04 2013
Oscar Farinetti
Andrea Segré
pag 24
Gianfranco Marrone
pag 48
Bellezza (e bontà) ci salveranno
pag 18
ISSN 2281-3365
In cibo veritas: l’etica oltre lo spreco
Miti, linguaggi e icone della “gastromania”
Carlo Petrini
FOOD FACTOR Iniziativa patrocinata da Confindustria Assafrica&Mediterraneo Dipartimento Comunicazione e Ricerca Sociale "Sapienza" Università di Roma Transparency International Italia Associazione Italiana Studi Semiotici
07 Food Factor Filosofia del (buon) gusto Carlo Petrini
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(S)marketing
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Stati generali del gusto
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La redenzione della mela
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Oscar Blumm
Top Chef “Identità golose”
Oscar Farinetti
Thanks to Vincenzo Boccia, Silvia Tartamella, Ely Szajkowicz, Simona Di Luzio, Antonia Magnacca, Mimesis Editore, Gianfranco Marrone, Dario Mangano, Leila Salimbeni, Anna Barbero, Università di Bologna, Simona Milvo, Eataly, Isabella Pezzini Iniziativa promossa da DIPARTIMENTO DI COMUNICAZIONE E RICERCA SOCIALE
Food sharing: tutti vincitori 24 Andrea Segrè
La voce dell’impresa
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Tra presente e passato
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Vincenzo Boccia
Carlo Cracco, Gianfranco Vissani
Sulla strada del gastronauta 36 Davide Paolini
Rivoluzione dalle radici Tim Atkin
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Sommelier per vocazione
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Io, cittadino-consumatore
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Degustazioni mediatiche
48
Regimi di senso
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Il ritorno di Petronilla
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Franco Maria Ricci
Renato Mannheimer
Gianfranco Marrone
Dario Mangano
Daniela Panosetti
Percorsi semiotici sul gusto Sara Spinelli
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Carlo Petrini
Oscar Farinetti
Andrea Segrè
Vincenzo Boccia
Carlo Cracco
Gianfranco Vissani
Davide Paolini
Tim Atkin
Franco Maria Ricci
Renato Mannheimer
Gianfranco Marrone
Dario Mangano
Daniela Panosetti
Sara Spinelli
Elogio della zappa (digitale) Editoriale di Franco Pomilio
La food communication oggi è ovunque. Straripa sui nuovi e vecchi media, resuscita divi e inattese manie, si fa valore identitario potentissimo, oltre che formidabile asset strategico per imprese, Istituzioni, territori. Dilagando tra discorsi e contesti anche molto diversi, mediato e ri-mediato in una continua traduzione tra linguaggi, fotografato, condiviso, raccontato e spesso solo in ultimo effettivamente gustato, il cibo è diventato il fattore X di un ritorno alla materia ancora tutto da decifrare. Il dato è chiaro: un evidente, innegabile boom mediatico e comunicativo di tutto ciò che è gusto e sostanza. Ma come interpretarlo? Semplice moda, emblematicamente rappresentata dall’ascesa irresistibile delle food star, o segno di un cambiamento culturale più profondo, complice la crescente attenzione verso la qualità, il consumo critico e un certo gusto “antico” per la semplicità e purezza? Il numero di questo mese prova a rispondere anche a questo. E sembra
suggerire che la verità, probabilmente, sta nel mezzo. Anzi in un paradosso. Da un lato infatti, la food mania, su web e TV in particolare, sembra “spogliare” il cibo di quella sensorialità che rappresenta la sua essenza più pura, sublimandola in astratte visioni. Dall’altro, però, la formidabile ampiezza di condivisione di cui beneficia grazie ai media digitali non può che contribuire a trainare e diffondere come mai prima d’ora la più generale tendenza alla rieducazione dei consumatori in direzione dei valori del benessere e della sostenibilità. Ed è un circolo da cui non si esce. Perché il ritorno alla materialità che la food mania pare suggerire è tanto più potente quanto più si lascia smaterializzare dalla potenza moltiplicativa del web. Ma la comunicazione non spezza i circoli, semmai li alimenta, o al massimo li indirizza. Consapevole di muoversi in un mondo che, anche quando “torna alla zappa”, non può che farlo con uno spirito digitale.
