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. Cosa insegna il successo degli “unicorni”, le one billion startup . eCommerce in Italia: il mercato, la logistica, l’export . Le competenze digitali degli universitari italiani . Barilla, lo Smart Working è un successo .

Airbnb Xiaomi U ber

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2 5 | 2016

cover storyY

Cosa le grandi imprese possono imparare dal successo degli Unicorni?

6

Alfredo De Massis, Federico Frattini, Franco Quillico MANAGEMENTK

Virgin, quando investire sul capitale umano è sinonimo di successo per il business

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Sir Richard Branson, patron Gruppo Virgin

L’innovazione tecnologica? Non abbiamo ancora visto niente Joel Mokyr, Storico dell’Economia, Northwestern University Normative - Il Parlamento europeo approva il Regolamento Generale sulla protezione dei dati Gabriele Faggioli, giurista, Partners4Innovation, Presidente Clusit

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intervisteK

eCommerce, in Italia oltre 11 milioni di clienti abituali Alessandro Perego, Osservatori Digital Innovation, Politecnico di Milano Wind, ancora più alta l’offerta di servizi per le imprese

18 58

Sherif Rizkalla, Direttore Business Marketing, Wind osservatoriK

Export italiano, solo il 4% viene dall’eCommerce

20

Riccardo Mangiaracina, Osservatori Digital Innovation, Politecnico di Milano

Supply Chain Finance, il mercato in Italia vale 570 miliardi Federico Caniato, Osservatori Digital Innovation, Politecnico di Milano

60

Avvocati, Commercialisti e Consulenti del Lavoro sempre più digitali Claudio Rorato, Osservatori Digital Innovation, Politecnico di Milano

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digital transformationK

Advisory Board Umberto Bertelè Presidente Advisory Board Giampio Bracchi Politecnico di Milano Carlo Alberto Carnevale Maffè Università Bocconi Maurizio Dècina Politecnico di Milano Giuliano Noci Politecnico di Milano Paolo Pasini SDA Bocconi Francesco Sacco Università dell’Insubria - SDA Bocconi Raffaello Balocco Segretario Advisory Board

HR - Universitari italiani, tutti bravi sui social, molti meno sul digitale Andrea Rangone, CEO, Digital 360

28

HR - Barilla, quando lo Smart Working è un successo

32

HR - Philips, più agilità e work-life balance con il progetto “Io lavoro Smart” 34 Livio Zingarelli, Head of HR & Business Transformation Italia, Israele e Grecia, Philips Marketing - Mobile Transformation, in due aziende su tre il percorso è avviato

36

Marketing - Nike sposta ancora avanti la frontiera dello shopping personalizzato 38 Procurement - Coop, una piattaforma digitale per gestire i fornitori Gabriele Tubertini, CIO, Coop Italia

42

Finance - Deloitte, ecco la cassetta degli attrezzi digitale per il CFO

44

Supply Chain - Logistica di magazzino, Unieuro: se il progetto è vincente si ripete 52 Claudio Marchionni, Direttore Logistica, Unieuro reportageK

Hybrid IT, Cloud e On-Premise: compliance, gestione dei dati e best practice

70

rubrica | ricerche e studi

74

rubrica | nomine

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editoriale

Gli “unicorni”: una realtà irripetibile, affascinante, con qualche crepa Gli unicorni, oggetto della cover story, sono imprese giovani (raramente con più di dieci anni di vita) che hanno fruito per la loro crescita dell’apporto di capitali privati - di fondi ma anche di singoli con patrimoni consistenti - e che sono state valutate almeno un miliardo di dollari in occasione dell’aumento di capitale più recente. Il loro numero è molto cresciuto nel tempo, se ne contano ben 146, non solo come frutto dell’effervescenza imprenditoriale, ma anche per la crescente riluttanza (a causa delle incertezze dei mercati finanziari) a seguire una delle due uniche strade possibili - quotarsi o farsi comprare da gruppi più grandi - per poter far rientrare gli investitori dei capitali messi in gioco. Perché una realtà irripetibile e affascinante, ma con qualche crepa? Una realtà irripetibile, o comunque difficilmente replicabile, perché figlia di due eccezionalità: la digitalizzazione da un lato, con le sue grandissime potenzialità di innovazione in tutti i comparti dell’economia e nello stesso nostro modo di vivere; l’enorme disponibilità di capitali alla disperata ricerca di rendimenti, dall’altro, in una fase storica in cui si è giunti ai tassi di interesse negativi. di

umberto bertelè presidente advisory board digital4executive autore di “strategia”

@umbertobertele

Una realtà affascinante se si guarda alla California (ove si ha la massima concentrazione di unicorni) non solo come patria delle tecnologie digitali e del venture capital, ma anche come luogo ove - a differenza ad esempio di un Paese (tristemente) conservatore come il nostro - c’è ancora chi pensa, talora con una vena di pazzia, che il mondo possa essere cambiato e che anche le regole più consolidate possano essere sovvertite. Due esempi, ripresi dalla cover story: Uber, con la sua idea folle di cambiare la gestione dei servizi privati di trasporto locale in tutto il mondo, che per perseguirla si mette in conflitto quasi ovunque con le autorità e provoca addirittura violente proteste di piazza, ma che paradossalmente vede la sua idea avere successo anche laddove non è ancora presente (ma ove sono nate imprese che hanno prontamente imitato il suo business model); Airbnb, con la sua idea altrettanto folle di ristrutturare completamente il sistema dell’accoglienza e della ricezione a livello mondiale, che si scontra anch’essa quasi ovunque con gli interessi costituiti (fino a farsi bandire da un’area come la Catalogna), ma che ha una capacità tale di incidere sui comportamenti - sia di chi cerca alloggi sia di chi li mette a disposizione - da obbligare una larga parte del sistema alberghiero a ristrutturarsi o morire. Una realtà affascinante anche se si guarda alla Cina, che ha visto il suo unicorno Alibaba portare a casa, con l’IPO del 2014, la cifra più elevata della storia borsistica mondiale. Affascinante perché mostra l’intelligenza di un Paese che decide - avvalendosi anche dell’arma del protezionismo - di costruire direttamente con il digitale le nuove infrastrutture, commerciali ma pure finanziarie, che la sua enorme crescita ha reso indispensabili. Ma gli unicorni sono anche una realtà in cui si intravedono crepe, che potrebbero approfondirsi e far inceppare l’intero sistema se non si rimette in moto il meccanismo degli IPO. Quello che è già avvenuto in diversi casi è che la Borsa non sia disponibile a confermare - in sede di quotazione - il valore attribuito alle società in occasione dell’ultimo aumento di capitale privato. Un fatto tutt’altro che strano, soprattutto per aumenti datati, se si pensa alle enormi fluttuazioni nelle capitalizzazioni di società quotate famose: LinkedIn e Twitter hanno perso ad esempio negli ultimi 12 mesi rispettivamente il 57 e il 68 per cento del loro valore, mentre Alphabet-Google e Facebook lo hanno accresciuto del 35-40. Un fatto che spesso ha spinto gli unicorni a rinviare l’IPO in attesa di tempi migliori. La novità che turba i sonni di molti loro fondatori è che i grandi mutual fund come Fidelity, entrati in gioco relativamente di recente come finanziatori, sono obbligati dalle regole dei loro internal audit a rivedere periodicamente i valori degli asset e lo stanno facendo, sulla base dell’andamento dei titoli comparabili: ufficializzando tagli sui valori che rischiano di far perdere le risorse umane di maggior pregio, in larga misura remunerate con azioni.

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cover story di di

Alfredo De Massis, Federico Frattini, Franco Quillico

Cosa le grandi imprese possono imparare dal successo degli unicorni? Gli unicorni, imprese private con investitori di tipo “venture capital” valutate almeno un miliardo di dollari, sono diventati molto popolari. Una ricerca ne ha studiato le caratteristiche e l’approccio, unico sul mercato. La velocità è il tratto distintivo: si tratta di business ottimizzati per portare innovazioni digitali al mercato molto, molto rapidamente

Il termine “unicorni”, coniato nel 2013 da Aileen Lee, fondatore di Cowboy Ventures, è comunemente usato per identificare imprese private con investitori di tipo “venture capital” valutate almeno un miliardo di dollari. A febbraio 2016 i 10 top unicorni sono: Uber, Xiaomi, Airbnb, Palantir, Meituan-Dianping, Snapchat, Did Kualdi, Flipkart e SpaceX. Una lista completa degli unicorni è pubblicata dal Wall Street Journal: a febbraio 2016 la lista comprende 146 imprese. Gli unicorni sono diventati molto popolari nella stampa specializzata e sono stati studiati ampiamente. In particolare molto è stato detto in merito alla domanda fondamentale cioè se il loro valore è almeno vicino alla loro valutazione e perché essi sono riluttanti ad andare in borsa. Tuttavia celebrando semplicemente le storie di successo degli unicorni, o disquisendo sulle loro valutazioni, rischiamo di ignorare la seguente importante domanda: come hanno fatto a creare così tanto valore? | 6 |

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Di primo acchito la risposta è alquanto ovvia: gli unicorni crescono in fretta. Di conseguenza essi si avvantaggiano della ripida crescita dei business nei quali operano. Pensiamo ad Uber, creata nel 2009, che è ora operativa in oltre 400 città nel mondo, soddisfa più di un milione di richieste al giorno, ha circa 9 milioni di utenti e riceve più di un miliardo di dollari di pagamenti all’anno. Snapchat, nata da un’idea concepita nel 2011, è ora valutata a circa 16 miliardi di dollari, con oltre 100 milioni di utenti attivi che inviano una media di oltre 400 milioni di “snaps” al giorno. Un terzo esempio è Airbnb, ora valutata a 25,5 miliardi di dollari, che ha avuto una crescita incredibile, con il numero totale di utenti che è praticamente raddoppiato ogni anno dal 2012. Anche HelloFresh ha mostrato un tasso di crescita impressionante, con ricavi che hanno raggiunto circa 300 milioni di dollari nel 2015, un incremento enorme dai 3 milioni del 2012. C’è qualcosa riguardo queste specifiche imprese che altri possono imparare? Per rispondere a que-


c ov e r s tory | Cos a l e g ra n di imp re se p o sso n o impa ra re da l succe sso de g l i U n ic o rni?

Chi è Alfredo De Massis Alfredo De Massis è Professore Ordinario di Imprenditorialità e Family Business e Direttore del Centre for Family Business presso la Lancaster University Management School, nel Regno Unito. In precedenza ha insegnato all’Università di Bergamo dove è stato co-fondatore del Center for Young and Family Enterprise. Il suo lavoro di ricerca in questo ambito è ampiamente pubblicato su testate accademiche e specializzate. In passato ha lavorato in SCS Consulting, Accenture, Borsa Italiana.

Chi è Federico Frattini Federico Frattini è Professore Associato presso la School of Management del Politecnico di Milano. Al MIP, la Graduate School of Business del Politecnico di Milano, è Direttore dei programmi MBA ed Executive MBA. La sua attività di ricerca è focalizzata sui temi della gestione dell’innovazione e della tecnologia, con particolare attenzione ai settori delle energie rinnovabili e dei mercati green.

Chi è Franco Quillico Franco Quillico è Adjunct Professor di Strategia e Finanza al MIP, la School of Management del Politecnico di Milano, e Adjunct Professor di Finance all’International University of Monaco. È Managing Partner di Andromeda Consulting, che si focalizza su operazioni di Mergers & Acquisitions. In passato ha lavorato in McKinsey, Bain e Salomon Brothers.

sta più profonda domanda abbiamo portato avanti un’analisi sistematica dei 146 unicorni identificati dal Wall Street Journal. Grazie a questa analisi abbiamo identificato quattro caratteristiche che sono comuni a quasi tutti gli unicorni e che noi riteniamo possano spiegare perché hanno avuto così tanto successo. Gli unicorni sono: Di piccola dimensione. Fino al 2014 Uber aveva meno di 500 dipendenti, oggi sono circa 3.000. Palantir, un’impresa B2B fondata nel 2004 che offre un insieme di applicazioni software per integrare, visualizzare e analizzare i dati ha circa 1.500 dipendenti nel mondo ed è valutata 20 miliardi di dollari. Pinterest alla fine del 2012 aveva circa 100 dipendenti con 40 milioni di utenti e questo la rendeva la più grande piattaforma “social media” in termini di numero di utenti per dipendente. La piccola dimensione degli unicorni permette al top management di essere direttamente e profondamente coinvolto nella maggior parte delle decisioni strategiche, che sono poi implementate attraverso una organizzazione aziendale piatta. Questo rende più facile prendere decisioni e metterle in pratica molto velocemente. Guidati da imprenditori seriali. Gli unicorni sono spesso fondati e guidati da imprenditori seriali che sono passati attraverso diversi fallimenti nelle

loro vite professionali. Per esempio, i cofondatori di Snapchat, Evan Spiegel e Bobby Murphy, hanno iniziato a lavorare insieme, tra gli altri progetti, su un sito per studenti chiamato Future Freshman all’Università di Stanford. Essi hanno provato quasi 34 progetti che hanno fallito prima di sviluppare una app per l’iPhone chiamata Picaboo, che è stata successivamente rinominata Snapchat. Analogamente Apoorva Mehta, che in precedenza aveva lavorato come ingegnere ad Amazon, è fondatore di Instacart, ora valutata 2 miliardi di dollari, ma ha provato fino a 20 differenti modelli di business che hanno fallito prima di trovare quello giusto. Anthony Soohoo, uno dei cofondatori di Dot&Bo, ha dichiarato: «Inizialmente ogni idea e prototipo che sviluppavamo per l’impresa era completamente sbagliato. Durante i primi cinque mesi di vita dell’impresa noi abbiamo essenzialmente fallito ogni giorno… Tuttavia, attraverso questi sforzi abbiamo ridefinito la nostra visione andando oltre “l’azienda che vende mobili” per creare un brand che possa ispirare e permettere alla gente di creare il soggiorno dei loro sogni… Se il fallimento è un prerequisito per il successo, le imprese non si possono più permettere di non incoraggiare l’assunzione di rischi. A Dot&Bo noi crediamo nel lancio veloce di progetti e nel muoversi rapidamente su quelli che mostrano segni di successo, e al tempo stesso nel prendere atto delle iniziative che hanno www.digital4executive.it

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cover story | Co s a l e gr and i i m pr e s e pos s ono impa ra re da l succe sso de g l i U n ic o rn i?

