazione di benessere o malessere che si prova. Rumori superiori a determinate soglie di decibel, possono persino provocare sensazioni di dolore oltre che danni all’apparato uditivo. Un altro senso direttamente chiamato in causa, anche se a lungo trascurato, è quello dell’olfatto. La sua relazione con le caratteristiche dell’ambiente esterno è immediata. Odori buoni o odori cattivi non solo provocano reazioni di apprezzamento o di disgusto, ma evocano l’esistenza di altri problemi: la presenza di discariche, di impianti chimici, di allevamenti intensivi…, risvegliando preoccupazioni di carattere igienico-sanitario. La vista, sicuramente il senso egemone, per la ricchezza d informazioni che riesce a ricavare dal contesto, subisce anch’essa – attraverso l’intensità luminosa ed i colori – una influenza diretta dall’ambiente esterno in termini di benessere o di malessere, oltre a influenze più mediate di carattere topofilico o topofobico a seconda delle caratteristiche ambientali (spazi aperti e spazi chiusi, ordinati o caotici…). Anche il tatto, attraverso il rapporto con l’aria o con i diversi materiali con cui si viene in contatto (le superfici dei marciapiedi urbani, i sentieri sterrati di campagna..) genera importanti relazioni con il paesaggio. Infine vi è la relazione tra senso del gusto e paesaggio. Essa non ha un carattere diretto. Nondimeno è sempre più evidente nella cultura contemporanea, attenta alla qualità dei cibi e alla sicurezza alimentare, l’associazione mentale che si viene a creare tra il cibo e il suo contesto di produzione. Le qualità paesaggistiche delle aree di origine sembrano “scivolare” sui loro prodotti. Ai paesaggi rurali tradizionali vengono associati prodotti alimentari di qualità, sani e sicuri, che costituiscono una manifestazione tipica della cultura dei luoghi.

2. PRODOTTI DI QUALITÀ E MARCA DEL TERRITORIO Emblematico di questo fenomeno è il successo di cui godono i prodotti ai quali è associato un marchio territoriale. Le cause sono ben note: da una parte il marchio assicura una protezione del produttore da imitazioni che possono fargli concorrenza, dall’altra una protezione del consumatore da “brutte copie”. Ma ciò che è di particolare rilievo (e che ri-

porta alla relazione paesaggio-gusto) è l’ìdea chiave che sta alla base del marchio territoriale: la qualità di un prodotto viene fatta dipendere dalla sua origine geografica. Una terra particolare, con tutti i suoi caratteri intrinseci e di contesto, con gli uomini che la coltivano sono all’origine della qualità del prodotto. E c’è qualcosa di più in quanto il marchio comporta anche precise modalità di produzione, per garantire al prodotto un gusto definito. Tali modalità sono determinate in base ai saperi e saper fare tradizionali, pur con i necessari adattamenti ai nuovi strumenti e alle nuove tecniche. Sono aspetti questi che in vario modo affondano nella storia locale. Il marchio territoriale viene così a racchiudere in sé sia la geografia che la storia dei luoghi. Proprio quest’ultimo aspetto è all’origine del processo di patrimonializzazione che tocca sia il cibo (come sistema materiale e immateriale), che il paesaggio. È un processo largamente presente nelle società occidentali, un processo che non implica necessariamente un giudizio negativo sulla contemporaneità, ma che fa spazio a sentimenti di perdita e di nostalgia nei confronti del passato. Il marchio territoriale si fonda sia su una conoscenza dei luoghi geografici di origine del prodotto (i terroir) e delle loro specificità, sia su un immaginario nel quale si assume – a priori – che la tradizione sia “buona”. Per garantire questi aspetti (origine e modalità produttive) si muovono sia degli organismi ufficiali (che concedono il marchio), sia un multiforme insieme di media, che hanno come finalità quella di consigliare il consumatore: le rubriche culinarie, le riviste di cucina, i servizi televisivi a carattere documentario, i giochi e le gare culinarie. Questi due tipi di istituzioni non creano, ma alimentano l’immaginario legato ai luoghi di origine e alle loro produzioni. Uno dei tasti su cui generalmente battono è quello del passato e dei segni che ha lasciato. “Il passato non è più ciò che continua grazie alla tradizione, ma ciò che sparisce” (Asher, 2005). Questo modo di guardare al passato genera due conseguenze: crea valori connessi alla rarità e crea valori connessi al rimpianto mitico per ciò che si perde, in un momento in cui la società si sente sempre più a rischio, senza certezze. In realtà questo processo investe una varietà di aspetti del mondo contemporaneo. Le trasformazioni incessanti della società generano accantonamento e abbandono di molti elementi materiali e immateriali: insediamenti, edifici, strumenti e, con loro, conoscenze e capacità che una volta erano “vitali”, ma che ora sono obsolete, superate e quindi inservibili. Officine, molini, botteghe artigiane, edifici rurali non sono che alcuni esempi. In alcuni casi si manifesta una reazione, un rifiuto della perdita, che porta


IL PAESAGGIO DEL GUSTO

ad attribuire loro una nuova vita trasformandoli in “beni” che – come segni del passato – meritano di essere protetti, tutelati e – ove possibile – valorizzati. Nel mondo rurale questo processo di patrimonializzazione porta a restituire valore ad un varietà di componenti del quadro di vita quotidiano, riuscendo in varie occasioni ad innescare processi di sviluppo locale.

3. PAESAGGIO E PRODOTTI ENOGASTRONOMICI COME COMPONENTI DEL PATRIMONIO RURALE

Un’interessante pubblicazione della CEMAT (Conférence euopéenne des ministres responsables de l’aménagement du territoire del Consiglio d’Europa) dal titolo “Guida europea all’osservazione del patrimonio rurale3” fornisce una definizione di patrimonio rurale capace di delineare una visione globale ed operativa dello stesso: “...l’insieme degli elementi materiali o immateriali che testimoniano le particolari relazioni che una comunità umana ha instaurato nel corso della sua storia con un territorio”. Vari aspetti di tale definizione appaiono di particolare interesse ai fini delle tematiche in discussione. Uno dei profili più rilevanti ed attuali è rappresentato dalla compresenza, in questa idea di patrimonio, sia di elementi materiali che immateriali. Tra i primi vengono elencati: il paesaggio, i beni immobili (dimore rurali e costruzioni destinate ad usi artigianali, industriali, residenziali…), beni mobili (oggetti d’uso quotidiano, festivo, religiosi…), prodotti (la varietà di specie vegetali, animali, prodotti trasformati dall’uomo…). Tra i secondi vengono indicati: i saperi e le tecniche che sono alla base della costruzione dei paesaggi, delle architetture, dei manufatti, le parlate locali, le musiche, la letteratura orale oltre a forme particolari di socialità (feste, sagre...). Si osservi, per inciso, come a questo insieme di elementi immateriali è dedicata la “Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale” dell’UNESCO, entrata in vigore il 20 aprile 2006 dopo le necessarie ratifiche4. Essa rappresenta

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un importante completamento al corpus normativo sviluppato dall’UNESCO per la protezione del patrimonio culturale mondiale. Più in particolare la Convenzione si propone di salvaguardare: – le tradizioni ed espressioni orali, compresa la lingua come vettore del patrimonio culturale immateriale; – le arti dello spettacolo; – le pratiche sociali, rituali e eventi festivi; – le conoscenze e le pratiche concernenti la natura e l’universo; – i savoir-faire legati all’artigianato tradizionali (Cfr. art. 2, § 2). Il connubio tra elementi materiali ed immateriali si presta bene a sintetizzare tutto quanto di nuovo sta dietro le produzioni eno-gastronomiche locali. L’alimentazione, nella sua accezione più ampia che comprende sia i prodotti regionali e del terroir, sia le abitudini alimentari (le ricette tradizionali, le forme di alimentazione tradizionali) torna oggi, paradossalmente, a rappresentare un campo di ricerca e di intervento fecondo a fronte dell’uniformarsi dei cibi di larga produzione e al diffondersi degli world food.

4. L’INVENZIONE DELLE CUCINE LOCALI Il riconoscimento dei prodotti eno-gastronomici come patrimonio culturale è, almeno in Italia, un fatto relativamente recente. Oggi si stanno moltiplicando i saggi sulla storia e la geografia del gusto. Senza addentrarsi in campi di studio affascinanti, ma ancora in gran parte da arare, è opportuno fissare l’attenzione sulla nascita e sullo sviluppo delle cucine regionali. È stato delineato una sorta di modello di “invenzione” delle specificità regionali (Ascher, 2005). Il termine “invenzione” è, qui, da intendersi nel senso di “selezione” di alcune specificità produttive o culinarie che siano in grado interpretare un carattere distintivo di un territorio e che vengono, successivamente, “messe in scena” e prodotte. Secondo tale modello l’avvio del processo sarebbe da-

3 La Guida, che è stata presentata ai Ministri responsabili della pianificazione del territorio in occasione della 13ª Sessione della CEMAT (Lubiana, 16-17 settembre 2003) mette in atto le disposizioni contenute nella Raccomandazione (Rec (2002) I) del Comitato dei Ministri sui Principi direttori per lo sviluppo sostenibile del territorio del continente europeo. Essa definisce una serie di orientamenti in materia di gestione del patrimonio rurale e, in modo correlato, di gestione del territorio che contribuiscono a definire uno sviluppo autonomo delle aree rurali, viste nelle loro molteplici sfaccettature, quali spazi di vita per la popolazione che vi risiede e luogo di sviluppo di attività economiche, come spazi naturali e di fruizione del tempo libero per i cittadini. Si veda M.C. Zerbi (a cura di), 2007. 4 L’entrata in vigore è avvenuta, come previsto, tre mesi dopo la ratifica da parte di trenta Stati. Si noti come la maggiore sensibilità nei confronti del patrimonio immateriale sembri essere appannaggio di alcuni Stati asiatici che risultano dotati di una legislazione che tutela e valorizza il patrimonio culturale immateriale. Tra di essi sono da menzionare il Giappone (1950), la Korea (1974), la Tailandia (1985), le Filippine (1973), la Mongolia (1999), il Vietnam (2001). Paradossalmente l’Europa, che rischia di veder sparire le proprie espressioni culturali sotto la spinta dei processi di standardizzazione in corso, vede presenti sistemi di tutela legislativa – a livello nazionale – per il patrimonio immateriale solo in tre paesi scandinavi (Finlandia, Svezia e Norvegia).


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to dall’apertura di una regione verso l’esterno. Gli emigrati di ritorno, con i loro ricordi venati di nostalgia e con l’esperienza acquisita in altri contesti, i turisti alla ricerca del “diverso” e i ristoratori che cercano di vendere qualche cosa di specifico e di nuovo sono i principali attori di questa creazione. Si può anche ipotizzare un modello “storico” di questo processo, che parte dallo stesso principio, ma che ha tempi e attori diversi. L’apertura di un territorio verso altri territori avrebbe fatto emergere la differenza, consentendo di prendere coscienza di ciò che è proprio di un luogo, in altri termini, avrebbe prodotto il “locale”, il terroir. L’importazione nei paesi europei dei prodotti provenienti dai nuovi mondi oggetto di scoperta (ed insieme delle conoscenze e delle competenze per riprodurli localmente e per utilizzarli, che si concretizza quando si verificano anche flussi di persone) ha poi dato luogo a processi di apprendimento e rielaborazione che hanno profondamente modificato le nostre abitudini alimentari a partire dal XVI secolo. È stata la prima globalizzazione del gusto. Il periodo coloniale ha poi allargato ulteriormente e consolidato il contatto con altre culture e con altre cucine. Il processo innescatosi è stato analogo. Dapprima è avvenuta l’importazione dei prodotti alimentari e delle pratiche per utilizzarli, sotto forma di un “prestito” proveniente dall’esterno, poi questi apporti sono stati re-interpretati, adattati, re-inventati, in una incessante ibridazione, mescolanza, fusione. Nell’abbondante letteratura sui fenomeni connessi al processo di globalizzazione possiamo trovare numerose riflessioni sui meccanismi complessi e contradditori che nascono dall’incontro tra globale e locale. Le cucine regionali conoscono un momento di particolare dinamismo. Un esempio tra tutti è quello della cucina giapponese che, in poco tempo, ha imposto sushi e sashimi quasi in ogni parte del mondo. Certamente hanno giocato a favore una serie di fattori: il peso economico del Giappone, il fascino esercitato dalla cultura giapponese sul mondo occidentale, i flussi di turisti giapponesi in giro per il mondo, l’intraprendenza di alcuni ristoratori, l’abbinamento istintivo tra cibo crudo, senza grassi, e cibo sano, la rapidità del servizio. Rapidità e ampiezza della diffusione erano, però, imprevedibili. Analogamente imprevedibile la fortuna di altri cibi regionali, che, per motivazioni diverse, sono riusciti ad imporsi a livello mondiale. Uno dei recenti “Atlanti 5

mondiali dell’alimentazione”5 elenca i best sellers del gusto planetario: la pizza, il kebab, il cappuccino, l’hamburger il sushi. Sono i piatti dello world food che è presente nelle grandi città e compare nei centri turistici più frequentati dal turismo internazionale, piatti che si appoggiano ai valori dell’esotismo e del meticciato6. Andando oltre i cibi emblema della globalizzazione, si può osservare come un consumatore abbia oggi a disposizione un ventaglio di scelte culinarie sempre più ampio: non una sola cucina “locale”, ma un insieme sempre più ampio di cucine locali. Un fenomeno che appare ben diverso, secondo vari ricercatori, dall’internazionalizzazione in voga fino a qualche decennio fa, in cui le multinazionali agroalimentari imponevano un “prodotto unico” a scala mondiale. Come, per esempio, la coca-cola. Tale sistema, negli anni recenti, ha cominciato a mostrare qualche crepa e ha dato luogo ad adattamenti (nel tenore di zucchero per es.) e a concessioni alle culture locali. Questo non significa che il prodotto unico mondiale non conservi una significativa quota di mercato. È entrato “universalmente” nel gusto e gode di sicura efficienza produttiva e distributiva. Ma esso dà luogo a ripercussioni sul piano locale. I MacDonald, sparsi un po’ ovunque nel mondo, hanno rivelato le potenzialità del fast-food e i mercati locali hanno recepito e si sono attrezzati. Il “panino” ha cambiato natura ed ha creato la “paninoteca”. Ha guadagnato in diffusione e soprattutto in varietà ed ha giocato anche sui tasti del “caldo” e “grigliato”. Così le invenzioni “locali” hanno finito per surclassare gli hamburger. Nella società contemporanea sembrano convivere degli orientamenti contradditori: da una parte il ritorno alle tradizioni culinarie e la fedeltà ai prodotti del terroir e, dall’altra, l’omologazione del gusto. Mentre si assiste al diffondersi di un’alimentazione standardizzata, in cui la stessa gamma di prodotti è accessibile ovunque, si osserva – infatti – contemporaneamente una “insistenza sulla diversità”, che si esprime nell’affermazione della varietà dei sistemi alimentari, contenuti nelle diverse culture. L’universo eno-gastronomico dei piatti locali, etnici e internazionali dovrebbe essere sempre più pensato come un sistema complesso, in cui le varie parti rispondono a funzioni diverse ed in cui si realizza una possibilità di rispondere ai gusti dei consumatori che non ha confronti nel tempo. Si va affer-

L’Atlas mondiale des cuisines et gastronomies (2004) è curato da un geografo culturale (Gilles Fumey) e da un geografo dell’alimentazione (Olivier Etcheverria). 6 Si assiste anche ad una “fusione” delle diverse cucine: dalla mescolanza di sapori fino alla sovrapposizione dei modi di preparazione della tavola. Nella catena Spoon&Wine (Parigi, Tokio, Isola Mauritius) si possono comporre dei piatti, secondo i gusti, che incrociano tra loro, scegliendoli tra tre liste differenti, carne o pesce, guarnizioni e condimenti.


IL PAESAGGIO DEL GUSTO

mando un “cosmopolitismo” del cibo: è difficile che un consumatore mangi solo prodotti di un’unica regione. Magari consumerà maggiormente i prodotti della propria regione che non quelli di altre. Ma è facile, in ogni caso, che acquisti anche cibi di provenienza diversa, che le sue scelte spazino su un vasto insieme di cucine locali. Diventa così un “consumatore globale”. Si sta impoverendo il patrimonio alimentare dell’umanità? Le risposte che vengono date sono diverse e complesse. Appare essere in corso nei paesi avanzati un insieme di modificazioni dei regimi alimentari che richiama quello verificatosi dopo le grandi scoperte geografiche del Rinascimento, che hanno introdotto nuove specie alimentari (dalla patata al pomodoro..) e cambiato modi di mangiare. Se da una parte non ha alcun senso ingaggiare una guerra contro il cibo globalizzato o contro l’estetismo esotizzante, ha senso dall’altra cercare di ridare voce ai territori che siano in grado di fornire prodotti eno-gastronomici di qualità e riconoscere il ruolo che esse possono avere nello sviluppo locale.

5. SISTEMA CIBO E PAESAGGIO La sfida che fronteggiava le produzioni alimentari locali vent’anni fa (gli anni del vino al metanolo, dei cibi radioattivi) sembra essere stata raccolta ed in larga misura superata. È emerso e si è progressivamente sviluppato un vero movimento, a cui hanno partecipato istituzioni ed associazioni diverse, movimento che ha portato ad una rivalutazione della qualità sia dal lato del consumo, sia dal lato dell’offerta. È forse presto per valutare il ruolo che hanno avuto gli orientamenti assunti dagli organismi internazionali e nazionali, i mezzi di comunicazione, le associazioni. Tra queste ultime è necessario menzionare almeno Slow Food, il cui nucleo originario risale all’inizio degli anni Ottanta, la cui affermazione sul piano nazionale si colloca proprio nel fatidico 1986 (anno horribilis per vino e cibi), con la nascita di Arci Gola7. Dopo un periodo di trascuratezza, le produzioni locali mostrano, come è ampiamente documentato dai media, una rinnovata vitalità. Le loro funzioni appaiono molteplici. In primo luogo vi è quella di rivelare il territorio da cui provengono. Nulla è più geografico di un prodotto della terra. Sono altresì 7

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marcati dalla loro origine geografica le modalità di coltivazione, le tecniche di trasformazione, le forme del consumo finale. Rappresentano uno straordinario strumento per iniziare la conoscenza di un luogo e della società che in esso vive, del suo ambiente e del suo paesaggio. Una seconda funzione è quella di rispondere al bisogno di “appropriazione” di un luogo, di ritrovare le proprie radici o di radicarsi. Il bisogno di “radici” va, in realtà, aldilà delle pratiche alimentari. Assume un particolare significato nel contesto della vita urbana contemporanea e, con riferimento al cibo, può essere interpretato come un mezzo di compensazione per l’industrializzazione del settore alimentare (Valagão, 2002). Esso trascina con sé un interesse più vasto per una specifica località e per una specifica cultura. Risponde altresì ad esigenze di qualità che riguardano il cibo come una delle componenti che definiscono le condizioni di vita. L’orientamento verso la ricerca della qualità del cibo, infatti, non contiene soltanto la domanda di una dieta equilibrata, di sanità e genuinità degli alimenti, ma include anche preoccupazioni più ampie, connesse ai valori culturali e ambientali che essi esprimono. Vi sono presenti preoccupazioni per la conservazione delle conoscenze agrarie e gastronomiche del passato, per la trasmissione di saperi tradizionali, espressione di una richiesta di rassicurazione sulla possibilità di distinguere i prodotti locali tradizionali da quelli industriali. Ma vi appaiono anche preoccupazioni di natura ambientale relative ai metodi di coltura e alla loro sostenibilità ambientale, alla salvaguardia della diversità delle specie, al funzionalità degli ecosistemi, in una parola preoccupazioni per quella “natura sostitutiva” che agli occhi dei cittadini è la campagna. Da questo collegamento fecondo tra il “mangiar bene” e il produrre in modo ecosostenibile dipende il larga misura il destino del paesaggio rurale. Le produzioni eno-gastronomiche di qualità che, per alcuni secoli, hanno conferito la loro impronta al paesaggio rurale trovano ora nella conservazione di tali paesaggi una sorta di attestato del loro carattere tradizionale e locale. Si può considerare che esse assumano due differenti ruoli: oltre a quello di elemento culturale anche quello di attrattore turistico. Esse offrono, da una parte, un’ importante chiave di lettura della realtà geografica di un luogo in relazio-

A Bra, storica capitale del Barolo, venne fondata nel 1980 “La Libera e Benemerita Associazione degli Amici del Barolo”, che rivendicava il diritto ai piaceri della tavola. Appoggiandosi all’Arci, Carlo Petrini, protagonista indiscusso dell’iniziativa, riuscì a far compiere all’associazione un primo salto di scala e a far nascere Arci Gola, una lega eno-gastronomica nazionale con il compito di valorizzare i prodotti e la cucina del territorio. L’internazionalizzazione del movimento si verifica con il Congresso di Parigi, del 1989, in cui viene presentato il Manifesto di Slow Food (Petrini, Padovani, 2005).


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MARIA CHIARA ZERBI

ne alle differenti forme colturali, alle modalità di produzione e di consumo. La geografia del gusto (che è geografia delle diversità) induce, d’altra parte, dei flussi turistici: dal turismo del vino a quello dei “cibi”. Se il primo ha valorizzato le cantine nella loro concreta dimensione spaziale (terrazzamenti ed aree vitate), quest’ultimo ha il compito di salvare tutto un diversificato insieme di oggetti patrimoniali (i cui nomi variano a seconda delle regioni) ed insieme ad essi del loro contesto paesaggistico: dai mulini ai torchi, ai trappeti, alle baite per i pastori, ai baitelli per la conservazione del latte, ai maggenghi, alle malghe... Bibliografia ASCHER F., 2005, Le mangeur hipermoderne, Odile Jacob, Parigi. FUMEY G., ETCHEVERRIA O., 2004, Atlas mondial des cui-

sines et gastronomies. Une géographie gourmande, Editions Autrement, Parigi. MONTANARI A. (a cura di), 2002, Food and Environment. Geographies of Tastes, Società geografica italiana, Roma. PAOLINI D., 2000, I luoghi del gusto, Baldini &Castoldi, Milano. PETRINI C., PADOVANI G., 2005, Slow Food Revolution. Da Arcigola a Terra Madre. Una nuova cultura del vino e della vita, Rizzoli, Milano. VALAGÃO M-M., 2002, “The Reinvention of Food Traditions and New Uses of the Countryside”, in A. Montanari (a cura di), Food and Environment. Geographies of Taste, Società Geografica Italiana, Roma, pp. 33-46. ZERBI M.C. (a cura di), 2007, Guida europea all’osservazione del patrimonio rurale-CEMAT, Milano, Guerini. ZERBI M.C. (a cura di), 2008, Il paesaggio dei sensi, Regione Piemonte - L’Artistica editrice, Savigliano (Cuneo).


