Gianni Riotta
Antonio Catricalà
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Geert Lovink
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Giornalismo 2.0, cosa cambia, cosa resta, come affrontarlo
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10 2012
Il buon governo? È una questione di trasparenza
Ossessioni collettive: i social network tra luci e ombre
Jacques Séguéla
ARCHITETTI DI IMMAGINARIO Iniziativa promossa da DIPARTIMENTO DI COMUNICAZIONE E RICERCA SOCIALE
05 Architetti di immaginario Un romantico a corte Jacques Séguéla
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(S)marketing
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La reputazione al tempo di Twitter
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New Media, Old Values
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Web, la voce dell’impresa
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Aprire le porte all’Opera
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La borghesia che non c’è
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Verso un governo della trasparenza
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Oscar Blumm
Daniela Panosetti
Gianni Riotta
Thanks to Vincenzo Boccia, ILAS Istituto Superiore di Comunicazione Visiva, Angelo Scognamiglio, Università Suor Orsola Benincasa, Simona Di Luzio, Fausto Lupetti, Antonia Magnacca, Transparency International Italia, Marco Trotta, Valentina Bazzarin, Alberto Gangemi, Roberto Spingardi, Chiara Santarelli, Antonella Mastrangelo, Luca Toschi, CSL - Università degli Studi di Firenze
Vincenzo Boccia
Carlo Fontana
Giuseppe De Rita
Antonio Catricalà
Questioni private
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Il lato oscuro della rete
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Davide Del Monte
Jacques Séguéla
Franco Pomilio
Gianni Riotta
Vincenzo Boccia
Carlo Fontana
Giuseppe De Rita
Antonio Catricalà
Davide Del Monte
Geert Lovink
Alberto Gangemi
Daniela Panosetti
Virginia Patriarca
Geert Lovink
Augmented Communication 56 Communication Strategies Lab
Io, cittadino-consumatore
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Invenzioni politiche
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Virginia Patriarca
Alberto Gangemi
Il maieuta comunicatore
Editoriale di Franco Pomilio
Si pensa spesso che fare comunicazione significhi solo (o quasi) avere “la grande idea”, la migliore di tutti. Tirar fuori dal cappello, con gesti misurati, l’illuminazione folgorante, il coup de theatre creativo, per la gioia del pubblico ammirato. Ancora, nell’epoca della ricombinazione e del crowdsourcing, il comunicatore di professione – pubblicitario, giornalista, spin doctor che sia – è troppo facilmente visto come un abile imbonitore, costruttore di specchi e demiurgo ingannevole. Ma tutto questo ha fatto il suo tempo, anche se molti non se ne sono accorti e molti altri non potranno ammetterlo mai... Perché la comunicazione, oggi, non è più solo marketing e pubblicità, ma attività complessa e integrata, funzione di mediazione, servizio sociale e pubblico nel senso più profondo. E in quanto tale, a maggior ragione quella istituzionale, sempre più dotata di una vocazione etica che non si ferma alla deontologia, ma diventa morale e responsabilità sociale, trasparenza praticata e non solo dichiarata.
Una vocazione che ai più attenti non è mai sfuggita. Si prenda Jacques Séguéla, grande vecchio – ma forse sarebbe meglio dire “eterno ragazzo” – della pubblicità europea, passato dagli spot Citroën alle campagne di Mitterrand, senza mai perdere la convinzione che “il comunicatore è solo un microfono”, un mero amplificatore di idee altrui. Un ruolo maieutico che solo i più miopi intendono come riduttivo, perché è proprio raccogliendo l’altrui immagine e rendendola immaginario che l’abilità di un comunicatore si rivela. Così, quando Séguéla racconta dell’idea-neonato appena venuta al mondo, la cui bellezza, evidente al padre, è ancora invisibile ai più, dice del nostro mestiere molto più di qualsiasi manuale o caso di studio, ovvero che il nostro compito è di nutrire l’idea e portarla a maturazione. La sfida, oggi, è semmai far crescer bene questo neonato tra social network e antiche esigenze, nuovi media e vecchi valori. Allevarlo alle nuove grammatiche, da vero nativo digitale.