La storia degli imprenditori dietro gli unicorni è piena di fallimenti; questo permette loro di instillare nelle imprese una cultura che enfatizza l’importanza di verificare la fattibilità di un’idea innovativa il più velocemente possibile

fallito». La storia dei fondatori e degli imprenditori dietro gli unicorni è perciò piena di fallimenti; questo permette loro di instillare nelle loro imprese una cultura che enfatizza l’importanza di anticipare i problemi di un’idea innovativa il più velocemente possibile testandone la fattibilità. Finanziati da fondi di Venture Capital. Uber da solo ha raccolto più di 10 miliardi di dollari da fondi di Venture Capital e altri investitori simili, mentre Snapchat ha raccolto 1,2 miliardi di dollari. MeituanDianping è l’impresa dominante in Cina nella prenotazione di ristoranti, acquisto di biglietti per il cinema e altri servizi attraverso Internet. Fondata nel 2015 e ora valutata ad oltre 18 miliardi di dollari, ha raccolto 3,3 miliardi di dollari in un solo “round” di finanziamento, che si qualifica come il più grande “round” di finanziamento per uno start-up nella storia. Flipkart, il più grande sito di commercio online in India ha finora raccolto la cifra impressionante di 3 miliardi di dollari in nove “round” di finanziamento. La forte presenza di Venture Capitalist tra gli azionisti degli unicorni crea un’enorme pressione a co-

struire dei business di successo molto velocemente e con l’obiettivo di una exit. È improbabile che imprese con strutture azionarie differenti, come quelle quotate, siano veloci quanto gli unicorni nel creare le loro innovazioni e nel portarle al mercato. Strettamente focalizzati. Airbnb offre una connessione tra i padroni di case e appartamenti con camere da affittare e persone che cercano un’alternativa meno cara all’albergo. Palantir ha costruito il suo business intorno a una singola applicazione di software che effettua un’analisi dei collegamenti presentando in una forma visuale attraente la relazione esistente tra ogni tipo di dato, come numeri di telefono e documenti bancari. Questa focalizzazione estrema implica un impegno totale da parte del top management ed evita il rischio di disperdere l’attenzione manageriale tra diverse sfide strategiche. Inoltre le innovazioni al centro delle storie di successo degli unicorni sono innovazioni digitali. Facendo leva sulla pervasività delle piattaforme digitali e dei social network come canali attraverso

Gli unicorni con maggior valore Ultima valutazione (miliardi di dollari)

Total Equity Funding

Data ultima valutazione

51,0

7,4 miliardi di $

agosto 2015

46,0

1,4 miliardi di $

dicembre 2014

Airbnb

25,5

2,3 miliardi di $

giugno 2015

Uber Xiaomi

Palantir

20,0

1,9 miliardi di $

ottobre 2015

Meituan-Dianping

18,3

3,3 miliardi di $

gennaio 2016

Snapchat

16,0

1,3 miliardi di $

febbraio 2016

| 8 |

WeWork

16,0

1,4 miliardi di $

marzo 2016

Didi Kuaidi

16,0

4,0 miliardi di $

settembre 2015

Flipkart

15,0

3,0 miliardi di $

aprile 2015

SpaceX

12,0

1,1 miliardi di $

gennaio 2015

Pinterest

11,0

1,3 miliardi di $

febbraio 2015

Dropbox

10,0

607 milioni di $

gennaio 2014

Lufax

9,6

488 milioni di $

marzo 2015

Theranos

9,0

750 milioni di $

febbraio 2014

Spotify

8,5

1,0 miliardi di $

aprile 2015

DJI

8,0

105 milioni di $

maggio 2015

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Fonte: Wall Street Journal. Dati aggiornati al 7 aprile

Società


c ov e r s tory | Cos a l e g ra n di imp re se p o sso n o impa ra re da l succe sso de g l i U n ic o rni?

Alfredo De Massis

i quali esse entrano nel mercato e raggiungono i loro clienti potenziali, le innovazioni digitali richiedono sforzi e investimenti in marketing e commercializzazione relativamente minori rispetto a prodotti o servizi tradizionali, e si diffondono molto più rapidamente. In poche parole la nostra analisi indica diverse cose riguardo agli unicorni. Essi hanno una leadership molto focalizzata e con forte esperienza; il loro modello di business è costruito attorno a una singola piattaforma digitale o un software che può essere sviluppato molto velocemente e con costi contenuti; essi non hanno bisogno di investire per creare una grossa forza lavoro o grandi asset: essi sono finanziati da investitori motivati a vendere nel breve termine; e sono pronti a chiudere l’impresa o ad immettere più denaro con un breve preavviso. Cultura, incentivi e fabbisogni sono tutti orientati verso la velocità; gli unicorni rappresentano business ottimizzati per portare delle innovazioni digitali al mercato molto, molto rapidamente. Sicuramente ci sono anche molti fallimenti. Però il ciclo iper-veloce del mondo digitale significa che questi imprenditori e i loro finanziatori possono fallire più velocemente rispetto al passato, il che li aiuta a raggiungere la terra promessa più velocemente. Noi chiamiamo questo approccio unico adottato dagli unicorni “lighting innovation” - e grandi imprese come Microsoft, Apple e Cisco dovrebbero essere in grado di trarre grossi benefici dalla sua applicazione. Dopo tutto, la lighting innovation fornisce dei risultati quasi immediati, non comporta un alto grado di rischio tecnico, è rivolto a mercati vasti e ben identificati, non cade al di fuori del business attuale o delle aree di azione strategica, e tipicamente ha performance superiori ai prodotti o servizi esistenti. Tuttavia, per realizzare questo potenziale imprese consolidate avranno bisogno di rivisitare fondamentalmente i loro modelli di business e le loro culture. Alcuni dei grandi player sembrano aver riconosciuto questo bisogno - la lighting innovation potrebbe essere una delle motivazioni di Google nel creare la sua struttura Alphabet nel 2015, dividendosi in unità più piccole e agili. In un mondo digitale imparare a fallire velocemente è la chiave per crescere velocemente. Possiamo auspicare che le imprese grandi e strutturate di oggi potranno prendere esempio da Google e incominciare a trasformarsi in un portafoglio di unicorni.

Federico Frattini

Franco Quillico

Una versione più estesa e in lingua inglese di questo articolo è stata pubblicata in Harvard Business Review e può essere scaricata al seguente link: https://hbr.org/2016/03/what-big-companies-canlearn-from-the-success-of-the-unicorns www.digital4executive.it

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management - world of business ideas di

in collaborazione con

Paola capoferro ronchetta

Richard Branson

Virgin, quando investire sul capitale umano è sinonimo di successo per il business

fondatore e presidente Gruppo Virgin

Se le persone sono soddisfatte lavorano con maggiore motivazione e sono più fedeli, ricambiando la fiducia che l’azienda ripone in loro. Il punto di partenza è l’adozione di policy poco restrittive. È questa la ricetta secondo Sir Richard Branson, il patron del noto Gruppo multinazionale, «per fare in modo che i dipendenti vengano a lavorare volentieri il lunedì mattina e con positività, divertendosi»

In un mondo in cui è l’eccellenza a essere premiata è fondamentale puntare in alto e non dimenticare mai che il business altro non è che un’idea per migliorare la qualità della vita delle persone. Se offrire prodotti e servizi di qualità è quindi una condizione imprescindibile per il successo, un ruolo primario in questa partita lo giocano le persone motivate e orgogliose di quello che fanno: sono loro che internamente creano un clima positivo e che sorridono ai clienti, rendendoli contenti. Come ha raccontato al World Business Forum di Milano lo scorso ottobre il patron del Gruppo Virgin, Sir Richard Branson, in estrema sintesi è questa la scintilla che ha guidato negli anni la storia di uno dei marchi più noti al mondo, con cui sono state lanciate centinaia di società nei campi più disparati, fino alla creazione di un gruppo che oggi impiega 50mila persone in 50 Paesi. Alla domanda se esiste un modello di leadership che si possa connotare come il “Modello Virgin”, | 10 |

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Branson risponde senza esitazione che «la vita dovrebbe essere divertente e, considerando che la maggior parte di essa è trascorsa in ambito lavorativo, anche il lavoro dovrebbe esserlo. Peccato che spesso molti manager lo dimentichino». È proprio questo l’approccio con cui oggi sono gestite le risorse umane all’interno del gruppo. «Investiamo moltissimo sul capitale umano, cercando di fare in modo che i nostri dipendenti desiderino venire a lavorare volentieri il lunedì mattina, che vivano con positività il lavoro e fare quello che compete loro. Per questo in Virgin abbiamo introdotto delle procedure a garanzia del lavoro flessibile, che definiamo “individual flexibility”, che consentono di poter decidere liberamente se lavorare da casa o dall’ufficio in base alle proprie esigenze. C’è per esempio chi decide di farlo il lunedì o il venerdì così da gestire più facilmente gli impegni familiari del fine settimana». In Virgin, i dipendenti hanno anche la possibilità


di prendersi un mese di libertà o lavorare part-time per trascorrere dei periodi a casa con la famiglia, proprio perché secondo Branson è fondamentale che alla gestione delle risorse umane sia associato il concetto di flessibilità. Da questa considerazione è nata la sperimentazione di un progetto più radicale che consente ai dipendenti di prendere le ferie quando lo desiderano, senza essere costretti a chiedere il permesso, «basandosi sull’idea che se una persona ha bisogno di usufruirne la cosa migliore è lasciarglielo fare piuttosto che mettere dei paletti». Tutto questo porta a ripensare al modo in cui si lavora. Concentrarsi per rendere al massimo, portare a termine i propri compiti con la massima produttività e poi prendere un giorno libero: sono questi gli obiettivi che oggi si prefiggono i dipendenti del Gruppo Virgin. A conferma del fatto che questo nuovo modello di gestione è vincente c’è la soddisfazione delle persone, che si allontanano meno dal gruppo e dimostrano di lavorare con più motivazione, apprezzando la fiducia che l’azienda ripone in loro con l’adozione di policy meno restrittive. «Trattare i dipendenti come adulti, quali in effetti sono, piuttosto che come bambini che devono essere seguiti passo passo risulta essere fondamentale anche per il successo del business», sottolinea Branson. Naturalmente questa organizzazione del personale ha dei limiti. Per esempio, è difficilmente applicabile ad alcuni comparti, come quello aereo: nel caso dei piloti una gestione flessibile renderebbe difficoltoso la turnazione e a farne le spese sarebbero in primis i viaggiatori e in un secondo momento l’azienda stessa (questo è il caso delle compagnie Virgin Atlantic, Australia e America che fanno parte del Gruppo). «Il nostro obiettivo è anche rendere il lavoro un viaggio – continua Branson –, renderlo divertente. Ecco perché in Virgin spesso si organizzano dei party che tutti amano! È successo anche quando abbiamo acquisito la compagnia ferroviaria Intercity West Coast, in precedenza gestita dal governo inglese: è stata organizzata una festa durata sei giorni che ha coinvolto tutti i dipendenti sparsi nel Paese. Qual è stato il risultato? Che ancora quelle persone dopo dieci anni sono felici e serene, e desiderano andare a lavoro: queste sono cose che forse le aziende pubbliche non fanno, ma aziende come Virgin sì». Anche il dress code in Virgin è “flessibile”: ogni collaboratore può decidere di vestirsi come preferisce, non esiste l’obbligo di completi o cravatte.

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SMART WORKING LIFE gli obiettivi raggiunti contano più del tempo e del luogo di lavoro ...

R

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management - wor l d of b us i ne s s i d e a s | V i r g in , in v e st ire sul c a p ita l e uma n o è sin o n imo di suc c e sso p e r il Business

«Per essere creativi e lavorare al meglio ciascuno deve sentirsi a proprio agio. Ovviamente ci sono occasioni in cui vestire in modo più elegante è necessario, ma in un certo senso una persona di business è un’artista, proprio per questo non vogliamo che tutti vestano allo stesso modo», rincara Branson mentre taglia la cravatta del suo interlocutore durante l’intervento al World Business Forum. In merito all’importanza dello stile di leadership, il patron di Virgin ammette che molte delle caratteristiche di un’azienda derivano dal Top Management. «Quando si assume un manager è fondamentale scegliere un motivatore, perché così le persone che collaboreranno con lui saranno portate naturalmente a migliorare e a far crescere anche l’azienda. Al contrario scegliendo un manager poco incoraggiante si rischia che i collabora-

tori si sentano a disagio, siano meno produttivi e più in difficolta. Per questo proviamo sempre a cercare qualcuno che ami le persone e che veda i loro punti di forza, spronando chi si prende i rischi senza paura, non criticando gli errori». Per Branson è così importante scegliere le persone giuste che ha inventato un modo del tutto fuori dagli schemi per testarle. In occasioni ritenute davvero strategiche, fingendosi un taxista ottantenne si è recato a prendere all’aeroporto i candidati che avevano un colloquio con lui per analizzarne di nascosto i comportamenti in condizioni normali, notando se gli facevano portare le valigie, se le caricavano da soli, se lasciavano la mancia, se erano educati o meno. Inutile dire che chi è stato più gentile ha avuto il lavoro e nulla potrà convincere Branson che questa tecnica non funzioni davvero.

Chi è Sir Richard Branson Negli Anni ‘70, il ventenne Richard Branson fonda Virgin, inizialmente un negozio di dischi per corrispondenza, divenuto poi la catena di negozi conosciuta con il nome di Virgin Megastore, uno studio di registrazione e in seguito la famosa casa discografica. Oggi è il Presidente del Gruppo Virgin, diventato uno dei più noti brand a livello mondiale, presente con le sue attività diversificate in tutto il mondo. Nel 2000 ha ricevuto dalla Regina d’Inghilterra il titolo di cavaliere (Sir) per i suoi meriti imprenditoriali. Nel 2015 Forbes lo ha posto nella classifica degli uomini più ricchi al mondo con un patrimonio netto stimato di oltre 5 miliardi di dollari. Spirito avventuroso, ha tentato di battere numerosi record. Nel 1986 con il suo motoscafo è stato il più veloce di tutti i tempi ad attraversare l’Oceano Atlantico. L’anno dopo è stata la volta della traversata dello stesso Oceano in mongolfiera. Nel 2004 è stato il più veloce ad attraversare la Manica con un mezzo anfibio. Nel 2004 ha fondato Virgin Unite, organizzazione non profit che affronta i grandi problemi dell’umanità facendo leva soprattutto sulle persone che lavorano nel Gruppo Virgin. Nel 2004 ha riunito Nelson Mandela, Graça Machel and Desmond Tutu per formare The Elders, un gruppo di leader indipendenti che lavorano per trovare soluzioni sostenibili per le grandi emergenze globali. Nel 2010 ha lanciato la Carbon War Room, iniziativa che punta a raccogliere capitali e competenze per sviluppare l’innovazione e lo spirito imprenditoriale per affrontare il cambiamento climatico. Ha anche fondato in Sud Africa e in Giamaica i Branson Centers of Entrepreneurship.

Virgin, i numeri di un gruppo con oltre 50mila dipendenti Il Gruppo Virgin, con sede a Londra e quotato in Borsa, conta 400 compagnie in 50 Paesi, con un fatturato complessivo (nel 2012, ultimo dato disponibile da fonti ufficiali) di 24 miliardi di dollari e 50mila dipendenti. La sua è una struttura complessa che presenta gli elementi di un generico conglomerato di imprese che operano in settori differenti, collegate fra loro da partecipazioni incrociate, reti relazionali, licenze di utilizzo del marchio, e in generale da vincoli non tanto giuridici quanto etici di appartenenza al gruppo. L’approccio prevede che le società gestiscano il proprio business in autonomia, con lo scopo di perseguire obiettivi comuni e definiti. Il Gruppo ha tra i suoi core business i viaggi, l’intrattenimento e il benessere e inoltre vi fanno capo società attive nell’ambito finanziario, dei trasporti, dell’assistenza sanitaria, del Food & Drink, dei media e telecomunicazioni. Nel trasporto aereo tra le compagnie più note figurano Virgin Atlantic, Australia e America, in quello ferroviario Virgin Rail Group e Trains East Coast, nell’intrattenimento Virgin Radio, nelle telecomunicazioni Virgin Mobile, nel turismo spaziale Virgin Galactic. Si occupa anche di palestre (Virgin Active), casino online, viaggi in mongolfiera, editoria, voucher per regali, produzioni televisive, imballaggi, festival musicali, Internet, gare di Formula 1 e molto altro. A tutto questo si affianca anche l’attività filantropica portata avanti da Virgin Unite.