RENATO FERLINGHETTI - GIANFRANCESCO RUGGERI *

PAESAGGI MINIMI E SAPIENZA TERRITORIALE 1

1. LE INVARIANTI STRUTTURALI DEL TERRITORIO LOMBARDO: ELEVATA VARIETÀ FISICA E BIOLOGICA, PROFONDA STRATIFICAZIONE STORICA, ELEVATO VALORE PAESAGGISTICO Lombardia terra piatta, Lombardia terra di nebbie, Lombardia terra della Padania, Lombardia terra povera di biodiversità, Lombardia territorio monotono e omogeneo, sono questi alcuni luoghi comuni che interessano la nostra regione. Invece oltre il 50 per cento della superficie lombarda è costituita da colline e montagne; le nebbie, pur presenti, sono ben lungi dall’essere comuni, si pensi, ad esempio, alla loro comparsa sporadica nei settori montani e collinari e nell’alta pianura. Nel territorio lombardo sono rappresentati i settori alpini e prealpini, nell’Oltrepò Pavese, anche quello appenninico. La pianura è a sua volta articolata in alta e bassa, divise a loro volta in numerosi subambiti, si pensi, per l’alta pianura, ai pianalti ferrettizzati (groane, bedesco, brughiere) agli anfiteatri morenici, ai magredi, alla campagna bresciane, ai monti orfani e altro ancora. Manca dal territorio lombardo solo il mare, i cui caratteri sono in parte evocati dai grandi bacini lacustri, Como, Iseo, Garda, le cui sponde presentano numerosi aspetti submediterranei. Tale diversità territoriale si riflette sui processi di reificazione territoriale (Turco, 1998), che nei loro aspetti tradizionali presentano elevata specificità geografica, nell’uso dei materiali, nelle tecniche edificatorie, nell’organizzazione della trama degli insediamenti e del mosaico agricolo. Un altro aspetto significativo è che la realtà geografica tradizionale è caratterizzata da naturalità diffusa, sono cioè presenti discreti valori di biodiversità in presenza di attività antropiche.

La naturalità diffusa è un valore ambientale decisivo per la qualità complessiva del territorio (Ferrara & Campioni, 1998; Ronchi 2005). Costituisce la base necessaria per il mantenimento di un’elevata varietà di specie ed è condizione indispensabile alla riduzione della vulnerabilità degli ecosistemi. Gli esiti dei processi di reificazione territoriali nell’ambito lombardo e padano hanno assunto un rilevante valore paesaggistico, come ci testimoniano l’ampia letteratura di viaggio. Il paesaggio lombardo frutto e scena dell’azione territoriale delle comunità locali è stato considerato tra i più belli d’Italia e il tema della “bella natura lombarda” fu assai caro ai viaggiatori del Gran Tour. Nel XVII secolo il Coryat, ad esempio, esclamava con sguardo rivolto all’intera Padania “Italy is the garden of the world, so is Lombardy the garden of the Italy…”2, e la campagna lombarda evocava in molti viaggiatori il concetto di “giardino perpetuo”. Di fronte alle articolate condizioni naturali e ai diversificati percorsi storico-culturali che hanno investito gli ambiti e i sub ambiti dell’area lombarda, diviene particolarmente difficoltoso indicare le specificità del territorio lombardo. Possiamo a questo fine seguire il Piano territoriale paesistico regionale che riconosce quale carattere comune e distintivo dei paesaggi tradizionali della regione, quale tratto distintivo della ‘lombardità’ “Il modo di utilizzare le risorse e gli spazi naturali in modi semplici, razionali, pragmatici, e attraverso una artificializzazione dell’elemento di natura che non è mai sconvolgente, troppo soverchiante. Basti pensare alla meravigliosa semplicità e funzionalità insieme del sistema irrigatorio. Ed anche agli stili dei monumenti lombardi, al senso rinascimentale che li pervade in quanto fanno sentire l’uomo nella natura in modi misurati.…”.

* Università degli Studi di Bergamo. 1 Il testo raccoglie i contributi di R. Ferlinghetti e G. Ruggeri. In particolare R. Ferlinghetti ha steso i paragrafi 1, 2 e 3; G. Ruggeri i paragrafi 4, 5 e 6. 2 Per una sintesi della letteratura di viaggio relativa al paesaggio vegetale della pianura lombarda si veda P. Gelmi (2005).


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2. I PAESAGGI MINIMI TRAMA POLISEMICA DELLA MATRICE TERRITORIALE NELLE AREE A FORTE URBANIZZAZIONE

Nei contesti lombardi di forte urbanizzazione, caratterizzati da elevata stratificazione storica e persistenza, per ‘inerzia territoriale’ (Turri, 2002), di frammenti e tracce di contesti tradizionali, è necessario un continuo adeguamento di sensibilità ai valori ambientali, paesaggistici e geografici locali, spesso messi in discussione dalle intensissime contemporanee dinamiche territoriali. Le eredità del portato naturale e storico-culturale in ampia parte del territorio regionale si presentano inglobate dentro gli accrescimenti urbani (industriale e residenziale) verificatisi nella seconda metà del secolo scorso. Come ci ricorda ancora il Piano territoriale paesistico lombardo, non solo sono state obliterate od umiliate le singole testimonianze del passato, ma è anche andato perduto il contesto in cui si inserivano e nel quale le popolazione del passato trovavano i motivi della propria appartenenza e della propria identità. Dietro e dentro l’ipermodernità dei contesti urbani vi sono i luoghi messi ‘sotto sforzo’ dalle potenti e spesso prepotenti dinamiche territoriali. Le continue e pervasive trasformazioni generano più ferite che segni nel territorio, non riconoscendone i valori antropologici, fisici e biologici. La progettualità non persegue il dialogo con la realtà tangibile, l’interazione feconda con i caratteri locali3, dei quali spesso non sa, né spesso vuole, leggere la trama, limitandosi a una sostituzione generatrice di atopie e omologazione. Nella complessa relazione tra “vetera et nova” è necessario individuare, nei contesti a maggior criticità, alcuni elementi di ancoraggio sui quali basare un ridisegno, una ricomposizione, capace di accogliere il nuovo, di metterlo fin dove possibile in dialogo con le preesistenze, di ordinarlo su una costruzione di senso (Pagani, 2003). Negli ultimi anni sono stati proposti nuovi concetti e punti di vista che si rivolgono a tutto il territorio privilegiando la scala dello sguardo e del detta-

glio. Ricordiamo in particolare, il terzo paesaggio (Clément, 2005), il paesaggio terzo (Ferrara, 1974; Ercolini, 2006), il paesaggio invisibile (Pagliarini, 2008) e i paesaggi minimi (Ferlinghetti, 2009). Per paesaggio minimo s’intende un’area costituita da superficie esigua, frutto della trasformazione umana, inserita in contesti ad elevata antropizzazione e caratterizzata da originalità, specificità geografica, valore storico-paesistico e identitario, habitat di biocenosi di pregio naturalistico poco diffuse nell’ambito territoriale contermine. Rientrano nei paesaggi minimi i muri e i selciati tradizionali, le siepi interpoderali, l’equipaggiamento vegetale del reticolo idrografico minore (rogge, canali, fontanili), i numerosi manufatti tradizionali disseminati nel paesaggio rurale ed urbano ed altri ancora (figg. 1-3). Il termine paesaggio minimo è ripreso da una serie di pubblicazioni di Mario Sturani (1906-1978), scrittore ed entomologo4, che intitolò un sua pubblicazione proprio “Paesaggi minimi”. Importante esponente dell’art déco, particolarmente interessato alla lavorazione della ceramica, M. Sturani collaborò, fin dagli anni ’30, con la ditta Lenci di Torino, punto d’incontro degli artisti del tempo e fucina d’idee, della quale divenne poi direttore artistico tra il 1940 e il 1964. Nell’accezione qui proposta il termine paesaggi minimi si stacca dalla dimensione entomologica e naturalistica di Sturani e assume un significato più ampio riferito a contesti di scala territoriale e a una dimensione geografica. Carattere distintivo dei paesaggi minimi è l’essere frutto della trasformazione umana e quindi di non costituire elemento della matrice originale del luogo, ma di essere frutto della sua reificazione antropica in stretto collegamento con il contesto tradizionale, dotato cioè di particolari caratteri, per le tecniche esecutive, per i materiali utilizzati che lo rendono specifico in senso geografico. I paesaggi minimi sono caratterizzati da una lunga persistenza e da forme di gestione costanti. Tali aspetti hanno determinato la stabilizzazione del popolamento biologico, normalmente costituito da

3 Così descrive il disincanto tra pianificazione e paesaggio M. Quaini (2002), per la Liguria, “…ciò che mi faceva paura non era soltanto la macchinosità del progettare oggi – una macchina che nella babele dei piani, dei livelli istituzionali e dei linguaggi delle diverse competenze disciplinari ti può schiacciare, se non riesci a controllarne la complessità per ridurla alla dimensione dell’abitare. (…). Mi è bastato “scollinare” di là dalla dorsale del castello, per cominciare a capire la distanza che può correre, fra i progetti fatti a tavolino e oggettivati sulle carte e la realtà percepita e vissuta, fra il paesaggio – il “vestito” che ci rende riconoscibile il territorio – che nessuno sembra curarsi di conoscere e tanto meno “curare” o lo spazio progettato dalla folla (o follia?) di tecnici che come stilisti impazziti si affannano a rivestire il territorio di un nuovo abito, accorciandolo qui, tagliando là… senza avergli preso le “misure” e averlo minimamente “ascoltato.”. 4 Accanto all’attività artistica Mario Sturani coltivò la passione per l’entomologia e per gli aspetti, i dettagli e le singolarità che la natura presenta in ambito urbano. Tra i suoi scritti naturalistici, oltre a “Paesaggi minimi” si possono annoverare “Caccia Grossa fra le erbe” del 1942, “La vita delle farfalle” del 1947 e “Osservazioni e ricerche biologiche sul genere Carabus Linnaeus” del 1962.


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Fig. 1. Confronto tra paesaggi: la presenza di una ricca vegetazione consente di distinguere un Paesaggio Minimo originale da un “falso”.

specie d’interesse naturalistico, in continuità con le biocenosi degli ambienti tradizionali, in forte contrazione nei territori urbanizzati. Nei paesaggi minimi la naturalità si appoggia all’artificialità dimostrando che la contrapposizione natura-cultura, società-ambiente era già ampiamente superata nella storia del paesaggio lombardo5. Un paesaggio minimo scaturisce dal fondersi e confondersi della razionale progettualità umana con l’imprevedibile azione della natura. L’attività antropica è quindi capace di generare paesaggi minimi, quando non pretende di esaurire la totalità della progettualità, ma, più o meno consciamente, lascia che la natura partecipi liberamente completando l’opera dell’uomo, arricchendola e caratterizzandola. Un paesaggio minimo è quindi un paesaggio a progettazione e a realizzazione compartecipata uomo-natura, è il risultato di un sinergico connubio tra attività umana e naturale. I paesaggi minimi, tessere minute, ma non minori del paesaggio contribuiscono a definire l’armatura storico-paesistica locale, sono cioè frutto del particolare e specifico rapporto tra società e ambiente e assumono significato patrimoniale e identitario. Essi rispondono a logiche di accumulo, in essi si sedimentano le testimonianze del paesaggio tradizionale e peculiari espressioni della diversità biologica. Questa innovativa chiave di lettura non è stata ancora fatta propria nella prassi territoriale. Spesso gli interventi di manutenzione straordinaria o la realizzazione di nuovi paesaggi minimi sono attuati con materiali e tecniche che non consentono l’insediamento di preziosi popolamenti vegetali e non dialogano, e non fanno proprie alcuni dei caratteri materici o delle tecniche locali. 5

In tale modo il manufatto si svincola dalla storia del luogo, diviene un elemento neutro, paesaggisticamente delocalizzato e incapace di ospitare le biocenosi sopra descritte. Come per i centri storici si è evoluta una sensibilità nella progettazione e nella realizzazione degli interventi così anche per i paesaggi minimi sarà necessario acquisire nuovi comportamenti e dalle suggestioni che essi ci forniscono imparare o, meglio, ri-imparare a realizzare manufatti che oltre alle necessarie qualità tecniche sappiano inserirsi con maggior garbo nel portato storico-paesaggistico e naturalistico dei luoghi al fine di implementarne i tratti caratteri distintivi e la funzionalità ecologica. In sintesi i paesaggi minimi: – sono frutto di un’originale e specifica relazione società-ambiente; – sono contesti caratterizzati da stabilità e ordine, che agiscono su flora e fauna in modo conservativo; – sono habitat di biocenosi di pregio naturalistico spesso poco diffuse nei contesti urbanizzati contermini, in continuità con i popolamenti biologici degli ambienti tradizionali; – costituiscono ambienti antropici in cui si esprime la specificità naturale locale; – corrispondono, in ambito urbano, a contesti artificiali con funzione attiva e passiva; – presentano la scala dello ‘sguardo’; – sono di immediata lettura, fruibilità e riconoscibilità perché attrattivi e distribuiti nell’interfaccia tra spazio pubblico fruibile e aree riservate – sollecitano un recupero del rapporto visivo ed esplorativo invece della prospettiva zenitale; – presentano elevata capacità penetrativa nei tes-

Sulla nascita e il necessario superamento del bipolarismo città/natura si veda il contributo di Gambino (2009).


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suti urbani densi, esercitando un rilevante ruolo di continuità e continuità tra sistemi seminaturali, rurali e urbani; – necessitano di un’adeguata cultura dei luoghi per la loro lettura e implementazione; – sono parte integrante, testimonianza, memoria storica, del territorio organizzato; – rappresentano la parte del nostro spazio in cui è sedimentata la sapienza e la conoscenza locale (razionalità territorializzante); – per la specificità e la costanza delle forme, la leggibilità e l’accumulo di valori in essi sedimentati, sono compatibili con la nozione di patrimonio; – rispondono a logiche di accumulo: conservazione delle biocenosi, dei valori storico-paesaggistici e identitari; favorendo, pertanto, la conservazione; – possono avviare percorsi di restauro e risignificazione attenti alla valorizzazione di pratiche di reificazione territoriale autocentrante, rivitalizzando economie di nicchia a basso impatto ambientale; – il disinteresse da parte delle istituzioni per i paesaggi minimi rende più incerto il loro divenire, – non godono di forme di protezione e/o salvaguardia. Se G. Clément (op. cit.), afferma che il paesaggio terzo, rispondendo a logiche di trasformazione e mutazione persegue l’evoluzione e favorisce l’invenzione, i paesaggi minimi, in quanto testimonianza e custodi di architetture, tecniche e biocenosi specifiche e locali, perseguono la comprensione, l’integrazione e la conservazione. E, richiamando ancora le icastiche metafore di G. Clément, se uno spazio privo di terzo paesaggio sarebbe come uno spirito privo d’inconscio, un contesto privo di paesaggi minimi sarebbe come uno spirito senza storia né memoria territoriale.

3. PAESAGGI MINIMI E RISIGNIFICAZIONE DEI LUOGHI

Se la progettazione e la gestione territoriale recupererà lo sguardo versi i paesaggi minimi potrà avvalersi di un importante strumento sia per mantenere la trama fine dell’armatura storico-paesaggistica dei luoghi e il recupero del ‘racconto identitario’ ad essi intrecciato, sia per permeare capillarmente il tessuto urbano di una infrastruttura ambientale sot6

tile e leggera, ma pervasiva e fitta, in contesti quali quelli dell’urbanizzato denso dove, per mancanza di superfici e contesti adeguati, difficilmente si possono stendere le infrastrutture ambientali costituite dalle aree protette e dalle reti ecologiche convenzionalmente considerate. Inoltre il confronto con la sapienza materiale e ambientale racchiusa nei paesaggi minimi è fondamentale per ri-imparare a lavorare con e per la natura, in un ottica che sappia superare lo sguardo nostalgico verso il passato e che raccolga la sfida dei saperi tradizionali contestualizzati al fine di progettare e realizzare nuovi paesaggi minimi capaci di soddisfare necessità funzionali e settoriali e di sviluppare un’efficace sintesi tra passato e futuro, tra natura e tecnica tra conoscenza e comprensione. Spesso l’esito territoriali di progettazioni che si propongono obiettivi di riqualificazione ambientale (aree verdi, zona a trenta, arredo urbano) nella loro attuazione territoriali, non essendo supportate da un adeguata cultura dei luoghi, cancellano o indeboliscono i paesaggi minimi preesistenti. Si acquisisce l’obiettivo specifico preventivato, la mitigazione del traffico, l’aumento di superficie di aree verdi, ecc., ma al prezzo di un’omologazione territoriale che determina, alla luce delle perdite paesaggistiche, identitarie e biologiche, l’indebolimento della struttura territoriale. Lo sguardo attento e consapevole verso i paesaggi minimi presuppone un cambiamento di scala d’attenzione e una crescita di sensibilità al fine di muoverci nella comprensione dei valori, per seguire e guidare i cambiamenti, per agire responsabilmente e adeguatamente dentro i luoghi.

4. PAESAGGI MINIMI PERDUTI La necessità di giungere ad una migliore comprensione dei valori ha costituito il leit motiv di un percorso di ricerca rivolto all’ambito territoriale lombardo ed incentrato sui paesaggi minimi. All’interno di questo percorso la “relazione città-paesaggio minimo nel contesto dell’area urbana di Bergamo” ha rappresentato il cruciale tema di ricerca della terza6 campagna di studio; è stato così possibile determinare una precisa distribuzione geografica dei Paesaggi Minimi nel territorio cittadino ed al contempo investigare il rapporto tra questi stessi e la città, la quale è in grado di evolversi sempre più

Iniziato nel 2007 il progetto di ricerca sui Paesaggi Minimi, diretto dal Prof Renato Ferlinghetti e finanziato con fondi ateneo dal Centro Studi sul Territorio “Lelio Pagani” dell’Università degli Studi di Bergamo, ha visto succedersi tre campagne di studio che hanno riguardato le aree di Bergamo (I paesaggi minimi nelle aree urbane - 2007), della Martesana (Paesaggi Minimi come fonte di naturalità e identità in aree urbane - Il caso del Naviglio Martesana - 2008) e nuovamente di Bergamo (Strutture, valori, funzioni e possibili forme di attualizzazione dei Paesaggi Minimi - Ipotesi di intervento per l’area di Bergamo - 2009).


PAESAGGI MINIMI E SAPIENZA TERRITORIALE

rapidamente e di mutare modi e tempi con cui si amplia e si rinnova. Anche grazie ad un attento confronto tra le fonti storiche, principalmente iconografiche, e l’attuale situazione di alcune aree cittadine si è giunti a codificare il concetto di Paesaggio Minimo Perduto, in cui far confluire quel consistente patrimonio di paesaggi scomparsi, specialmente negli ultimi decenni, senza clamore alcuno, senza la benché minima percezione collettiva dei cambiamenti in atto. La radicale trasformazione della trama paesaggistica avvenuta sui colli di Bergamo negli ultimi 50 anni è sfuggita a lungo alla collettività, infatti fino agli anni ’70 del secolo scorso un ricco ed articolato sistema di siepi arboreo arbustive incorniciava gli orti e gli appezzamenti agricoli dei colli cittadini, tanto che questa trama fitta e complessa rappresentava una vera e propria rete che si estendeva ininterrottamente da porta Sant’Agostino alla conca di Astino. Tali aree orticole urbane, salvaguardate dalla “regola del cinquantino”7, si sono ora per lo più trasformate nel cosiddetto “bosco ornamentale”, un variegato mix di specie, spesso aghifoglie, ancor più spesso esotiche, che affollano i giardini delle residenze di pregio che hanno sostituito orti e cascine: l’impatto paesaggistico di questo mutamento è notevole, ma generalmente non percepito. Questa “cecità” collettiva è forse spiegabile con la rassicurante certezza inconscia che i colli cittadini sono posti, da tempo, sotto tutela ed il permanere quantitativo di queste aree verdi è sembrato sufficiente, senza che si ponesse invece l’attenzione sull’aspetto qualitativo delle stesse. Analoghi esempi di Paesaggi Minimi reticolari e diffusi sono riscontrabili in altre aree cittadine, si pensi al sistema di chiusure vegetali e siepi, un tempo ben più diffuse, e che ormai si rilevano per lo più nella zona della Zarda ed in Valverde, oppure all’intrico di muri che chiudevano broli, orti e appezzamenti nelle immediate vicinanze dei borghi cittadini e dei borghi rurali di Campagnola, Colognola, Grumello al Piano, ecc, ma anche all’intricato sistema di canali e rogge che scorrevano e scorrono ancora oggi sotto la città, basti ricordare, a questo proposito, che tra Porta Nuova e la Stazione il grande viale cittadino è attraversato da ben 4 rogge non più visibili. Canali e rogge, anche dove non sono stati tombinati, hanno subito significative trasformazioni che spaziano dalla cementificazione delle sponde, alla rimozione delle vegetazione ripariale, compromettendo così le possibili interazioni, talvolta persino visive, tra cittadino e corso d’acqua.

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Ne consegue che i Paesaggi Minimi siano definibili “minimi” solo se considerati nella loro individualità, qualora invece siano organizzati in un capillare ed articolato sistema acquisiscono una valenza paesistica capace di partecipare alla determinazione dell’immagine cittadina.