Un romantico a corte di Jacques SĂŠguĂŠla*
Il pubblicitario che come nessun altro ha “dato voce” alla politica europea si racconta. Una testimonianza personale e professionale unica, che si fa percorso di riflessione attraverso l’etica e l’estetica della comunicazione. Dalle esperienze elettorali, un’analisi dei nuovi media e della creazione del consenso * Trascrizione della lezione tenuta da Jacques Séguéla il 29 giugno 2012 a Napoli, nel corso del seminario organizzato da Ilas - Istituto Superiore di Comunicazione in collaborazione con Lupetti Editore e ospitato dall’Università Suor Orsola Benincasa, per gentile concessione dei curatori
PENSARE IN GRANDE In apertura la Tour Eiffel “vestita” di blu in occasione della presidenza francese dell’Unione Europea
Sono parecchi anni che navigo nel mare della pubblicità. E in questi decenni su di me ho sentito dire tante cose, buone e cattive, vere o inventate, spesso anche un po’ folli. Ma io ho una convinzione: la follia vince su tutto. Per cui, prima di tutto, non date retta a tutto ciò che dicono di me. Sono solo un vecchio che ha letto Cervantes, anche perché sono nato a Perpignan, a pochi chilometri dal confine con la Spagna, e ha fatto tesoro dei suoi insegnamenti: “Nella vita, quando diventi adulto, prendi per mano la tua infanzia e non lasciarla mai”. In pratica sono un vecchio bambino di 80 anni. E così mi presento, per condividere con voi le mie regole di vita.
La voce del padrone Alcuni frame dello spot ideato da Séguéla nel 1996 per la campagna elettorale del futuro Presidente della Repubblica Slovena Janez Drnovsek. Protagonista: il suo adorato cane Artur
NEL POSTO SBAGLIATO, AL MOMENTO GIUSTO
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Prima di tutto: la gioventù è una malattia mentale, dalla quale a volte, con gli anni, si guarisce. Per quanto mi riguarda, ho deciso di restare malato per tutta la vita. La seconda regola invece – la più importante – è di non essere sempre d’accordo con se stessi. Io posso, per dire, votare per Mitterrand e farmi piacere Sarkozy. Alle ultime elezioni al primo turno ho scelto Ségolène Royal, quindi la sinistra, al secondo Sarkozy, ovvero la destra; così, giusto per riequilibrare un po’ le cose... La terza regola è che bisogna diffidare dal denaro, perché corrompe tutto. In Francia ho creato dal nulla diversi marchi e slogan, come quello di Carte Noire, Un caffé nommé désir (“Un caffé chiamato desiderio”, ndr) oppure On est fou d’Afflelou (“Tutti pazzi per Afflelou”,
Essere dove non si dovrebbe quando serve e dove si dovrebbe essere quando non serve. Per me è una regola di vita. Questo significa essere creativi
ndr), per una marca di occhiali. Ebbene, le persone che si sono affidate a me sono diventate miliardarie, ma non io. In compenso loro sono tristi, ingrassati, hanno belle donne al loro fianco che li tradiscono e grandi barche che non sanno guidare. Non hanno nulla di quello che io ho e amo della vita. Per questo ripeto sempre “il denaro non ha idee: sono le idee che fanno soldi”. Quindi fate pubblicità, non business. Un’altra mia regola di vita è di essere dove non si dovrebbe quando serve ed essere dove si dovrebbe quando non serve. Ma proprio questo significa per me essere creativi. La pubblicità funziona un po’ come una partita di calcio: quello che vince è sempre quello più furbo, il più abile, quello che riesce a cambiare le regole e a fare la differenza. Infine, l’ultima regola: la vecchiaia inizia
quando i rimpianti hanno la meglio sui sogni. E io non ho alcun rimpianto. Perché ho ancora un bel po’ di sciocchezze da fare, ho ancora molte provocazioni da lanciare, situazioni da mettere in discussione, poteri da perturbare. E nulla mi farà mai rimpiangere quello che ho fatto.