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Daniele Lazzarin

Joel Mokyr storico dell’economia northwestern university

L’innovazione tecnologica? Non abbiamo ancora visto niente Il progresso scientifico può continuare a tenere i ritmi degli ultimi 200 anni? E aiuterà a risolvere i grandi problemi del nostro tempo? In una Lectio Magistralis al Politecnico di Milano, l’economista Joel Mokyr ha illustrato le ragioni della sua visione - ottimista ma pragmatica - sul futuro dell’innovazione. «Abbiamo oggi le stesse condizioni che hanno permesso all’Europa di progredire dall’Illuminismo in avanti»

I media ci ricordano ogni giorno i grandi problemi del nostro tempo: l’economia che non riparte, la sovrappopolazione, l’esaurimento delle risorse naturali, i disastri ambientali. In questo scenario una domanda frequente e cruciale è: possiamo mantenere il ritmo d’innovazione tecnologica che ha così profondamente cambiato la vita quotidiana dal 1850 in poi? Secondo Joel Mokyr, storico dell’economia di fama mondiale, che ha recentemente tenuto una “lectio magistralis” al Politecnico di Milano, possiamo essere ottimisti: «Il progresso tecnologico è ben lontano dall’aver raggiunto un massimo». Mokyr ha aperto il suo discorso, intitolato “The Future of innovation: are the good times over?”, riassumendo le due posizioni contrapposte. «I tecnopessimisti, come Robert J. Gordon, dicono che i “low hanging fruits” dell’innovazione, cioè i “frutti” più facili da cogliere (acqua corrente, elettricità, aria condizionata, antibiotici) sono già | 14 |

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stati colti, e le future invenzioni non avranno mai impatti cosi radicali come in passato. E non è solo: Peter Thiel ha detto “volevamo macchine volanti, e invece abbiamo avuto 140 caratteri”, riferendosi a Twitter, mentre l’Economist nel gennaio 2013 è uscito con un lungo servizio di copertina dal titolo “La macchina delle idee si è rotta?”». Dall’altra parte ci sono gli iperottimisti («che forse sono anche peggio»), per i quali i progressi nell’elaborazione e nell’intelligenza artificiale possono aumentare la produttività in modo tale che lavoro e mente umana diventeranno superflui. «Ray Kurtzweil aggiunge che le macchine non solo saranno capaci di replicarsi, ma anche di automigliorarsi ricorsivamente, mentre Nordhaus sull’Economist ha detto che a questa velocità di evoluzione, l’IT prima o poi raggiungerà gli skill e l’intelligenza umana». Rispetto a questi, Mokyr è su una linea pure ottimistica, ma molto più moderata e pragmatica:


m a nage m e nt | L’ in n ova z io n e t e c n o l o g ic a ? N o n a b b ia mo a n c o ra v ist o n ie nt e

Chi è Joel Mokyr Joel Mokyr è Professor of Arts and Sciences e Professor of Economics and History alla Northwestern University, dove insegna dal 1974, ma nel frattempo è stato anche Visiting Professor alle università di Harvard, Chicago, Stanford, Gerusalemme (Hebrew University), Tel Aviv, Manchester, e all’University College di Dublino. È specializzato in Storia dell’Economia e nei fondamentali economici dello sviluppo tecnologico e demografico. È autore di oltre 100 articoli e libri, tra cui “The Gifts of Athena: Historical Origins of the Knowledge Economy”, “The Enlightened Economy”, e “A Culture of Growth”, uscito da pochissimo (Princeton University Press, 2016). È stato editor in chief della Oxford Encyclopedia of Economic History (2003), ed è fellow della Econometric Society, e foreign fellow della Royal Dutch Academy of Sciences e dell’Accademia Nazionale dei Lincei a Roma. Ha vinto molti premi, tra cui il Joseph Schumpeter memorial prize, il Ranki prize per il miglior libro di storia economica europea, e l’anno scorso il Premio Internazionale Balzan per la storia economica.

«Forse i low hanging fruit sono stati tutti colti, ma la funzione principale di scienza e tecnologia è fare scale sempre più alte per cogliere frutti più alti. E anche piantare nuovi alberi da cui cogliere frutti. E d’altra parte l’Intelligenza Artificiale e l’IT possono essere complementari all’intelligenza umana, ma non sostituirla: possono aiutarci a capire e dominare meglio la natura». la competizione porta evoluzione: nessuno vuole rimanere indietro Per una lettura davvero equilibrata, insiste Mokyr, il punto di vista dev’essere sul lungo periodo: «Quattro fattori hanno innescato la “useful knowledge”, quella miscela di scienza e tecnologia che ha creato le basi di un successo plurisecolare dell’Europa dall’Illuminismo in poi. E per me anche nel prossimo futuro possono prevalere

su tutti gli elementi sfavorevoli, dalla sovrappopolazione all’esaurimento delle risorse naturali». Questi quattro fattori secondo Mokyr sono: competizione, “Artificial Revelation”, costi d’accesso, e incentivi per chi fa ricerca. «Cominciamo dal primo punto: perché la competizione è importante? Dal punto di vista evolutivo il progresso avviene grazie alla selezione naturale, da quello economico la competizione facilita il progresso perché nessuno vuole rimanere indietro». E in effetti la frammentazione politica e religiosa dell’Europa nel 1600 e 1700 fu una chiave del suo successo: l’Italia era il Paese più frammentato ed è stato il Paese leader. «Con gli strumenti di analisi odierni possiamo dire che le entità politiche dell’epoca incoraggiarono il progresso scientifico e tecnologico non per ragioni filantropiche, ma per stare al passo con gli stati confinanti. La competizione

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management | L’i nnovaz i one t e cnol ogi ca? N on a b b ia mo a n c o ra v ist o n ie n t e

La “macchina delle idee” non si è rotta, come alcuni sostengono. Ma politica e istituzioni fanno da freno

era anche interna agli stati, tra gruppi religiosi e città, ma anche tra diversi partiti in molte discipline - medicina, fisica, biologia, filosofia – perché le nuove scoperte generavano teorie e modelli alternativi tra cui si poteva scegliere». Tutto questo ha generato scoperte e invenzioni rivoluzionarie di scienza e tecnologie, e quindi la Rivoluzione Industriale e la moderna crescita economica. Ma come si ricollega tutto questo allo scenario odierno? Anche oggi il mondo è più competitivo che mai. «La globalizzazione non impedisce che ci sia forte concorrenza tra diversi “blocchi” - USA, Europa, Cina, eccetera – con diverse culture che producono diverse forme di innovazione: gli americani sono forti in genetica, i tedeschi in chimica, gli israeliani nel software. Rispetto al passato, però, oggi un’invenzione fatta in un singolo posto si diffonde istantaneamente in tutto il mondo». «Il digitale mi interessa per come aiuta la ricerca» Il secondo fattore è quello che Mokyr chiama “Artificial Revelation”, cioè gli strumenti che amplificano i nostri sensi di esseri umani, permettendoci di osservare ed elaborare meglio, e quindi favorendo gli avanzamenti scientifici.

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Nell’illuminismo c’è stato il “grande trio”: telescopio, microscopio, barometro. La pompa pneumatica di Boyle ha preparato il campo per il motore a vapore dimostrando l’esistenza del vuoto, poi ci sono stati tantissimi altri strumenti, come la Pila di Volta e il microscopio. «Oggi è il turno del telescopio ELT con ottica adattativa, del microscopio STED usato per le nanotecnologie, del CRISPR nella genetica, con capacità di ridisegno di organismi ed eliminazione delle malattie praticamente illimitate. E ovviamente il computer: tutte le branche della scienza sono state trasformate dal computer, che ci permette ricerche, approfondimenti, elaborazioni e simulazioni prima impossibili». Parlando di rivoluzione digitale tutti si concentrano sugli effetti diretti su consumi e produttività, spiega l’economista, «ma a me importano soprattutto gli effetti indiretti di contributo alla ricerca scientifica». costi d’accesso alla conoscenza mai così bassi grazie all’ict Il terzo fattore sono i costi d’accesso. «Da sempre un enorme problema della scienza è che certe conoscenze sono in possesso solo di alcuni. La teoria della relatività, se Einstein non l’avesse pubblicata, forse non sarebbe ancora patrimonio dell’umanità. Le equazioni di Schrodinger sono talmente complesse che solo 10mila persone circa nel mondo le possono capire». Ma soprattutto l’accesso alla conoscenza è sempre stato costoso, in termini di ricerca, archiviazione e organizzazione delle informazioni («l’Encyclopedie di Diderot, che è stata il “motore di ricerca” del Diciottesimo Secolo, era costosissima»). Eppure è fondamentale, perché per innovare e inventare occorre conoscere le più recenti scoperte disponibili. «Se sai cosa è già stato scoperto o inventato, non perdi tempo a riscoprirlo/ reinventarlo e ci puoi “costruire sopra”. Inoltre la fortuna aiuta la mente preparata». E oggi come siamo messi sui costi d’accesso? «Un grande merito dell’ICT è averli fortemente ridotti. Abbiamo Big Data, Open Data, e tecnologie di ricerca delle informazioni straordinariamente


m a nage m e nt | L’ in n ova z io n e t e c n o l o g ic a ? N o n a b b ia mo a n c o ra v ist o n ie nt e

«Non finiremo come l’Impero Romano, non c’è il rischio di una stagnazione secolare, seguita da altri secoli di barbarie e caos. Il progresso tecnologico è ben lontano dall’aver raggiunto un massimo»

precise. Questo ha lati negativi - spie e pubblicità sanno tutto di noi - ma è un enorme aiuto per il progresso scientifico: qualunque ricercatore in pochi secondi ha accesso a enormi banche di conoscenza e dati e può confrontarsi con colleghi in ogni parte del mondo». «la Politica purtroppo non si È evoluta come la tecnologia» Infine il quarto fattore, gli incentivi. «Gli economisti amano gli incentivi, ma la conoscenza non è monetizzabile come i beni fisici. Tra il ‘500 e il ‘700 si è trovato un modo per spingere le persone a fare ricerca e creare conoscenza: la fama. I migliori scienziati hanno potuto accedere a risorse e protezioni privilegiate, vedi Leonardo e Galileo». E oggi? «Gli innovatori continuano a essere gratificati con fama e denaro, anche se poco rispetto ai benefici delle loro invenzioni. I brevetti sono un meccanismo abbastanza efficace, e premi come il Nobel danno notorietà mondiale e duratura». Quando questi quattro fattori sono favorevoli, sottolinea Mokyr, scienza e tecnologia avanzano molto rapidamente di fronte a problemi ben definiti e urgenti che richiedono soluzioni immediate e fattibili con le tecnologie e conoscenze disponibili. «All’epoca della Rivoluzione Industriale queste condizioni si sono verificate per cinque problemi allora universali: pompare acqua fuori dalle falde (la macchina a vapore è nata per questo), filare cotone di buona qualità in grandi quantità, tem-

prare l’acciaio, combattere il vaiolo, e calcolare la longitudine, e quindi la posizione in mare. C’erano altri problemi, ma non c’erano tecnologie e presupposti, per esempio il volo aereo e l’elettricità arrivarono dopo» Anche oggi ci sono problemi di portata paragonabile: riscaldamento globale, scarsità d’acqua, immagazzinamento e trasmissione dell’energia, invecchiamento e relative malattie e welfare, sovraccarico informativo. «Abbiamo l’esigenza di risolvere questi problemi e gli strumenti per provarci. Il più grande freno è la politica. Le istituzioni rallentano il progresso, cioè la soluzione di problemi che sarebbero risolvibili. Politica e istituzioni non sono evoluti come scienza e tecnologia rispetto al 1750. C’è uno squilibrio tra capacità politiche e scientifico-tecnologiche». Fortunatamente, conclude Mokyr, con la globalizzazione basta che un problema sia risolto in un solo luogo ed è risolto dappertutto. «E comunque non finiremo come l’Impero Romano, non c’è il rischio di una stagnazione secolare, seguita da altri secoli di barbarie e caos. Il progresso tecnologico è ben lontano dall’aver raggiunto un massimo, e la crescita economica continuerà, anche se magari non sotto forma di crescita del PIL. L’era digitale rispetto all’era analogica sarà come l’era dell’acciaio rispetto a quella della pietra. E non possiamo neanche immaginare come sarà l’era post digitale, così come Archimede non poteva immaginare il CERN».

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intervista di

manuela gianni

intervista a

Alessandro Perego

Direttore scientifico Osservatori Digital Innovation Politecnico di Milano

eCommerce, in Italia oltre 11 milioni di clienti abituali Alessandro Perego tratteggia il quadro del commercio online B2C nel nostro Paese, un mercato che cresce a doppia cifra anno su anno, trainato da turismo, informatica, abbigliamento ed editoria. «Qualità del servizio e convenienza sono la vera linfa che alimenta questo trend»

L’eCommerce italiano continua a conquistare clienti, alla ricerca di occasioni di risparmio e di comodità. Il mercato nel 2015 ha superato i 16 miliardi di euro. Una cifra importante, ma che è ancora pari solo al 4% del totale del retail. La crescita c’è, dunque, ma è relativamente lenta, come spiega Alessandro Perego, Direttore degli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano. Quanto vale in Italia il mercato eCommerce e quali settori sono più presenti? Stimiamo che il valore degli acquisti on line dei consumatori italiani abbia raggiunto nel 2015 i 16,6 miliardi di euro, con un incremento del 16%. Qualità del servizio e convenienza sono la vera linfa che alimenta questo trend, anche se rispetto al totale delle vendite retail il valore è pari solo al 4%. Siamo ancora lontani dai principali mercati occidentali - Francia, Germania, UK e USA - dove i livelli di diffusione sono compresi fra il 9% e il 17%. I settori che più contribuiscono alla crescita sono il | 18 |