5. PAESAGGI MINIMI MANCATI Analizzando alcuni manufatti recenti è lecito chiedersi se il tema dei Paesaggi Minimi non sia già percepito dalla collettività, seppur in modo inconscio e talvolta confuso. Se si decide di confrontare l’insieme dei muri presenti sui colli cittadini, si notano alcuni elementi caratterizzanti, (tipologia di materiali, dimensioni, colore e disposizione degli stessi, forme del costruire, ecc) che troviamo riproposti in manufatti recenti. Confrontando un antico muro di contenimento del versante collinare posto in Borgo Canale ed un manufatto con le medesime funzioni posto in via Maglio del Lotto, via Magrini e via Simoncini notiamo che, oltre alla medesima funzione, i due manufatti, scontate le ovvie differenze dovute alla diversa età, hanno un aspetto abbastanza simile, sia per i materiali impiegati, sia per la disposizione degli stessi tanto da veder riproposto, quale tratto distintivo, l’arco a tutto sesto. La vera differenza che si può cogliere tra i due manufatti è rappresentata dalla presenza di una ricca vegetazione rupicola per quanto riguarda l’esempio di Borgo Canale a fronte dell’estrema pulizia riscontrata sia in via Maglio del Lotto, 1.200 m2 di superficie ed un solo esemplare di felce, sia in via Magrini, 500 m2 di superficie ed solo un esemplare di Clematis vitalba. Si potrebbe liquidare questa marcata differenza imputandola alla diversa età dei muri presi in questione. Un’attenta analisi dei manufatti porta però ad altre conclusioni; in via Simoncini si possono osservare, adiacenti tra loro, due tratti di muro, il primo dei quali realizzato di recente in concomitanza con la realizzazione del secondo sottopasso ferroviario tra via San Giorgio e via Autostrada, si presenta spoglio e chiaro, il secondo, realizzato in concomitanza con la costruzione di via Simoncini terminata alla fine degli anni ’90, si presenta ugualmente spoglio, ma decisamente annerito dallo smog, unico segno del tempo trascorso. Si deve quindi ritenere che la presenza di vege-

7 Il Piano Regolatore Muzio prevedeva infatti che si potesse edificare un nuovo edificio sui colli cittadini solo disponendo di 50 m2 da mantenere a verde per ogni m2 realizzato.


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tazione non sia imputabile all’età del manufatto e quale ulteriore riprova si osservi il muro del Centro Don Orione a Redona, il quale, pur essendo stato realizzato durante gli anni ’80, presenta un’interessante copertura vegetazionale, sia in termini quantitativi che qualitativi (con la presenza di Asplenium ruta - muraria, indicativamente due-tre centinaia di esemplari, ma anche di Oxalis dillenii, Clematis vitalba, Hedera helix, Rubus caesius, Potentilla reptans, Calystegia sepium, Portulaca oleracea, Cymbalaria muralis, Sonchus, ecc). È quindi la natura stessa del manufatto che consente l’insediamento della vegetazione e determina l’esistenza o meno di un Paesaggi Minimo, di conseguenza tutti quei manufatti che riprendono l’apparenza dei Paesaggi Minimi, ne riproducono l’aspetto, ne ricreano le forme senza coglierne però l’essenza sono sostanzialmente delle occasioni mancate destinati a restar privi di vegetazione.

6. RISVOLTI APPLICATIVI I Paesaggi Minimi non limitano la loro sfera d’azione alla sola lettura del territorio promuovendone così una migliore comprensione, sanno infatti suggerire azione concrete capaci di migliorare la gestione del patrimonio paesistico. a) il manufatto antropico, pregiata fonte di biodiversità Il concetto di Paesaggio Minimo, come già detto, vede la componente vegetale non più come un simbolo di incuria, ma come un surplus in grado di arricchire il manufatto, sommando al valore storicoarchitettonico una valenza ecologico-ambientale, rinominando ciò che in precedenza era genericamente apostrofato come “malerba” o “erbaccia” con il più appropriato nome di “biodiversità”. Il risvolto applicativo è immediato ed evidente, se si pensa all’attività di manutenzione straordinaria da qualche anno in corso lungo i 5 km delle mura venete. Alcuni tratti si presentano completamente ricoperti da vegetazione anche arbustiva (Ficus carica, Buddleja davidii, ecc) e persino arborea (Ulmus minor) che con l’apparato radicale ha provocato in taluni casi il distacco di elementi murari, per contro le superfici già sottoposti a pulizia si presentano nude e totalmente prive di vegetazione, così che il contrasto tra il prima e il dopo sia netto e forse stridente8.

Premesso che un intervento di manutenzione era indispensabile e doveroso si può però immaginare, operando secondo la logica dei Paesaggi Minimi, un diverso approccio nei confronti della vegetazione che non va considerata in toto come elemento di disturbo; se infatti è lecito contenere le specie con apparato radicale vigoroso, quali Ficus carica, e le specie esotiche ed invasive, come la Buddleja davidii, sarebbe invece più corretto non rimuovere la gran parte della componente erbacea, la quale non è in grado di danneggiare il manufatto e nel contempo rappresenta una grande fonte di biodiversità. Sulle mura venete vi è infatti un ricco popolamento vegetale che difficilmente trova eguali in ambiti così ristretti, basti dire che le numerosissime specie presenti spaziano dal mediterraneo Capparis spinosa (cappero) alla montana Festuca rupicola, presenze rare e significative che dovrebbero essere valorizzate ricorrendo anche a veri e propri itinerari culturali e persino turistici stante la spettacolarità di alcune fioriture quali quelle di Antirrhinum majus e Centranthus ruber in grado di colorare interi tratti di mura. Analoghe attenzioni potrebbero essere riservate ad un qualsiasi altro muro cittadino, coinvolgendo anche i privati, educandoli a rimuovere dai muri di loro proprietà soltanto la flora veramente dannosa (esotica, allergenica, con apparato radicale vigoroso, ecc) lasciando invece che crescano indisturbate le specie innocue o persino auspicabili stante la loro gradevole fioritura (ad esempio Erigeron karvinskianus, Sedum album, Cymbalaria muralis, ecc). b) genesi e storia dei luoghi I Paesaggi Minimi sono il frutto dell’azione combinata e sinergica di una componente naturale e dell’attività antropica, di conseguenza buona parte dell’attività di ricerca svolta si è incentrata proprio sull’attività umana e sui manufatti che essa produce. Durante la terza fase di ricerca è diventato d’obbligo analizzare attentamente la natura dei manufatti, i materiali e le tecniche impiegate, tanto da poter ipotizzare una distribuzione geografica di massima delle diverse tipologie rilevate. Questo ramo della ricerca, ancorché sia stato solo abbozzato, lascia già intravedere alcuni spunti applicativi di sicuro interesse, poiché offre chiavi di lettura della città che sono generalmente ignorate. Distinguere una città della pietra posta per lo più sui colli da una città del ciottolo di fiume o borlante che si sviluppa invece lungo la Morla e nel piano

8 Situazioni analoghe si riscontrano ad esempio lungo alcune scalette; si pensi allo Scorlazzone che è stato “adottato” dal CAI di Bergamo “per la periodica pulizia e diserbamento” (Benedetti L., Carissoni C., 2000) e che in effetti ha ridottissime presenze vegetali.


PAESAGGI MINIMI E SAPIENZA TERRITORIALE

cittadino più discosto dal sistema collinare può forse sembrare scontato da un punto di vista prettamente teorico, non certo però se ci si confronta con la quotidianità di molti interventi di manutenzione per i quali non vi è differenza tra borlanti e pietra, confusamente identificati come materiali tradizionali e ritenuti pienamente intercambiabili tra loro. Se si percorre infatti via San Martino della Pigrizia si trova a lato della strada un lungo muro, alcune centinaia di metri, realizzato esclusivamente con pietra del posto, il quale, necessitando in alcuni tratti di manutenzione straordinaria, è stato però riparato e ricostruito con grossi borlanti. Viceversa giungendo a Grumello al Piano si può notare, posto proprio sopra la roggia colleonesca a poca distanza dal confine con Lallio, un parapetto in pietra, o meglio rivestito con pietra giusto su di un lato, nonostante la natura dei luoghi, se indagata con un minimo di attenzione, ci indichi senza difficoltà che tutto ci parla di borlanti, sia i lunghi ed alti muri dei broli, sia i canali irrigui ed i numerosi edifici dove la pietra trova posto al massimo come raro e solido elemento angolare; né la situazione potrebbe essere diversa dato che, storicamente, non avrebbe avuto senso alcuno recarsi in cerca di pietra sui colli, già lontani, quando campi e corsi d’acqua fornivano borlanti in abbondanza. Un terzo esempio riguarda invece la roggia Serio nel tratto cittadino di via Manzù, dove il lato esterno della sponda posta lungo la via è stato rifatto di recente con ciottoli di fiume, per contro il lato interno e l’altra sponda sono in pietra e rivestiti da una fitta popolazione di Erigeron karvinskianus. Anche in questo caso ci confrontiamo con un intervento che non ha saputo leggere i luoghi, poiché se può apparire corretto porre ciottoli di fiume lungo un corso d’acqua, vale la pena ricordare che la roggia Serio non è un corso d’acqua naturale e fu realizzata per portare l’acqua proprio dove l’acqua e di conseguenza i borlanti non c’erano. Ne consegue che i Paesaggi Minimi, obbligandoci a riflettere sulla natura dei manufatti, ci portano inevitabilmente a scoprir l’essenza degli stessi e dei luoghi che li ospitano, ci aiutano a capirne la genesi e la storia, conoscenze queste che si rivelano indispensabili per procedere a corretti interventi di gestione e manutenzione dell’edificato storico.

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c) Paesaggi minori L’attenzione posta nei confronti dei Paesaggi Minimi induce, date le loro contenute dimensioni, a rivolgere una maggiore attenzione ai cosiddetti paesaggi minori, ovvero a tutto ciò che non rientra nella tradizionale definizione di paesaggio di sovente confuso con panorama. Un significativo esempio di questa situazione ci è fornito da quel patrimonio incantevole costituito dal sistema di scalette9 che innervano il colle bergamasco specialmente nella conca delle piscine, dove si spingono dal piano fino a San Vigilio. Strette tra alti muri salgono ripide, spesso e volentieri lungo la linea di massima pendenza, distendendosi solo di rado e all’improvviso in tratti piani e proprio in coincidenza del cambio di pendenza offrono rari affacci panoramici sulla sottostante pianura. Gli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria effettuati negli ultimi anni stanno lentamente snaturando il contesto paesaggistico delle scalette, contesto tipico dei colli di Bergamo e pertanto dotato di un alto valore identitario: interi tratti di muro vengono abbattuti e sostituiti con cancellate, reti e siepi, oppure semplicemente rimossi come avvenuto ad esempio lungo la scaletta dello Scorlazzino. Questa scaletta conduce da via San Martino della Pigrizia fino in Sudorno ed assieme alla scaletta delle More, alla Scaletta di San Martino e allo Scorlazzone, è uno dei quattro tratti del percorso che dalle Piscine Italcementi giunge fino alla chiesa di San Vigilio. Il tratto iniziale scorre ripido e stretto, tanto stretto che in alcuni tratti due persone vi passano a fatica, poi all’improvviso tutto cambia, l’alto muro con la cima mossa ed irregolare si abbassa di colpo divenendo un basso parapetto, perfettamente squadrato e coronato da lastre di pietra, ampie e piatte, così che l’affaccio sulla pianura sottostante è continuo ed il panorama è garantito. Giunti all’ultimo tratto della scaletta, poco prima di immettersi in via Sudorno, la situazione appena descritta si ripete ora su entrambi i lati, nuovamente si notano due bassi parapetti, eccezion fatta per un breve lembo dove l’alto muro originario letteralmente cozza contro il basso parapetto. Di fatto è stata così annullata del tutto la verticalità del manufatto e di conseguenza

9 Compongono questo sistema di viabilità verticale e pedonale numerosi percorsi concentrati per lo più sul lato meridionale dei colli cittadini ed intersecati da numerosi tracciati carrabili pianeggianti posti lungo le curve di livello. Fanno parte di questo reticolo scalette vere e proprie come la Scaletta delle More, dello Scorlazzone, dello Scorlazzino, di Colle Aperto, di Santa Lucia, di San Martino, di Sant’Alessandro, la scaletta Bellavista, la Salita della Scaletta, lo Scalone del San Gottardo, la scaletta del Castello di San Vigilio, via del Cornasello, via della Noca, via Ripa Pasqualina e l’incantevole Fontabrolo, forse la scaletta più ripida ed affascinante, ma si possono considerare parte di questo mondo anche percorsi che pur privi di veri e propri scalini hanno caratteristiche analoghe quali, ad esempio, la salita di San Carlo.


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di mura venete ottimi terrazzi affacciati sulla sottostante pianura padana. Ritenere che il paesaggio sia tale solo se l’occhio può spaziare è decisamente riduttivo, poiché la negazione di un panorama può essere essa stessa paesaggio, come avviene per le scalette, e può, talvolta, generare inaspettate suggestioni, si pensi all’Infinito di Leopardi: “Sempre caro mi fu quest’ermo colle, e questa siepe, che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. Ma sedendo e mirando, interminati spazi di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quiete io nel pensier mi fingo; ove per poco il cor non si spaura …” Sostanzialmente il poeta ci racconta che una siepe gli impedisce la vista da tanta parte dell’ultimo orizzonte e ciò scatena sì tanto la sensibilità leopardiana fin quasi a impaurirlo; se la siepe fosse stata estirpata con la stessa logica con la quale sono stati abbattuti i muri delle scalette, non sarebbe mai nato uno dei più grandi capolavori della letteratura italiana.

Bibliografia

Fig. 2. Sopra, la scaletta delle more in tutta la sua bellezza, sotto, ampio tratto del muro originario sostituito con una recinzione.

gran parte del suo valore paesaggistico che si può ancora immaginare se, superata via Sudorno, ci si immette nello Scorlazzone, fortunatamente ancora stretto tra i suoi muri che pur nascondendo il panorama, sono essi stessi paesaggio, perchè la scaletta è paesaggio. Né mancavano le occasioni per godere del tanto agognato panorama, basti pensare a San Vigilio, a Borgo Canale, a via Sudorno e a qualche chilometro

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Fig. 3. Esempi di paesaggi minimi. In alto un tratto delle mura Venete mostra con evidenza gli effetti della manutenzione straordinaria sulla vegetazione, in basso, in via San Martino della Pigrizia un tratto di muro in pietra riparato con ciottoli di fiume, a destra, Via Tre Armi: ricca fioritura di Antirrhimum majus (bocca di leone) e di Centranthus ruber (valeriana rossa) sulle mura venete.

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DAVIDE PAGLIARINI *

FARE PAESAGGI MINIMI CONSERVAZIONE E ATTUALIZZAZIONE ATTRAVERSO LA PRATICA DEL PROGETTO

1. PREMESSA Paesaggi minimi è una ricerca sui paesaggi urbani a piccola scala ideata nel 2007 da Renato Ferlinghetti e promossa dal Centro Studi sul Territorio dell’Università di Bergamo. Nel 2009 hanno collaborato alla ricerca Davide Pagliarini (coordinatore del laboratorio new landscapes e docente presso la Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano) e Gianluca Agazzi (naturalista), affiancando agli studi sui caratteri geografici e storico-identitari dei paesaggi minimi un’indagine floristica e fotografica su una sezione di paesaggio urbano (fig. 1). Il presente articolo richiama sinteticamente gli esiti dell’indagine condotta nel 2009 e introduce successivamente uno studio, attualmente in corso, sulla relazione tra progetto di architettura e habitat di pregio naturalistico, a cura di Davide Pagliarini.

2. PAESAGGI MINIMI I paesaggi minimi sono una somma di habitat minuti e di particolare pregio botanico e naturalistico, distribuiti come isole di un arcipelago all’interno o ai margini del tessuto urbano (figg. 2, 3). A definirli sono specie botaniche autoctone e manufatti architettonici in stretta relazione tra loro. Generatisi grazie alla presenza di manufatti umani quali muri in pietra, siepi e confini boscati, sistemazioni idrauliche minori, le cui caratteristiche morfologiche e costruttive li rendono substrati per una vegetazione strutturata e di pregio, i paesaggi minimi costituiscono dei circoscritti avamposti di penetrazione delle specie in ambito urbano (figg. 4, 5). La loro presenza diffusa è in grado di determinare ecosistemi peculiari e stabili, in continuità con gli ambienti ad alta naturalità dei boschi e delle colline che lambiscono la città. Lontano dalla retorica di un verde generico, reti* Politecnico di Milano.

no che colora i residui inedificati per produrre consenso, il paesaggio minimo si fonda sulla presenza diffusa di habitat di dimensioni minute e stabili, che non necessitano di essere fisicamente ricuciti tra loro per formare un continuum. Il carattere dei paesaggi minimi si fonda sulla loro distribuzione puntiforme. L’immagine che essi producono è opposta a quella del parco urbano di matrice ottocentesca, modello che non corrisponde più all’abitare contemporaneo. Alla sua forma unitaria e al suo carattere di luogo pubblico si sostituisce così un mosaico di tessere distribuite in modo discontinuo, in relazione tra loro secondo geografie di volta in volta diverse e rivolte a una fruizione più individuale che collettiva. I paesaggi minimi occupano superfici ridotte rispetto al costruito, distribuendosi come isole di un arcipelago. I paesaggi minimi sono potenzialmente ubiquitari. I paesaggi minimi esistono anche a prescindere dal loro essere mappati o ricondotti a un’immagine; in essi si compiono azioni che non è solo l’uomo a determinare. I paesaggi minimi contribuiscono all’incremento della diversità biologica in ambito urbano. I paesaggi minimi costituiscono una risorsa culturale. I paesaggi minimi costituiscono una forma di resistenza all’omologazione e al banale; la loro è una botanica lontana dal paesaggio in movimento delle aree degradate e degli incolti, continuamente mutevoli ma sempre identiche a se stesse. I paesaggi minimi necessitano di specifici manufatti, le cui caratteristiche morfologiche e costruttive li rendono substrati per una vegetazione strutturata. La soglia tra paesaggi minimi e manufatti architettonici diviene tema progettuale, acquista uno spessore, conquista uno spazio tridimensionale specifico, deputato ad accogliere comunità vegetali di pregio.


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Fig. 1. Bergamo, sezione di paesaggio, 1 x 5,6 chilometri.

3. PRATICARE IL PAESAGGIO L’attraversamento dell’area urbana ha interessato una sezione di paesaggio di circa 1 x 5,6 chilometri, dai rilievi collinari alla pianura (fig. 1). L’itinerario percorso – 11,0 chilometri – presenta un notevole spettro di ambienti, vegetazioni, caratteri urbanistici ed edilizi, dal bosco termofilo ai rilievi collinari, dalla città medioevale fortificata – contraddistinta da un tessuto compatto e dall’uso estensivo della pietra locale –, alla trama ordinata dell’urbanistica otto-novecentesca fino alle aree di espansione residenziale e produttiva adiacenti l’asse interurbano, l’autostrada e l’aeroporto. A delimitare la sezione, i boschi e il paesaggio incerto e generico delle aree degradate ai margini delle infrastrutture. Una tavola grafica di grande formato (fig. 2) ha permesso di riassumere in forma sintetica gli esiti dell’esperienza: l’estensione e la distribuzione dei paesaggi minimi incontrati, la distinzione tra ambienti primari (bosco misto termofilo), paesaggi minimi propriamente detti (muri in pietra, sponde umide, siepi interpoderali) e ambienti meno pregiati soggetti a maggiore disturbo (prati di pianura, calpestii, aree degradate e incolti).

La sezione di paesaggio ha permesso di sperimentare un metodo di indagine e un approccio al paesaggio libero da pregiudizi e aperto a cogliere nell’assetto presente l’intersezione e la mescolanza simultanea di diversi ambienti, tessuti edilizi, sedimentazioni e orografie. L’esperienza dell’attraversamento si è così compiuta seguendo un percorso non lineare a partire da un vincolo deciso a priori, tracciando un itinerario mentre lo si percorreva. “Se idealmente isolata rispetto al continuum urbano, questa porzione di territorio presenta una straordinaria compressione: in essa si incontrano condizioni estreme eppure vicine spazialmente. Il suo attraversamento è in se un’esperienza nello spazio geografico e nel tempo della storia, e il fatto sorprendente è che ciò sia coglibile in una sola giornata, percorrendola a piedi. La frequentazione del paesaggio, se condotta con lentezza e con una disposizione a raccogliere e selezionare gli elementi essenziali nel confuso insieme di informazioni che da esso provengono, si rivela così un momento prezioso perché consente di riconoscere l’atteggiamento progettuale più appropriato che il contesto esprime e suggerisce”. (Davide Pa-


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Fig. 2. Rilievo floristico, tavola grafica riassuntiva (300x100cm, scala 1:2000), particolare.

Fig. 3. Bosco termofilo, Via Col di Lana. Fotografia: Davide Pagliarini, 2009.

Fig. 4. Siepe, via Alcaini. Fotografia: Gianluca Agazzi, 2009.

gliarini, Gianluca Agazzi, Paesaggi minimi, Università degli studi di Bergamo - Centro Studi sul Territorio Lelio Pagani, 2009, p. 19). È frequente confondere il termine paesaggio con la percezione e la rappresentazione di un territorio, cioè con una rielaborazione successiva all’esperienza. Il paesaggio, al contrario, è innanzitutto una pratica: l’esperienza che facciamo di esso è l’esito di un processo di avvicinamento e di scoperta. Lo si attraversa raccogliendovi indizi. Progettare – fare foto-

grafia, architettura, grafica – significa partecipare a questo processo di interrogazione sul proprio intorno e su se stessi.

4. FARE PAESAGGI MINIMI I paesaggi minimi sono soltanto un’eredità da conservare o rappresentano una risorsa per il progetto contemporaneo?


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Fig. 5. Specie più rappresentative e ricorrenti dei muri in pietra.