Di questo sono fatte le marche: certo di qualità, di creatività, ma prima di tutto di immaginario. E noi pubblicitari, di tutto questo siamo gli architetti
L’ARTE DI AMPLIFICARE IL TALENTO Questi i “comandamenti” che guidano la mia vita. Poi ci sono ovviamente le regole imposte dal mio lavoro, la comunicazione politica, che in verità è solo una parte del mio mestiere. Ho avuto infatti la fortuna di curare venti
campagne presidenziali in tutto il mondo, di cui ben diciotto risultate vittoriose, e circa duemila campagne di prodotto. E posso affermare che la vera esaltazione, l’eccitazione, il coinvolgimento quasi erotico lo si prova davvero solo nelle campagne politiche. Perché solo con un’altra persona può crearsi quel tipo di intesa e di simbiosi: è come fare l’amore. E non puoi fare l’amore con una confezione di detersivo o una scatola di sapone... Sono tre, ad ogni modo, le regole essenziali di questo mestiere. La prima è l’umiltà: non si può pensare di dettare a un politico cosa deve dire. Ci si deve accontentare di essere il suo microfono, di amplificare il suo discorso, individuando ad esempio il luogo o la sede più adatta per rendere massima questa amplificazione. Perché ogni luogo è un segno, e ogni segno ha un senso. E poiché viviamo nella
società dell’immagine, queste dovranno fare da sottotitolo alle parole. Altrettanto importante è definire il momento giusto. Il tempo, oggi, è il signore di tutto. È lui che decide cosa resta e cosa passa. Bisogna allora saper scegliere l’istante più adatto per lanciare il messaggio in modo che emerga da questo flusso e resti impresso. E infine la forma, il modo di costruire il messaggio: saper trovare quelle tre parole che resteranno nella memoria. Il tutto però senza mai pensare a se stessi come una sorta di kingmaker o di maitre à penser, ma limitandosi a essere quello che si è: dei “tecnici del suono” della comunicazione. Anche i Beatles senza un buon audio avrebbero avuto meno successo: il talento, però, lo avevano loro... La seconda regola è garantire il controllo della campagna. Gli uomini politici sono ragazzi poco cresciuti, pronti a qualsiasi sciocchezza
Testimonial fedele «Salve! Sì sì, sono proprio Artur. Anche se lui mi chiama Pooch. Lui mi piace. Sa dove vuole arrivare. Ultimamente corre così tanto che a malapena riesco a stargli dietro... così è una vita da cani!» (da Jacques Séguéla, Presidente da vendere, 2010, Logo Fausto Lupetti Editore)
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COME NASCE UN’IDEA «Nel 2012 per me sono 55 anni di pubblicità. E per l’occasione mi sono chiesto quale sia la vera definizione di questo mestiere. In realtà ho trovato solo nuove domande... ad esempio questa: cosa diventa la neve quando si scioglie? Diventa acqua, evidentemente. Ma non per me, non per un creativo. Per me, quando la neve si scioglie, diventa primavera. Ecco: il nostro mestiere è di far in modo che regni un’eterna primavera. Perché è questo valore aggiunto, fatto di immaginario, che trasforma un prodotto in un marchio». Questo, in sintesi, affidato alle sue stesse parole, il Séguéla-pensiero, incentrato sull’idea che il lavoro del pubblicitario sia quello di ammantare il prodotto di una sorta di aurea simbolica e semiotica irresistibile, simile a quella emanata, nell’Hollywood dei tempi d’oro, dai divi immoti e dal loro carisma. Autore di libri-racconti dai titoli indimenticabili – da Fils de pub e Non dite a mia madre che sono un pubblicitario, mi crede un pianista in un bordello – folletto dissacrante con il gusto del calembour, dell’ossimoro e degli slogan allitteranti (ha fatto scuola Mitterrand e la sua “Force tranquille”), Séguéla è a sua volta la star della pubblicità europea. I creativi di tutto il mondo conoscono a memoria le coordinate della sua “star-strategy”, ma il modello un po’ folle e sregolato che ha fatto di questo ex farmacista uno dei protagonisti della storia dell’advertising, è qualcosa di più di un elenco di comandamenti. È uno stile di vita, una visione della creatività a largo raggio. E per comprendere questa visione, senza la quale il genio pubblicitario sarebbe rimasto muto, il modo migliore è abbandonarsi al suo racconto. Come quello, un piccolo gioiello di ironia disincantata, che ha regalato al pubblico del seminario che lo ascoltava a Napoli. «Si dice che in pubblicità si devono avere idee: sbagliato. Si deve avere l’idea. Quella che farà vendere (o che vi farà essere eletti, a seconda dei casi). Le idee sono un po’ come gli spermatozoi: sono milioni, ma solo uno riesce a raggiungere le frontiere della vita per dare origine a l’idea-bebè, che a poco a poco crescerà in una grande campagna e andrà a creare un grande marca. Il problema è che solo i creativi credono nell’idea. Così quando la portano, tutti orgogliosi, dall’esperto di marketing, dicendo “Guarda che bel bambino!” e quello risponde “Ma non è strategico”; “Strategico? Ma che c’entra! È solo un piccolo bebé, è appena nato!”