Filosofia del (buon) gusto di Daniela Panosetti
Prolungare i benefici dello sviluppo, non solo sostenerne i danni. E difendere la biodiversità contro un modello di iperproduttivismo che appare sempre piÚ insensato. Le parole, sapide di sapienza, di Carlo Petrini sul progetto di una vita. Fin dall’inizio, molto piÚ che una questione di buon cibo
Il bello della lentezza In apertura, una scena del film The Straight Story di David Lynch; protagonista un anziano contadino che attraversa l’America a passo di trattore
Presidiare. Ovvero conservare, proteggersi, ergersi a difesa. Opporre resistenza a un assalto per tutelare un bene, qualunque esso sia. Sul significato primario di certe espressioni troppo usate o abusate conviene, a volte, fermarsi a riflettere. Se poi si ha l’occasione di scambiare idee e pensieri con un lucido e concretissimo visionario come Carlo Petrini, ci si accorge che l’idea di presidio, per alcuni, non è un nudo tecnicismo, ma l’immagine viva di un’attività vissuta. Di una missione reale. E in larga parte, nel caso di Petrini, realizzata. Tutta la galassia Slow Food – dall’associazione nata nel 1986 alle sue derivazioni Terra Madre e l’università di Pollenzo – è infatti una risposta funzionante, tangibile contro l’insensato
Anthelme Brillat-Savarin, nel suo libro sulla fisiologia del gusto, quasi due secoli fa, alla domanda “Che cos’è la gastronomia?” rispose: “È tutto ciò che riguarda l’uomo in quanto essere che si nutre”
IL GUSTO IN CATTEDRA In linea con la vocazione all’educazione in campo agroalimentare, che ne contraddistingue l’impronta, il movimento Slow Food ha promosso la nascita, nel 2004, dell’Università di Scienze Gastronomiche, fondata con la collaborazione delle Regioni Piemonte ed Emilia Romagna. L’ateneo punta a fornire ai futuri gastronomi, provenienti da ogni parte del mondo, tutti gli strumenti per operare nella filiera del cibo di qualità: da insegnamenti umanistici multidisciplinari alla formazione gastronomica fino all’educazione scientifica in campo agrario. L’università ha sede a Pollenzo, nel comune di Bra (CN), in un antico castello sabaudo oggi Patrimonio dell’Unesco, che ospita anche la Banca del vino di Slow Food. Propone corsi di Laurea Triennale, corsi di Laurea Magistrale e quattro master in Food Culture and Communications. Dal 2012, l’ateneo di Pollenzo ha arricchito la propria offerta formativa avviando corsi di Alto Apprendistato: programmi formativi volti a preparare le figure professionali più richieste nel settore alimentare attraverso un percorso teorico-pratico. La didattica interseca “aula e bottega”, affiancando alle lezioni il coinvolgimento di maestri e laboratori artigianali d’eccellenza della rete di Slow Food. Un carattere innovativo distingue anche l’ultimo progetto dell’Università di Scienze Gastronomiche, le Tavole accademiche: una mensa universitaria con piatti preparati da chef prestigiosi – tra gli altri, Davide Scabin, Davide Oldani e Ferran Adrià – nel rispetto dei principi del buono, pulito e giusto, con un food cost massimo di 5 euro per un menù completo. La mensa diventa così laboratorio di buona cucina, valorizzatore di prodotti stagionali e locali, occasione di formazione, incontro e confronto con cuochi provenienti da tutto il mondo, invitati a operare in uno “spazio virtuoso” in cui tutto – dall’arredamento al cibo agli strumenti per prepararlo e servirlo – è a basso impatto ambientale.
modello alimentare in cui e di cui viviamo. Iperproduttivismo: così lo chiama Petrini nella sua instancabile eppure sempre appassionata requisitoria contro un sistema che – non si stanca di ripetere – è fondato su una fallacia: l’idea che le risorse naturali, comprese quelle alimentari, siano infinite, quando è evidente che non lo sono affatto. Questa fallacia ha generato la crisi in cui viviamo, che, dice, è una crisi “entropica”: per uscirne, l’unico modo è un salto di paradigma. Come quello, appunto, promesso e promosso da Slow Food: buono, bello e utile.