Come incentivare la loro diffusione? Quale città e quale architettura possono meglio esprimerli? L’alta densità urbana può produrre paesaggi minimi? L’architettura può diventare spazio fisico per l’insediamento e la diffusione dei paesaggi minimi, anche in contesti di formazione recente e privi di qualità? Quali i possibili criteri per progettare in stretta relazione con gli habitat di pregio naturalistico in ambito urbano? L’individuazione di analogie e continuità tra i caratteri dei paesaggi minimi e alcuni approcci alla progettazione di architettura e del paesaggio ha permesso di cogliere una serie di costanti nel modo di percepire, pensare e trasformare lo spazio, identificabili come possibili criteri per progettare in stretta relazione con gli habitat di pregio naturalistico in ambito urbano. Il fine è quello di individuare una metodologia per fare nuovi paesaggi minimi, predisponendo un elenco di buone pratiche volte a produrre una consapevolezza e un’attitudine progettuale appropriata rispetto a un patrimonio ambientale minuto e diffuso. L’analisi mette a confronto l’esperienza condotta sui paesaggi minimi nel 2009 – l’attraversamento di una sezione urbana, l’indagine sul campo – con alcuni temi della ricerca condotta da Piero Valle sul

parco paesaggistico e sulla casa suburbana inglese tra ’700 e ’800 (Pietro Valle, Paesaggio con narrazioni. Un approccio inglese allo spazio, Arch’it, febbraio 2010), per concludersi con la rilettura di alcuni progetti di architettura paradigmatici, portatori di un incontro virtuoso tra spazio costruito e paesaggio minimo: la villa Müller di Adolf Loos (Praga, 192830) e la casa a Santo Tirso (Porto, 1976-78) di Alvaro Siza (fig. 6). Per la concezione spaziale, di volta in volta declinata secondo un programma specifico, e per le complesse relazioni che stabiliscono con il contesto, questi manufatti si prestano ad ospitare il paesaggio minimo e a porsi rispetto ad esso in modo non invasivo, conservandone i caratteri. Finalità della ricerca è quella di tracciare le coordinate per una metodologia trasmissibile, volta a comprendere i caratteri del paesaggio minimo e ad incentivare la sua diffusione. L’esperienza dell’attraversamento dei paesaggi minimi trova una corrispondenza con la concezione frammentaria e dinamica del parco pittoresco inglese tra ’700 e ’800 e con la sua dimensione plurisensoriale, coglibile in movimento e mai da prospettive statiche (fig. 7). Il parco paesaggistico introduce una molteplicità di ambienti, associati a percezioni e momenti di fruizione diversi. Ciò che è qui interessante sottolineare non è il tema dell’illusione della natura e del suo ripristino at-


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Fig. 6. Analogie e relazioni tra paesaggi minimi, giardino pittoresco inglese e architettura domestica in Europa tra ’700 e ’900.

traverso l’artificio, né l’immagine sentimentale del parco a tema, che riproduce nello stesso luogo l’emblema di più culture – l’antico, l’esotico, l’orientale –, quanto l’adattamento del progetto al contesto locale, la conservazione delle specie endemiche, l’articolazione di un programma funzionale rivolto ad intensificare la percezione del paesaggio e infine l’esperienza dell’attraversamento come processo di scoperta. Nell’800 la concezione spaziale del parco paesaggistico inglese si trasferisce nella casa suburbana, adattandosi a una nuova dimensione, più compressa e dai confini certi, determinati dalle lottizzazioni residenziali (fig. 8). Lo spazio domestico e le sue pertinenze esterne assumono un’articolazione complessa e strettamente legata al pragmatismo della committenza inurbata. Ogni momento della vita domestica richiede uno spazio e una scala di progetto appropriata. Le singole funzioni non sono mai pensate come entità autonome ma vengono gestite attraverso un procedimento di assemblaggio che procede dall’interno verso l’esterno. Non è la forma a condizionare il programma, ma l’inverso. Il tema dell’articolazione spaziale della English House come risposta alle esigenze funzionali, al criterio di razionalità, economia e gestione dello spazio domestico viene affrontato da Adolf Loos nei progetti di ville urbane e suburbane costruite nel ventennio tra il 1910 e il 1932.

Tra il 1893 e il 1896 Loos, ventitreenne, viaggia in Inghilterra e lì coglie la dimensione pragmatica ed empirica dell’architettura domestica inglese, declinandola successivamente nei progetti di ville. Casa Müller (fig. 9) porta a compimento i temi dell’articolazione dello spazio e della continua variazione nell’uso dei materiali, legati ai diversi momenti della vita domestica e alla diversa percezione dell’osservatore nel tempo. L’elemento più interessante del procedimento compositivo di Loos è il suo carattere funzionalista. Le necessità della vita domestica non sono tuttavia standardizzabili e determinano ogni volta un esito spaziale differente. Non ci troviamo di fronte a un pragmatismo che fa corrispondere prodotti uguali a bisogni uguali ma ad una capacità di articolare un medesimo tema adattandolo a un programma e un contesto specifico. Ciò consente di individuare molteplici analogie con la morfologia e l’assetto ecologico dei paesaggi minimi sin qui descritti. Tra esse le più significative riguardano la stretta relazione tra comunità vegetali e habitat specifici – determinati da posizione geografica, geologia, clima, orientamento –, il ruolo attivo dei diversi substrati nel favorire l’insediamento di una specie, la stessa prossimità fisica tra diversi paesaggi minimi all’interno di un tessuto urbano ad alta densità e contraddistinto da un’orografia varia. La relazione tra paesaggio minimo e architettura


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Fig. 8. John Claudius Loudon, villino suburbano con giardino, 1836. Pianta.

Fig. 7. Rousham, Oxfordshire, 1720-37.

raggiunge una sintesi nella rilettura della villa che Alvaro Siza costruisce per il fratello a Santo Tirso (Porto) tra il 1976 e il 1978 (fig. 10). Nello spazio antigeometrico e plurimo del giardino, attraversato da coni ottici che dalla casa si proiettano verso molteplici direzioni, il progetto coniuga il tema dell’articolazione spaziale interna, osservato nella villa Müller di Loos, con il carattere imprevisto e mutevole del parco inglese. Il vuoto del giardino diviene spazio negativo complementare alla casa. Le dimensioni del lotto e la sua forma irregolare entrano in conflitto con l’impianto frammentato della casa, dando luogo a spazi interstiziali serrati e inattesi. Il paesaggio minimo trova posto nelle fessure tra il costruito, all’ombra del patio, nelle piccole porzioni di suolo protette dai muri. Gli ambienti interni, il patio e i percorsi attorno alla casa producono habitat sempre diversi: zone d’ombra, muri in pieno sole, ambiti riparati e freschi. L‘assenza di gronde e scossaline produce piccoli stillicidi, creando condizioni favorevoli all’insediarsi di specie igrofile. I casi sin qui descritti danno prova di come sia possibile preservare e incrementare la biodiversità in ambito urbano, conciliando l’alta densità con la presenza di specie di pregio. A partire dall’osservazione di casi circoscritti alla dimensione domestica e allo spazio privato del giardino è possibile promuovere una diversa attenzione verso lo spazio pubblico, incentivando interventi coerenti con il contesto locale e a basso costo rispetto all’immagine del giardino ornamentale, alla sua banalità e alle sue semplificazioni. Nella convinzione che sia il contesto, con la sua identità singolare e non ripetibile, determinata dalle sue proprietà fisiche e dalle vicende che hanno determinato il suo assetto attuale, a condizionare il metodo di lavoro e gli esiti di una ricerca, non si

Fig. 9. Adolf Loos, Casa per Frantisek e Milada Müller, Praga, 1928-30. Pianta.

Fig. 10. Alvaro Siza Vieira, Casa Antonio Carlos Siza, Santo Tirso (Oporto), 1976-78. Pianta.


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Fig. 11. Eduardo Souto de Moura, Casa a Baião, Portogallo, 1990-1993 (in AA.VV., Eduardo Souto de Moura. Temi di progetti, Skira, Milano, 1998).

vuole qui fornire una dotazione di soluzioni standardizzate smontabili e ripetibili in altri contesti. Il paesaggio minimo necessita di habitat deputati ad ospitare le specie endemiche, di corridoi ecologici, substrati con proprietà specifiche, quali zone umide, siepi, muri con presenza di stillicidi. Un caso virtuoso di reciproca relazione tra preesistenza, vegetazione e nuovo intervento costruito è rappresentato dalla casa a Baião, nel Portogallo settentrionale (1990-1993) di Eduardo Souto de Moura (fig. 11). L’integrazione di una piccola residenza tra le rovine di un manufatto preesistente diviene occasione progettuale per sperimentare il dialogo tra linguaggi, tecniche costruttive e sedimentazioni storiche. Il progetto utilizza gran parte delle risorse presenti localmente: la giacitura dei muri, l’orientamento, il suolo, la terra, la vegetazione spontanea. Attraverso un intervento minimo, il nuovo manufatto viene accolto nel precedente volume senza tuttavia essere mimetico rispetto ad esso: la soglia tra i due orizzonti – storico e contemporaneo – è perfettamente leggibile nell’incontro dei materiali. Ciascun ambito esterno al costruito, sia esso un involucro, un passaggio, una siepe di confine, un giardino, uno spazio aperto con la funzione di filtro, diviene parte di un programma volto ad incrementare la presenza della vegetazione. L’orientamento,

l’articolazione in pianta e negli alzati, i materiali impiegati, l’esposizione diretta o la schermatura solare sono così fattori comuni alla progettazione dello spazio domestico e del paesaggio minimo. Una strategia percorribile può allora compiersi introducendo norme che incentivino la produzione dei paesaggi minimi, fornendo indicazioni progettuali e facilitazioni economiche per la loro realizzazione. Condizioni necessarie per la diffusione del paesaggio minimo sono una pianificazione attenta a riconoscerne i tempi lenti di formazione e riproduzione, un mercato immobiliare capace di conciliare ricerca di consenso e interesse economico con la qualità degli habitat urbani e una progettazione architettonica meno concentrata sugli involucri e più sui processi e le relazioni di interdipendenza con il contesto locale. Ciò non si verifica producendo azioni temporanee e oggetti architettonici simbolici, ma lavorando su qualità stabili e permanenti, prevalentemente immateriali e perciò non rappresentabili. All’interno di una tale prospettiva si colloca un’architettura come manufatto, la cui qualità dipende, prima che dalla forma o dalle proprietà dei materiali, dall’insieme di interrelazioni che stabilisce con l’intorno. Un’architettura prodotta da un fare progettuale che


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DAVIDE PAGLIARINI

non ricorre a mimetismi e che risulta inscindibile da una responsabilità etica. Un’architettura così concepita, oltre ad essere un’esperienza spaziale, un dispositivo sensoriale, un supporto alla pratica dell’attraversamento, diviene substrato. Una delle tesi sostenute con maggiore insistenza in questo lavoro può essere riassunta nella necessità di riaffermare il ruolo del progetto architettonico sul landscape design, respingendo la crisi che ha coinvolto l’architettura e il paesaggio e che ha portato a distruggere la prima per dissolverla in una estetizzazione dell’esperienza. Più che una forma, l’architettura è un’esperienza e in ciò si rivela irriducibile, ancora una volta, alla sua immagine bidimensionale.

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MATTEO COLLEONI *

DISPERSIONE DEGLI INSEDIAMENTI E MOBILITÀ TERRITORIALE

1. DISPERSIONE DEGLI INSEDIAMENTI Stiamo vivendo in una fase particolare della storia dell’umanità nella quale, per la prima volta, la popolazione urbana ha superato per dimensione quella rurale. Avviato nei Paesi ad elevato livello di sviluppo, questo fenomeno ha, col tempo, interessato anche quelli dei continenti asiatico e africano, che ospitano oggi le città più popolose del mondo. Il primato della popolazione urbana è l’esito dei processi migratori di lungo periodo, sia tra i continenti e gli stati sia, al loro interno, tra le aree rurali e urbane ed è la conseguenza delle profonde trasformazioni intercorse nella morfologia e nell’identità socio-territoriale delle società urbane. Abbiamo sempre vissuto, in particolare in Europa, in città dalla morfologia compatta e densamente costruita attorno ai centri storici, nelle quali l’urbanesimo era il tratto distintivo degli abitanti (Wirth, 1956) e l’identità delle popolazioni era fondata sull’appartenenza alle comunità locali delle relazioni di sangue, di parentela e di vicinato (Tönnies, 1963). Tre termini, utilizzati per la prima volta nella letteratura tematica anglosassone nei primi decenni del secolo passato, sintetizzavano bene i caratteri della città storica, size (misura), density (densità) e heterogeneity (eterogeneità). Oggi, come noto, essi non sono più adatti a differenziare la forma e l’identità delle società urbane rispetto a quelli delle popolazioni non urbane. La misura, in primo luogo, perché la recessione dei confini delle attuali città diffuse (boundless, sconfinate), nelle quali il peri-urbano è diventata l’area di localizzazione privilegiata degli insediamenti, non consente più di capire cosa sia numeroso o cosa no. Sappiamo che negli ultimi trent’anni quote crescenti di popolazione hanno spostato la loro residenza al di fuori delle città e che il fenomeno ha interessato non solo le metropoli ma anche le città * Università degli Studi Milano-Bicocca.

di dimensione medio-grande. Il fenomeno è particolarmente evidente nelle città francesi, dove la metà della popolazione totale vive nelle aree peri-urbane, ma comincia a diffondersi anche nelle città mediterranee, tradizionalmente connotate dalla maggiore compattezza e separazione tra città e campagna. La dispersione degli insediamenti abitati ha reso obsoleti i tradizionali limiti amministrativi delle aree comunali e, non consentendo di delimitare con precisione i confini abitati, ha reso sempre più difficile identificare la nuova morfologia e identità delle città contemporanee (vedi fig. 1). Le statistiche officiali mostrano che sono soprattutto le famiglie più giovani ad aver trasferito la loro residenza nei centri peri-urbani, alla ricerca di abitazioni più spaziose, economiche e, almeno nei desideri, di ambienti più confortevoli e sicuri. Non sappiamo se tali desideri siano diventati realtà, sappiamo però che essi sono stati alimentati da una congerie di fattori, di natura sia simbolica sia strutturale. Tra questi ultimi un ruolo fondamentale lo ha svolto il possesso dell’auto privata e, almeno fino a qualche decennio fa, il costo contenuto degli spostamenti. Il fenomeno ha avuto conseguenze talmente rilevanti che alcuni autori hanno identificato una fase intera dello sviluppo urbano, e il tipo di città che ne è conseguito, con l’espressione car happy cities (Martinotti, 1999, 2004). Città nelle quali il possesso dell’autovettura privata era non solo uno status symbol ma una condizione per fuggire dalle costrizioni e della cattiva qualità della vita urbana. Poco importa il fatto che la fuga dalla città abbia, per la maggioranza della popolazione, comportato il trasferimento delle residenze in aree peri-urbane piuttosto che rurali che, ai tradizionali limiti della vita urbana, aggiungevano quelli di vivere in contesti, spesso, privi di identità e distanti dai servizi. La dispersione degli insediamenti abitati al di là dei tradizionali confini amministrativi delle città ha avuto, in particolare, la


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Fig. 1. Variazione demografica (%). Area metropolitana milanese - 1991-2001. Fonte: elaborazione GisLab - Università di Milano Bicocca su dati Istat 1991-2001.

conseguenza di aumentare la superficie costruita. Le aree rurali sono state progressivamente sostituite dai nuovi insediamenti abitativi e, nel contempo, da quelli della nuova distribuzione produttiva e commerciale, assomigliando sempre più alle città, o meglio alle loro periferie. Alle periferie piuttosto che ai centri urbani perché rispetto a questi ultimi meno

forniti di servizi prossimi, differenziati e, soprattutto, di buona qualità. I dati forniti dai Censimenti delle unità produttive e dei servizi e i risultati delle indagini sono coerenti nel dire che la dispersione territoriale ha interessato soprattutto il comparto residenziale e della grande distribuzione commerciale piuttosto che quello dei servizi e, particolare, delle attività legate al leisure. Questi continuano a trovare privilegiata collocazione nei centri urbani, dove sono migliori le infrastrutture e i servizi di accesso e dove, soprattutto, è di maggior pregio il contesto ambientale (vedi fig. 2). Lo stesso comparto produttivo non sembra essere indifferente a questi elementi, continuando a privilegiare la localizzazione urbana centrale piuttosto che quella peri-urbana nella scelta delle sedi direzionali e di rappresentanza. L’espansione della superficie costruita ha avuto, quindi, la conseguenza di uniformare territori che rimangono, però, sostanzialmente disomogenei dal punto di vista della dotazione di servizi, infrastrutture e, più in generale di

Fig. 2. Localizzazione dei servizi per il tempo libero, lo sport, la cultura e degli spazi verdi a Milano - 2006. Fonte: elaborazione GisLab - Università di Milano Bicocca.


DISPERSIONE DEGLI INSEDIAMENTI E MOBILITÀ TERRITORIALE

risorse (le cosiddette opportunities di cui parlano Dijst et al., 2002). La separazione tra i luoghi in cui si vive e quelli in cui si lavora, si fanno acquisti e si trascorre il tempo libero ha avuto, tra le altre cose, la conseguenza di aumentare i tempi e le distanze degli spostamenti. L’incremento della mobilità, come noto, ha molteplici spiegazioni, tra questi però la dispersione degli insediamenti e la, conseguente, sempre minore densità residenziale rappresentano una motivazione preminente. A parte poche eccezioni, negli ultimi cinquant’anni nelle principali città europee la densità residenziale è diminuita in modo sensibile (vedi fig. 3), alterando la tradizionale distinzione tra la morfologia delle aree urbane e quella delle aree rurali. I processi di ibridazione, già presenti tra le popolazioni e i gruppi sociali, sembrano interessare anche le unità ecologiche; le città ospitano al loro interno luoghi e funzioni tipici delle aree naturali – orti urbani, parchi tematici e botteghe artigianali – mentre le campagne si urbanizzano, sia nella forma sia nello stile di vita di chi le abita.

Fig. 3 - Densità residenziale a metà degli anni ’50 e alla fine degli anni ’90 in alcune città europee. Fonte: Moland (JRC) and Kasanko et al., 2006.

Piuttosto che di smart growth (crescita intelligente) si dovrebbe parlare di sprawl growth (crescita sconfinata), laddove il termine sprawl viene adottato per sintetizzare una pluralità di forme di sviluppo urbano accomunate dalla tendenza alla dispersione degli insediamenti e alla ibridazione della loro morfologia territoriale e sociale. In realtà la dispersione degli insediamenti ha avuto tempi e ha assunto forme molto diversi nelle città dei Paesi occidentali, anche limitando il campo di osservazione alle sole città europee (European Commission, 2002).

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Nell’area metropolitana milanese, per esempio, essa è stata l’esito del processo, non programmato, di espansione demografica e territoriale delle città di dimensioni medio-piccole, piuttosto che il risultato della loro agglomerazione all’interno dei confini territoriali delle metropoli e delle città grandi e medie. Negli ultimi 20 anni metropoli come Milano, ma anche città medie come Brescia e Bergamo, hanno infatti perso e non guadagnato popolazione e hanno mantenuto pressoché invariati i loro confini territoriali e amministrativi. L’espansione demografica e territoriale ha invece interessato le città metropolitane di minori dimensioni poste lungo i principali assi di collegamento e di scambio, facendo assumere all’area metropolitana milanese la tipica forma lineare classificata nella letteratura tematica internazionale con l’espressione Linear Strip Development (Galster et al., 2001).

2. CONSEGUENZE DELLA DISPERSIONE DEGLI INSEDIAMENTI: ZONIZZAZIONE, BASSA DENSITÀ E MOBILITÀ Nonostante alcuni autori abbiano sottolineato gli aspetti positivi della dispersione, in particolare il minor costo delle abitazioni e dei servizi e la migliore qualità dell’ambiente, essa è soprattutto associata a quelli negativi (European Commission, 2006). Questi ultimi sono normalmente raggruppati in tre categorie di problemi, la progressiva zonizzazione socioterritoriale, la bassa densità demografica e l’elevata dipendenza dall’auto privata. La dispersione degli insediamenti ha avuto, in primo luogo, la conseguenza di ridurre la prossimità spaziale e sociale di popolazioni, attività e funzioni e, quindi, quella di aumentare la creazione di aree urbane al loro interno omogenee ma tra di loro sempre più differenziate (processo noto con il termine di zonizzazione). Sono poco numerose le ricerche sulla struttura delle società urbane contemporanee, tuttavia quelle disponibili mettono in evidenza che le città, in particolare quelle globali (Sassen, 2008), stanno sempre più diventando aree di concentrazione e di segregazione spaziale dei ceti sociali (Mingione, 1991; Hamnett, 2003; Préteceille, 2003; Pratschke, 2006). La diversità e la contiguità socio-territoriale, che sancivano la natura intrinsecamente mista e inclusiva della città storica, stanno quindi lasciando il posto alla creazione di aree urbane al loro interno sempre più differenziate per appartenenza sociale e per tipo di utilizzo e di attività svolte. La diminuzione del livello di densità demografi-


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Fig. 4. Densità demografica e consumo di energia a) e emissione di Co2 b), in alcune città mondiali. Fonte: Newmann P. e Kenworthy J., 1999.

ca è il secondo elemento negativo associato alla dispersione degli insediamenti. Come noto, uno dei principi fondativi degli insediamenti urbani è quello di agglomerazione, che si esplicita nel fatto che le città esistono poiché le popolazioni hanno sempre trovato più vantaggioso ed efficiente avere rapporti in modo spazialmente concentrato (Camagni, 1993). Nonostante questo principio trovi originaria applicazione in contesti urbani connotati dall’assenza di sistemi sviluppati di comunicazione e di trasporto, è innegabile il fatto che anche laddove essi esistano la dispersione degli insediamenti residenziali, produttivi e commerciali comporti un incremento dei costi, sia collettivi sia privati (Camagni, 2002; Ponti, 2007). Tra i primi particolare rilevanza hanno i costi ambientali, in termini di aumento di consumo di energia e di emissione di inquinanti nelle aree metropolitane caratterizzate da bassa densità demografica (vedi fig. 4). Il fatto che la maggioranza del consumo energetico derivi da risorse combustibili non rinnovabili e che il 90% dei consumi energetici da trasporto sia da attribuire alla mobilità stradale (Mo.Ve, 2007) richiede di dedicare attenzione al terzo problema associato alla dispersione degli insediamenti, la dipendenza dall’auto privata. La dipendenza dall’auto privata rinvia, come noto, a fattori culturali e strutturali, nella realtà, tra loro intrinsecamente connessi. Le sue origini rimandano al secondo dopoguerra quando il maggior reddito a disposizione delle famiglie e il prezzo, ancora, contenuto di autovetture e carburanti aumentarono

in modo consistente la domanda di auto private. Da allora la tendenza all’acquisto e all’uso dell’auto privata non si è più arrestato raggiungendo livelli sempre più elevati (con tassi di motorizzazione pari nel 2006 in Europa a 47 auto ogni 100 abitanti e a 67 e a 64, rispettivamente, a Roma e Milano). Nemmeno l’incremento dei costi di acquisto e di mantenimento dell’autovettura è stato sufficiente per disincentivarne l’uso, visto che in Italia dal 1991 al 2001 l’utilizzo dell’auto per motivi di lavoro e studio è aumentato, passando dal 48% al 59% (Istat, 2001), e dal 2000 al 2009 quello per motivi anche diversi dal lavoro e dallo studio è cresciuto dal 59% al 65% (Isfort, 2010). Il fatto è che l’aumento dell’uso dell’auto si inserisce all’interno del più generale incremento della mobilità. Nel nostro Paese nove persone su dieci si spostano ogni giorno per svolgere attività diverse, consumando il 6% circa del loro tempo giornaliero (che corrisponde a 1 ora e 20 minuti, con un incremento di ben 23 minuti rispetto al 1987, Colleoni, 2004, Istat, 2007). Rispetto al passato, solo le attività di leisure hanno visto un pari aumento di durata, a dimostrazione dei profondi cambiamenti intercorsi nella nostra società rispetto ai tempi in cui erano la stabilità e il lavoro i tratti distintivi dell’identità delle persone. Se l’incremento dell’uso dell’auto è, quindi, solo un aspetto dell’aumento generale della mobilità, è però vero che la sua dipendenza è l’elemento che più contribuisce a caratterizzarne il profilo in direzione dell’insostenibilità, non solo ambientale e eco-


DISPERSIONE DEGLI INSEDIAMENTI E MOBILITÀ TERRITORIALE

nomica ma anche sociale. I risultati delle ricerche realizzate nelle città europee sono conformi nel dire che non sono i centri metropolitani ma le aree periurbane ad essere più interessate dall’uso dell’auto privata (vedi fig. 5, Colleoni, 2009). Tempo medio spostam. (min.)