. Ma poi si convince anche lui, e il marketing man e il creativo iniziano a curare il bebé insieme. Finché a loro volta non lo portano, tutti orgogliosi, dal cliente, dicendo: “Guardi, guardi che bel bambino! Guardi com’è bello”, solo per sentirsi rispondere: “Ma davvero pensate di vendere il mio prodotto con quello?”. E allora pronuncia la parola peggiore che un pubblicitario possa mai sentirsi dire: “VA TESTATO”. Ecco: io dico invece, per dare alle idee la vita che anelano, ci vogliono un po’ meno teste e un po’ più di testicoli...». Daniela Panosetti per un bacio del pubblico, bambini viziati che hanno bisogno di essere amati. Per questo hanno bisogno di un padre severo che li guidi e li indirizzi. Ma la regola più importante è che ci vuole un’etica irreprensibile. Non sono mai riuscito a sapere quale fosse la reale efficacia di una campagna pubblicitaria, ma nulla può farmi credere che si elegga qualcuno perché si è affascinati da uno slogan. I giornalisti dicono che nel 1981 ho fatto vincere Mitterrand, ma io continuo a ribadire che si sbagliano: piuttosto è stato lui, con la sua statura politica e personalità, a eleggermi “reuccio della pubblicità”. Qualunque sia il potere della pubblicità, non bisogna mai metterlo nella mani di qualcuno che si pensa possa minacciare la democrazia o la libertà, anche a livello culturale. È il motivo per cui ho rifiutato di seguire molte campagne nonostante proposte allettanti: per esempio quella di Gheddafi che mi offrì un contratto da un milione di euro l’anno per dieci anni. Ancora oggi non ho nessun rimpianto di aver rifiutato. ARCHITETTI DI IMMAGINARIO 8
Il lavoro pubblicitario è un lavoro collettivo,
perché la creazione è collettiva. Ma in un’agenzia c’è una figura chiave che è il brand manager, che supervisiona tutte le strategie del marchio, ma anche la sua memoria e l’organizzatore di quella che si potrebbe definire “l’architettura della marca”. Ecco: da 45 anni sono il brand manager di Citroën, non c’è riunione di questa casa automobilistica dove io non sia presente. Lo stesso posso dire per Louis Vuitton: l’ho conosciuto quando aveva solo due negozi, adesso è la prima marca di lusso del mondo. Ma cosa vendono in fondo Vuitton e Citroën? Immaginario. Anche il lusso, a ben vedere, è un valore più immateriale che materiale: è un valore di comunicazione. Ecco di cosa sono fatte le marche: certo di qualità, di creatività, ma prima di tutto di immaginario. E noi pubblicitari siamo architetti di immaginari. Il problema è che l’immaginario sta cambiando. Siamo nel pieno della terza rivoluzione del mondo moderno. La prima, nel XIX secolo, è stata quella commerciale, con l’Inghilterra che con le sue flotte ha colonizzato il mondo attraverso le merci. Poi c’è stata quella industriale del XX secolo, che ha fatto la fortuna dell’Europa, prima, dell’America e del Giappone poi, che con automobili e aerei sono andati alla conquista dei mercati. Infine la
La pubblicità ha inventato il socialismo. Passa per uno sport da ricchi, perché è al loro servizio, ma nella sua essenza è profondamente sociale. Non esistono destra e sinistra, non c’è un’ideologia, ci sono solo idee
Duello all’ultimo voto Valéry Giscard d’Estaing, allora Presidente uscente della Repubblica Francese, e François Mitterrand, futuro successore, durante un dibattito faccia a faccia alla TV francese per le presidenziali del 1981