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turismo, l’informatica ed elettronica di consumo, l’abbigliamento e l’editoria. Trainano in particolare gli acquisti di biglietti per i trasporti, sia sui siti delle compagnie tradizionali come ad esempio Alitalia e Trenitalia, che su quelli delle low cost come ad esempio Ryanair e Easyjet, e la prenotazione di camere di albergo, sia sui portali di hotel, come Booking.com e Venere.com, sia sui siti delle agenzie online, come ad esempio eDreams o Expedia. Nell’abbigliamento sono determinanti gli acquisti “high fashion” sulle grandi DotCom come ad esempio Yoox Group (che dal 5 ottobre si è fuso con Net-A-Porter ndr) e Zalando, sui siti delle vendite private come Privalia, SaldiPrivati, Showroomprive.it e sui siti di alcuni retailer come LuisaViaRoma. È diventato importante anche l’apporto di Food&Grocery, arredamento e Beauty, fino a qualche tempo fa quasi assenti sul web. Quanti sono gli italiani che acquistano online? Nel 2015, i web shopper italiani che hanno effettuato almeno un acquisto online durante l’anno sono cresciu-


intervista | eCommerce, in Italia oltre 11 milioni di clienti abituali

ti dell’11% e hanno raggiunto quota 17,7 milioni, il 50% circa degli Internet User. Spendono in media quasi 950 euro all’anno. Ma sono gli acquirenti abituali, ossia quelli che effettuano almeno un acquisto al mese, circa 11 milioni, a generare l’88% del numero di transazioni. La numerosità dei nostri web shopper è decisamente inferiore a quella riscontrata nei principali mercati europei: in UK sono 40 milioni, in Germania 47 e in Francia 31. Anche il confronto con la spesa media annua evidenzia una certa distanza. Quali strumenti di pagamento sono più utilizzati? Resta prevalente l’uso di carta di credito e PayPal, utilizzati per il 96% dell’acquistato. Bonifici, e strumenti di pagamento innovativi, come i nuovi wallet (ad esempio Bemoov, Masterpass, Hype wallet) e il bancomat (introdotto online ad aprile del 2014) sono marginali. Tra questi si distingue il pagamento diretto da conto corrente con MyBank e Sofort, che nel corso del 2015 ha fatto registrare una buona crescita in termini sia di adozione sia di valore transato. È una situazione sostanzialmente allineata a quella dei principali mercati occidentali. Ora c’è molta attesa per Apple Pay e Samsung Pay: benché queste due modalità di pagamento non siano dedicate all’eCommerce, riteniamo che possano giocare un ruolo importante per gli acquisti via Mobile. Già oggi, in Italia le vendite online tramite Smartphone valgono l’11%, l’incidenza più elevata tra i principali mercati occidentali. Il 22% se aggiungiamo quelle via tablet. Esiste ancora la paura delle frodi nell’uso degli strumenti di pagamento digitali? Purtroppo sì. Nonostante la bassa incidenza delle frodi, pari allo 0,15% del mercato eCommerce, la sicurezza percepita resta una delle principali barriere agli acquisti online da parte di molti potenziali clienti. Che peso hanno le DotCom rispetto ai retail tradizionali? Un peso enorme. Le DotCom, come Amazon, eBay, Expedia, raccolgono il 54% delle vendite. La neces-

sità di compensare la mancanza di un canale fisico a supporto della relazione con i clienti ha spinto le DotCom a innovare di più, in particolare sugli elementi “di base”, ossia l’ampiezza di gamma, il prezzo e il livello di servizio. Il restante 46% del mercato, appannaggio delle imprese tradizionali, è in realtà in gran parte costituito dal contributo delle imprese produttrici di servizi, ossia le compagnie di trasporto come ad esempio Alitalia, Ntv, Trenitalia, Trenord, alcuni tour operator, come ad esempio Costa Crociere, e le compagnie assicurative, come Genertel, Genial-Lloyd, Linear e Zurich Connect, che da sole pesano per il 30% delle vendite da siti italiani. Il peso dei produttori e dei retailer tradizionali è quindi ridotto al 16%. La convivenza con i canali tradizionali, il timore della loro cannibalizzazione, la diversa struttura di costi e la diversa propensione all’innovazione hanno in parte frenato queste imprese tradizionali, che hanno approcciato l’online in modo poco convinto, con qualche eccezione. In realtà, gli studi confermano che il consumatore utilizza l’online e l’offline non in maniera alternativa o cannibalizzando l’uno con l’altro, ma semplicemente ricercando in ogni canale la soddisfazione di un bisogno specifico che si manifesta in un preciso momento. Quali nuovi ingressi avete registrato nel recente passato? Lo scorso anno abbiamo registrato oltre 30 nuovi ingressi tra le imprese tradizionali Retailer e produttori di grande dimensione), in particolare nei settori abbigliamento, Fai da Te e Food&Grocery. Nel mondo dell’abbigliamento e degli accessori, la sensibilità nei confronti dell’eCommerce è particolarmente elevata. Cito ad esempio And, Camomilla, Fendi, Luisa Spagnoli, Marlboro Classics e Playlife. Vi sono poi altri esempi importanti come Eurobrico e Self nel Fai da te, Computer Discount nell’informatica ed elettronica e Iperal nel Food&Grocery.

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osservatorio di

daniele lazzarin

Riccardo Mangiaracina Osservatori Digital Innovation Politecnico di Milano

Export italiano, solo il 4% viene dal Commercio elettronico Negli ultimi cinque anni le esportazioni delle nostre aziende sono salite al 30% del PIL, ma la quota venduta sul canale digitale è ancora marginale: circa 6 miliardi di euro. L’analisi del primo Osservatorio Export del Politecnico di Milano approfondisce le strategie dei settori Fashion e Food, e le opportunità e le barriere dei mercati cinese e statunitense

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Tutti riconoscono che l’eCommerce può essere un formidabile facilitatore per l’export del Made in Italy, soprattutto per le PMI, le piccole e medie imprese. Ma quanto incide oggi in realtà l’online sulle vendite di beni di consumo italiani all’estero? Incide solo per il 4%, cioè circa 6 miliardi di euro. È il dato più eclatante del primo report del nuovo Osservatorio Export del Politecnico di Milano, creato proprio perché le imprese italiane usano poco il canale digitale per vendere all’estero, spiega Alessandro Perego, Direttore Scientifico degli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano: «È un problema su cui occorre lavorare, soprattutto perché da sempre l’export italiano è da sempre un punto di forza dell’economia italiana».

ro è cresciuto del 18%, mentre quello sul mercato interno si contraeva del 10%», spiega Lucia Tajoli, Responsabile scientifico dell’Osservatorio Export. Nel 2014 le esportazioni di beni e servizi sono cresciute del 2,7%, raggiungendo 475 miliardi di euro: un dato che fa dell’Italia l’ottavo esportatore mondiale di merci. L’Unione Europea rimane il principale mercato di sbocco, con peso oltre il 50%, mentre gli USA sono il terzo mercato di sbocco e il primo non europeo. Ma in forte ascesa c’è la Cina, perché la quota di mercato italiana è relativamente bassa, e la classe media interessata al Made in Italy continua a espandersi.

Un ruolo che si è addirittura accentuato nell’ultima crisi economica, durante la quale l’export è arrivato a quasi il 30% del PIL: «Tra 2010 e 2015 il fatturato medio delle imprese italiane all’este-

A fronte di tutto ciò, come detto l’export italiano tramite eCommerce vale solo 6 miliardi. «Di questi 1,5 miliardi sono di Export online “diretto”, in cui un operatore con ragione sociale italiana

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il settore moda domina l’export online


os s e r vator i o | E x p o rt ita l ia n o , so l o il 4% v ie n e da l c o mme rc io e l e t t ro n ico

vende al cliente finale attraverso siti dei produttori (come Diesel o Giordano Vini), siti di retailer online o multicanale (LuisaViaRoma, Yoox) o marketplace “italiani” (come eBay.it). 4,5 miliardi sono invece di Export online “indiretto”, attraverso siti eCommerce di grandi retailer online stranieri (Zalando, i cinesi JD.com e Suning.com), i grandi marketplace (Amazon ed eBay con domini stranieri, il cinese Tmall.com) o i siti delle vendite private internazionali (Vente-privee.com, VIP.com) che comprano prodotti in Italia e li vendono in tutti i Paesi in cui operano», spiega Riccardo Mangiaracina, Direttore dell’Osservatorio Export.

mi aziendali, sicurezza; e infine in ambito legale è necessario farsi un quadro completo di tutti gli aspetti doganali, di regolamentazione e contrattuali.

Più in dettaglio, l’Export online diretto è in gran parte alimentato dal Fashion (circa il 70%), seguito da Food (10%) e Arredamento/Home Design (10%), con vendite generate per il 60% da retailer nazionali, per il 25% da siti dei produttori e per il 15% da marketplace con dominio .it. Anche nell’Export indiretto domina il Fashion (65%), mentre Food e Home Design pesano il 17% ciascuno, con vendite effettuate da retailer online stranieri (oltre la metà del transato), marketplace (un terzo del transato) e siti di vendite private (poco più del 10%).

fashion e food, l’80% esporta ma la metà non usa l’online

«Queste scelte dipendono fortemente dal settore in cui opera l’azienda, e dal mercato di destinazione: in questo primo report abbiamo approfondito da una parte l’approccio all’export digitale dei settori Fashion e Food, che sono tra i più rilevanti per il Made in Italy nel mondo, e dall’altra i migliori modelli di export digitale verso gli Stati Uniti e verso la Cina», ha sottolineato Mangiaracina.

Riguardo a Food e Fashion, un’indagine dell’Osservatorio su 110 produttori e retailer di questi settori rivela che l’80% di essi esporta regolarmente - realizzando all’estero in media il 46% del fatturato – ma circa la metà usa solo canali tradizionali “offline”. Soltanto l’1% esporta con una strategia

Come sfruttare meglio il canale digitale? «Come Osservatorio possiamo contribuire creando consapevolezza e proponendo modelli di export basati sul commercio elettronico», continua Mangiaracina. Modelli che devono basarsi su cinque “pilastri”, da definire a livello di decisione strategica: i canali commerciali, quelli di comunicazione, quelli di logistica, i sistemi di pagamento, e la gestione delle criticità legali (vedi il box “I cinque pilastri per i modelli di export con l’eCommerce”). Settore d’origine e mercato target determinano le scelte Scendendo più in dettaglio, in ambito commerciale per esempio bisogna scegliere se ricorrere a un sito di eCommerce proprio, a piattaforme, marketplace, siti di vendite private e/o retailer online. Per i canali di comunicazione occorre decidere per esempio come mixare pubblicità tradizionale e canali online (social media, SEO, display advertising e così via). Per la logistica vanno definiti struttura della rete distributiva, modalità di trasporto, e la misura in cui ricorrere all’outsourcing; per i sistemi di pagamento occorre analizzare strumenti, piattaforme, costi, integrazione con gli altri sistewww.digital4executive.it

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Polimi: i 5 pilastri per vendere online all’estero 1)

Canali commerciali • Sito di eCommerce proprio; • Piattaforme ed eMarketplace; • Operatori delle vendite private (o “flash sales”): aziende commerciali online che propongono una selezione d’offerta di produttori/brand noti e organizzano campagne di vendita di 2/3 giorni a prezzi fortemente scontati; • Retailer online/multicanale: aziende commerciali che distribuiscono beni in modo diretto ai consumatori mediante negozi fisici e iniziative online (retailer multicanale), oppure solo con siti di eCommerce (retailer online).

2) Canali di comunicazione • Canali tradizionali: pubblicità attraverso cartelloni pubblicitari, stampa e media tradizionali (radio, TV, cinema, ecc.) • Canali online: SEO (Search Engine Optimization), SEM (Search Engine Marketing), Social Media Marketing (campagne di advertising su Facebook, YouTube, Twitter, LinkedIn, ecc.); Display Advertising sul Web; DEM (Direct Email Marketing). 3) Alternative logistiche • Configurazione della rete distributiva: numero di livelli della rete, numero e tipologia (con scorta o transit point) di depositi per livello, dimensione e localizzazione dei depositi, allocazione delle scorte di sicurezza; • Modo di trasporto: gomma, treno, nave o aereo; • Livello di outsourcing. 4) Sistemi di pagamento • Strumenti di pagamento: contanti, assegni, bonifici, addebiti diretti, carte di pagamento, carte di credito, wallet, ecc; • Costi: associati all’utilizzo dello specifico strumento di pagamento; • Livello di sicurezza: sia reale sia percepito dal cliente; • Integrazione: tra i sistemi di pagamento scelti e la propria piattaforma di gestione delle vendite; • Livello di diffusione: adozione degli operatori e utilizzo dei clienti. 5) Problematiche legali, doganali e contrattuali • Modalità d’accesso al mercato: complesso delle procedure amministrative e operative necessarie a vendere in uno Stato, e in particolare requisiti per rispettare le leggi locali; • Barriere all’ingresso: insieme di elementi istituzionali, normativi, culturali o produttivi che limitano l’ingresso di operatori esterni nel mercato; • Regolamentazione vigente: l’insieme di norme e regolamenti che disciplinano il quadro dei rapporti giuridici e sociali di uno specifico Paese, in base alle particolari condizioni economiche, sociali e politiche.

online pura, mentre il 28% varia la strategia a seconda del Paese di destinazione e il 23% persegue sempre una strategia multicanale. Le principali barriere all’eCommerce oltreconfine sono l’incapacità di usare adeguatamente i canali online (45%), le difficoltà di comunicazione (16%), le complessità legali (16%), e le caratteristiche del prodotto: i “freschi” per esempio come noto richiedono un controllo continuo delle temperature durante tutte le fasi del trasporto.

Cina: decisive le alleanze locali Quanto alla Cina come mercato di destinazione, l’eCommerce è una chiave di ingresso fondamentale: si possono raggiungere grandi volumi senza investire in canali fisici, e le piattaforme dedicate all’import possono garantire l’autenticità di prodotto. Dalla survey dell’Osservatorio Export però emerge che il canale preferito per vendere in Cina è la rete fisica di importatori locali (69% del camwww.digital4executive.it

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pione): solo il 22% usa una piattaforma di eCommerce e il 16% un sito web proprio. Questo si può in parte spiegare con gli alti costi e i lenti ritorni dell’eCommerce in Cina. Essere presenti su una piattaforma B2C richiede infatti notevoli investimenti per sviluppare lo store e impostare correttamente le campagne di comunicazione, che, nel caso di brand già affermati, possono incidere per il 10-15% del fatturato in Cina nei primi anni, per le forti differenze culturali di quel mercato rispetto al nostro. Per l’export online in Cina poi sono decisive le soluzioni logistiche, la gestione dei pagamenti online non è immediata come nei Paesi occidentali, e un altro grande ostacolo è l’eccessiva regolamentazione e incertezza legislativa per i fenomeni di pirateria e contraffazione. In questo quadro non stupisce che la stragrande maggioranza dei casi di successo di imprese occidentali su piattaforme B2c in Cina veda una forte partnership tra il brand internazionale e un operatore (licenziatario, importatore o distributore) cinese, oltre a un forte coinvolgimento di specialisti di comunicazione locali. USA: grande mercato, grandi barriere Gli USA sono il terzo mercato di destinazione commerciale per l’Italia, che nel 2014 vi ha esportato beni per un valore di 29,8 miliardi di euro. Rappresenta quindi una grande opportunità per le imprese italiane, ma non vanno sottovalutate le notevoli barriere all’ingresso, come distanza geografica, concentrazione dell’eCommerce (il cui

valore nel segmento B2c è di 437 miliardi di euro nel 2015), e leggi restrittive e protezionistiche che impediscono in certi casi l’importazione diretta. Nonostante la vasta offerta del mercato eCommerce locale, circa la metà delle aziende sentite dall’Osservatorio si affida a importatori o retailer fisici. In alcuni casi a causa di vincoli normativi, in altri per complessità di comunicazione (alti costi delle campagne in un mercato affollato) o di logistica distributiva, complicata dalla vastità del territorio e dalle peculiarità di ciascuno Stato. Per i pagamenti online le difficoltà sono minime: gli americani pagano praticamente sempre con carta di credito, o con Paypal. Tra le questioni legali, le più critiche sono la normativa fiscale e doganale, la tutela di marchio e proprietà intellettuale, le condizioni sui prezzi di vendita e sui resi. In caso di vendita diretta è inoltre consigliabile aprire un’apposita società, per non esporre il patrimonio aziendale alla responsabilità derivante dal commercio online. In conclusione, specie in Paesi lontani e complessi come USA e Cina, l’eCommerce è una buona opportunità di crescita per il nostro Export. Ma le imprese italiane hanno ancora difficoltà nel definire i canali commerciali più idonei, nel configurare le strategie di marketing e comunicazione più efficaci e nel fronteggiare l’ambito legale. «Tutti questi aspetti vanno analizzati focalizzandosi sui mercati di destinazione, dando una reale dimensione alle barriere e individuando gli strumenti per affrontarle, disegnando quindi un’efficace strategia di Export basata sul digitale», sottolinea Mangiaracina.