Lunghezza media spostamenti (km.)

Uso di auto (%)

Numero medio spostam.

Centrale

36

18

38

2,6

Semi-centrale

51

22

45

3,5

Sub-urbana

72

28

59

4,5

Barcellona

45

28

3,2

Bologna

52

40

3,7

Lione

59

51

3,7

Vienna

48

36

3,7

Tipo di area urbana

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ma la percentuale di spostamenti per motivi di lavoro e di studio in direzione di comuni diversi da quello di residenza è, infatti, aumentata passando dal 32% al 36% (Istat, 2001). L’aumento degli spostamenti intercomunali non si è verificato in modo casuale ma soprattutto lungo gli assi di collegamento delle aree caratterizzate da elevati interazioni di tipo funzionale. È il caso dei macro sistemi urbani dell’area padano-veneta, ma anche di quelli, per quanto più contenuti, delle aree che fanno riferimento a Roma, Napoli e alle principali metropoli del sud Italia (vedi fig. 6).

Fig. 5. Indicatori di mobilità in alcune città europee. Fonte: Colleoni 2009 su dati Mo.Ve.

Vivere nelle aree connotate da dispersione urbana porta, soprattutto, ad avere profili di mobilità più frammentari, ovvero caratterizzati dalla tendenza a ripetere più volte spostamenti di durata e di lunghezza, complessivamente, superiori (Hochschild, 1997). Studi più specifici dedicati al tema hanno inoltre messo in evidenza il fatto che la frammentarietà della mobilità è più elevata nei contesti urbani più poveri di servizi e di alternative nelle scelte modali (Orfeuil, 2002, Cass, N., Shove, E., Urry, J., 2005; Urry, 2007, Colleoni 2008). In queste aree la scelta di spostarsi con l’auto, anziché con i mezzi di trasporto pubblico o con le modalità lente (a piedi o in bicicletta), è spesso obbligata dall’impossibilità di raggiungere luoghi e servizi che, rispetto al passato, sono non solo più numerosi ma sono soprattutto più distanti gli uni dagli altri. Poiché la qualità della vita urbana non dipende tanto dalla numerosità dei servizi e degli spazi pubblici presenti ma dalla possibilità di potervi accedere (Nuvolati, 2002), la difficoltà o l’impossibilità di muoversi nei territori del peri-urbano con mezzi diversi dall’auto diventa sempre più un indicatore di inaccessibilità e di esclusione urbana e sociale. La dipendenza dall’auto non ha solo modificato gli stili di vita delle persone ma anche la morfologia delle aree urbane. La dispersione degli insediamenti e, di conseguenza, delle attività ha avuto l’esito di aumentare il livello di interconnessione tra i comuni, trasformandone gli spazi pubblici sempre più in spazi di transito. Nel 2001 rispetto a dieci anni pri-

Fig. 6. Flussi di mobilità per motivi di lavoro e studio in Italia (2001). Fonte: elaborazione GisLab - Università di Milano Bicocca su dati Istat 2001.

L’analisi dei flussi di mobilità mette in evidenza la presenza di estese meta-città, sistemi urbani lineari che, letteralmente, sono andati al di là della classica morfologia fisica della metropoli di prima generazione che ha dominato il XX secolo, al di là del controllo amministrativo tradizionale degli enti locali sul territorio e al di là del prevalente riferimento sociologico agli abitanti, con lo sviluppo delle metropoli di seconda e di terza generazione sempre più dipendenti dalle popolazioni non residenti (Martinotti, 1999). In conclusione, nonostante da diversi anni si dedichi attenzione alla priorità di gestire lo sviluppo


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delle città in modo sostenibile la realtà muove, in molti casi, nella direzione opposta della dispersione degli insediamenti. Per quanto essa non sia in sé sinonimo di insostenibilità, la carenza di strumenti di programmazione condivisi e integrati ha avuto spesso la conseguenza di trasformare le aree urbane estese in luoghi marginali. Dal punto di vista dell’assenza di servizi, della modesta qualità dell’ambiente urbano e della possibilità di accedere – in tempi e in modalità adeguati – ai luoghi urbani. Da dimensione residuale la mobilità è diventata un elemento centrale per conoscere la qualità di vita delle popolazioni urbane e ad essa occorre sempre più dedicare attenzione nelle politiche per lo sviluppo e la qualità urbana.

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SMART GROWTH E PARADIGMA DELLO SVILUPPO: AFFINITÀ E DIVERGENZE, TRA PRATICHE SOCIALI E TRASFORMAZIONI URBANE

1. SVILUPPO LOCALE E SMART GROWTH Il dibattito delle scienze territoriali è stato segnato, negli anni recenti, da un intenso ripensamento delle ipotesi neo-illuministe sull’irreversibilità dello sviluppo: in questo, come in altri campi del sapere, la crisi radicale delle grandi e contrapposte “narrazioni” dello sviluppo (non solo dell’utopia collettivista e dell’individualismo metodologico di stampo liberista, ma anche della teoria keynesiana e delle sue applicazioni alle politiche territoriali), la diffusione delle posizioni ecologiste e della consapevolezza dei “limiti dello sviluppo”, il manifestarsi di forme di sviluppo economico – distretti industriali, sistemi locali di produzione ecc. – non riconducibili agli schemi interpretativi dell’economia mainstream hanno indotto gli studiosi a dotarsi di chiavi di lettura diverse da quelle del passato e a costruire prospettive e strumenti di intervento innovativi. Su fortune e declino di un concetto – e di un insieme di pratiche – controverso come lo sviluppo locale abbondano i contributi scientifici provenienti da diverse tradizioni disciplinari: restando in ambito italiano, tra i molti lavori pubblicati segnaleremo l’articolo pionieristico di G. Dematteis su Sviluppo locale (1996), poi raccolto nel volume collettaneo Lezioni sullo sviluppo locale, curato da G. Becattini e F. Sforzi nel 2002, il Manifesto per lo sviluppo locale di A. Bonomi e G. De Rita (1998), il Progetto locale di A. Magnaghi (2000), il volume di C. Trigilia Sviluppo locale. Un progetto per l’Italia (2005) e, infine, Lo sviluppo locale al Nord e al Sud. Un confronto internazionale di E. Dansero, P. Giaccaria e F. Governa (2008). Il ridimensionamento, da parte delle scienze sociali e territoriali, dei principi interpretativi riconducibili alla “grande dimensione” – l’impresa fordista, le economie di scala, la regione nodale e astratta dell’economia spaziale – sembra riecheggiata anche * Università degli Studi di Torino.

nel campo della ricerca urbana, che riscopre, sulla scia della critica post-modernista della Carta di Atene, i concetti della piccola dimensione, della mescolanza funzionale e dello sviluppo comunitario. All’interno di questa “svolta” ci pare collocarsi il recente dibattito sulla smart growth, che, pur incorporando elementi salutari di critica al modello dissipativo della città diffusa, non è esente da vagheggiamenti regressivi, che riscoprono il gusto della critica alla metropoli tentacolare e adombrano, talvolta, ricette neocomunitarie non lontane dall’“occlusione” socio-spaziale dei sobborghi dello sprawl. In questo contributo cercheremo di tratteggiare alcune linee di fondo del cambiamento intervenuto nel paradigma dello sviluppo all’interno delle scienze sociali e territoriali, per concentrarci quindi sugli aspetti della smart growth che appaiono strettamente connessi con questa svolta culturale.

2. IL CORTOCIRCUITO TRA CAPITALISMO, CRESCITA E SVILUPPO

Nel corso dell’evo moderno, il sistema capitalistico europeo è stato al centro di un duplice processo di i) espansione geografica, che ha avuto il proprio epicentro in Europa e, in particolare, nelle economie mercantili del Rinascimento, si è poi gradualmente esteso al resto del globo, e di ii) progressiva razionalizzazione del sistema di relazioni geopolitiche, attraverso un’azione combinata di tipo mercantile, militare e culturale. È la storia dell’occidentalizzazione del mondo, dell’affermazione di un insieme di aspettative, stereotipi e (pre)giudizi culturali che hanno strutturato le relazioni tra i gruppi umani del “Primo Mondo” e quelli del resto del globo, e di cui l’espansione coloniale è stata una delle manifestazioni più crude e gravide di conseguenze. All’interno di questa intelaiatura di processi ma-


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teriali di appropriazione e di diffusione di valori culturali – che Stiglitz chiama “americanizzazione del mondo” – il concetto di sviluppo, e l’antinomico concetto di sotto-sviluppo, occupano un posto di rilievo e strutturano le molte visioni dualistiche che hanno “spiegato” e spiegano tuttora le relazioni tra il Nord e il Sud del Mondo. Per quanto si contrappongano spesso i modelli della crescita a quelli dello sviluppo, sottintendendo che i primi usano come criteri di misurazione indicatori di tipo quantitativo e considerano esclusivamente i fattori economici, mentre i secondi tengono in conto la dimensione multidimensionale dei processi, nel linguaggio comune tale distinzione tende a sfumare. Non mancano, beninteso, riflessioni approfondite sul concetto di sviluppo e sui modi per misurarlo, che hanno alimentato una pubblicistica recente che si focalizza sull’inadeguatezza degli strumenti di misurazione convenzionale dell’economia mainstream (il vituperato PIL). Cionondimeno, questo dibattito sofisticato ha inciso in modo assai ridotto sull’uso dei concetti all’interno del linguaggio dei policy makers, e tantomeno sul loro immaginario… Osservato nella sua parabola storica (Rist, 1997), il concetto di sviluppo si caratterizza, allora, come metafora “organica”, che trasferisce sul piano culturale, economico e sociale i meccanismi propri dei processi vitali degli organismi viventi. Lo sviluppo si caratterizza pertanto come un processo immanente, direzionale, cumulativo, irreversibile e volto a uno scopo, secondo strutture concettuali che affondano la propria origine nelle basi della razionalità occidentale. Gli assunti-chiave che sorreggono questa visione sono: 1) il controllo delle risorse naturali: l’uomo esercita un dominio assoluto sulla natura, come ci ricorda la Genesi; 2) il controllo della tecnologia e dei capitali: la riproduzione sociale dipende da un’accumulazione continua di saperi e di beni destinati a rendere il futuro migliore del passato. Il concetto di sviluppo ha attraversato la riflessione degli economisti sin dalla formulazione delle ipotesi marginalistiche di Walras, che definiscono l’equilibrio e la massimizzazione del benessere individuale come esito spontaneo e inevitabile del libero dispiegarsi delle forze di mercato, dimensione che viene esaltata dal liberismo della Scuola austriaca. D’altro canto, la risposta keynesiana non esce dai limiti concettuali imposti dall’equazione sviluppocrescita: le economie possono conoscere fasi di depressione “da equilibrio” quando i diversi fattori produttivi non sono usati per raggiungere configura-

zioni economiche di “ottimo”. Per ovviare a questo “disfunzionamento”, Keynes definisce le condizioni in cui è possibile assicurare, al contempo, crescita dei redditi e incremento dell’occupazione: l’intervento dello Stato, attraverso un sistema di welfare universalistico e altre forme di sostegno ai redditi, garantirà l’aumento dei consumi necessario a sostenere la produzione. Altre risposte più radicali alla dicotomia sviluppo-sottosviluppo vengono dallo “strutturalismo” della scuola latinoamericana (Prebisch, Cardoso, Furtado), dalle teorie della dominanza/dipendenza, dalle letture neomarxiste dell’interdipendenza tra economie avanzate ed economie arretrate (Baran, Sweezy) funzionale alle logiche di dominio del capitalismo mondiale (Preston, 1996). In anni più recenti, sui temi dello sviluppo si sono esercitate con particolare attenzione le discipline economiche e geografiche, sottolineando in prevalenza la dimensione nazionale e regionale dei divari di distribuzione della ricchezza e dei mezzi per ridurli. Questi studi, ampliatisi in modo progressivo a partire dagli anni quaranta dello scorso secolo soprattutto in ambito economico, appaiono pertanto interessati all’esame dei divari di ricchezza in una prospettiva analitica necessariamente aggregata (per una rassegna critica dell’evoluzione del concetto di sviluppo nella ricerca economica rinviamo a Cavallero, 2008). Nella sua formulazione più elementare, l’economia dello sviluppo adotta il reddito come “indice appropriato delle risorse di cui una persona necessita per vivere”, nel senso che dette risorse sono necessarie per acquistare beni e servizi essenziali alla sopravvivenza dell’individuo. Trasponendo questo ragionamento alla scala “nazionale”, l’ovvio corrispettivo dell’indice del reddito individuale come misuratore di ricchezza è il prodotto interno lordo (PIL), che costituisce l’indice dei beni e servizi forniti in una data economia in un dato arco di tempo, stimato sulla base di prezzi di mercato. Si tratta di una misura fortemente controversa, e nondimeno fortemente radicata nella riflessione sullo sviluppo, a partire dai lavori di Lewis (1954, cit. in Dasgupta, 2007), che hanno influenzato in modo indelebile l’economia dello sviluppo e che riflettono, è bene ricordarlo, una disposizione di fondo della cultura occidentale nei confronti del meccanismo dell’accumulazione di risorse in funzione di una crescita – indefinita? – delle capacità produttive e del reddito. Con tutta evidenza, però, il PIL è un indicatore impreciso. In primo luogo perché è una misura aggregata, che non tiene conto della distribuzione del reddito, spesso molto diseguale, come svariati esem-


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pi dimostrano1. In secondo luogo, quest’indicatore considera esclusivamente l’insieme di investimenti e consumi propri della società in un periodo dato, trascurando altri aspetti che paiono essenziali in un processo di sviluppo. Su di esso si è quindi da tempo concentrato un acceso dibattito, che ha coinvolto il mondo accademico come quello delle organizzazione internazionali, che è approdato a numerose proposte di ridefinizione del concetto di sviluppo e degli indicatori più adatti a rappresentarlo. A partire dall’Indice di Sviluppo Umano (HDI) elaborato dalle Nazioni Unite, per proseguire con le sue varianti come il Physical Quality of Life Index, si sono moltiplicati i tentativi di dare conto della multidimensionalità dello sviluppo, vale a dire degli aspetti non solo economici che lo caratterizzano, come la salute e il livello d’istruzione. In realtà, anche l’HDI non si discosta in modo sostanziale dalle misurazioni “economicistiche” dello sviluppo, giacché mantiene l’elemento determinante della misurazione reddituale – e non potrebbe essere diversamente – e inserisce elementi comunque riconducibili a parametri di valutazione propri dell’economia del benessere e, in ultima analisi, di un punto di vista “occidentale”. Come dice Latouche (2004), guru dell’altermondialismo, ci troviamo di fronte a una variazione sul tema che si situa comunque all’interno dell’immaginario economico occidentale, in cui i criteri di definizione della povertà si basano sul grado di soddisfacimento dei bisogni considerati essenziali dalle organizzazioni internazionali. Senza ricorrere a prospettive etiche di stampo radicale come quella di Latouche che, negando senso a qualsivoglia declinazione dello sviluppo, compreso quello locale, chiuderebbero ogni spazio ulteriore di riflessione2, dobbiamo tuttavia prendere atto che l’impostazione aggregata dell’economia dello sviluppo e i suoi riferimenti prevalenti alla scala regionale e nazionale nega alla discussione un elemento-chiave qual è, appunto, la dimensione locale. In effetti, come ci ricorda Dasgupta (2007, 283), “[c]oncentrarsi sui valori etici come correttivi per le carenze dell’economia dello sviluppo contemporanea è nel migliore dei casi autoindulgenza mascherata da sensibilità morale; nel peggiore dei casi un fraintendimento”. Serve piuttosto una consapevo-

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lezza diversa del ruolo giocato dalla dimensione locale nei problemi relativi al consumo delle risorse, del fatto che meccanismi di sfruttamento improprio delle proprietà dei sistemi locali innescano processi di irreversibilità che rendono ineluttabile il declino e l’impoverimento delle società locali. Dunque, anche in alcune branche dell’economia si ritiene necessario prendere in considerazione la dimensione locale nello studio dei processi di sviluppo e si elaborano concetti come ricchezza complessiva, che “include il valore sociale non solo del capitale manufatto, della conoscenza e delle capacità, ma anche dei beni ambientali” (Dasgupta, 2007, 275), notando come non necessariamente alla crescita del prodotto interno lordo e dell’indice di sviluppo umano corrisponda la crescita della ricchezza complessiva (è il caso dell’India negli ultimi trent’anni, giusto per fornire un esempio “controcorrente”). Il problema non consiste tanto, quindi, nel riconoscere che lo sviluppo non sempre porta con sé un aumento della ricchezza complessiva: se si è disposti a riconoscere la natura prevalentemente non lineare dei processi ecologici, allora va da sé che le teorie che sostengono che l’aumento di disponibilità di reddito determina un aumento della sensibilità ambientale sbagliano quando “esprimono la convinzione che i danni ambientali possono sempre essere riparati se e quando si è disposti a farlo”, poiché i “processi non lineari sono spesso irreversibili” (Dasgupta, 2007, 284). L’aspetto rilevante della questione è, piuttosto, provare a comprendere perché le ricette di politica economica propugnate dall’economia dello sviluppo non abbiano spesso avuto esito positivo; in ultima analisi, comprendere come i sistemi sociali – locali, aggiungeremo noi – reagiscano agli stimoli delle politiche.

3. LE CONDIZIONI PER LO SVILUPPO LOCALE La teoria dei sistemi locali territoriali (SLoT) cerca di rispondere a questa esigenza conoscitiva, misurandosi, appunto, sul piano del funzionamento delle diverse componenti di sistema (attori privati e collettivi, istituzioni, agenzie pubbliche operanti a

1 Si può osservare, en passant, che esiste comunque un conflitto tra aspettative di crescita del PIL e distribuzione della ricchezza: se si decide di attuare politiche redistributive a favore dei poveri, attraverso un prelievo più alto sui redditi dei ricchi, ciò influirà sulle capacità di investimento di questi ultimi e, in definitiva, sulla crescita economica; inoltre, la redistribuzione di ricchezza ad opera delle istituzioni pubbliche può avere effetti disincentivanti sulla propensione al lavoro, al rischio e all’investimento da parte delle fasce di popolazione assistite. Ma crescita e sviluppo sono facce della stessa medaglia? 2 Secondo Latouche, lo sviluppo si dispiegherebbe solo alla scala sovralocale, secondo logiche economiche a-spaziali, configurandosi come un processo deterritorializzato, che incrocia lo spazio solo per sfruttare le combinazioni di fattori più vantaggiose (crescita localizzata) e mettendo in concorrenza i territori tra loro in nome della competizione di prezzo.


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scale diverse ecc.) e su quello delle politiche (Dematteis e Governa, 2005). La confusione semantica tra “sviluppo” e “crescita” può essere evitata se ci collochiamo dal punto di vista della teoria dei sistemi locali territoriali, che individua un livello intermedio dell’azione nello spazio attraverso la “costruzione” di un attore collettivo che, in certe situazioni date, opera secondo un orientamento progettuale unitario sulla base di una dotazione di risorse immobili. Senza entrare nel merito del modello dello SLoT, possiamo individuare le caratteristiche specifiche dello sviluppo locale “per differenza” rispetto alle modalità tradizionali con cui le politiche regionali hanno perseguito gli obiettivi del riequilibrio territoriale. A una prima osservazione, di carattere molto generale, emergono almeno quattro aspetti caratterizzanti l’approccio tradizionale alle politiche di sviluppo regionale: esso è focalizzato sull’impresa, standardizzato, basato su un regime di incentivi e guidato dalla mano pubblica (Amin, 1999). L’impresa “fordista” – autosufficiente, ispirata a una razionalità ottimizzante ecc. – è considerata come un operatore opportunistico orientato a ottimizzare l’impiego dei fattori produttivi senza istituire legami complessi e non mercantili con l’ambiente circostante. Il sostegno alle economie regionali si muove quindi in una prospettiva indifferente alle specificità delle singole regioni, operando sul duplice binario delle politiche redistributive finalizzate a stimolare la domanda locale e dell’offerta di incentivi pubblici (esenzioni fiscali, aiuti diretti in conto capitale o interesse, interventi sulle infrastrutture). L’attore dominante di questo complesso di misure di sostegno è lo Stato, inteso soprattutto come governo centrale. Nell’Occidente industrializzato, questo approccio ha contraddistinto per una trentina d’anni l’operato dei governi nazionali, con esiti diversificati, ma, in generale, non risolutivi rispetto alla persistenza degli squilibri che si volevano combattere. La modestia dei risultati di queste politiche centralizzate e tecnocratiche ha stimolato riflessioni critiche sui fondamenti teorici di tali approcci, cui ha contribuito in misura determinante un ripensamento dei fondamenti dell’analisi dei processi economici e l’abbandono di logiche deterministiche nell’interpretazione dello sviluppo. L’esistenza di forme non previste di sviluppo “locale” – a partire dall’industrializzazione leggera dei distretti industriali italiani “scoperti” alla fine degli anni settanta – sfugge alle griglie interpretative consolidate di tipo storico-geografico, economico e sociale. Essa impone l’abbandono di spiegazioni uni-

voche, fondate su logiche interpretative generali, come l’approccio dualistico nell’interpretazione delle relazioni alla macroscala (per es. la dialettica lavoro-capitale e/o gli schemi rigidi centro-periferia) o, all’opposto, l’approccio dell’individualismo metodologico alla microscala, che osserva le dinamiche sociali come esito dell’azione dei singoli e dei loro sistemi di preferenze ed interessi. La varietà dei sentieri di sviluppo rivela la possibilità di rispondere in modo differenziato agli stimoli globali e consente di ipotizzare un livello locale attivo nei processi di sviluppo, intermedie tra il sistema e il soggetto singolo. La teoria economica ortodossa non riconosce l’esistenza di tali “enti”, al più utilizza la stessa categoria di “regione economica” come mera “somma dei soggetti che la compongono” (Dematteis, 1991). Il sistema locale territoriale risponde invece a questa esigenza, caratterizzandosi come un aggregato di soggetti che, a certe condizioni, si comporta come un attore collettivo; esso appare dotato di una propria identità distinta dall’“ambiente” e da altri sistemi, i soggetti operanti al suo interno sono consapevoli di farne parte (identità/appartenenza) e sono capaci di comportamenti collettivi autonomi (autonomia). Alla costruzione del paradigma dello sviluppo locale ha contribuito in modo determinante lala riscoperta dell’economia istituzionalista. Da quest’ultima deriva l’idea che l’economia è plasmata da forze collettive stabili, che la rendono un processo “istituito” e non un sistema meccanico basato sulle preferenze individuali. Le forze collettive sono, da un lato, le istituzioni formali – regole, leggi, organizzazioni – e, dall’altro, quelle informali, come le abitudini individuali, le routine di gruppo e i valori e le norme sociali (Amin, 1999). Sulla base di questi assunti, lo stimolo allo sviluppo economico è visto in una prospettiva nuova: – le politiche si concentrano sul rafforzamento delle reti associative e non sul singolo attore (Cooke e Morgan, 1998); – la finalità delle politiche è di promuovere la negoziazione e far emergere razionalità procedurali e adattive negli attori; – il processo di governance si fonda sulla mobilitazione di una pluralità di organizzazioni anche al di fuori degli attori di mercato e degli attori pubblici; – l’insieme di questi attori e organizzazioni costituiscono un’institutional thickness che garantisce la tenuta sociale dello sviluppo economico (Amin e Thrift, 1995); – le politiche devono essere forgiate sulle specificità contestuali e sensibili nei confronti delle path dependencies.