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terza: quella immateriale, dove la rete la fa da padrona. La rete non esiste, non ha un quartier generale, non ha un amministratore delegato né quotazioni in borsa, eppure è padrona del mondo. Il 70% del PIL mondiale è immateriale: dunque, in ultima analisi, è comunicazione, intendendo con questo termine ovviamente anche tutto il settore ICT. La comunicazione ha ereditato il testimone che fu delle navi e delle automobili, candidandosi a essere il vettore del XXI secolo. La rete dunque è una grande opportunità. Ma anche una fonte di potenziali problemi, soprattutto quando diventa uno strumento di promozione e comunicazione politica. Proprio perché immateriale, infatti, la comunicazione in rete tende a essere inafferrabile, volatile, entra da un orecchio per uscire dall’altro, cambia facilmente direzione. Potremmo dire che in rete non c’è davvero un’intenzione, ma una serie di “rotture di intenzioni”: da un lato è sicuramente una delle più grandi invenzioni della storia della comunicazione, in quanto ha ridato la parola ai consumatori; ma è anche la più grande indecenza che sia mai stata inventata, perché tutti possono dire qualunque cosa, su tutti, in qualsiasi momento, in totale immunità, impunità e anonimato. Se dunque
gli Stati non proveranno a regolamentarla, la rete si autodistruggerà. I più influenti spin doctor del mondo, quelli di Obama e di Lula ad esempio, sono categorici sul fatto che la rete non influenza davvero la decisione di voto, in particolar modo quelli di Obama, nonostante il largo utilizzo della rete che è stato fatto per la sua campagna elettorale. Il motivo è che ogni messaggio ha un contro-messaggio che lo annulla. Paradossalmente, invece, la rete si dimostra uno strumento straordinario per l’analisi e l’organizzazione di azioni più tradizionali, come ad esempio la promozione porta a porta. La campagna di Obama è stata definita “la più tecnologica di sempre”, mentre a ben guardare è la più ancestrale, in quanto la vittoria è stata decretata dal paziente lavoro di migliaia di sostenitori che hanno raccolto consensi casa per casa, quartiere per quartiere. È vero tuttavia che la rete ha permesso una raccolta di fondi senza precedenti: 8 milioni di americani hanno donato 10 dollari ciascuno, trovandosi in questo modo coinvolti in prima persona nel programma elettorale. Sentendosi, in un certo senso, rappresentanti essi stessi della campagna. Si è calcolato che per ogni 14 contatti, Obama abbia guadagnato un voto. Così è stata giocata la campagna.
L’INTERNAZIONALE PUBBLICITARIA La pubblicità ha inventato il socialismo. Passa per uno sport da ricchi, perché è al loro servizio, ma nella sua essenza è profondamente sociale. Nella pubblicità non esistono destra e sinistra, non c’è un’ideologia, ci sono solo idee, a condizione però che siano in grado di penetrare nel sociale. Non esistono pubblicità mirate: anche per vendere marchi di lusso come Cartier o Vuitton non ci si può limitare al target della loro clientela: la marca morirebbe. Se hanno successo come brand incorporei, immateriali, è perché tutti li conoscono, anche chi non potrebbe acquistarli: perché sono capaci di raggiungere tutti nel territorio dell’immaginario. Con la rete la pubblicità è passata da uno status di dittatura della comunicazione a uno di democrazia partecipativa del consumo. E io mi sono reso conto di essere stato una specie di “piccolo Goebbels” – ovviamente senza saperlo, altrimenti avrei cambiato mestiere... Ho infilato degli slogan nella testa delle persone, senza che avessero il diritto di rispondere. La rete in qualche modo ha concesso questo diritto. Questo funziona bene per i prodotti
di consumo: il consumatore è diventato coproprietario del marchio e se non è d’accordo con quanto fa o dice, può esprimere il proprio dissenso in mille modi, attraverso chat, blog o community contro il marchio. Ma il meccanismo non funziona altrettanto bene con la politica, il che è rassicurante, perché vuol dire che il voto non è un atto di consumo, anche se le regole di comunicazione sono simili a quelle usate per la vendita di prodotti. La comunicazione è scambio, avvicinamento, condivisione: in questo senso è socialista. La rete consente di instaurare questo scambio, con la conseguenza che oggi la pubblicità non è più imposta, passata negli intervalli di un film o di una trasmissione, ma è il frutto di una scelta, spesso non personale, ma condivisa. Gli spot più di successo sono quelli che diventano virali, che le persone vanno a cercare. La pubblicità è la nostra cultura immediata. Ogni popolo mette nella pubblicità ciò che è: dimmi la tua pubblicità e ti dirò chi sei, è lo specchio di una società.