il contributo delle tecnologie digitali all’export tricolore 132 mld euro 96%

75%

126 mld euro

4,5 mld euro

Online

Indiretto Diretto

Fonte: Politecnico di Milano

Offline

6 mld euro

25% 1,5 mld euro

4% 6 mld euro Export beni di consumo

Canale www.digital4executive.it

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osservatorio di

Giorgio Fusari

Il commercio elettronico spinge l’innovazione nella logistica L’esplosione dell’eCommerce porta al centro dell’attenzione le scelte di supply chain management, sempre più strategiche. Le aziende sposano la multicanalità e cercano nuove strade per l’integrazione dell’online con i canali fisici, mentre emergono diverse tipologie di servizi innovativi. Obiettivo: servire al meglio i clienti e contenere i costi

L’esplosione dell’eCommerce riporta la logistica in primo piano, ribadendo più che mai il suo ruolo strategico. A sottolinearlo è Gino Marchet, direttore scientifico dell’Osservatorio Contract Logistics del Politecnico di Milano, nel presentare una ricerca sul settore al convegno ’Ambiti di innovazione nella logistica: esperienze a confronto’, organizzato dall’Osservatorio a Villanova di Castenaso, vicino Bologna. Alle reti che servono i canali tradizionali si stanno affiancando in tutti i settori le infrastrutture distribuitive per l’eCommerce, «un canale dove ogni cliente è diverso e richiede servizi personalizzati», spiega Marchet. Questa tendenza (multicanalità) aumenta la gamma di prodotti da gestire, le scorte, l’estensione dei magazzini, e in definitiva i costi. Investire in logistica e automazione diventa quindi strategico, per fornire servizi migliori, accrescendo il loro valore di territorialità e vicinanza ai clienti, e per migliorare la marginalità del business. L’Osservatorio in effetti rileva una crescita del fatturato della logistica conto terzi (Contract Logistics) in Italia, salito nel 2014 a 76 miliardi di euro (+1,8%) dopo il calo del 2013 (-3,1%). Il trend positivo secondo le stime proseguirà, con crescite dell’1,4% nel 2015 e dell’1,8% nel 2016. Tra i fattori favorevoli la ripresa dell’economia nazionale e l’attenzione delle aziende committenti al miglioramento dei livelli di servizio, per l’esplosione dell’eCommerce, ma anche per la forte spinta verso l’internazionalizzazione. Un modo di crescere per gli operatori logistici, con-

tinua Marchet, è puntare su servizi avanzati, cioè attività tradizionalmente non terziarizzate che richiedono approcci innovativi, spesso basati su tecnologie digitali. Nove tipi di servizi innovativi L’Osservatorio fa 9 esempi di questi servizi innovativi: Advanced co-packing (imballi particolari che coinvolgono il fornitore logistico nella progettazione e verifica della qualità); Assemblaggio/Lavorazione dei prodotti; Gestione dei flussi di materiali nelle fabbriche; Gestione delle scorte; Vendor Managed Inventory; Integrated Customer Service (rivolto ai clienti del committente); Tentata vendita; eCommerce (gestione della piattaforma, dei pagamenti, della logistica); Order-to-Cash (gestione di pagamenti e recupero crediti). Secondo l’indagine, la multicanalità ha un peso sempre maggiore per le aziende che usano servizi logistici, anche se non mancano difficoltà. Il 62% indica gli alti costi di gestione del canale online come principale ostacolo al suo sviluppo, il 31% l’incertezza sul calcolo dei costi logistici. Ma le maggiori opportunità di sviluppo provengono proprio da qui. La survey infatti indica una forte domanda di servizi a supporto di strategie multicanale. Domanda che richiede evoluzioni non solo nei servizi offerti, ma anche nell’assetto della rete distributiva, dove un ruolo chiave toccherà ai depositi di prossimità, che diverranno sempre più punti di contatto con i consumatori finali, che in funzione delle scelte d’acquisto e di consegna verranno serviti tramite diversi circuiti logistici. www.digital4executive.it

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digital transformation - HR

Andrea Rangone

Universitari italiani: tutti bravi sui social, molti meno sul digitale

CEO Digital360

Solo uno studente su 5 ha gestito progetti anche semplici come un blog o un canale YouTube, ma c’è interesse crescente per sviluppo software e imprenditorialità, spiega una ricerca di University2Business. «Abbiamo all’università una generazione di nativi digitali non ancora consapevoli che questa loro caratteristica può diventare un efficacissimo strumento di lavoro», commenta Andrea Rangone, CEO di Digital360

Internet e social media oggi fanno parte della quotidianità di tutti gli studenti universitari italiani, tuttavia ancora sono in deficit le loro competenze digitali e le attitudini imprenditoriali. Solo uno su cinque ha fatto qualcosa di progettuale su internet – come la gestione di un blog, un sito, una pagina Facebook oltre al profilo personale, un canale YouTube o la vendita online – e uno su quattro riesce a dare la definizione esatta di alcuni concetti chiave legati all’innovazione digitale applicata al business: Mobile Advertising, Cloud, Fatturazione Elettronica e Big Data. Per quanto riguarda l’approccio imprenditoriale, sta cominciando a diffondersi il desiderio di avviare un’impresa: a confermarlo il fatto che il 30% degli studenti universitari ha frequentato un corso su come creare una nuova azienda (il 12% di propria iniziativa contro il 18% che lo ha fatto all’università), e che quasi il 40% degli studenti dichiara di aver avuto almeno un’idea di business: | 28 |

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di questi, uno su due ha anche avviato un’attività imprenditoriale o sta cercando di farlo. Sono questi alcuni dei risultati dell’indagine “Il futuro è oggi: sei pronto?” - svolta dalla società del gruppo Digital360, University2Business, in partnership con Bip, BravoSolution, CheBanca! Cisco, Engineering, Hewlett Packard, Italtel, KPMG, Nestlé, QiBit e UniversityBox – che si basa su un campione statisticamente significativo - 1.389 questionari - dell’intera popolazione degli studenti universitari (un milione e 630mila, secondo i dati MIUR), stratificata per facoltà, genere e macro-regione geografica. «In un’economia matura come quella italiana il nuovo dogma economico identifica nell’innovazione digitale e nella nuova imprenditorialità i due principali motori della crescita economica», sottolinea Andrea Rangone, CEO di Digital360. «Il paradosso di oggi è che ormai abbiamo all’u-


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Dalla ricerca emerge che la maggioranza degli studenti si affaccia al mondo del lavoro con una scarsa conoscenza della trasformazione digitale in atto, con un approccio passivo al digitale e con poca sensibilità imprenditoriale

niversità una generazione di nativi digitali, che però non hanno ancora capito che questa loro sensibilità, questa loro capacità intrinseca, può diventare un efficacissimo strumento di lavoro». Dalla ricerca University2Business emerge, infatti, che la maggioranza degli studenti universitari italiani oggi si affaccia al mondo del lavoro con una scarsa conoscenza della trasformazione digitale in atto nell’economia, con un approccio passivo al mondo digitale e con poca sensibilità imprenditoriale. Il fatto che però i giovani comincino a frequentare corsi di imprenditorialità anche al di fuori del contesto universitario è un segnale interessante che dimostra come si stia diffondendo nel nostro Paese il desiderio di comprendere come si può

“fare impresa”, a prescindere dalla facoltà che si frequenta. Oltre il 60% degli studenti è in grado di dare la definizione corretta di startup e quasi il 90% prova a fornire una classifica dei principali fattori alla base del successo di una nuova impresa: tra questi spiccano il team (47,1%), l’idea iniziale (41,8%) e il gradimento del mercato (36,6%). Inoltre è interessante anche il dato relativo alle competenze di sviluppo software: uno studente su tre lo ritiene importante per il suo futuro, tanto da voler imparare al di là dell’offerta formativa universitaria, e se il 10% sa già sviluppare, oltre il 20% sta imparando a farlo. Di questi ultimi, quasi la metà lo fa autonomamente e non all’università. Questa consapevolezza - con l’eccezione degli informatici che mostrano percentuali ben supe-

University2Business, come avvicinare gli universitari al mondo delle imprese Facilitare l’incontro e la relazione tra gli studenti universitari e il mondo delle imprese, puntando sui canali digitali e sui servizi da essi abilitati. È questa la missione di University2Business, la società del Gruppo Digital360 nata dall’esperienza di un gruppo di docenti universitari e professionisti del mondo digitale e HR. Il progetto supporta quindi da un lato le aziende e dall’altro gli studenti. Per le imprese rappresenta, infatti, un modo per accedere in modo veloce, innovativo e poco invasivo alle competenze qualificate e alla creatività degli universitari e per svolgere attività innovative di employer branding e talent scouting/early hiring, attraverso i canali digitali e la valutazione “sul campo” delle capacità e delle attitudini degli studenti. Per gli universitari è contemporaneamente un valido supporto per comprendere i mutamenti in atto nel mondo del lavoro, per sviluppare le competenze e cercare le esperienze più apprezzate dalle imprese, e per entrare in contatto con il mondo del lavoro, anche attraverso lo svolgimento di attività concrete per conto delle aziende stesse, arricchendo in questo modo il proprio percorso formativo. Tutto questo avviene attraverso l’organizzazione di specifici Contest, servizi di comunicazione diretta agli studenti universitari, eventi – fisici e online – che permettono di incontrare target specifici della community universitaria italiana, ricerche e survey realizzate presso gli studenti, e infine servizi di consulenza in supporto alle strategie di Employer Branding messe in atto dalle aziende. www.digital4executive.it

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Il 42% degli studenti oggi sta “in panchina”: hanno cioè una bassa preparazione in termini di competenze digitali e imprenditoriali

riori - è trasversale rispetto al tipo di università frequentata. È anche vero che il 20% di chi ha dichiarato di saper sviluppare non ha ancora realizzato nessun prodotto software finito. Tra chi l’ha già realizzato, invece, il 28% dichiara di avere sviluppato siti web, il 16% videogame e il 13% applicazioni mobile, con preferenza in particolare per le piattaforme Android (45%) e iOS (34%). Infine, sebbene il 43% di chi sviluppa lo faccia solo per divertimento, l’altra metà lo fa per realizzare la propria idea di business o per aiutare un amico a farlo. «Oggi c’è ancora più teoria che pratica»,

conclude Rangone. «Sintetizzando il risultato dell’indagine risulta infatti che il 42% degli studenti oggi sta “in panchina” - si tratta di coloro che hanno una bassa preparazione in termini di competenze digitali e imprenditoriali (teoriche e pratiche) -, il 34% sono “teorici” quindi ben posizionati almeno per quanto riguarda la parte teorica ma con scarsa sensibilità imprenditoriale, il 10% ha realizzato progetti concreti ma non ha dimostrato uno specifico orientamento imprenditoriale, il 9% ha svolto qualche iniziativa imprenditoriale ma non nel mondo digitale».

hai mai avuto un’idea di business, magari per avviare un’attività imprenditoriale?

Sì, e ho già guadagnato soldi grazie alla mia attività

6%

Sì, e ho già creato una società

4%

Sì, ho un’idea e sto crecando di partire

10%

Sì, ma non so come partire concretamente

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No, e non mi interessa perché voglio trovarmi un lavoro in un’azienda No, non è tra le mie priorità

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No, non ci ho mai pensato

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Fonte: University2Business

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digital transformatioN -HR di

paola capoferro ronchetta

Barilla, quando lo Smart Working è un successo Circa 1.200 dipendenti hanno aderito al progetto partito tre anni fa, che punta a coinvolgere tutti lavoratori, al netto delle linee produttive. Fino ad ora ad apprezzare la possibilità di lavorare in modo agile sono in particolare le donne tra i 30 e i 55 anni e chi effettua un tragitto giornaliero tra casa e ufficio maggiore di 25 chilometri

Barilla ha recentemente reso noti i primi risultati dell’iniziativa di Smart Working avviata nel 2013, una piccola rivoluzione che ha trasformato in positivo il modo di lavorare, portando vantaggi per l’azienda e grandissima soddisfazione per le persone. L’obiettivo del progetto è dare ai dipendenti la possibilità di lavorare in modo flessibile, ovunque e in qualunque momento, grazie a nuovi strumenti digitali di comunicazione e nuove metodologie. Per questo l’azienda emiliana – che impiega nel mondo circa 8mila persone, con un fatturato superiore a 3 miliardi di euro e 29 siti produttivi – ha esteso il progetto di Smart Working a tutte le proprie sedi, nazionali e internazionali. La risposta dei dipendenti è stata eccellente: a usufruire dell’opportunità sono stati, infatti, circa 1.200 dipendenti dei 1.600 coinvolti nel progetto, con una redemption di oltre il 74%. Ma in concreto, che cosa significa Smart Working per il Gruppo Barilla? Secondo Alessandra | 32 |

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Stasi, Human Capital Organization Development and People Care Director del Gruppo, «significa tre cose. Innanzitutto lavorare dovunque, comunque e in qualunque momento. In secondo luogo vuol dire utilizzare gli spazi in un modo diverso: abbiamo lavorato molto nelle varie sedi per riorganizzare gli uffici intorno alle attività di collaborazione, di comunicazione, di concentrazione individuale, che oggi possono essere fatte anche da remoto. Il terzo aspetto sono le tecnologie digitali». Sebbene lo Smart Working in Barilla sia aperto a tutta la popolazione - da un punto di vista contrattuale, i dipendenti possono lavorare in sedi diverse dall’ufficio per 4 giorni al mese, accordandosi con il proprio manager -, ad apprezzarlo particolarmente sono le donne tra i 30 e i 55 anni e chi effettua un tragitto tra casa e ufficio maggiore di 25 chilometri, con un significativo risparmio di tempo e costi, ma anche una riduzione di emissioni di CO2. Stupisce invece il fatto che a sfruttare meno la possibili-


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tà di lavorare in modo più flessibile sia la fascia più giovane della popolazione aziendale. In generale, quindi, il bilancio dell’iniziativa è estremamente positivo: un maggiore equilibrio tra vita privata e lavoro ha reso più soddisfatti i dipendenti, grazie alla maggiore autonomia e responsabilità su quando, dove e come lavorare. E Barilla è un chiaro esempio di come i progetti di Smart Working si stiano diffondendo tra le grandi aziende: secondo l’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, infatti, in Italia il nuovo approccio all’organizzazione del lavoro è stato introdotto da quasi un’impresa di grandi dimensioni su due in modo strutturato o informale. Secondo il Responsabile Scientifico dell’Osservatorio, Mariano Corso, «per fare bene Smart Working le organizzazioni devono evitare l’errore di introdurre un cambiamento solo superficiale, senza cogliere l’opportunità di ripensare profondamente cultura e modelli organizzativi per liberare nuove energie dalle persone. Bisogna eliminare le false

partenze». E quella di Barilla di sicuro non è una falsa partenza perchè, oltre alla risposta positiva dei dipendenti, da un’inchiesta globale effettuata, proprio con il supporto dell’Osservatorio Smart Working, su un campione di 600 persone coinvolte nel progetto è emerso che per i manager non c’è stato assolutamente un peggioramento nei livelli di produttività ed efficacia/efficienza delle prestazioni. A favorire poi l’adozione del cosiddetto “lavoro agile” c’è anche un Disegno di Legge, collegato alla Legge di Stabilità, che ne regolamenta l’impiego in azienda, con normative sulla sicurezza sul lavoro, sulla retribuzione e su altri aspetti, rendendolo “alla pari” rispetto al lavoro in ufficio. Adesso l’obiettivo di Barilla per il futuro è dare entro il 2020 a tutti i dipendenti del Gruppo l’opportunità di lavorare da casa: per questo le prossime sfide saranno sensibilizzare maggiormente l’intera popolazione e riuscire a offrire lo Smart Working per il 100% del tempo.