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Tornando al ruolo attivo della dimensione locale nei processi di sviluppo, quali sono allora i comportamenti possibili all’interno dei sistemi locali? Schematizzando, si possono distinguere due comportamenti “estremi” e un terzo alternativo ai precedenti: 1) da un lato il “non fare”, nel senso di evitare di entrare in connessione con i circuiti globali: lo sviluppo locale come alternativa “strategica” allo sviluppo economico tout-court, che persegue l’autosufficienza delle comunità locali come antidoto alla “colonizzazione” esterna (Magnaghi, 2000); 2) dall’altro, il “lasciar fare”, nel senso, opposto al precedente, di evitare qualunque strumento di regolazione: lo sviluppo locale come processo spontaneo nel quadro del laissez-faire, con esiti guidati da una razionalità implicita, da “ordine spontaneo” (la tesi neoliberista: consapevole della riduttività della citazione, mi limiterò qui a richiamare Hayek, 1948); 3) alternativa ai precedenti, l’auto-organizzazione dei sistemi, che consente a questi ultimi, sulla base di regole interne, di controllare selettivamente la propria apertura verso l’esterno, elaborando solo le informazioni provenienti dai circuiti globali che risultano conformi alla propria struttura interna. La terza via appare debitrice delle riflessioni sull’auto-poiesi nel campo della biologia cellulare, reinterpretata all’interno delle scienze territoriali da G. Dematteis. Questa dimensione auto-organizzativa che valorizza le potenzialità dei sistemi locali presenta alcuni tratti comuni con i principi ispiratori delle teorie della smart growth, di cui tratteremo nel paragrafo successivo.

4. SMART GROWTH: QUADRARE IL CERCHIO? L’approccio smart growth sembra rispondere all’esigenza di ricondurre l’azione del planning a modalità che consentano un maggior controllo democratico delle scelte e delle trasformazioni spaziali alla piccola scala. Esso incorpora dunque, per così dire, le conquiste di democrazia locale ottenute col diffondersi dell’advocacy planning e delle pratiche partecipative e valorizza, al contempo, le pratiche di trasformazione fisica degli spazi di vita. Dal punto di vista teorico, il movimento, nato negli USA negli anni novanta, presenta molti elementi di contatto con le teorie della sostenibilità, che vengono declinate all’interno di una visione utopica di comunità urbane vivibili caratterizzate da equità sociale. Quest’ultimo principio distingue in modo netto il movi-

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mento smart growth dai tradizionali approcci tecnocratici di gestione della crescita; d’altro canto, esso non sembra tenere esplicitamente in considerazione le esigenze delle generazioni future, ma si concentra sul processo di crescita, che deve essere indirizzato a obiettivi di diversificazione funzionale – contro la monofunzionalità dello zoning convenzionale –, di densificazione delle funzioni – contro la bassa densità della dispersione urbana – e di progettazione minuta degli spazi urbani – contro l’astrattezza diagrammatica della pianificazione tradizionale. Dopo un lungo e talvolta capzioso dibattito sulla presunta opposizione tra crescita e sviluppo, che ha impegnato analisti e operatori nel campo delle politiche pubbliche territoriali, la formula della smart growth sembra essere piombata come un provvidenziale deus ex machina per risollevare da angustie e sensi di colpa molti urbanisti politicamente impegnati del continente, lacerati tra moralismi di principio e disinvoltura nelle pratiche professionali. Anche in questo ambito, come in quello della ricerca filosofica, tuttavia, sembra rilevante sottolineare la distinzione tra un approccio analitico, eminentemente fondato sul rigore logico e immerso nella tradizione empirista della cultura anglosassone, e un approccio più “creativo” e affabulatorio che caratterizzerebbe le posizioni culturali dell’Europa continentale, più esposta alle correnti – tardive e indebolite, per la verità – del post-moderno. Per rimettere un po’ d’ordine nella questione vale forse la pena, allora, di ricondurre la teoria della smart growth al suo apparire in Europa, che si riallaccia a un innegabile ripensamento critico delle opzioni “sviluppiste” che erano proprie del neoconservatorismo degli anni ottanta. La teoria del trickling down della Thatcher e la sua applicazione sistematica ai programmi di rigenerazione urbana di quegli anni sembrano davvero antiquariato, anche se esse hanno influenzato in modo profondo il modo di pensare l’intervento pubblico in ambito territoriale, spingendo la cultura urbanistica europea di matrice riformista ad affrontare il tabù del mercato immobiliare urbano e delle sue esigenze secondo approcci meno ideologizzati che in passato. L’idea neoliberista, secondo la quale robuste iniezioni di mercato e di deregolazione avrebbero permesso alle inner areas urbane abbandonate dall’industria di risollevarsi dalla depressione economica e dall’apatia sociale, ha avuto larga applicazione nel contesto britannico e altrove, con risultati variabili a seconda dei contesti su cui, per mancanza di spazio, dovremo qui sorvolare. In ogni caso, dopo la caduta delle maggioranze conservatrici e l’avvento del New Labour di Tony


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Blair l’agenda territoriale britannica si orientava verso altre tematiche e altre scale geografiche di riferimento, privilegiando i temi dell’innovazione tecnologica, dell’economia della conoscenza e delle politiche regionali per l’attrazione degli investimenti esterni, attraverso una devolution costruita anche sul potenziamento delle agenzie regionali di sviluppo. Nella retorica istituzionale e governativa, il tema delle pratiche urbane perdeva così centralità rispetto al decennio precedente. Esso poteva dunque essere liberamente rielaborato da una cultura conservatrice in cerca di nuovi paradigmi, meno legati al tradizionale binomio law and order e più sensibili nei confronti delle suggestioni dell’ambientalismo. Dalla conversione “verde” di un neoconservatorismo intenzionato a tornare a contare nel panorama politico britannico deriva l’accoglimento dell’idea di una smart growth, che si regge su un equilibrato mix di concessioni alla cultura della conservazione ambientalista e di retaggio neoliberale, anche sulla scia delle suggestioni “passatiste” del principe di Galles: 1) preservare le aree non ancora toccate dall’espansione urbana; 2) superare la gabbia concettuale e la conseguente segregazione spaziale attribuite alla cultura dello zoning razionalista, privilegiando, invece, la multifunzionalità dei quartieri; 3) garantire un’elevata accessibilità alle aree interessate dai processi di urbanizzazione a bassa densità, per evitare effetti di marginalizzazione periferica dei nuovi insediamenti; 4) assicurare l’accesso alla proprietà immobiliare per la più vasta platea possibile di cittadini, secondo lo slogan “una nazione di proprietari” caro alla cultura liberal-conservatrice; 5) incentivare forme di habitat “diffuso”, come risposta liberale alle concentrazioni massive degli interventi di edilizia sociale delle amministrazioni laburiste (Quality of Life Policy Group, 2007). Questi principi trovano compendio nella più generale ideologia delle “comunità di villaggio” che si contrappongono al mito della “città compatta”, assunto non già come salutare risposta alla disordine della città diffusa, bensì come soluzione autoritaria e massificante che comprime le libere scelte di vita dell’individuo. Emerge qui con grande evidenza la parentela tra smart growth e new urbanism, corrente animata da planners e architetti statunitensi a partire dalla metà degli anni novanta, con l’obiettivo di espellere dalla società statunitense le tossine culturali che hanno prodotto il fenomeno dello sprawl urbano e l’immagine stessa dell’America suburbana, indissolubilmente legata all’uso dell’automobile privata.

I precetti del new urbanism prevedono (PaltekZyberk e Donnelly, 2010): 1) metropoli policentriche fondate su un insieme coerente di natura, aree coltivate e comunità gerarchicamente organizzate: villaggi e centri urbani di varia dimensione organizzati lungo gli assi di trasporto; 2) limitazioni severe all’invasione degli spazi aperti da parte di nuove costruzioni; 3) relazioni casa-lavoro garantite da una rete di trasporto efficiente; 4) forme di cooperazione regionale per armonizzare i processi di crescita; 5) comunità fondate su quartieri e distretti dotati di un’identità. Come si può facilmente notare, si tratta di indicazioni che assumono come pietra di paragone negativa i territori della dispersione insediativa, nati sulla base di un perverso intreccio tra aspirazioni neoborghesi alla casa in proprietà, ricorrenti pulsioni anti-urbane, interessi della rendita e vantaggi fiscali per le amministrazioni locali delle municipalità esterne.

5. CONCLUSIONI Mentre i dettami del new urbanism si sono diffusi con una certa rapidità e fortuna in ambito americano, spesso banalizzando la ricetta progettuale e producendo spazi neocomunitari altrettanto artificiali di quelli dei sobborghi o, all’opposto, dell’aborrita città compatta, in Europa la nuova moda ha faticato a manifestarsi, vuoi per ragioni legate alle specificità del mercato immobiliare, vuoi per la recenziorità dei processi di sprawl urbano, vuoi, infine, per il diverso profilo culturale dei gruppi sociali di riferimento. Semplificando in modo forse brutale, possiamo definire il new urbanism come il côté architettonico-urbanistico della smart growth, intesa come accettazione razionale della necessità della crescita e contro qualsivoglia utopia della decrescita, ma, al contempo, avendo ben chiari i vincoli del rispetto della finitezza delle risorse e delle esigenze della vita comunitaria. Non si può non cogliere in questi movimenti il convergere di due aspetti ideologici. Da un lato, il rifiuto del modello abitativo e dei comportamenti di consumo incarnati dai quartieri della dispersione suburbana: villetta unifamiliare di bassa qualità progettuale, dominio delle tecnologie securitarie e di comfort domestico garantito dai progressi della domotica, costosi spostamenti con l’automobile, shopping nei grandi centri commerciali delle cinture pe-


SMART GROWTH E PARADIGMA DELLO SVILUPPO

riurbane; dall’altro, la riscoperta della vita comunitaria urbana senza i guasti e le noie della grande dimensione: spazi pedonali, commercio di prossimità, scuole e lavoro in situ, immobili di gusto borghese talora un po’ rétro, condivisione delle scelte sulle attrezzature collettive, insomma, la traduzione architettonica della sindrome NIMBY. Qualcuno ha colto addirittura un’affinità con movimenti culturali sorti in altri ambito, come Slow Food, per esempio, che paiono espressione di un ripensamento borghese e colto dei modelli di consumo affermatisi con la società del benessere (Low, 2003). Osservando la situazione italiana, e in particolare quella delle aree suburbane della megalopoli padana, ammesso che la svolta della smart growth possa rappresentare un passaggio desiderabile per gli aspetti che prima si richiamavano, è difficile immaginare che i territori interessati dai processi di diffusione urbana possano, oggi, essere riconvertiti a meccanismi di crescita meno corrosivi, se non attraverso una costosa progressiva sostituzione edilizia, capace di garantire maggiori densità abitative, e un meccanismo di diversificazione funzionale che riscatti l’“effetto motel” di gran parte delle periferie suburbane.

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PAOLO BELLONI *

ALTO O BASSO? DENSO.

Alto e basso non possono essere messi in un confronto dicotomico nel quale gli uni appaiono alternativi agli altri. La congiunzione “o” è sicuramente impropria. Quali sono i termini di riferimento? Quando un edificio è alto? 3 piani, 10 piani, 30 piani? Quale è il dato numerico di riferimento? Potremmo partire da una considerazione: Gli edifici medi di tre o quattro piani ci mettono tutti d’accordo mentre quando iniziamo a parlare di edifici che si sviluppano in altezza si aprono più ampie discussioni. Il tema diventa decisamente più difficile. Costruendo in altezza il rischio di errore è decisamente più elevato, l’edificio perde il suo essere un tassello di un tessuto diffuso per assumere un maggiore valore iconico e di riferimento territoriale, diventa protagonista diventa attore principale in mezzo a molte comparse. Se l’attore protagonista “recita” male la sua presenza compromette la buona riuscita del film. Rispetto alla questione posta è quindi più interessante e più utile affrontare il tema degli edifici alti. Tale tema deve essere ricondotto nell’ambito di tre questioni principali: Dove? Perchè? Come? Possiamo pensare di escludere proprio il dato numerico, quantitativo che in prima battuta poteva sembrare il nodo principale della questione. Il tema della quantità è quello più comprensibile, quello più facilmente controllabile nel dibattito collettivo, quello più facilmente misurabile ma è anche quello più fuorviante. Se non vogliamo appiattire il discorso ad un ambito di pericolosa superficialità dobbiamo fare uno sforzo per evitare di guardare al quanto. Proverò ad affrontare questo tema attraverso un * Politecnico di Milano.

discorso di carattere generale con alcune incursioni nel contesto nostrano. Il tema del costruire in altezza non è certo una prerogativa della contemporaneità. Il tema si presenta in modo evidente all’inizio del ’900 quando negli Stati Uniti iniziano a realizzarsi i primi edifici in altezza. L’assenza di tessuti storici consolidati lascia spazio alle pulsioni di un tessuto economico in rapida espansione e di un mondo tecnologico e costruttivo, con l’impiego dell’acciaio e del cemento armato, che apre nuovi ed interessantissimi orizzonti costruttivi ed estetici, di esprimersi in modo più libero. In Europa il tema anima dibattiti decisamente più sofferti. A New York nel.1913 si realizzava il Wolworth Building di fatto il primo vero e proprio grattacielo di New York, sede della compagnia da cui prende il nome. Simbolo del potere economico di un gruppo produttivo. Nel 1915 un giovane architetto di 27 anni, Le Corbusier, scriveva un saggio sulle “Città Pilotis”, una città che esprimeva il suo desiderio di leggerezza e di autonomia rispetto al suolo ad un rapporto di dipendenza nell’ancoraggio a terra al quale la città era sempre stata condannata sin dalle sue origini. Questo saggio venne integrato cinque anni più tardi con il saggio sulle “Città Torri” (Disegno 1) nel quale Le Corbusier elogia i benefici igienico sanitari e la qualità dell’abitare negli edifici in altezza che liberano spazio al suolo per lasciare spazio ad ampie aree verdi. Nel 1929 si realizzava in soli nove mesi il Crysler Building e subito dopo l’Empire State Building. Sull’interesse del ’900 per il tema della verticalità appare significativa l’opera di Lionel Feininger, (fig. 1) tra i principali esponenti del Bauhaus noto per i suoi dipinti di cattedrali di luce. Nel dipinto “l’uomo in bianco” del 1906 esprime la preoccupazione di inizio ’900 relativamente a questi temi.


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Disegno 1.

Fig. 1.

Fig. 2.

Alto o basso, magro o grasso, verticale o orizzontale. In quest’opera questi parametri sono messi in relazione con la dimensione dell’uomo e con la posizione dell’osservatore. Sono relativizzati Tra il 1920 e l’inizio degli anni ’30 tutto quello che c’era da dire sulle costruzioni in altezza e che può essere oggetto di riflessione anche oggi era già stato detto. Oggi abbiamo però la possibilità di conoscere quali strategie hanno prodotto risultati interessanti e quali invece hanno clamorosamente fallito. Quali hanno prodotto ideologie al servizio della speculazione immobiliare e quali invece hanno prodotto una sperimentazione interessante su cosa voglia dire progettare la città moderna fornendo una risposta interessante ed intelligente alle nuove esigenze, economiche, sociali, produttive. Tra le argomentazioni di sostegno al costruire in altezza quella probabilmente più subdola perchè in grado di penetrare in modo più cinico nel pensare collettivo è quella per la quale costruire in altezza permette di liberare ampi spazi liberi a livello del suolo. Questa argomentazione produce immaginari interessanti con edifici immersi nel verde, sole, aria pulita e ampie aree verdi per il tempo libero. Queste argomentazioni vengono ancora ampiamente addotte con una significativa capacità di convinzione. Se pensiamo però ai punti più deboli della città contemporanea possiamo spesso identificarli nei luoghi caratterizzati dalla maggiore quantità di spazio verde e spazio libero, luoghi che difficilmente esprimono un idea di qualità del tessuto urbano. Non si tratta certo di un problema di disegno o di arredo urbano ma semmai un problema di una caduta di quel rapporto tra densità costruita e spazio libero, tra vuoto e pieno, tra multifunzionalità e vita collettiva sul quale si costruisce la vita della città. Nel caso del tessuto urbano della città di Bergamo, potremmo citare sicuramente Piazza della Repubblica e il Piazzale degli Alpini. “Costruzioni Alte, Medie o Basse?” a distanza di cent’anni siamo ancora qui a porci la stessa domanda a dimostrazione del fatto che, con uno sguardo a


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Fig. 3.

Fig. 4.

distanza le grandi trasformazioni nel mondo dell’abitare e del costruire la città sono molto più lente di quanto possa apparire. Tra le immagini più suggestive e note vi è sicuramente un disegno di Piero Portaluppi per Hellytown del 1926 (fig. 2) nel quale si avverte ancora la contemporaneità di una ricerca tipologica e formale che rimanda immediatamente al progetto delle Retaining Bars di Steven Holl o ad alcuni progetti successivi di Rem Koolhaas come quello per il Museu Plaza di Louisville, edificio di 60 piani (fig. 3). Chiara dimostrazione di come la città contemporanea stia affrontando, con minore idealismo le stesse sfide della modernità. L’edificio in altezza è nell’immaginario collettivo un edificio “oggetto” come nel caso del progetto di Jean Nouvel per Doha (fig. 4) in una riedizione della Torre Agbar di Barcellona o come nel caso della Absolute Tower di Toronto dello studio Mad (fig. 5) utilizzata come copertina di un recente numero monografico di una rivista dedicata al costruire in verticale (Area n. 98). Tra i vari progetti che hanno affrontato il tema del costruire in altezza mi sembra interessante però

concentrare l’attenzione su alcuni che affrontano il tema dell’edificio non tanto come oggetto architettonico prodotto da un virtuosismo costruttivo e compositivo ma quelli che esprimono una riflessione sull’idea di città e che si sono dimostrati sensibili alla consapevolezza che la “macro” scala dell’edificio non annulla la dimensione dell’uomo che è invece sempre la stessa. Sicuramente interessanti sono gli studi condotti da El Lissitzky (fig. 6) intorno alla metà degli anni venti. Propone una serie di “edifici a torre”, sospesi e da realizzarsi in alcune piazze della città di Mosca. Tra i più noti c’è sicuramente il progetto per la piazza Nikitski. Si tratta di edifici per uffici e servizi perchè l’abitare viene proposto in edifici a sviluppo orizzontale. Vediamo una città fatta di edifici bassi, relativamente viva, siamo negli anni venti, ma l’intuizione di Lissitzky sta proprio nel pensare che la modernizzazione di quella città avrebbe dovuto passare per un ulteriore addensamento di funzioni. C’è la possibilità tecnica di realizzare edifici in altezza ma questi non vengono pensati quali oggetti isolati nella periferia ma nel cuore della città, occasione per addensare funzioni.


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Fig. 5.

Fig. 6.

Un’operazione per certi versi analoga è quella condotta da Mies Van Der Rohe per il Seagram Bulding di New York del 1954 o per il Dominion Center di Toronto del 1963 (fig. 7). L’edificio più alto è di 56 Piani. Il progetto prevede l’integrazione della funzione principale, la sede centrale di una banca, con una serie di funzioni di servizio collettivo superando il concetto dell’edificio monofunzionale. L’ancoraggio a terra dei tre volumi determina le gerarchie di una piazza che funge da vero e proprio spazio pubblico, un luogo vissuto e vivibile nel quale la grande scala degli edifici non impedisce di pensa-

re alla piazza con la stessa attenzione al dettaglio, alla proporzione degli elementi e alla consapevolezza che quello spazio non può fare riferimento alla scala territoriale degli edifici ma alla scala umana dei cittadini che vivono quel luogo. L’altezza degli edifici è una condizionante del programma funzionale in un certo senso autonoma che non distoglie l’attenzione dalla scala che conduce ad una qualità del tessuto urbano. Mies Van Der Rohe progetta lo spazio a terra di quei grattacieli con la stessa attenzione con la quale progetto l’edificio ad un piano del Padiglione per l’expo di Barcellona del ’29 prototipo dell’abitare moderno. Il tema del dove è fondamentale. Gli edifici in altezza riescono facilmente ad essere metabolizzati nella grande città a scala metropolitana dove la complessità del tessuto urbano è tale da essere in grado di assorbire una molteplicità di episodi eterogenei e dove la presenza di episodi eterogenei costituisce la ragione stessa della vitalità della metropoli, la giustapposizione di episodi apparentemente contradditori costituisce la vitalità della città. Gli edifici in altezza nella metropoli lavorano sempre sul principio di alta densità. Manhattan, città simbolo delle costruzioni in altezza, è un’isola le cui attività principali sono storicamente concentrate nel downtown in adiacenza ai piers di approdo, il luogo di scambio delle merci. La città si sviluppa fornendo quindi una risposa alla grande richiesta di spazi in uno spazio limitato delimitato dall’inedificabilità dell’acqua. L’edificio in altezza è la naturale conseguenza di una condizione fisica della città. La presenza dell’acqua, luogo inedificabile, determina un addensamento della città. Un esercizio interessante, anche per evitare il devastante sprawl urbano che dissemina di edifici in modo indifferenziato il territorio devastandolo, potrebbe essere quello di considerare acqua tutto lo spazio non edificato esistente. La città si addenserebbe e sarebbe obbligata a rigenerarsi su se stessa. La disponibilità di aree libere costituisce il limite principale alla realizzazione di una città più definita, con un disegno più chiaro, più densa, più ricca, più interessante e viva. Quando la costruzione in altezza interessa città di minori dimensioni o aree nelle quali non c’è un vincolo di densità questa “tipologia costruttiva” mostra il peggio di se. Basti pensare alla differenza sostanziale che esiste tra gli edifici alti nel cuore di Milano e quelli sorti in tempi più ecenti nella prima periferia. Basti pensare alla differenza tra Manhattan e un’immagine della città di Huston (fig. 8). La scala del tessuto urbano è praticamente inesistente.