“La force tranquille” Per le elezioni presidenziali del 1981 Jacques Séguéla ideò il celebre slogan “La force tranquille”, che ebbe un grande ruolo nella vittoria di François Mitterrand
DI CANI (ED) EROI Lo spot che ha fatto eleggere Lula nel 2006 è stato il primo a rompere i codici della comunicazione
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politica in Brasile: non avendo un’agenzia pubblicitaria di riferimento, ha chiesto ai giovani brasiliani di fare da protagonisti, con risultati vincenti. In Slovenia, invece, Drnovšek era un ottimo Presidente, ma non godeva di popolarità. Aveva un’espressione poco gradevole ed era molto timoroso dei media. Mi chiese di renderlo popolare: ho pensato che non sarebbe stato facile. Passai qualche giorno con lui e notai che aveva sempre dietro il suo cane, Artur, un cane enorme che portava ovunque. Aveva anche un auto tutta per sé, che seguiva sempre quella presidenziale, e per questo era oggetto di caricature in tutto il Paese, era simpatico e molto popolare. Ho pensato che qualcuno
L’idea-bebé A destra, manifesto della campagna del Partito Conservatore per le elezioni generali britanniche del 2010, ideata da Euro RSCG
fosse più indicato del Presidente per il film: il cane. Nello spot Artur parlava dal giardino del palazzo, diceva di conoscere bene il Presidente, che era un bravo padrone e un gran lavoratore. Insomma, garantiva per lui e chiedeva di votarlo, così sarebbe rimasto comodo nella sua cuccia. E chiudeva abbaiando (“abbaiare” e “votare” in sloveno si scrivono allo stesso modo). Il film diventò popolarissimo e Drnovšek fu eletto tre volte. Da Mitterrand, invece, ho ricevuto la migliore definizione di elezione: viene eletto, diceva, chi sa raccontare al popolo la storia che vuole sentire in quel particolare momento della sua storia. A condizione, però, che sappia ritagliare per sé il ruolo dell’eroe credibile. NOSTALGIA DEL FUTURO
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I valori della pubblicità, quindi, sono sempre i
Da Mitterrand ho ricevuto la migliore definizione di elezione: viene eletto, diceva, chi sa raccontare al popolo la storia che vuole sentire in quel particolare momento della sua storia. A condizione, però, che sappia ritagliare per sé il ruolo dell’eroe credibile
valori del presente. E i valori delle più recenti campagne politiche sono commerciali, mercantili e spirituali. Una delle ultime affissioni politiche che abbiamo ideato, ad esempio, è per il partito conservatore inglese e raffigura un neonato in primo piano con l’head che recita: Dad’s nose. Mum’s Eyes. Gordon Brown’s Debt (“Il naso del papà. Gli occhi della mamma. Il debito di Gordon Brown”), alludendo alla quota di debito pubblico che grava su ogni bambino nato in Gran Bretagna. Come si vede, le grandi tematiche sono l’occupazione, il potere d’acquisto e i problemi legati all’immigrazione e queste valgono ovunque. Quindi sono i valori spirituali che fanno la differenza. Viviamo in un mondo di cambiamento, gli stessi media ci hanno insegnato a cambiare e ora ogni popolo vuole fare lo zapping presidenziale: vede una pubblicità e vuole subito saltare a
un’altra. Il tema vincente, quindi, è proprio il cambiamento, e in Francia ha funzionato. Lo slogan di Hollande era: Le changement, c’est maintenant (“Il cambiamento è ora”). Il problema è che in quel caso si è cambiato il presente con il passato. Hollande si è travestito da Mitterrand, imitandone finanche il modo di parlare e la gestualità, facendo praticamente la stessa campagna: una campagna di 35 anni fa! Contrariamente a quello che si crede, la destra è più onesta intellettualmente della sinistra. La sinistra è intellettuale, ma è intellettualmente disonesta. Hollande ha vinto portando avanti una campagna distruttiva nei confronti di Sarkozy. La campagna di Sarkozy è stata, invece, molto
(sognare), rire (il ridere) e risquer (rischiare). Con Mitterrand, uomo di sinistra con idee di destra, sono stati liberati i costumi, le idee, le radio, le televisioni e fu un decennio veramente favoloso per la creatività. Con la crisi siamo entrati nell’epoca di altre tre R: râler (borbottare), revendiquer (rivendicare) e replier (ripiegarsi su se stessi). Il marketing di conquista è diventato il marketing delle piccole cose. Anche i clienti sono spesso chiusi su loro stessi, hanno paura del domani, non rischiano più. E invece è proprio questo il momento di osare. Dobbiamo costruire una società di condivisione e solidarietà, in cui si crei valore, cambiare modo di spendere, comunicare
moderna. Ha infranto l’immagine seriosa dello Stato-apparato entrando all’Eliseo a passo di jogging e ricevendo gli ospiti in maniche di camicia. Ma i francesi sono ancorati al XX secolo, per non dire al XIX: è un Paese vecchio e popolato di vecchi attaccati alle radici, terrorizzati dalla globalizzazione e dal futuro. Sarkozy è stato molto attuale e mobile, affrontando anche diversi discorsi in un solo giorno e utilizzando mezzi di comunicazione evoluti. Ma la campagna non ha avuto i risultati voluti, perché appunto lui è l’unico a vivere in questo secolo, mentre l’Europa rischia di ripiegarsi sulle proprie radici, invece di avere nostalgia solo del futuro.