Misurare il successo di un progetto pilota di Smart Working l’opinione di Emanuele Madini, Associate Partner di P4I –Partners4Innovation «Lo Smart Working è un cambiamento così importante che richiede di procedere gradualmente e di affinare il modello attraverso l’esperienza “sul campo”, consentendo a ciascun team di interpretare e personalizzare le nuove leve di flessibilità sulle proprie caratteristiche e attività lavorative», osserva Emanuele Madini, Associate Partner di Partners4Innovation, la società del Gruppo Digital360 che offre servizi di Advisory e Coaching, a supporto della Trasformazione Digitale e dell’Innovazione Imprenditoriale a imprese e Pubbliche Amministrazioni. «Dalle esperienze di successo come quella di Barilla, si evince che per lanciare un progetto di Smart Working è importante adottare un approccio “perpetual beta” con l’obiettivo di partire velocemente con un primo pilota su un target selezionato di popolazione aziendale, misurare fin da subito i benefici e l’impatto organizzativo, e proseguire successivamente con diverse fasi di ampliamento e diffusione all’interno dell’azienda identificando possibili interventi correttivi e ulteriori evoluzioni del modello. Particolarmente importante è la fase di monitoring del primo progetto pilota, che ha l’obiettivo di garantire il corretto avvio della sperimentazione e raccogliere più informazioni possibili per consolidare il modello e identificare approcci virtuosi e success stories da valorizzare in termini di comunicazione interna. Per

questo motivo è consigliabile procedere realizzando due tipologie di check point: una prima valutazione deve essere realizzata dopo circa 1 mese dal lancio della sperimentazione e ha l’obiettivo di svolgere una verifica soprattutto tecnica per garantire il corretto proseguimento del progetto pilota, ponendo particolare attenzione al funzionamento della dotazione tecnologica (accesso ad applicativi da remoto, strumenti di virtual collaboration, ecc..) o a eventuali criticità rilevanti per alcuni team (periodi di carico di lavoro, eventuali resistenze da parte dei manager o dei collaboratori, ecc..). Una valutazione più approfondita può essere svolta invece durante il quinto/sesto mese di sperimentazione coinvolgendo sia i People Manager che i collaboratori per avere una duplice prospettiva. È necessario valutare diversi aspetti che riguardano sia l’impatto sui comportamenti organizzativi (coordinamento e programmazione, rapporto con i colleghi e il proprio capo, efficacia di interazione, ecc..), sia benefici qualitativi e quantitativi relativi a qualità del lavoro svolto nelle giornate di Smart Working, miglioramento della produttività, impatto su specifici KPI, e aumento della soddisfazione e motivazione delle persone. Non meno rilevante è inoltre la possibilità di realizzare alcune stime di benefici in termini di sostenibilità ambientale legati alla riduzione dei trasferimenti casa-ufficio».

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digital transformation - HR di

paola capoferro ronchetta

intervista a

Livio Zingarelli

Head of HR & Business Transformation Italia, Israele e Grecia Philips

Philips, più agilità e work-life balance con il progetto “Io Lavoro Smart” Sostenere e abilitare la Digital Transformation, coinvolgendo l’intera popolazione aziendale. È l’obiettivo principale dell’iniziativa di Smart Working avviata dall’azienda, che pone l’enfasi sulla flessibilità e sulla conciliazione tra vita e lavoro, puntando sulla riduzione dei tempi di trasferimento e sulla gestione autonoma delle giornate: la procedura di rilevazione degli orari è stata eliminata

Da brand riconosciuto come leader nell’elettronica di consumo, Philips oggi si presenta nel panorama di mercato attuale con una strategia indirizzata a dare visibilità alla sua posizione mondiale nell’HealthTechnology, nel campo della salute e del benessere, per migliorare la vita delle persone e facilitare l’intero iter terapeutico dalla prevenzione al sostegno di uno stile di vita sano, dalla diagnosi precoce al trattamento fino alle cure domiciliari. L’azienda sta vivendo quindi un momento di profonda trasformazione. Il suo management è chiamato così a ripensare alle logiche di business per cavalcare il cambiamento e coglierne a pieno i benefici attraverso la realizzazione di nuovi progetti, tra i quali spicca quello di Smart Working, “Io Lavoro Smart” che ha in primis l’obiettivo di sostenere e abilitare la Digital Transformation. «Lo spunto è nato dopo aver aderito a fine 2014 alla prima giornata del “Lavoro Agile” organizzata dal Comune di Milano», racconta l’Head of HR & | 34 |

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Business Transformation - Italia, Israele e Grecia di Philips, Livio Zingarelli. «In quell’occasione la consapevolezza che la trasformazione richiede il coinvolgimento dell’intera popolazione aziendale ci ha spinto a raccogliere i pareri dei nostri dipendenti attraverso una survey, che internamente abbiamo definit “Bilancio del Capitale Umano“, con cui siamo arrivati a individuare alcune priorità di intervento su cui concentrare i nostri sforzi per migliorare il modo in cui oggi si lavora in azienda. Il risultato è stato illuminante: grande enfasi, infatti, è stata data alla flessibilità, alla conciliazione vita-lavoro e al welfare, espressi sia come bisogni di tipo individuale, sia come interventi di facilitazione del cambiamento aziendale». Proprio il concetto di “flessibilità” - inteso nell’accezione di dare fiducia, riconoscere autonomia e responsabilizzare le persone - è uno dei punti cardine della strategia di empowerment che oggi segue Philips. «I nostri dipendenti devono avere come


digital transformation - HR | Philips, più agilità e work-life balance con il progetto “Io Lavoro Smart”

guida gli obiettivi assegnati e i risultati raggiunti nel gestire le attività a loro affidate, non il fatto di sapere che c’è un controllo su quanto tempo dedicano effettivamente alle attività lavorative o per quante ore siano presenti fisicamente in una sede definita». Flessibilità per Philips, però, significa anche pianificare il lavoro dei team aziendali delle diverse aree funzionali in modo da permettere alle persone di coordinarsi tra loro, nell’ambito di un processo di delega strutturata, e riconoscere che l’esigenza di trovare un perfetto bilanciamento tra le esigenze della vita personale e lavorativa spesso è in contrasto con i concetti tradizionali di orario e sede di lavoro. Tutto questo porta quindi a un ripensamento delle logiche di gestione delle risorse umane e, soprattutto, richiede un abbattimento dei confini. rompere gli schemi di comportamento per aumentare la produttivitA’ Queste considerazioni hanno portato il Management di Philips, promotore della trasformazione aziendale a tutto tondo e fervido sostenitore dell’introduzione di modalità innovative nell’organizzazione del lavoro, a promuovere lo Smart Working. Che, come ribadisce Zingarelli, «ha permesso di rompere alcuni schemi di comportamento consolidati, forzandoci a riflettere su quale sia il modo corretto di misurare la produttività nelle diverse aree e su come le attività dei singoli contribuiscano considerevolmente al successo del business. Dall’abbattimento di alcune barriere abbiamo colto benefici significativi in termini di riduzione dei tempi di trasferimento tra casa e lavoro, autonomia nella gestione delle giornate lavorative, responsabilizzazione delle persone». Il progetto è stato frutto del lavoro congiunto di un team interfunzionale composto dalla funzione HR, dai responsabili del Change Management, dell’IT, dell’area Legal e dell’Health & Safety. L’obiettivo era tenere in considerazione tutte le dimensioni che hanno un impatto importante nel valutare la fattibilità del progetto calato nei diversi contesti aziendali, e trovare le soluzioni più appropriate in base alle specifiche esigenze di business. «Il primo punto su cui si è pensato di intervenire è stato il Work-life balance», ricorda Zingarelli. Con il progetto “Io Lavoro Smart” è stata introdotta una modalità strutturata di pianificazione delle ferie ed eliminata la procedura di rilevazione dell’orario di lavoro, che per tutti i ruoli di sede agiva come forte limite rispetto all’esigenza di garantire una maggiore flessibilità nel conciliare la vita privata e quella lavorativa.

«Siamo così partiti con un pilota che ha coinvolto circa 80 volontari rappresentativi di tutte le funzioni aziendali. Dopo tre mesi di sperimentazione, monitorati attraverso survey e canali social aziendali, abbiamo condotto alcuni focus group che hanno previsto il coinvolgimento di smart worker, manager e colleghi che non avevano aderito al pilota per valorizzare l’esperienza condotta da tutti e identificare le modalità più efficaci per assicurare coordinamento e produttività in Smart Working. Siamo quindi arrivati alla definizione di una policy, andata “live” da febbraio 2016 cui hanno aderito circa 200 persone, anche grazie al contributo dell’attività di benchmarking condotta su un panel significativo di aziende che hanno avviato iniziative analoghe, così da coglierne best practice e criticità», continua Zingarelli. A rendere possibile tutto questo è ancora una volta la tecnologia. «I tool informatici mobili e di networking sono gli elementi essenziali per far sì che lo Smart Working mantenga buoni livelli di produttività. Analogamente le piattaforme avanzate di collaborazione online permettono ai team virtuali di gestire efficacemente i processi da postazioni remote. Ma a mio avviso c’è anche un’altra leva che garantisce il successo di questi progetti: si tratta della gestione attiva del cambiamento, che deve essere accompagnato con iniziative di learning mirate alla gestione per obiettivi, alla pianificazione puntale delle attività, alla diffusione di meccanismi di delega, alla gestione di team virtuali in grado di lavorare da remoto». Finora la risposta dei dipendenti è stata più che positiva. La maggiore flessibilità e autonomia hanno fatto registrare livelli di engagement crescenti, liberando positivamente le energie delle persone: la voglia di dimostrare che questa modalità di organizzazione del lavoro funziona davvero ha attivato, con grande compiacimento del management, contributi spontanei molto significativi, insieme a tanti suggerimenti di carattere pratico per renderla sempre più efficace. «Ora sarà importante tenere sotto controllo nel tempo i benefici che scaturiscono da questa iniziativa, per comprendere se lo Smart Working genera effettivi e duraturi miglioramenti in termini di produttività, engagement, retention e sviluppo professionale. In questo senso, sarà fondamentale il monitoraggio dei KPI rilevanti e una nuova misurazione attraverso una seconda edizione del Bilancio del Capitale per permetterci di individuare le eventuali azioni utili per mantenere nel tempo e incrementare i benefici riscontrati fino a questo momento», conclude Zingarelli. www.digital4executive.it

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digital transformation - marketing

marta valsecchi osservatori digital innovation politecnico di milano

Mobile Transformation, in due aziende su tre il percorso è avviato In Italia la pubblicità su Mobile vale ormai quasi mezzo miliardo di euro e 3 utenti su 4 fanno shopping con lo smartphone. «L’introduzione del Mobile in azienda non deve limitarsi ai dispositivi, ai siti responsive e alle App, ma deve rappresentare un cambio di paradigma. È necessario ripensare completamente l’esperienza di interazione tra azienda e consumatore», dice Marta Valsecchi, dell’Osservatorio Mobile B2c Strategy del Politecnico di Milano

Il Mobile Advertising, cioè il mercato della pubblicità su smartphone e tablet, in Italia nel 2015 è cresciuto del 53%, raggiungendo il valore di 462 milioni di euro, cioè più di un quinto (21%) della pubblicità su Internet (vedi anche i dati sul mercato Internet Adv), e più del 6% di tutta la pubblicità in Italia, su qualsiasi canale: il doppio di soli due anni fa. A guidare questa impressionante crescita sono i Social Network, su cui l’advertising è più che raddoppiato: il 60% dei loro introiti pubblicitari proviene da annunci visti su Smartphone. Ma gli italiani non usano il Mobile solo per guardare pubblicità o video, chattare sui social network e cercare news. Il 77% dei 22 milioni di “mobile surfer” italiani (persone tra 18 e 74 anni che accedono a Internet da Smartphone o Tablet almeno una volta al mese) svolge via Mobile almeno una fase del processo d’acquisto. Il 60% cerca informazioni sul prodotto, promozioni e negozi (fisici o online) prima di comprare, il 40% si informa all’interno del punto | 36 |

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vendita, e il 29% chiede assistenza, consulta servizi sottoscritti o gestisce la carta fedeltà dopo l’acquisto. Il 41% poi effettua la vera e propria transazione pagando tramite Mobile, e il valore delle vendite via Smartphone nel 2015 è arrivato al 10% del totale eCommerce italiano. Sono alcuni dei numeri più significativi del primo Osservatorio Mobile B2C Strategy del Politecnico di Milano, presentato lo scorso febbraio. «Abbiamo rifocalizzato il precedente Osservatorio Mobile Marketing e Service perché l’ormai enorme diffusione di smartphone e tablet impone alle aziende dei settori consumer di considerare l’approccio al Mobile non più come tattico ma come strategico. Non basta realizzare Mobile Site o App ad hoc, occorre ripensare completamente l’interazione con il consumatore - comunicazione, promozioni, supporto pre e postvendita, acquisto, pagamento -, e di conseguenza processi, organizzazione e sistemi», ha spiegato Marta Valsecchi, Direttore dell’Osservatorio.


digital transformation - marketing | Mobile Transformation, in due aziende su tre il percorso è avviato

Lo smartphone, un “touch point” molto speciale

I cinque approcci al mobile delle aziende italiane Ma a che punto della “Mobile Transformation” si trovano le aziende italiane B2C in questo momento? Consultando circa 200 aziende della domanda e dell’offerta, l’Osservatorio ha definito un modello per misurare il livello di maturità nell’approccio al Mobile basato su 6 variabili: impegno e spinta del vertice aziendale; impegno del middle management e integrazione delle diverse funzioni aziendali; reingegnerizzazione dei processi di back-end e integrazione tra i diversi touch point; competenze Mobile in azienda; grado di attuazione della strategia Mobile in termini di Asset (Mobile Site e App); e valorizzazione del Mobile come canale di Advertising.