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Fig. 7.

L’unità di misura non è l’uomo ma l’infrastruttura. Tornando di nuovo ad uno sguardo locale anche noi abbiamo la nostra piccola Huston: Zingonia, una città nata nel nulla con il mito della modernità e degli edifici alti con grandi spazi liberi, un luogo alienante che è stato progressivamente abbandonato lasciando spazio alla disperazione e che non può trovare altra risposta che un incremento di densità. Da alcuni anni questo tema ha animato il dibattito cittadino. La città di Brescia, paragonabile per scala, contesto paesaggistico e culturale ha già affrontato in passato questo tema. Può quindi essere utile osservare da vicino cosa è successo in quella città. Brescia due (fig. 9), il polo direzionale della città, realizzato negli anni ’70 mette oggi in evidenza la debolezza di un modello nel quale gli spazi di relazione si fatto non esistono e dove è inesistente una qualità del tessuto urbano realmente vissuto. A parte qualche rarissima eccezione o qualche elemento di dettaglio abbiamo di fronte una importante porzione di città costituita da edifici di scarso interesse architettonico e spazi urbani inesistenti e nei quali è praticamente impossibile muoversi a piedi. La stessa città ha affrontato tale tema in tempi più recenti con un intervento per un nuovo polo direzionale in direzione est, ben visibile sia dalla tangenziale che dall’autostrada si apprezza una certa attenzione ad un’immagine di modernità, una certa attenzione al disegno del tessuto urbano ma in un luogo isolato, chiuso tra tangenziale e un’area urbana di bassissima densità. Il risultato è un deserto “in vendita”

Fig. 8.

(fig. 10). Più interessante sia sul piano architettonico che sul piano della relazione con il tessuto urbano appare l’intervento per un nuovo edificio per uffici firmato da Massimiliano Fuksas che, inserito in maggiore prossimità del tessuto urbano cerca la costruzione di uno spazio pubblico di relazione al piano terra. Anche in questo caso, un intervento di


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Fig. 9.

Fig. 10.

Fig. 11.

maggiore qualità architettonica, un’azione di densificazione a scala urbana, la presenza di un intorno decisamente più urbanizzato e la costruzione di uno spazio pubblico di dimensioni controllate sembrano essere ingredienti in grado di garantire una ricaduta di maggiore successo e qualità. A Bergamo nel novecento il tema del costruire in altezza è sempre stato messo in relazione con il rapporto prospettico e di scala con città alta. Il tema del controllo dell’altezza e la realizzazione di un tessuto caratterizzato da una certa omogeneità di scala è stato il nodo strategico del successo della trasformazione piacentiniana di città bassa. Guardiamo da vicino un immagine di città alta e scopriamo, oltre alle torri medievali del Gombito, del Campanone, di Adalberto per citare solo le più note, edifici di sei e sette piani (fig. 12), un’altezza superiore a quella di alcuni condomini al Monterosso e di molti altri edifici “alti “ presenti in città. Ancora una volta il tema sembra più essere quello della relazione con l’intorno che quello del dato quantitativo in senso stretto. Dando per scontato che il tema degli edifici in

altezza non possa interessare il centro storico, di fatto è possibile distinguere a Bergamo tre ambiti. Il primo ambito di riflessione è rappresentato dalla città interna al sistema delle circonvallazioni dove la città non abbia veramente bisogno di edifici alti e soprattutto che questi edifici alti non possano aggiungere qualità al tessuto urbano. In quest’ambito edifici di sei o sette piani dovrebbero già essere considerate eccezioni rispetto ad una media di edifici di quattro piani che sembrano oggettivamente più adeguati sia per la scala della città che per una maggiore facilità di controllo potendo dei parametri compositivi. Il centro cittadino è costituito come conosciamo da edifici di altezza contenuta intorno ai quattro piani che restituiscono la scala di una città mittleeuropea (fig. 11). Non a caso già nel 1947 la realizzazione dell’edificio “grattacielo” Rinaldi alimenta un importante dibattito sul costruire in altezza. Stiamo parlando di un edificio di sette piani. Anche l’edificio progettato da Vito Sonzogni in via Madonna della Neve si inserisce alla fine degli anni cin-


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Fig. 13.

Fig. 12.

Fig. 14.

quanta in questo dibattito che ciclicamente si ripresenta. In questo caso la proposta è stata quella di un edificio con un doppio ordine che sulle teste del corpo di fabbrica falsa la scala. Le realizzazioni degli anni 60 e 70 che si sono proposte di “sollevare la testa” confermano oggi una certa debolezza sia architettonica che urbana nei confronti della scala degli edifici del centro cittadino a dimostrazione di quanto l’altezza non sia un parametro sufficiente per dotare un edificio di maggiore forza espressiva. Alcune realizzazioni contemporanee come i recenti interventi a Vienna degli architetti Baumshlager e Eberle, o a Copenhagen, Londra, o Praga (fig.14) o il progetto di Hans Kolhoff per 128 appartamenti a Berlino (fig. 13) restituiscono una scala del progetto ed un concetto di abitare moderno e di qualità che sembra mantenere ancora oggi una significativa credibilità alla scala del tessuto cittadino coerente con un concetto di abitare “europeo”. Il secondo ambito di riflessione è rappresentato dall’area di Porta Sud. Un’area che pre-

senta enormi potenzialità per pensare ad un modello di città che potrebbe ospitare edifici in altezza. In quest’ambito però si inserisce un’argomentazione che precede quella più strettamente espressiva e riguarda l’individuazione di un processo di trasformazione che sia adeguato alla scala urbana ed economica della nostra città. Quest’ambito è stato recente terreno di dibattito sul tema delle costruzioni in altezza in occasione del concorso per il Palazzo della Provincia che introduce il tema degli edifici “eccezionali” che per la funzione che ospitano e per il loro valore Istituzionale possono assumere il ruolo di edifici simbolo, edifici attorno ai quali si può costruire un valore di identità della città. Non vi è dubbio che in questi casi l’opera deve essere attenzione di una particolare ed elevatissima qualità architettonica e costruttiva. In quest’ambito, analogo per certi versi al contesto nel quale Cino Zucchi sta realizzando un importante intervento per la città di Helsinki con la presenza di alcune torri per uffici, la costruzione in altezza potrebbe quindi non essere esclusa a priori. Il concorso per il nuovo Palazzo


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della Provincia sembra aver messo in evidenza un altro tema fondamentale che riguarda il concetto di effettiva necessità. Quanti metri quadrati di uffici servono per quella funzione? Quali risorse economiche possono essere messe a disposizione? La risposta a queste domande definisce la reale “misura” dell’altezza e della dimensione di quell’edificio per evitare che si trasformi in una poco credibile e semplicistica azione di ostentazione del potere non supportata da effettive necessità. Il progetto vincitore, lavorando in riduzione rispetto all’altezza massima prevista e proponendo un principio di maggiore densità della massa e delle funzioni sembra aver lavorato proprio in quest’ottica. Il terzo ambito di osservazione riguarda invece le aree di espansione oltre la circonvallazione e l’autostrada dove la costruzione in altezza potrebbe apparentemente trovare una maggiore giustificazione. In questi ambiti ogni considerazione deve essere pragmaticamente citata nella realizzabilità delle situazioni avendo sempre ben presente la scarsissima qualità urbana e costruttiva che caratterizza le aree di prima periferia di ogni città dove, progetti dotati sulla carta di particolari e compiacenti visioni di modernità hanno invece prodotto risultati che la città di Bergamo si può tranquillamente risparmiare. Si tratta infatti di aree di minor valore commerciale, di minore interesse urbano, di minore atrattività abitativa nelle quali sono assenti i presupposti per costruire edifici in altezza con i necessari standard economici in grado di garantire la necessaria qualità tecnica e costruttiva e di disegno dello spazio pubblico. Un edificio in altezza diventa interessante quando è espressione di una ricerca tecnologica d’avanguardia e diventa un oggetto critico quando è banalizzato dall’utilizzo di materiali e tecniche costruttive standardizzate o prive di una specifica ricerca progettuale. Si possono ipotizzare progetti che affrontino il tema dell’altezza e dell’alta densità come modello per una nuova porzione di città ma il rischio di costruire enormi “comparse” prive di interesse urbano, architettonico e costruttivo è molto elevato come dimostra quanto avvenuto nella quasi totalità delle periferie delle grandi e piccole città. Il tema dei “grattacieli nel

verde” è stata una delle filosofie promosse dal Comune di Milano che prevedeva grandi densità abitative in ampi spazi verdi. L’immagine che ne esce è quella di creare edifici per abitare e parchi per passeggiare il fine settimana ma di fatto senza realizzare un vero e proprio tessuto urbano almeno nel senso di ciò che in Europa si intende per tessuto urbano dove le strade le piazze, i giardini, gli edifici, le attività commerciali, gli edifici di servizio gli edifici amministrativi, gli spazi culturali, le scuole....costituiscono un unicum che vive proprio grazie alla complessità e all’addensamento delle funzioni. L’alternativa non è certo la dispersione a tappeto di edifici mono o bifamiliari su due livelli che sono altrettanto devastanti sia in tema di qualità dell’abitare sia in tema di inutile consumo di suolo. Anche in questi ambiti si possono forse più credibilmente ipotizzare sperimentazioni progettuali che si concentrino maggiormente sulla qualità del tessuto urbano e sulla qualità degli spazi di relazione piuttosto che demandare tale responsabilità alla carica iconica di edifici in altezza. Solo successivamente a tale operazione l’edificio in altezza potrebbe trovare una suo maggiore radicamento al contesto. La realizzazione di un edificio residenziale in altezza rappresenta progettualmente un tema assai difficile e problematico. L’edificio in altezza richiede una flessibilità nel trattamento della composizione, nel trattamento della pelle, del salto di scala nei vari “ordini” che la serialità dell’edificio residenziale rende decisamente più difficile. Si potrebbe dire che in un certo senso una città gli edifici in altezza se li debba meritare, conquistare, dimostrando di saper produrre un’architettura di qualità. In troppi casi abbiamo dimostrazione di una significativa difficoltà a produrre architettura di qualità in costruzioni di modesta dimensione, appare quindi decisamente rischioso mettere in uno strumento di pianificazione un fattore numerico che autorizzi a realizzare edifici di dieci o dodici piani senza introdurre i necessari strumenti di garanzia sulla qualità del costruito e su un concept urbano che funzioni. Costruire in altezza richiede una “maturità” progettuale e imprenditoriale che è tutt’altro che diffusa e scontata.


ANDREA GRITTI *

EDIFICI ALTI O EDIFICI BASSI?

La formula interrogativa che oppone edifici alti ad edifici bassi, impone in primo luogo una valutazione: si tratta di un vero o di un falso problema? A prima vista la coppia alto/basso non sembra produrre una dialettica in grado di sviluppare concetti utili all’architettura o ad altre arti. Discutere di “altezze” e “bassezze” appare meno stimolante che misurarsi con le celebri coppie di Heinrich Wolfflinn: lineare/pittorico, rappresentazione in piano/rappresentazione in profondità, forma chiusa/forma aperta, molteplicità/unità, chiarezza assoluta/chiarezza relativa. L’opposizione alto/basso (come del resto grande/piccolo, lungo/corto, largo/stretto, lento/veloce, caldo/freddo) sembra essere infeconda e incapace di sfuggire ai riferimenti circolari indotti dalla relazione diretta con le grandezze fisiche fondamentali grazie alle quali misuriamo le proprietà dello spazio e del tempo. Possiamo quindi liquidare la questione alla stregua di un falso problema, di una domanda mal posta? Non proprio. Non si può negare infatti che la coppia alto/basso esprima (forse rozzamante, ma efficacemente) un’alternativa tra verticale e orizzontale, tra terra e cielo che pare connaturata alla radice geometrica dell’architettura e alla sua forma originaria. Proprio a questa opposizione Christian NorbergSchulz assegnava un ruolo fondamentale (estetico / psicologico/ antropologico) nella trattazione delle ragioni fondamentali dello spazio architettonico. Per sfuggire all’oscillazione pendolare tra verità e falsità del problema dovremo riferirci più direttamente all’uso che di questi due termini e dei loro derivati si è fatto nel dibattito disciplinare. Nelle discussioni sull’architettura e sulla città si ritrova periodicamente l’opposizione tra modelli di “città verticale” e di “città orizzontale”. * Politecnico di Milano.

Tra i molti manifesti scritti in proposito, non v’è dubbio che quelli più accorati e affascinanti siano stati scritti a favore del costruire in altezza. Per sciogliere l’enigma iniziale ci avvarremo quindi di due trattazioni: la conferenza di Walter Gropius “Case alte, case medie o case basse?” tenuta al III congresso internazionale per l’edilizia di Bruxelles ( 27-29 novembre 1930) e il libro di Rem Koolhaas, “Delirious New York - un Manifesto retroattivo per Manhattan”, pubblicato nel 1978. Il contributo di Gropius passa attraverso un ripensamento del problema. Nella sua celebre conferenza il dilemma (alto, medio o basso?) si riformula nel modo seguente: “qual è l’altezza più razionale dal punto di vista urbanistico degli edifici per gruppi di appartamenti a basso costo?”. L’interrogativo può essere espresso nel seguente modo: Hu = f di K min x ab max ( dove Hu, l’altezza urbanistica, è funzione di K min, il costo minimo, per ab max, il numero di abitanti massimo). Così tradotto l’interrogativo iniziale esprime un problema per l’architettura e per la città che continua ad essere degno di risposta. A sostegno dell’attualità di quel famoso intervento va detto che la formula gropiusiana ricorda il “problema fondamentale dell’architettura” recentemente espresso da Elemental e relativo alla costruzione ogni 7 giorni per i prossimi 20 anni di abitazioni in grado di alloggiare 1.000.000 di persone a settimana al costo unitario di 10.000 $ per ogni alloggio familiare, altrimenti espresso nel modo seguente X = (1.000.000ab x 7g x 20a)/(10.000$ x f). In questa prospettiva la lezione di Gropius rimane emblematica perché ci invita a “porre bene i problemi”, formulando correttamente le domande ancor prima di produrre risposte e prendere partito. “Delirious New York” è al contrario un atto di fede.


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ANDREA GRITTI

Apparentemente il libro parla di Manhattan e del manhattanismo (la teoria implicita nella costruzione di Manhattan) ma in realtà si esprime su ogni programma che si prefigga di “vivere in un mondo interamente fabbricato dall’uomo”. Per Koolhaas questo mondo non può che essere verticale. È facile dimostrare che il testo di Koolhaas non si riferisce a New York nello specifico ma alla metropoli contemporanea in generale. È sufficiente sostituire alla parola “Manhattan” l’espressione “Città Verticale” e alla parola “manhattanismo” l’espressione “teoria della città verticale”. Per esprimere il suo programma l’autore si avvale di 4 parole chiave: estasi, densità, crisi, isolati. Evidenziati fin dall’introduzione questi termini possono essere usati come guida per alcune considerazioni sul tema del costruire in altezza. Secondo Koolhaas “la Città Verticale (Manhattan nel testo) ha costantemente ispirato ai propri spettatori un’estasi per l’architettura” Nella Città Verticale l’estasi comincia dal basso, quando gli abitanti sono invitati a scrutare il cielo inerpicando lo sguardo sulle pareti vertiginose dei grattacieli, ma il suo momento culminante si produce nella visione dall’alto, quella che domina la foresta pietrificata e che scioglie il labirinto urbano. L’estasi causata dalla vertigine architettonica è così potente che nemmeno i fautori della città orizzontale hanno rinunciato a contrappuntare il paesaggio planare delle loro visioni con alcune fondamentali emergenze. Nella città orizzontale di Pagano spicca la lama verticale della Casa-albergo e nella Broadacre di Wright campeggiano i prototipi della Price Tower e del grattacielo alto un miglio. Il punto di partenza di questo atto di fede sul costruire in altezza pare essere dunque un principio estetico. Ma il teorico della Città Verticale non può essere un ingenuo e deve usare l’estasi architettonica come cavallo di troia per conseguire obiettivi ben più importanti. Koolhaas ci ricorda che “la teoria della Città Verticale (manhattanismo nel testo) è la sola ideologia urbanistica che si sia alimentata degli splendori e delle miserie della condizione metropolitana – l’iper densità – senza mai perdere la fiducia in essa quale fondamento per un’auspicabile cultura moderna”. Pertanto appare inevitabile considerare “l’architettura della Città Verticale (Manhattan nel testo) “ come “un paradigma per lo sfruttamento della congestione”. Da estetico il principio diventa economico.

Inutile trattare di orizzontalità e verticalità dei modelli urbani senza riflettere sul tema della rendita. Secondo Koolhaas la teoria della iper-densità si fonda sui valori di scambio assegnati alla massa sia costruita che umana, e alla superficie urbana (ID= m2 x Su). I risultati conseguibili attraverso l’applicazioni di principi economici che massimizzino la rendita urbana sono vertiginosi. Koolhaas riconosce in Raymond Hood, uno degli architetti del Rockefeller Center, il primo teorico della densità applicata la modello urbano verticale. In 4 anni dal 1927 al 1931 Hood definisce la sua personale teoria come in una partita a scacchi vinta in tre sole mosse. La prima mossa è rappresentata dal progetto del 1927, “una città di torri”, secondo il quale lo sviluppo in altezza è destinato al successo in virtù della quantità di suolo liberato a favore della circolazione. La seconda mossa è rappresentata dal progetto del 1931, “una città sotto un unico tetto”, secondo il quale il maggior spazio per la circolazione è garanzia della possibilità di operare un reale mix funzionale tra funzioni residenziali, terziarie e produttive nei grandi complessi sviluppati in altezza. La terza mossa è fulmineamente prodotta nello stesso 1931 con il progetto “Manhattan 1950” e rappresenta una straordinaria intuizione che contiene in nuce le successive riflessioni sul salto di scala delle metropoli contemporanee e sulla stessa “bigness”, concetto tanto caro a Koolhaas. Le tre mosse di Hood sono destinate al successo nella prospettiva di una crescita senza fine, capace di dispiegare le vele del progresso. Ma cosa succede se alcune variabili non sono ricomprese nella contabilità generale? Cosa accade quando è il modello della città verticale a subire scacco dalla crescita? Koolhaas non ha dubbi in proposito: “la città verticale (Manhattan nel testo) è la capitale della crisi perpetua”. Il suo paradossale stato critico le permette di sperimentare forme di autoconservazione particolarmente evolute e sofisticate. Si danno almeno due modi di essere della crisi: antropica e ambientale. Nel primo caso prevale la responsabilità umana, nel secondo i fattori naturali. La crisi antropica ha dimensioni culturali (nel qual caso vanno in crisi i modelli di sviluppo) o geopolitiche (nel qual caso la città si misura con guerre o atti di terrorismo). Rispetto ad entrambe queste dimensioni la città verticale è esposta in prima linea.


EDIFICI ALTI O EDIFICI BASSI?

Ciò la rende il teatro ideale di un’epica (e di una retorica) urbana in continuo rinnovamento, come dimostra in forma emblematica il concorso per la ricostruzione delle torri gemelle. Al contrario le crisi ambientali fanno quasi sempre i conti con catastrofi naturali (terremoti, inondazioni, uragani) che minano alle fondamenta i convincimenti più radicati sull’architettura, sul progetto, sulla città. Per questo il ricominciamento urbano dopo una catastrofe parte dal basso e si fonda sull’esclusione senza appello del modello verticale. Forse perché il confronto tra le energie in gioco (quella per costruire in altezza e quella della catastrofe) è incommensurabile? O semplicemente per il fatto di essere stati ricollocati al “grado zero”? È un peccato che il punto di vista di Koolhaas sulla crisi perpetua della città verticale prescinda da fatti concreti e si limiti ad essere espresso in forma squisitamente letteraria. Dopo i recenti atti di terrorismo planetario, gli uragani, le inondazioni, i terremoti appare urgente un’esplorazione non superficiale dello stato perennemente critico di questo modello urbano, qualcosa che provi a misurarsi concretamente con i peggiori incubi della letteratura d’avanguardia (come nel “condominio” o nel “mondo sommerso”di Ballard) o della cinematografia hollywoodiana catastrofista (come nei “the day after” in salsa nucleare o climatica). Tutto ciò senza perdere quella distanza dalle cose che consente ad Elemental ed Alejandro Aravena di dedicarsi fattivamente alla ricostruzione dopo una catastrofe naturale senza mancare l’appunta-

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mento con la costruzione di mirabili torri (quando richiesto). L’ultima parola chiave di Koolhaas ci permette di ampliare la riflessione intorno a un tema squisitamente architettonico: la distanza tra le cose. Koolhaas afferma che “la griglia della Città Verticale (Manhattan nel testo) è una sequenza di (episodi) isolati la cui vicinanza e il cui accostamento ne rafforzano i significati individuali”. Se per la maggior parte dei casi il grattacielo è un “monumento solitario e isolato” (Maldonado) ciò non toglie che esso sia ad ogni modo chiamato a fare parte di una pluralità (o coralità) che lo subisce o lo esalta. Per questo motivo il progetto degli edifici alti non dovrebbe prescindere da una “scienza delle distanze architettoniche”. Nelle discipline antropologiche la prossemica è la disciplina che studia lo spazio e le distanze all’interno di una comunicazione, sia verbale che non verbale. Alla prossemica in architettura si è dedicato U. Eco in alcune pagine della Struttura Assente (1968). Eco parla della prossemica come quarta dimensione dell’architettura in senso antropologico-culturale. Una dimensione anomala “che per il fatto di non essere stata sufficientemente misurata non per questo è meno misurabile”. Secondo Eco sono decisive le questioni che “l’indagine prossemica pone all’architettura: qual è il massimo, il minimo o la quota ideale di densità per un gruppo rurale, urbano, o in transizione in una data cultura? Quali differenti “biotopi” esistono in


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una cultura multirazziale? Quale può essere la funzione terapeutica dello spazio per sanare tensioni sociali e mancate integrazioni tra gruppi? “. La prossemica indaga le manifestazioni microculturali dello spazio, dividendole in configurazioni fisse (abitualmente codificate), semi-fisse (relative alla concezione dello spazio: interno/esterno, pubblico/privato, centrifugo/centripeto) e informali (codificate inconsciamente). Le configurazioni informali sono quelle maggiormente interessate da una variazione della distanza: intima, personale, sociale e pubblica. Lo sviluppo in verticale dell’architettura pone rilevanti questioni di configurazione spaziale. Queste inevitabilmente si trasformano in questioni prossemiche, codificate inconsciamente e pertanto solo indirettamente utilizzabili nell’espressione di un giudizio. Forse per questa ragione i dibattiti contemporanei intorno all’altezza degli edifici sembrano tanto controversi e appassionanti. Edifici alti e bassi vengono percepiti (e descritti) come individui, più o meno, appartenenti a una coralità (architettonico, urbana e ambientale) cui si vorrebbero trasferire logiche e dinamiche (ovviamente di gruppo) disinvoltamente mutuate da altri statuti disciplinari. Ne scaturiscono pseudo-teorie sull’altezza conforme delle architetture e delle città che sembrano prescindere dal fondamentale atto di misurare. Quando invece si va alla “ricerca di rapporti tra grandezze omogenee” con lo scopo di accrescere le proprie conoscenze non è difficile evitare distorsioni.