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Trent’anni fa le idee di Slow Food erano pionieristiche, quasi rivoluzionarie. Oggi le stesse idee – biodiversità, difesa dei saperi artigianali – sembrano conoscere un improvviso aumento di interesse, grazie alla crescita di sensibilità nei confronti non solo del buon cibo, ma anche delle pratiche di consumo responsabile e sostenibile. Cosa è cambiato?
Credo siano due i fenomeni che stanno spingendo questi temi a livello politico e culturale. Uno è la consapevolezza della perdita del patrimonio di biodiversità, segno che il messaggio che a suo tempo abbiamo lanciato risponde a un’istanza reale, fortemente sentita dalla persone. Il secondo è la presa d’atto che il sistema alimentare attuale è un sistema insostenibile e in quanto tale responsabile di uno stravolgimento ambientale e sociale di proporzioni enormi. E questo per diversi motivi. Prima di tutto in termini di risorse: la perdita di fertilità dei suoli è direttamente connessa alla impressionante domanda idrica richiesta dall’alimentazione industriale, e ormai si è capito: le guerre del futuro si faranno per l’acqua, non per il petrolio. In secondo luogo, perché privilegia le specie forti lasciando morire quelle deboli, che invece rappresentano il vero patrimonio da preservare. Perché forti non significa invulnerabili, e se un giorno le specie selezionate
dovessero sparire, senza una riserva di sostituzione sarebbe la catastrofe. Inoltre, è un sistema che distrugge i saperi artigianali, insieme a un tessuto culturale e sociale millenario. In Italia nel 1950 il 50% della popolazione attiva era contadina; oggi è poco più del 3% e più della metà ha oltre 60 anni. Significa che l’economia primaria di questo Paese, quella che ci assicura il sostentamento, è in mano a una componente sempre più esigua e debole. Ultimo ma non meno importante, è un sistema dissipativo, fondato sullo spreco. Se nel mondo si produce cibo per 12 miliardi di viventi di fronte a una popolazione di “soli” 7, di cui ben un miliardo non ha di che mangiare, significa che abbiamo
A proposito di consapevolezza: mentre alcuni concetti come bene comune e sostenibilità sembrano ormai assimilati anche dal grande pubblico, il discorso della decrescita è più difficile da far passare. Si tende a pensare sia un andare indietro, quando si tratta di riequilibrare, demistificando il mito insostenibile del produttivismo a favore di una produttività che è una cosa ben diversa. Il grande pubblico, in particolare italiano, è pronto a capire questa differenza?
toccato il fondo. Ecco, credo che sia la coscienza di questa crisi entropica a portare la gente, soprattutto i giovani, a riflettere su queste problematiche.
incontro a Bruxelles insieme a tutte le componenti della filiera alimentare: dai produttori ai distributori fino ai consumatori. Quasi tutti nei loro interventi sostenevano: bisogna produrre di più consumando meno. Ma questo non è possibile! È un ossimoro. Eppure è la logica che sta passando. Detto altrimenti: tutti sembrano condividere il principio della sostenibilità usando a piene mani il suo lessico, ma senza veramente interiorizzarlo. Molti italiani ad esempio riconducono “sostenibile” al verbo “sostenere”. Al contrario, il termine deriva dall’inglese sustain, che è il pedale del pianoforte che allunga il suono. Colgono meglio il senso i nostri cugini francesi quando dicono durable: non si tratta di sopportare, ma di prolungare, portare avanti nel tempo i benefici dello sviluppo. E questo è l’altro termine chiave: se con sviluppo intendo maggiore produzione per maggiore consumo, non può evidentemente essere prolungabile. Bisogna rivedere il concetto di sviluppo,
Cosa intende per crisi entropica e come se ne esce? Il principio è semplice: il cibo è energia per la vita. Se questa energia vale cento, ma io ne consumo il triplo, si crea un disequilibrio. E questo che crea entropia. Per uscirne, l’unico modo è un salto di paradigma. Quelli vecchi si basano su un’idea illimitata di crescita e dicono: riprendete fiducia e tornate a consumare. I nuovi paradigmi sono invece quelli che mirano a ridurre: ridurre il consumo delle risorse e l’impatto che molte tecnologie hanno sulla madre Terra. Il punto è che se questo salto non avviene con coscienza, direi persino con gioia e armonia, siamo destinati a viverlo con grosse difficoltà individuali.