«In due medio-grandi imprese italiane su tre il percorso di Mobile Transformation è ormai avviato - ha affermato Marta Valsecchi -. Per anni il Mobile è stata una leva nelle mani del marketing o dell’IT – e ancor più spesso del solo team digital –, ma ora, in un numero crescente di aziende, è un tema trasversale a più funzioni, ed è iniziata la riprogettazione di alcuni processi (CRM, vendite, customer care, ecc.) con l’obiettivo di avere una vista unica sul cliente e integrare i diversi touch point. C’è stato un cambio di rotta influenzato dal crescente impegno del vertice aziendale, che ha iniziato a considerare la Mobile Transformation un fattore chiave per il proprio business nei prossimi anni».

La Ricerca, condotta su 121 imprese utenti italiane medio-grandi, ha portato i ricercatori a individuare cinque “cluster” dai comportamenti omogenei rispetto alla Mobile Transformation. Le “Nice to Have” (19% delle aziende) credono molto poco al contributo del Mobile ai propri risultati di business; le “Digital Driven” (16%) vedono poco impegno del vertice ma team singoli impegnati su progetti Mobile importanti, anche se non integrati con gli altri canali; le “Wannabe” (14%) hanno un management convinto dal Mobile ma sono frenate dalla scarsa digitalizzazione di partenza dei processi; per le “Work in Progress”, le più numerose (35%), il 2015 è stato l’anno della definizione della strategia Mobile e dell’avvio della sua attuazione; infine nelle Mobile First (16%) il Mobile guida le scelte di investimento in termini di sviluppo, design, usability di tutti gli Asset.

mobile advertising, un mercato quintuplicato in 3 anni

462 mln

302 mln 204 mln

89 mln

2012

Fonte: Osservatori Digital Innovation, Politecnico di Milano

Lo smartphone infatti è un “touch point” dalle caratteristiche uniche e del tutto nuove, e va integrato attentamente con tutti gli altri, ha detto poi la ricercatrice. «È l’unico device sempre addosso all’utente in ogni momento della giornata, è il ponte tra l’esperienza online e quella in negozio, può diventare il “telecomando” per attivare azioni sui prodotti fisici o raccogliere informazioni da essi, e grazie alla geo-localizzazione permette di sapere dove è il consumatore e come si sposta. Le aziende sono quindi chiamate a una “Mobile Transformation” che orienti i processi di comunicazione e fidelizzazione all’uso dello Smartphone come potenziatore degli altri punti di contatto, dalla pubblicità su altri mezzi al customer care, fino all’esperienza nel punto vendita».

Il Mobile adesso interessa tutte le Line of Business

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digital transformation - marketing di

manuela gianni

Un’App che sa tutto di te: Nike sposta ancora avanti la frontiera dello shopping personalizzato Il brand icona dell’abbigliamento sportivo ha presentato in un mega evento a New York la nuova applicazione per smartphone (la quarta), confermando la strategia fortemente orientata all’innovazione e alla personalizzazione del servizio. Contiene un negozio virtuale, tanti contenuti editoriali e nuovi servizi. Di fatto, tutto è pensato per creare un’esperienza d’acquisto gratificante e “su misura”, grazie ai dati personali che sono gli stessi utenti a fornire

Cosa significa davvero “engage”, la parola chiave del Digital Marketing? E come si fa a far sentire “unici” i propri clienti, proponendo a ciascuno proprio quello che desidera? Per capirlo, è utile osservare le mosse di Mark Parker, CEO di Nike, che in un recente mega evento a New York, non a caso battezzato “Innovation 2016”, ha presentato la nuova App Nike+, oltre che un paio di scarpe che si allacciano da sole, adattandosi al piede grazie a dei sensori incorporati. Il brand icona dell’abbigliamento sportivo è già da tempo uno degli esempi di successo più citati di innovazione digitale nel settore retail. Sono circa 30 milioni nel mondo gli utenti delle sue App che aiutano gli amanti del fitness sia nel training sia nel running, e il cui debutto risale ormai a 10 anni fa: oggi ne sono disponibili tre diverse, per smartphone e smartwatch, e quella nuova le raccoglierà tutte, con un’unica autenticazione. I reali o aspiranti atleti non hanno nessuna | 38 |

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reticenza a condividere con Nike e con tutta la community dei fan, connessa attraverso i social, ogni dettaglio relativo alle proprie esperienze sportive e ai propri gusti. E grazie a questi dati, Nike risponde in modo sempre più personalizzato, a conferma che i clienti, oggi, vogliono essere conosciuti. Un esempio è quello della musica. Lo scorso anno la società ha stretto un accordo con Spotify, mettendo così a disposizione degli utenti dell’App Nike+ il servizio musicale, 30 milioni di brani da ascoltare mentre si corre. Ma l’originalità sta nel fatto che l’App registra il ritmo della corsa e le preferenze musicali (sono gli utenti a inserirli) e propone una playlist concepita per motivare l’atleta-utente e aiutarlo ad accelerare il suo ritmo. La nuova versione dell’App annunciata da Parker a New York, che vedrà la luce a giugno, parte da queste consolidate esperienze di successo, e si fa ancora piùzoom sofisticata nell’intercetta-


digital transformation - marketing | Nike sposta ancora avanti la frontiera dello shopping personalizzato

Mark Parker, CEO di Nike, sul palco dell’evento “Innovation 2016”

re il “customer journey”. «Stiamo entrando nella nuova era del servizio personalizzato – ha detto il CEO –. Gli atleti non vogliono più solo un cruscotto. Vogliono una relazione». Per questo, dei suoi fan Nike sa ormai quasi tutto. Dove corrono, quanto vanno veloce, che sport seguono e praticano, chi sono i loro idoli (fra quelli sponsorizzati Nike) e chi sono i loro amici sui social. Ma anche il numero di scarpe, la taglia di maglietta, o che

colore preferiscono. Dati che gli utenti forniscono volentieri, e divertendosi (è la gamification). Nella nuova App, Nike ha aggiunto tanti contenuti editoriali: pillole (tips) di storie e video aggiornati costantemente, ad esempio un canestro di un astro dell’NBL o una nuova tuta. La società dice che la sua App “ispira” (il claim è: “inspires athletes to pursue their potential”). Sicuramente lo farà: difficile pensare che non avrà successo, almeno presso la sua ampia community. Ma la verità, è che si tratta principalmente un’app concepita per ispirare lo shopping, per guidare verso l’acquisto e per arricchire l’esperienza, come fanno notare gli analisti negli Usa. Ciascun utente avrà sullo smartphone un negozio virtuale, con i propri prodotti preferiti. I servizi, altro non sono che la possibilità di prendere un appuntamento in negozio, o la Chat con gli esperti che consigliano l’acquisto, la possibilità di avere un coupon per comprare in anteprima di nuovi modelli, o un codice QR Code da presentare in negozio per essere riconosciuti come membri del Club e pagare rapidamente (è integrabile in Apple Wallet). L’idea è infatti quella di offrire privilegi d’acquisto: solo ai membri della community sarà permesso avere, quando usciranno quest’estate, le scarpe che si allacciano da sole. Gli obiettivi dichiarati di questa strategia che sposa tecnologia e fitness sono davvero ambiziosi: l’ultimo anno fiscale si è chiuso a maggio con 30,6 miliardi di dollari di fatturato, che nelle previsioni diventeranno 50 nel 2020. Da notare che lo sviluppo tecnologico è stato internalizzato, incluso quello dell’App: Nike non si affida a società esterne, come fanno invece altri colossi come Adidas.

Dei suoi fan Nike sa ormai quasi tutto. Dove corrono, quanto vanno veloce, che sport seguono e praticano, chi sono i loro idoli, i loro amici sui social. Ma anche il numero di scarpe, la taglia di maglietta, o che colore preferiscono www.digital4executive.it

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Workshop e Webinar possono essere seguiti in diretta web e on demand (successivamente alla diretta) Webinar

L’evoluzione dei sistemi ERP in un contesto mobile, cloud e big data

10 maggio

ERP

Webinar

Mobile App e Marketing: quali strumenti di marketing utilizzare in fase di lancio di una Mobile App?

11 maggio

Mobile B2c Strategy

Webinar

Blockchain e distributed ledger: nuove tecnologie e potenzialità per il business? (non solo Bitcoin!)

17 maggio

Mobile Payment & Commerce

Workshop

I contratti di licenza d'uso dei software vendor: elementi essenziali e criticità

18 maggio

Cloud & ICT as a Service

Webinar

La norma ISO27018 per il rispetto della privacy nei servizi Cloud

19 maggio

Sicurezza Informatica e Privacy

Webinar

Gli impatti del nuovo CAD su Fatturazione Elettronica e Conservazione Digitale

20 maggio

Fatturazione Elettronica e Dematerializzazione

Webinar

Le collaborazioni con i fornitori di servizi: elementi di attenzione

23 maggio

Startup

Workshop

Social Selling: come coltivare le relazioni e acquisire nuovi clienti sui social network

25 maggio

eCommerce B2c

Workshop

Social Intelligence & Analytics: come fare customer insight e misurare l’efficacia dei social network

27 maggio

Big Data Analytics & Business Intelligence

Workshop

Mobile App e Compliance: i principali requisiti di compliance di un'applicazione per smartphone

30 maggio

Mobile B2c Strategy

Workshop

Lean Innovation per una Startup

31 maggio

Startup

Webinar

Smart Organization: i fattori di successo delle iniziative di smart working

6 giugno

Smart Working

Workshop

Gli audit dei software vendor: come gestirli al meglio

7 giugno

Cloud & ICT as a Service

Webinar

Gli aspetti giuslavoristici e l’evoluzione della normativa sullo Smart Working

8 giugno

Smart Working

Webinar

Open API bancarie e i nuovi servizi di Accesso ai Conti previsti dalla PSD2

14 giugno

Mobile Payment & Commerce

Workshop

Cloud in Sanità: profili legali e contrattuali

15 giugno

Innovazione Digitale in Sanità

Webinar

Mobile App Design Trends

16 giugno

Mobile B2c Strategy

Webinar

La Classificazione delle informazioni come strumento per la strategia di sicurezza dell’azienda

23 giugno

Sicurezza Informatica e Privacy

Workshop

Native Advertising: definizioni, opportunità e trend in atto

27 giugno

Internet Media

Webinar

Smart working incentivi alla produzuzione e welfare aziendale

30 giugno

HR & SMart Working

Webinar

Hacker, cracker, black hat: cosa vogliono i criminali informatici e perchè siamo tutti a rischio?

4 luglio

Sicurezza Informatica e Privacy

Calendario aggiornato al 24 marzo 2016 - Per una versione più completa visitare la pagina web: www.osservatori.net/calendario-workshop


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digital transformation - procurement

Coop, una piattaforma digitale per gestire i fornitori e garantire trasparenza

Gabriele Tubertini CIO Coop Italia

La catena di distribuzione tiene traccia, attraverso un portale fornito da BravoSolution, di tutte le relazioni con i produttori di materie prime per i prodotti a marchio, che rappresentano il 30% del venduto. Il flusso strutturato di dati, a prova di auditing, è alla base di iniziative rivolte ai consumatori, come la campagna “Origini Trasparenti” e il “Supermercato del futuro” realizzato a Expo

Fra il campo e la tavola, c’è di mezzo un flusso di preziose informazioni che raccontano al consumatore l’origine e le caratteristiche delle materie prime dei prodotti alimentari confezionati. Se fino al 2001 questi dati restavano su fogli di carta, in Coop ora transitano su una piattaforma digitale, fornita da BravoSolution, che gestisce la relazione con i fornitori e tutto il ciclo di vita dei prodotti a marchio Coop, che valgono circa un terzo del fatturato. Una soluzione unica nel panorama del retail italiano: adottata inizialmente per migliorare e strutturare i processi di acquisto, è diventata nel tempo una miniera di preziose informazioni sui prodotti, già organizzate in un repository strutturato, che - come spiega Gabriele Tubertini, CIO di Coop Italia - l’insegna può ora “aprire” e mettere a disposizione dei clienti, nel segno della massima trasparenza e della tracciabilità, a garanzia del rispetto degli standard di qualità e di sicurezza. | 42 |

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In che modo utilizzate il portale fornitori? Si tratta di una piattaforma, che in Coop chiamiamo PLT, Private Label Trade, su cui sono registrati circa 3mila fornitori, che riguarda tutti i prodotti a marchio Coop, che rappresentano circa il 30% del venduto. Gestisce il flusso di informazioni relative alle caratteristiche di prodotto, come la provenienza delle materie prime o le certificazioni dei fornitori, oltre che gli audit della qualità e il processo negoziale. Viene utilizzata da circa 60 utenti interni, fra direzione commerciale e qualità, e da un centinaio di utenti delle direzioni qualità delle cooperative socie. Cosa vi ha spinto ad adottare la piattaforma? Il fortissimo sviluppo strategico delle linee dei prodotti a marchio (ViviVerde, Fiorfiore, Solidal, Benesi, etc), ci ha portato a dover gestire un sensibile aumento del numero di referenze rendendo quindi necessario efficientare e standardizzare il processo. Inoltre volevamo che le informazioni relative ai


digital transformation - procurement | Coop, una piattaforma digitale per gestire i fornitori e garantire trasparenza

prodotti non fossero più solo a uso interno, ma rese disponibili ai consumatori in linea con la nostra strategia di trasparenza, con l’impegno di essere diretti e chiari. Oggi abbiamo a disposizione un repository strutturato che ne rende possibile la fruizione. Ogni attività effettuata sul portale è verificata e tracciabile. Ad esempio un fornitore può dichiarare che nel suo prodotto non sono presenti allergeni: se lo registra sul portale, l’informazione è certificata, viene tracciata ed è utilizzabile a livello di auditing. Come è stato gestito il percorso di adozione? Inizialmente abbiamo avuto serie resistenze, perchè la piattaforma ha comportato un forte cambiamento nella modalità di lavoro. Per fortuna abbiamo “tenuto la barra” e nel tempo gli utenti sono stati sempre più soddisfatti, tanto che oggi il portale è il riferimento unico per la gestione dei prodotti a marchio e i vantaggi sono apprezzati da tutti. Con il supporto di BravoSolution abbiamo indirizzato le criticità e abbiamo disegnato insieme un percorso, per venire incontro alle nostre esigenze. Si tratta di una piattaforma in Cloud, modalità che, per sua natura, consente una personalizzazione meno spinta delle soluzioni sviluppate internamente, e il nostro è un processo molto peculiare. I vantaggi del Cloud erano però così significativi che abbiamo accettato la sfida riuscendo progressivamente non solo a implementare le personalizzazioni effettivamente necessarie, ma anche ad ampliare l’utilizzo della soluzione anno dopo anno. E come si è evoluto nel tempo l’utilizzo? Oltre ai prodotti a marchio Coop, è stata aggiunta la gamma dei freschissimi, come i prodotti della gastronomia o le verdure preparate, perché le cooperative ci hanno manifestato l’esigenza di avere un unico repository dove condividere informative e ricette anche di questi prodotti. In più la piattaforma gestisce tutto il ciclo della modulistica legata ai prodotti, come le etichette e le schede tecniche. In sostanza, il portale è utilizzato anche come repository di documenti, molto utile per le procedure di auditing. Ed è questo repository che ha abilitato la campagna “Origini Trasparenti” del 2013, con cui per primi in Italia abbiamo permesso ai consumatori di ottenere informazioni sull’origine delle materie prime utilizzate nei prodotti, ripercorrendo a ritroso la filiera, dalla tavola al campo. E che ha abilitato lo

sviluppo dell’esperienza interattiva implementata nel Supermercato del Futuro di Expo 2015. In che modo? Per la campagna “Origini Trasparenti”, abbiamo sviluppato il sito www.cooporigini.it dove il consumatore, digitando il codice a barre o il nome del prodotto, accede ottenendo le informazioni in tempo reale, nel segno della massima trasparenza. E nel Supermercato del Futuro, realizzato per Expo, per vedere comparire le informazioni sugli schermi bastava fare un gesto con la mano, di fronte al bancone dotato di appositi sensori di movimento. Molte delle informazioni presentate trovano la loro origine proprio dal portale PLT su BravoSolution. Siamo riusciti a presentare le informazioni in maniera lineare e semplice perché partivamo da questa base dati informativa, ovvero un repository strutturato di schede prodotto che può abilitare iniziative di questo tipo. Le informazioni raccolte sono per voi strategiche. Come avete affrontato il tema della sicurezza, avendo scelto una soluzione in Cloud? Il portale gestisce informazioni core per Coop: il nome di chi ci produce i biscotti o l’informazione sull’intenzione di sostituire un fornitore, solo per fare degli esempi, sono per noi dati molto delicati e riservati. La nostra maggiore preoccupazione nell’approccio Cloud - era garantire la riservatezza di queste informazioni. La soluzione sviluppata da BravoSolution, caratterizzata da un ambiente di produzione dedicato a Coop e da altissimi standard di sicurezza (non dimentichiamoci che BS è certificata ISO27001), ci garantisce un altissimo livello di protezione. Inoltre I data center di BravoSolution sono anche certificati per garantire la Business Continuity e il Disaster Recovery. L’approccio Cloud ci permette inoltre di beneficiare della roadmap di evoluzione della piattaforma e questo è un vantaggio perché ad ogni rilascio vengono implementate nuove migliorie.