Basta scegliere correttamente l’oggetto da misurare. Nel caso specifico è sufficiente dedicarsi allo spazio-tra-le-cose (misurando “distanze”) piuttosto che alla cosa-in-sé (misurando “altezze”). Questo semplice cambio di prospettiva non preclude alcuna possibilità progettuale, per il semplice fatto che ogni oggetto architettonico è posto in relazione con gli altri. In questo modo il tema dell’altezza degli edifici si stempera, tornando ad essere mera espressione di una delle tante qualità di un’architettura e di una città: utile tanto per “pensarle” quanto per “classificarle”. Aiutati da Gropius, Koolhaas, Eco (e Perec) siamo quindi sfuggiti all’interrogativo iniziale? Ci siamo veramente sbarazzati dell’ambiguità da cui eravamo partiti? Mettiamoci alla prova. Recentemente Fulvio Irace e Federico Ferrari hanno curato nella sezione “Itinerari di Architettura Milanese” dell’Ordine Architetti di Milano il percorso “Milano Alta”: una bella e selezionata rassegna dedicata a “torri” e “grattacieli” divenuti “paradigma risolutivo del dibattito tra storia e modernità”. Parrebbe urgente formulare un analogo itinerario nella città di Bergamo dove il potenziale della città turrita sembra essere stato confinato dentro le mura senza una seconda possibilità e dove sono assai ridotti gli esempi di edifici alti nella piana. A condizione di ribattezzare l’itinerario: “Bergamo Alta” sarebbe un titolo fuorviante se non addirittura ricorsivo. E con ciò saremmo daccapo.


MARIA CLAUDIA PERETTI *

OSSERVARE I PAESAGGI PICCOLA ANTOLOGIA DI SGUARDI SIGNIFICATIVI

Viandante sul mare di nebbia1 è il titolo di un’opera di Caspar Friedrich, “sublime“ pittore tedesco vissuto tra la fine del ’700 e la prima metà dell’800, a cavallo tra l’età dei lumi e quella del sentimento. Dalla cima di una roccia, un uomo visto di spalle osserva lo spettacolo che ha dinnanzi, profondo nello spazio e nel tempo, montagne, cielo, orizzonti lontani: è una natura coperta di nebbia, che non si “svela” ad uno sguardo superficiale, che esige interpretazioni, pensiero, ricerca. Rispetto alla visione antropocentrica dell’umanesimo classico il viandante ha già percorso un lungo cammino verso la consapevolezza della relatività della nostra specie: il mondo non è più fatto di forme certe e geometrie misurabili, l’uomo è piccolo nell’universo, ma tuttavia conserva una posizione centrale in quanto osservatore, cosciente di essere l’unico tra gli esseri viventi a poter scegliere un senso, seppur parziale e mutevole, da attribuire a quello che sta guardando. Dalla nebbia lo sguardo del viandante “estrae”significati, simboli e icone. L’opera di Friedrich condensa, come solo la grande arte sa fare, il senso del “paesaggio” che è tutto contenuto nel rapporto tra un ambiente e uno sguardo cosciente che osserva, giudica, capisce, si emoziona e attribuisce valori. Soltanto in presenza di questo sguardo il territorio diventa un’entità comunicante, diventa “paesaggio”. Il viandante di Friedrich cammina nei territori e ci racconta del viaggio come esperienza di conoscenza del mondo e delle sue differenze, come scuola di vita e di apprendimento per esercitare, attraverso l’osservazione, l’attitudine critica che sta alla base di ogni pensiero consapevole. Il viaggio è ricerca, scoperta, contemplazione: dopo molto andare lo sguardo del viandante si perde estasiato nella luce del cielo, inseguendo orizzonti lontani dove si stagliano nuove idee di bellezza.

1. STEREOTIPI E LUOGHI COMUNI Al percorso conoscitivo del viandante ottocentesco l’epoca contemporanea contrappone l’esperienza del turismo di massa. Questo fenomeno, sempre più rilevante, sposta milioni di persone attraverso i territori del nostro pianeta, lungo tragitti pre-determinati da narrazioni già descritte e rappresentate. Nei paesaggi del turismo moderno la nebbia che avvolge la natura di Friedrich scompare per lasciare il posto ad icone già emerse e svelate dai tour operator: lo sguardo del turista riconosce immagini già viste e a sua volta le riproduce. L’interpretazione della coscienza soggettiva viene sostituita da un flusso collettivo guidato dalle logiche del consumo, una

* Coordinamento scientifico Urban Center di Bergamo. 1 “Wanderee uber dem nebelmeer” (1817) è conservato alla Kunsthalle di Amburgo.


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sorta di pellegrinaggio tra punti noti che vengono riprodotti nelle fotografie di ogni turista, in un processo di amplificazione continua di stereotipi e luoghi comuni. Non c’è viaggio a Copenaghen che non preveda la visita alla piccola statua della Sirenetta: migliaia di visite, migliaia di immagini identiche dello stesso soggetto. Una visione monodirezionale dettata da un approccio omologato che determina non solo lo sguardo di chi osserva, ma anche i gesti e l’atteggiamento di sorelle, fidanzate e amiche che, all’interno delle fotografie, riproducono la posa della Sirenetta, diventando a loro volta icona stereotipata. La banalizzazione iconemica legata all’assorbimento passivo degli stereotipi è uno dei grandi rischi della cultura contemporanea del paesaggio: in particolare è il presupposto di una semplificazione che tende a vanificare la comprensione delle differenze, privando lo sguardo sul mondo della profondità e dello stupore critico necessari per collegare i segni alle cause che li hanno generati. E se è vero che ogni paesaggio tende ad essere riconosciuto attraverso alcuni tratti peculiari che ne condensano l’identità, è altrettanto vero che è proprio la ricerca dei significati più profondi e fondativi che rende il nostro guardare “azione creativa” ed esperienza consapevole.

evidenze empiriche attraverso l’esperimento e la messa a punto di teorie capaci di dare a ogni scoperta la forza della soluzione oggettiva, dimostrabile. Alla ricerca della verità lo sguardo scientifico non si fa intorpidire dagli stereotipi, ma scava in profondità, cercando tracce, indizi da interpretare. Sherlock Holmes e dottor House2 sono esempi paradigmatici dello sguardo lucido e graffiante di chi deve trovare la soluzione dei casi difficili: intelligenti e cinici, entrambi i personaggi rinunciano al tepore del senso condiviso e un po’ ipocrita, rischiando continuamente l’antipatia, la solitudine, l’asocialità. La diagnosi esatta infatti è spesso nascosta sotto la patina delle convenzioni, laddove il sentire comune non pensa di cercarla, è una conquista faticosa che crea conflitto e lacerazione. Lo sguardo senza veli vede anche le imperfezioni, i limiti, i difetti: non opera rimozioni o sconti, è intransigente e acuto. Rivolto ai paesaggi lo sguardo lucido è quello di chi indaga e non si accontenta delle apparenze, del già detto e del già pensato, ma intraprende nuovi percorsi di conoscenza, in direzioni ancora ignote. È lo sguardo dei ricercatori e degli studiosi.

3. REALTÀ E RAPPRESENTAZIONE 2. LO SGUARDO CHE INDAGA ALLA RICERCA DI TRACCE E DI INDIZI

Osservare è un presupposto irrinunciabile della conoscenza scientifica: la realtà deve essere indagata in profondità, con attenzione, diffidando dei pregiudizi, mettendo in discussione e verificando le

La rappresentazione del paesaggio avviene attraverso l’uso di strumenti espressivi e codici che appartengono a varie discipline, dalla letteratura all’immagine fotografica, dal cinema alla pittura. Alla soggettività dello sguardo si aggiunge quindi l’inevitabile parzialità degli strumenti e dei codici di rappresentazione.

2 Sherlock Holmes è il celeberrimo investigatore protagonista dei romanzi del grande scrittore inglese Sir Arthur Conan Doyle (1859-1930). Il Dottor Gregory House è invece il protagonista della serie televisiva ideata negli Stati Uniti da David Shore e poi diffusa in tutto il mondo con straordinario successo di pubblico. House è un medico bravissimo al quale vengono riservate le diagnosi più difficili. La sua bravura si accompagna ad un forma accentuata di cinismo con la quale analizza i pazienti, senza pietismo o finta partecipazione, svelandone gli aspetti caratteriali meschini e poco amabili. Tra i personaggi di S. Holmes e di G. House esistono diverse analogie evidenziate dallo stesso autore della fortunata serie televisiva.


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Come ci insegna Renè Magritte la pipa dipinta su una superficie bidimensionale non è una pipa vera, è soltanto la sua rappresentazione e, come tale, ha una sua autonomia, segue criteri che le sono propri, dando vita ad una verità parallela e autoriferita3. I paesaggi rappresentati scontano la mediazione del codice utilizzato e diventano simulacri semplificati dei paesaggi reali. L’occhio è un “falso specchio” nel quale si riflette soltanto una parte della realtà escludendo molti aspetti della sua complessità: nella acutissima analisi di Magritte, “sabotatore tranquillo” delle convenzioni linguistiche, vengono continuamente evidenziati i limiti conoscitivi della retina impressionista. Le rappresentazioni fotografiche e pittoriche non potranno mai riprodurre i suoni, le sensazioni tattili e olfattive che sono invece elementi importanti nell’esperienza dei territori e delle loro identità. Altresì le immagini non potranno mai fornire dati di conoscenza esaustivi su molti aspetti che è necessario indagare per entrare nella profondità del genius loci: la storia, le tradizioni, la geologia, la botanica e la chimica degli ecosistemi appartengono ai codici di molte discipline che, insieme, restituiscono la complessità dei luoghi e un livello di lettura adeguatamente articolato. Riferendosi al paesaggio e all’obiettivo della sua conoscenza, l’analisi di Magritte rende quindi evidente la necessità di affiancare allo strumento della vista e alla rappresentazione per immagini, altri tipi di conoscenza e di codici di lettura, in un approccio multidisciplinare e dialettico.

4. OLTRE L’OCCHIO: L’INVISIBILE E L’INCONSCIO Nell’occhio squarciato del film “Un Chien Andalou” girato da Luis Bunuel4 ritroviamo un altro tipo di sguardo, che ha un peso notevole nei contenuti e nell’immaginario della cultura contemporanea: è lo sguardo interiore, quello delle forze misteriose e incontrollabili che agiscono nell’inconscio determinando, al di là di ogni volontà e di ogni raziocinio, il nostro rapporto col mondo. Nel celebre cortometraggio del regista spagnolo, insieme alla certezza della visione oggettiva si sgretolano i primati della logica e della ragione per lasciare spazio alla dimensione onirica, agli automatismi psichici, al non dicibile e al non visibile. Veglia e 3

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sogno, archetipi e pulsioni si fondono nella surrealtà di libere associazioni di pensieri e immagini, parole e suoni. Le influenze della poetica surrealista sono un pilastro fondativo dello sguardo contemporaneo ed in particolare della dimensione dello spaesamento che tanto spesso, anche oggi, è presente nell’interpretazione dei paesaggi urbani e nella loro rappresentazione figurativa: lo sguardo dell’abitante delle periferie moderne si separa dalla capacità di dare un senso ai luoghi, che appaiono anonimi, silenti, sradicati. Spaesamento è l’esperienza di chi si sente estraneo, privo di riferimenti comprensibili, “altro” da ciò che lo circonda. Spaesamento è la mancanza del “sentire comune” che lega chi abita agli altri che abitano con lui, sostituendo ad una dimensione collettiva, fortemente dipendente dal territorio e dalle sue caratteristiche peculiari, una dimensione individuale e atopica.

Renè Magritte (1898-1967), grande artista belga, dipinse il soggetto della pipa accompagnata dalla didascalia in molte opere, tra gli anni Venti e gli anni Sessanta. L’opera “Il falso specchio” del 1928 si trova al Museum of Modern Art di New York. 4 Girato nel 1929, “Un Chien Andalou” è considerato il riferimento basilare del cinema surrealista. La scena dell’occhio tagliato dal rasoio è una delle scene più celebri nella storia del cinema, grazie al suo realismo agghiacciante. L’occhio tagliato è in realtà quello di un bue.


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Spaesamento è l’impossibilità angosciante di una percezione condivisa che emerge con forza straordinaria nei romanzi di James Ballard e nelle sue descrizioni delle “isole di cemento” della metropoli, in cui abitare significa sopravvivere in totale solitudine. Spaesamento è l’impossibilità del “paesaggio” per come la Convenzione Europea lo descrive, percezione collettiva e condivisa del territorio5.

versi e di tante narrazioni, di meticciati e geografie ibridate. Lo sguardo di Chagall attraversa il tempo e lo spazio, in una visione sincronica che è un contenuto centrale dell’arte novecentesca. Nell’opera del grande artista russo la rappresentazione iconemica della realtà raggiunge un vertice di altissima forza espressiva e di assoluta poesia.

5. LO SGUARDO DELLA MEMORIA Ciò che vediamo è la sintesi di ciò che siamo, di ciò che riusciamo a capire, di ciò che sentiamo e delle esperienze che abbiamo vissuto. Il nostro sguardo è intriso di memorie, di simboli, di icone interiori che affiorano continuamente e determinano la nostra lettura delle circostanze. Forse il mondo è immutabile, ma ci appare diverso perché siamo noi che mutiamo il nostro modo di leggerlo. O forse, continuando, ciò che dentro di noi precede il nostro sguardo e lo indirizza è sempre più forte di ciò che sta fuori e ci impedisce di coglierne l’essenza più reale. La Parigi che Marc Chagall può vedere dalla finestra è la sua Parigi6, diversa dalla Parigi di ciascuno di noi: in uno spazio non più ordinato dalle leggi della prospettiva e ormai totalmente soggettivo, galleggiano equivalenti brani di realtà e di memoria, monumenti e persone, animali e simboli religiosi, età e tempi diversi della vita. La figura in primo piano che, col suo duplice profilo guarda avanti e indietro, ci parla del nostro strabismo di abitanti “globali” del mondo contemporaneo, intrisi di luoghi di-

6. L’IMPORTANZA DEL PUNTO DI VISTA: SCALA E DISTANZA DELL’OSSERVAZIONE “Potenze di 10” è un celebre cortometraggio girato negli anni Sessanta dai designers Ray e Charles Eames7: con grande efficacia comunicativa sottolinea l’importanza che la collocazione del punto di vista assume nella percezione della realtà. Allontanando la posizione della macchina da ripresa di una distanza pari alla potenza di 10 ogni due secondi, il video dimostra come la visione e la lettura del mondo cambino ad ogni tappa successiva, abbracciando via via porzioni sempre più ampie di realtà, dalla famiglia sul prato della scena iniziale, fino alla galassia visibile alla distanza di 10 alla ventiquattresima: dall’infinitamente grande, il percorso inverso consente di vedere l’infinitamente piccolo, la struttura degli atomi, i quark che compongono il

5 La Convenzione Europea del Paesaggio (sottoscritta a Firenze nel 2000 e ratificata dallo Stato italiano nel 2006) definisce il paesaggio come “…una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni”. 6 “Parigi dalla finestra” è un’opera dipinta nel 1913 da Marc Chagall (1887-1985) e si trova al Solomon R. Guggenheim Museum di New York. 7 Charles Eames (1907-1978) e Ray Kaiser (1912-1988), conosciuti come coniugi Eames sono due celebri designers statunitensi, che hanno svolto un’intensa attività fortemente innovativa nei campi dell’arredamento, architettura, grafica e comunicazione.


OSSERVARE I PAESAGGI. PICCOLA ANTOLOGIA DI SGUARDI SIGNIFICATIVI

nucleo dei protoni. Con l’ausilio di protesi sempre più sofisticate messe a disposizione dalle tecnologie moderne, lo sguardo conosce profondità abissali: supermicroscopi e supertelescopi amplificano la vista umana e con essa la nostra capacità di lettura ed interpretazione dell’universo. “Potenze di 10” offre molti spunti di riflessione a chi voglia indirizzare il proprio sguardo alla conoscenza dei paesaggi: in primo luogo fa capire come sia importante collocarsi alla “giusta distanza” che è quella che ci consente di cogliere al meglio la complessità delle relazioni che collegano i vari punti, in una logica di sistema capace di superare la lettura frammentaria e puntiforme dei dati. Lo sguardo di chi osserva il paesaggio è conti-

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nuamente sollecitato da visioni in cui si intrecciano livelli e scale diverse di percezione: quella del “paesaggio profondo” cioè fatto di strati lontani e di prospettive lunghe e quella del “paesaggio ravvicinato”, fatto di dettagli e particolari, di materiali e tecnologie costruttive stratificati nel tempo. La bellezza e la ricchezza del paesaggio “corto” testimoniano l’importanza dei “microsegni”, cioè delle presenze, spesso impropriamente ritenute minori, che veicolano l’identità più peculiare di una cultura e di una tradizione locale: sono bellezze che si colgono soprattutto camminando nel paesaggio, immergendosi dentro, con un ritmo legato al respiro e al battito cardiaco, estendendo la percezione sensoriale ai suoni, ai profumi e agli odori, alle sensazioni tattili.


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All’opposto lo sguardo profondo, interpone una distanza notevole tra chi osserva e il fuoco dell’osservazione: è lo sguardo dall’altura, dagli attici dei grattacieli, dai satelliti che orbitano intorno alla terra. È lo sguardo sempre più diffuso di Google Earth senza il quale non è possibile progettare interventi riferiti a scale territoriali estese. Vedere il mondo dall’alto e da lontano consente di afferrare i rapporti tra le cose che normalmente sfuggono, significa spostarsi fuori da ciò che più spesso vediamo da dentro, acquistando la possibilità di comprensione dell’insieme che soltanto la distanza consente. La vista dall’alto è una vista sistemica e razionale, astratta e distaccata, ma, contemporaneamente, è la vista delle grandi emozioni, tipica della poetica del sublime, perché evidenzia la piccolezza dell’uomo, la sua debolezza, il suo essere precario, piccolo e fugace nel mondo e nel suo senso. È la vista del viandante di Friedrich che, osservando la sconfinata estensione della natura, percepisce le altrettanto sconfinate dimensioni del percorso di conoscenza che ha dinnanzi. Possiamo immaginarci l’emozione del viandante che, guardando il mondo e la sua vastità, acquisisce la consapevolezza dei suoi limiti. La natura che si offre ai suoi occhi è ancora incontaminata, non porta segni o cicatrici del passaggio di altri uomini e delle loro azioni. A quasi due secoli di distanza, il nostro sguardo sul mondo non può di certo ignorare la travolgente capacità di impatto che le azioni umane determinano e le conseguenze che esse possono provocare: strumento imprescindibile della conoscenza, lo

sguardo attento è più che mai importante perché, insieme ai risultati dei nostri gesti, fa emergere dalla nebbia le responsabilità del nostro agire8. Imparare a guardare i paesaggi è quindi fondamentale per imparare a progettare la loro trasformazione consapevole e in generale per stabilire le regole di una convivenza sostenibile tra la nostra specie e l’ambiente in cui vive: in questo senso guardare il paesaggio è un tema importante per esercitare la nostra attitudine critica e per cercare di conoscerci meglio. Non c’è paesaggio senza consapevolezza: molte volte la mancanza di rispetto è direttamente legata all’incapacità di riconoscere ed attribuire valore agli elementi naturali, storici, culturali, che sono alla base dei paesaggi stessi e ne determinano, attraverso lente stratificazioni, l’identità. I paesaggi meglio conservati, quelli che ammiriamo e dentro i quali cerchiamo sempre più frequentemente occasioni per immergerci, sono i paesaggi in cui si percepisce un forte senso di appartenenza dell’uomo all’ambiente in cui vive: viceversa i paesaggi brutti sono quelli dai quali emergono distacco, alienazione, impoverimento dei significati che spesso diventano aggressione, indifferenza, distruzione. La tutela più efficace è quella di far emergere il legame profondo tra i luoghi e chi li abita e, abitandoli, li costruisce e trasforma giorno per giorno, in un rapporto di sintonia e rispetto, che porta ogni abitante a svolgere un ruolo attivo di protezione e valorizzazione di ciò a cui riconosce un valore che gli appartiene.

8 L’importanza dell’“educazione a vedere” è uno dei temi centrali nel libro di Eugenio Turri “Il paesaggio come teatro” (Marsilio, 1998). L’essere spettatori consapevoli dello spettacolo del paesaggio è il primo passo fondamentale per diventare attori responsabili delle azioni che compiamo.


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WWW.ICOMEMI.IT

L’iniziativa Iconemi è interamente consultabile nel sito <http://www.iconemi.it>, allestito per facilitare la diffusione dei contenuti emersi via via. Nella gallery del sito sono visionabili i contributi fotografici inviati dai numerosi partecipanti, organizzati secondo l’indice dei temi affrontati. Nel sito è inoltre possibile leggere gli atti dell’intero ciclo di conferenze.

Progetto Grafico e Sito web: francesca perani.


Finito di stampare nel mese di novembre 2010


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