Le persone sarebbero pronte, ma manca la giusta informazione e un’avanguardia politica e culturale in grado di promuovere il salto di paradigma. Per intenderci: qualche tempo fa ho presenziato a un
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slegandolo dal mito dell’iperproduttivismo per applicarlo invece a un rapporto armonico con la natura e la società, con la terra come con le persone, all’interazione felice in nome di un bene comune trasmissibile alle future generazioni. La felicità è importante e dovrebbe essere un parametro per valutare lo sviluppo di una comunità. Lo ha detto bene, qualche tempo fa il presidente uruguayano José Mujica, durante la Conferenza ONU 2012 sullo Sviluppo Sostenibile. Di fronte a tutti quei capi di Stato, intenti a perorare ancora una volta il modello della crescita a ogni costo, quest’uomo ha detto con un candore e una chiarezza che non lasciavano spazio a repliche: “Lo sviluppo non può essere contrario alla felicità. Deve essere a favore della felicità umana; dell’amore sulla Terra, delle relazioni umane, dell’attenzione ai figli, dell’avere amici, dell’avere il giusto, l’elementare. Precisamente”. Lasciando tutti di stucco. Questa forma di banalizzazione, di depotenziamento del concetto di sostenibilità può interessare anche la moda per il food degli ultimi anni soprattutto a livello mediatico. Possiamo trovare del buono in questo, nel senso che tale tendenza può aiutare il processo di rieducazione del nuovo consumatore, oppure si rischia di perdere di vista le vere questioni?
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L’accresciuto interesse intorno al cibo non può che essere un passo in avanti, perché genera curiosità e partecipazione, tutte cose positive. Diverso è quando la moda è fine a se stessa, non promuove nuovi comportamenti. La gastronomia, nella filosofia Slow Food, è una
“Sostenibile” deriva dall’inglese “sustain”, il pedale del pianoforte che allunga il suono. Non si tratta quindi di sopportare, ma di prolungare, portare avanti nel tempo gli effetti dello sviluppo scienza multidisciplinare, a cui va applicata una visione olistica: guardare solo all’aspetto ludico è sbagliato tanto quanto concentrarsi sugli aspetti nutrizionali o tecnologici. Allo stesso modo, una visione esclusivamente salutistica, che esclude il piacere del cibo, che è fondamentale, finisce con l’essere addirittura lesiva. Di qui l’idea di cibo “buono, bello e giusto”, che abbiamo mutuato da uno dei grandi padri della gastronomia italiana, Anthelme Brillat-Savarin, che nel suo libro La fisiologia del gusto, quasi due secoli fa, alla domanda “Che cos’è la gastronomia?” rispose: “è tutto ciò che riguarda l’uomo in quanto essere che si nutre”. Dunque è agronomia e zootecnica, fisica e chimica. E naturalmente storia, economia. E se fosse nato oggi, all’elenco aggiungerebbe senz’altro l’ecologia. Ogni visione parziale del nutrimento, come quelle che spesso vediamo propugnate in TV, è non solo sbagliata, ma ridicola e antieducativa. Il principio olistico avanza di pari passo con quel-
Lo sviluppo non può essere contrario
alla felicitĂ
Cittadella del gusto La sede dell’Università di Scienze Gastronomiche a Pollenzo (CN), che ospita anche la Banca del vino di Slow Food
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lo della produzione distribuita, posto alla base del progetto Terra Madre. Dalla politica alla gestione energetica fino ai processi di socializzazione e apprendimento, molti modelli innovativi sembrano improntati sul concetto di rete. Può tale logica, presa nei suoi aspetti più virtuosi, diventare il minimo comun denominatore di quel salto di cui parlava? Il concetto di rete è importante perché valorizza i singoli nodi. E se le nuove tecnologie aiutano, la vera forza sta nelle persone. Terra Madre, ad esempio, è una rete fisica, che ci ha permesso di portare alla luce un valore specifico: il radicamento sul territorio. Sul locale si creano opportunità partecipative più efficaci che in una dimensione globale. E oggi siamo tutti affamati di partecipazione, proprio perché ce ne è stato tolto il piacere. Ma l’esercizio di cittadinanza sul locale non deve esimerci dall’avere una visione globale e dunque dal cercare, attraverso il locale, opportunità virtuose di condivisione di percorsi, esperienze, forse anche solo sentimenti di fraternità. La rete, in sintesi, ci consente di coniugare partecipazione e condivisione. Negli anni a venire sarà una tematica di primo piano, soprattutto rispetto al concetto di democrazia. In questo momento viviamo una dualità tra democrazia partecipativa e democrazia diretta: la prima appare in crisi mentre la seconda non ha ancora trovato un modello davvero funzionale.