e vivere. Stiamo entrando in quello che ho definito “il decennio della low attitude”: un atteggiamento low generalizzato. Il low cost ha già rivoluzionato il commercio: ora è il turno del low ego – pensare al prossimo e non solo a se stessi – e del low consumption – l’abitudine a non sprecare, a riparare invece di buttare. Ultima ma non meno importante, la low com: meno comunicazione. Perché i budget si riducono, mentre i media si moltiplicano. E in questo quadro le idee riprendono a contare, anzi contano più che mai. Tutto il mondo è alla fine di un ciclo perché abbiamo sbagliato dio. Dio non è il dollaro, ma l’idea. Pensiamo che tutto si possa comprare, ma le idee non si comprano: si creano e poi si condividono. Per superare la crisi, quindi, aggiungerei alle tre R originali una quarta: revolution. Dobbiamo farla esplodere, questa nostra vecchia società.
LA QUARTA “R” Quando ho cominciato a lavorare in questo campo seguivo la “regola delle tre R”: rêver
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Curriculum Publicitae A 25 anni, si laurea in Farmacia. Ma è una falsa pista. Cambia strada e parte per il primo giro del mondo su una Citroen 2CV. Ne nasce un libro, La terre en rond, e il primo successo. A 30 anni, giornalista di Paris Match e poi di France Soir. Ma lascia il giornalismo per la pubblicità. A 35 anni fonda con Bernard Roux l’agenzia RouxSéguéla, che in seguito con Alain Cayzac e JeanMichel Goudard diventerà RSCG. Primo exploit: il Presidente Pompidou al timone di un fuoribordo. Risultato: sequestro delle copie de L’Express e un esordio fulminante. In seguito si uniranno a loro Alain Cayzac e Jean-Michel Goudard. A 40 anni, l’esplosione: al lancio della linea “prodotti liberi” di Carrefour seguono Louis Vuitton, Le Printemps, Afflelou e molti altri. A 45 anni, il primo libro sulla pubblicità: un’autobiografia, ma anche una love story col mestiere. Le campagne si susseguono, e così i successi: Citroën e lo spot “les Chevrons sauvages”, Dunlop e il suo celebre love-torture test, Woolite e le sue star. L’anno seguente, con un colpo di “forza tranquilla”, Séguéla fa entrare la pubblicità nella storia della Francia. A 50 anni, le opere del “fils de pub” sono ormai tradotte in dieci lingue. Le creazioni e i committenti si raddoppiano. Inizia anche l’avventura delle campagne politiche per la democratizzazione dei paesi dell’Est. A 55 anni, RSCG ed Eurocom si fondono per dar vita a Euro RSCG. Séguéla assume la carica di direttore creativo e vicepresidente. A 60 anni, pur continuando ad animare il suo gruppo, si dedica alle campagne presidenziali in Israele, Cile, Polonia, Slovenia. A 70 anni, Vincent Bolloté diventa presidente di Havas. Jacques Séguéla resta vicepresidente e capo creativo. A 77 anni, ha scritto 26 libri, percorso cento volte il pianeta per creare o animare le diverse agenzie del gruppo, creato o partecipato a più di mille campagne, tra cui venti presidenziali. La sua ultima opera, del 2011, è Le pouvoir dans la peau, sulle trappole di comunicazione che attendono i candidati alle elezioni presidenziali. In Italia, la sua ultima opera tradotta, sugli stessi temi, è Presidente da vendere (2009). La sua ultima pubblicità, se vogliamo considerare tale: “vestire” di blu la Tour Eiffel in occasione della presidenza francese dell’Unione europea. L’immagine farà il giro del mondo (un milione di riprese). Ma tutto questo, per lui, non è che un inizio, perché «la vecchiaia – ama ripetere – comincia quando i rimpianti hanno la meglio sui sogni».