Il cibo è energia per la vita. Se questa energia vale cento, ma io ne consumo il triplo, si crea un disequilibrio. È questo che crea entropia. Per uscirne, l’unico modo è un salto di paradigma
Uno dei pilastri del pensiero di Slow Food è: il cibo è identità e diversità insieme. Da un punto di vista linguistico questo ne fa idealmente una forma di comunicazione interculturale potentissima. In base alla sua esperienza didattica, è davvero così? Può il cibo essere una sorta di “lingua franca” tra le diverse comunità? Non c’è dubbio. E per un semplice motivo: la storia dell’umanità è fondata sull’uomo come essere che ha bisogno di nutrirsi. Oggi abbiamo un gran numero di linguaggi, ma nessuno ha la potenza del cibo, perché il cibo diventa ciò che siamo. L’atto del mangiare è introiettare un pezzo di natura, che viene a fare parte di noi. Ci può essere un atto più potente? Allo
stesso modo, non esiste religione al mondo che non sia mediata da riti alimentari e di consumo. Nella nostra, ad esempio, introiettiamo il divino attraverso il pane e il vino: un gesto di fortissima potenza simbolica. Comportamenti individuali e sociali, il senso del gruppo, della famiglia, dell’intimità, paure, desideri e angosce: tutto passa attraverso il cibo. È anche vero che oggi questa moda di ostentare la conoscenza dei territori attraverso il cibo è in alcuni casi in rotta di collisione con il concetto d’identità a esso legato. Non dobbiamo infatti dimenticare che non esiste identità senza scambio tra popoli, territori, persone, persino madre e figlio. Prendiamo la pasta al pomodoro: per noi italiani è il piatto identitario per eccellenza, ma né la pasta né il pomodoro sono in origine italiani. Se vado a Vicenza mi diranno polenta e baccalà, ingredienti che di base non hanno nulla di veneto. Il cibo è un linguaggio, ma anche il linguaggio è una cosa materialissima, ha una sostanzialità fondamentale. I nomi di certi cibi, ad esempio, sono parte integrante dell’esperienza del gusto, la completano e a volte la influenzano. Senza dubbio. Non a caso esistono fenomeni come l’italian sounding, che anche se ci riem-
piono di prodotti ignobili come il “borgonzola” o il “parmesiano” confermano come il nostro linguaggio abbia una particolare attitudine a esaltare l’esperienza culinaria, un po’ come l’inglese invece sembra essere perfetto per le nuove tecnologie. Ed è un problema di cui dovrebbero occuparsi i nostri istituti di cultura nel mondo, per difendere anche questo patrimonio lessicale. Basti pensare che la Nestlè pare stia investendo enormi risorse perché il nome “nespresso” diventi più potente e riconoscibile di quello dell’espresso, da cui deriva. In conclusione: cosa bisogna fare dunque per invertire la rotta? Al primo posto di questo nuovo paradigma c’è il ritorno alla terra. Ma non nel senso di un regresso, bensì con nuovi strumenti, nuove tutele. La figura del nuovo contadino – negli Stati Uniti il fenomeno inizia a essere evidente e spesso arriva dai grandi centri universitari come Harvard – è giovane, perfettamente collegato al resto del mondo e ha tutti gli strumenti culturali per comprendere che la chiave è rompere il circolo della crescita a tutti i costi e puntare su un’economia locale che sostituisca il mito della quantità con quello della qualità. È questa la via da percorrere.
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Slow Thinking Pioniere di uno stile di pensiero che ha saputo tradursi in un modo di agire dal respiro culturale, sociale ed etico, Carlo Petrini è considerato uno degli innovatori nel panorama della cultura enogastronomica contemporanea. Giornalista, sociologo e scrittore, da più di vent’anni il suo nome è indissolubilmente legato a quello della sua creatura, Slow Food, e alla galassia di attività collaterali che vi ruotano attorno. Nata inizialmente sotto il nome di “Arca”, a evocare metaforicamente la missione di conservazione intrapresa dai suoi fondatori, Slow Food nasce nel 1989 come organizzazione internazionale no profit basata su una nuova idea di gastronomia, intesa come risultato di processi culturali, storici, economici e ambientali. Racconta Petrini: «La presa di coscienza della perdita della biodiversità in campo vegetale, animale e anche culturale è stata decisiva nel delineare la nostra visione: difendere la biodiversità minacciata da un processo di omologazione, che contribuisce a distruggere un patrimonio straordinario che è quello della gastronomia italiana». Da qui l’idea suggestiva della triade di valori assegnati al cibo: “buono, pulito e giusto”, che è anche il titolo di uno dei libri firmati da Petrini (tra gli altri, anche Slow Food Revolution e Slow Food. Le ragioni del gusto). Accanto al progetto principale, e sempre sotto l’insegna di Slow Food e del suo inesausto impegno nella valorizzazione della convivialità e dell’enogastronomia di qualità, nasce nel 2004 anche Terra Madre, la rete di oltre 2000 comunità del cibo in 150 paesi del mondo: attraverso incontri, eventi e iniziative, gruppi di agricoltori, allevatori, pescatori, accademici, cuochi, consumatori e giovani collaborano per produrre e consumare alimenti in modo sostenibile, consapevole e responsabile, rispettando l’ambiente, il territorio, le biodiversità, le tradizioni. I principi di Terra Madre sono, con le parole dello stesso Petrini, essenzialmente due: «L’intelligenza affettiva, non celebrale, ovvero il senso e la percezione di avere a che fare con una fraternità vera tra lingue, religioni, etnie; e quella che io chiamo “l’austera anarchia”, ovvero la consapevolezza che non si può governare la complessità senza il rispetto delle buone pratiche che ciascun territorio ha saputo costruire nei propri luoghi». Detto altrimenti, «io, come italiano, non posso insegnare a un indio o a un tedesco come si deve comportare. Ognuno ha le sue regole, ma deve esercitarle in modo austero, appunto: rispettando il pensiero e la diversità altrui».
Face Book Carlo Petrini, giornalista, sociologo, gastronomo e scrittore, nel 1986 ha fondato l’organizzazione Slow Food, nel 2004 l’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche e il progetto Terra Madre. È autore dei volumi Slow Food. Le ragioni del gusto (2003), Buono, Pulito e Giusto. Principi di una nuova gastronomia (2005) e Slow Food Revolution (2005)
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Franco Pomilio, Ics Chairman e presidente di Pomilio Blumm, ha studiato ad Harvard, MIT e Insead e lavorato nelle principali agenzie pubblicitarie mondiali. Già direttore della rivista Quale impresa e presidente Giovani Imprenditori Confindustria Mezzogiorno, oggi è consigliere di Confindustria Assafrica&Mediterraneo. Tra i fondatori dei progetti TAC e The Bridge, ha pubblicato La Repubblica della Comunicazione (2010), Comunicazione 3.0 (2011) e Comunicare la trasparenza (2013)
Direttore Responsabile: Daniela Panosetti Direttore editoriale: Virginia Patriarca
Oscar Farinetti, imprenditore e dirigente d’azienda, figlio del partigiano, imprenditore Paolo Farinetti, proprietario della catena di grande distribuzione UniEuro fino al 2003 e collaboratore per le ricerche di mercato dell’Università Bocconi di Milano, fonda la catena Eataly nel 2004
Coordinamento redazionale: Simona Di Luzio Cadenza: trimestrale
Vincenzo Boccia, Amministratore delegato di Arti Grafiche Boccia SpA, presidente onorario di Assafrica&Mediterraneo, attualmente è presidente Piccola Industria e vicepresidente di Confindustria con delega per il credito e la finanza per le PMI
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Andrea Segrè, Professore ordinario di Politica agraria internazionale e comparata presso l’Università di Bologna, è fondatore di Last Minute Market e presidente del Centro AgroAlimentare del capoluogo emiliano. Svolge un’intensa attività scientifica e divulgativa. Tra le sue pubblicazioni: La rivoluzione bianca (1994), Economia a colori (2012), Cucinare senza sprechi. Contro lo spreco alimentare: azioni e ricette (2012)
Responsabile di produzione: Antonio Di Leonardo Stampa: Artigrafiche Boccia
Carlo Cracco, Tra i più noti chef italiani a livello internazionale, ha collaborato a lungo con Gualtiero Marchesi e lavorato con maestri della gastronomia come Alain Ducasse e Lucas Norton. Chef executive dell’omonimo ristorante a Milano, dal 2011 conduce la versione italiana del format Masterchef
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Gianfranco Vissani, Cuoco, ristoratore, gastronomo e conduttore televisivo. Il suo ristorante Casa Vissani è presente da vent’anni nelle più prestigiose guide di settore, tra cui Gambero Rosso, che nel 2012 lo ha messo al primo posto della classifica italiana
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Tim Atkin, Maestro di Vino e giornalista enologico di fama internazionale, collabora con The Observer, BBC e importanti testate di genere fra cui The World of Fine Wine. Ha ottenuto diversi riconoscimenti, tra cui il titolo di “Comunicatore dell’anno 2007” dell’International Wine and Spirit Competition e nel 2011 il suo sito è stato premiato “International wine website of the Year” da Louis Roederer Franco Maria Ricci, Direttore della rivista Bibenda, testata enologica dedicata al vino e alla sua comunicazione, è presidente mondiale dell’Associazione Italiana dei Sommelier di Roma Renato Mannheimer, sociologo e saggista, presiede l’Istituto per gli Studi sulla Pubblica Opinione; insegna Analisi dell’opinione pubblica e Tecniche di rilevazione presso l’Università degli Studi Milano-Bicocca
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Gianfranco Marrone è professore ordinario di Semiotica nell’Università di Palermo, dove dirige il Master europeo sulla Cultura e la comunicazione del gusto, e Semiotica della percezione e dell’alimentazione nell’Università delle Scienze gastronomiche di Pollenzo. Collabora a vari quotidiani e riviste, tra cui doppiozero e Alfabeta2 e dirige l’e-journal E/C
Stampato in Italia da Artigrafiche Boccia spa Via Tiberio Claudio Felice, 7 - 84131 Salerno Italy www.artigraficheboccia.com
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Davide Paolini, Giornalista e conduttore radiofonico, è stato direttore delle relazioni esterne Benetton e ha collaborato con Panorama, Vanity Fair e L’Europeo. Negli anni ’90 ha coniato il neologismo di “gastronauta”, titolo della trasmissione che conduce, dal 1999, su Radio24
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Daniela Panosetti, Dottore di ricerca in Semiotica presso la Scuola Superiore di Studi Umanistici di Bologna, già docente di Semiotica del testo presso l’Università “Sapienza” di Roma. Giornalista, collabora con la rivista Alfabeta2 Dario Mangano, Ricercatore, insegna Semiotica all’Università di Palermo e Pubblicità alimentare all’Università di Scienze gastronomiche di Pollenzo. Vicepresidente dell’AISS ha pubblicato Archeologia del contemporaneo (2010) e Semiotica e design (2008). Con Paolo Fabbri ha curato il volume La competenza semiotica (2012) Sara Spinelli, Dottoressa di ricerca in Discipline Semiotiche, svolge attività di ricerca e consulenza nel campo della sensory & consumer science. Pratica attività giornalistica e cura la redazione dei contenuti web per la società italiana e europea di scienze sensoriali