La piattaforma gestisce il flusso di informazioni relative alle caratteristiche di prodotto, come la provenienza delle materie prime o le certificazioni dei fornitori, oltre che gli audit della qualità, il processo negoziale e il ciclo della modulistica, come le etichette e le schede tecniche

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digital transformation - finance

Deloitte, ecco la cassetta degli attrezzi digitali per il CFO Le tecnologie innovative stanno cambiando anche il lavoro del Chief Financial Officer e dell’area che presiede. Soluzioni di Software-as-a-Service, Mobility, Visualization e In-memory Computing migliorano già le attività quotidiane di amministrazione, finanza e controllo. Ma entro 3-5 anni il ruolo stesso della funzione Finance sarà rivoluzionato da Big Data, Social Media e Predictive Analytics

La digitalizzazione nelle aziende ha già forti impatti anche sulla funzione Finance e sul lavoro del CFO. Sono già disponibili soluzioni tecnologiche affidabili, come Mobility, Software-as-a-Service (SaaS), Visualization e In-memory Computing, che aiutano a fare meglio le attività quotidiane di amministrazione, finanza e controllo. Ma questo è solo l’inizio. Un’altra ondata di tecnologie, ora in fase sperimentale, entro 3-5 anni rivoluzionerà l’attività stessa della funzione Finance, cambiandone il ruolo in azienda. Si tratta di Big Data, Predictive e Cognitive Analytics, e Social media e Crowdsourcing. Questi i concetti di una recente intervista a Matt Schwenderman, principal e leader della Performance Management Technology practice di Deloitte Consulting, nella sezione CFO Journal del Wall Street Journal. Il primo gruppo di tecnologie, chiamate “enabling”, impattano su attività che si fanno già, e abilitano innovazioni che da tempo sono richieste da | 44 |

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molte organizzazioni Finance, spiega Schwenderman, perché accelerano il raggiungimento di obiettivi che da tempo sono sull’agenda del CFO. I Chief Financial pressati sulla riduzione dei costi e l’efficienza per esempio devono considerare le opportunità offerte dal modello SaaS, che può aiutarli a trasferire una parte dei costi IT dal budget “Capex”, cioè dagli investimenti in conto capitale ammortizzabili in vari anni, al budget “Opex”, le spese operative, perché invece di comprare un asset si compra un servizio. i benefici del saas per chi fa acquisizioni Ma al di là del vantaggio di variabilizzazione dei costi, le soluzioni SaaS permettono anche una flessibilità e agilità prima impossibile nell’applicare modelli di analisi a singole parti del business. «Prendiamo per esempio un’azienda che fa spesso acquisizioni: la funzione Finance può applicare


digital transformation - finance | Deloitte, ecco la cassetta degli attrezzi digitali per il CFO

«Presidiate in modo attivo e continuativo i processi di data management e data governance: non solo per capire quali dati sono disponibili e dove, ma per tutti i problemi di normativa e compliance che li riguardano»

all’organizzazione appena acquisita soluzioni di performance management e analytics in SaaS acquisendo informazioni fondamentali ben prima di investire pesantemente nell’integrazione dei sistemi informativi». Passando alla Mobility, può integrare ed estendere le capacità della funzione Finance all’interno dell’organizzazione. «Con dispositivi e App mobili il Finance può supportare le esigenze del business per esempio di report self-service e di analytics tarati esattamente su una decisione da prendere». Quanto alla Visualization è un altro potente strumento, «che da una parte può dare evidenza a tendenze, andamenti e correlazioni “nascoste” tra variabili operative e risultati finanziari. Dall’altra aiuta a definire i Key Performance Indicator più significativi, e a migliorare fortemente la capacità del Finance di comunicarli alle altre funzioni di business e al top management, perché traduce dati e analisi finanziarie in un “linguaggio” grafico leggibile da tutti». L’In-memory Computing invece è fondamentale per il Finance perché accelera fortemente le capacità di elaborazione e analisi dei dati. Rende una realtà praticamente fattibile il sogno di decenni del CFO e di molti manager: il reporting in tempo reale. Inoltre permette di differenziare facilmente la profondità e granularità delle analisi. «Si possono condurre previsioni e pianificazioni finanziarie più dettagliate per KPI real-time, e più sintetiche per indici meno critici. Per esempio un operatore Retail può “modellizzare” le previsioni di volumi di vendita e i profitti dei singoli prodotti con dati di vendita a livello di negozio, e modellizzare invece le allocazioni delle risorse corporate basandosi su dati a livello regionale e appunto corporate».

Big Data sono di quattro tipi: dati strutturati o non strutturati, interni o esterni. «Il Finance si è sempre tradizionalmente limitato a dati interni e strutturati, ma l’apertura a dati esterni e/o strutturati può comportare anche per quest’area la possibilità di analisi più precise – e quindi decisioni migliori – e di collaborazioni più profonde con le altre funzioni aziendali. Un CFO lungimirante dovrebbe chiedersi “se altre funzioni in azienda stanno raccogliendo già questi dati, come posso sfruttarli per la mia?”». Il Predictive Analytics invece permetterà al Finance di prevedere risultati modellando probabili scenari basati su input e variabili in tempo reale,

«È possibile oggi utilizzare tool di social media collaboration per ridurre i tempi di chiusura dei consuntivi mensili e individuare intoppi e criticità di questo processo»

“se altre funzioni raccolgono già questi dati, come posso sfruttarli per la mia?” Passando al gruppo di tecnologie “disruptive”, cominciamo dai Big Data, che – spiega Schwenderman – stanno già determinando cambiamenti profondi o incrementali nelle operation, nelle supply chain e nell’interazione con i clienti. Le fonti per i www.digital4executive.it

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digital transformation - finance | Deloitte, ecco la cassetta degli attrezzi digitali per il CFO

«L’In-memory Computing è cruciale perché accelera fortemente le capacità di elaborazione e analisi dei dati. Rende realtà il sogno di decenni del CFO e di molti manager: il reporting in tempo reale»

invece che su ipotesi e assunzioni fissate una volta per tutte. Per esempio le previsioni di vendita potranno essere basate sui profili di soddisfazione dei clienti e sui trend reali di domanda, invece che su dati storici degli anni precedenti. Se poi il Predictive Analytics si integra con tecnologie di machine learning ed elaborazione del linguaggio naturale si ottiene il Cognitive Analytics, che permette di affinare la formulazione di ipotesi, semplificare l’accesso alle informazioni, e di analizzare più grandi volumi di dati non strutturati, migliorando i processi decisionali. Quanto ai Social Media e al Crowdsurcing, mentre in ambito CRM (marketing, vendite e servizi ai clienti) le opportunità per un loro contributo sono ovvie, il discorso è meno immediato per il Finance, che però - spiega Schwenderman - può comunque trarre da queste tecnologie spunti di innovazione per i propri “tradizionali” processi, e benefici di condivisione di informazioni, collaborazione, e di conseguenza di riduzione dei tempi di processo. «Per esempio come Deloitte abbiamo seguito un cliente che ha usato un tool di social media collaboration per ridurre i tempi di chiusura dei dati conta-

bili di consuntivo mensili e migliorare la capacità di capire intoppi e criticità di questo processo». «Guardatevi intorno in azienda prima di fare i pionieri» Come cambiano quindi il rapporto tra CFO e CIO, e l’atteggiamento del CFO verso l’innovazione? I CFO dovrebbero trattare i CIO come “Chief Integration Officer”, cioè manager capaci di “calare” ciascuna di queste tecnologie nel contesto specifico di ogni area aziendale, e in particolare del Finance, spiega Schwenderman. «Recentemente ho lavorato con il CFO di un’azienda cliente che pensava di avviare un progetto pilota di reporting con componenti innovative di Big Data e Visualization. È emerso che la funzione IT aveva già in corso un progetto simile in un’altra parte dell’azienda. Non occorreva comprare software, e l’IT aveva già competenze per aiutare il Finance a capire come usare Big Data e Visualization per le sue specifiche esigenze. La morale è che spesso è più una questione di integrare le tecnologie innovative attraverso l’azienda, e quindi anche nel Finance, che di fare da pioniere assoluto».

CFO e innovazione, le tre sfide cruciali A conclusione del discorso sulla “cassetta degli attrezzi digitali per il CFO”, Matt Schwenderman, principal e leader della Performance Management Technology practice di Deloitte Consulting, ha sintetizzato le tre sfide principali per il Chief Financial Officer nei confronti dell’innovazione. 1) Presidiare in modo attivo e continuativo i processi di data management e data governance. «Non solo per capire quali dati sono disponibili e dove, ma per tutti i problemi di normativa e conformità che li riguardano». 2) Mantenersi aggiornati sui rischi di privacy e sicurezza dei dati, «che continuano a cambiare con il crescere delle tecnologie adottate, degli accessi ai dati, e delle fonti di provenienza dei dati stesso». 3) Resistere all’esigenza che tutto sia perfetto prima di “accendere” un nuovo sistema. «L’innovazione è più una faccenda di miglioramento continuo che di perfezione al primo colpo».

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digital transformation - finance

Soluzioni digitali per il Finance, «In Italia siamo indietro: si fa ricerca, ma c’è diffidenza per l’innovazione di frontiera» Siamo di fronte a un mix di tendenze già note e tendenze emergenti che stanno modellando un nuovo concetto di «Everywhere Analytics» in cui scienza, dati e razionalità sono integrati nel processo decisionale ogni giorno a ogni livello dell’organizzazione, spiega Alfredo Garibaldi, Partner di Deloitte. «Tuttavia nel nostro Paese le tecnologie sono utilizzate solo quando sono ormai consolidate, vedi il caso dei Big Data»

Abbiamo chiesto ad Alfredo Garibaldi, partner di Deloitte, un commento sui concetti espressi da Matt Schwenderman nelle pagine precedenti, in particolare riguardo alla consapevolezza e all’adozione in Italia delle soluzioni digitali per la funzione Finance descritte dal leader della Performance Management Technology practice di Deloitte Consulting. «Indubbiamente l’evoluzione delle tecnologie abilitanti porterà un radicale cambiamento nel modo di svolgere il mestiere di CFO, CMO ed Executive Manager in generale. Chi per primo coglierà le opportunità di questo cambiamento, con l’abilità di mitigare i rischi da Early Adoption, avrà un indubbio vantaggio competitivo – ci spiega Garibaldi -. Oggi siamo di fronte a un mix di tendenze già note, altre invece emergenti, che stanno modellando un nuovo concetto di «Everywhere Analytics» - in cui Analytics, scienza, dati e razionalità sono integrati nel processo decisionale, ogni giorno, a tutti i livelli dell’organizzazione». Lo sforzo richiesto è quindi di sfruttare questo mix di tendenze indirizzandole verso risultati concreti nel lavoro quotidiano. «Le Cognitive Technologies, per esempio, possono aiutare a ottimizzare i processi aziendali navigando dati analitici e senza percorsi predefiniti, e individuare legami

fra il funzionamento dei processi e altri fenomeni apparentemente non correlati. È il caso per esempio di un’azienda manifatturiera che abbiamo seguito e che attraverso l’utilizzo di soluzioni cognitive ha capito che la produzione di materiali difettosi era legata all’allungamento dei tempi di produzione di un determinato componente. Non è una casistica contemplata con le analisi abilitate dalle technologie “tradizionali”». Casi del genere, sottolinea Garibaldi, possono facilitare il lavoro di comprensione dei fenomeni, e rendere più tempestive ed efficaci le azioni di risoluzione e più affidabili tutti i processi di pianificazione aziendale e le relative risultanze finanziarie. «Tuttavia il contesto italiano, purtroppo, ci vede ancora indietro. Se da un lato fioriscono le realtà di ricerca e sviluppo su questi nuovi trend, dall’altro permane una diffidenza di fondo nell’utilizzo di strumenti innovativi e tecnologie di frontiera fino a quando non siano di fatto nella fase di consolidamento». Un ottimo esempio sono i Big Data: «In Italia sono tuttora visti come una possibile innovazione, mentre altrove fanno parte del quotidiano degli Analytics, influenzano le strategie di business, stimolano importanti investimenti e rivoluzionano il modo di fare business». www.digital4executive.it

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ICTBenchmark è un tool interattivo e dinamico che consente di confrontare i valori dei principali indicatori usati dalle Funzioni IT con quelli di aziende simili Budget IT/Fatturato Dipendenti IT/Totale Dipendenti Principali priorità di investimento ICT Principali modelli di Data Management Device e Sistemi Informativi Mobile Tutti i confronti possono essere personalizzati sulla base del settore, della dimensione aziendale (per fatturato e per dipendenti) e dell’area geografica e la base empirica di riferimento supera già le 1000 imprese

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digital transformation - finance

Il dilemma del CFO: customer sentiment e brand decisivi, ma come misurarli? Gli asset intangibili costituiscono ormai gran parte del valore aziendale, e monitorarli è sempre più cruciale. L’area Finance può avere un ruolo trainante, ma raramente ha gli strumenti adatti, dice un’indagine del Chartered Global Management Accountant

Oggi gran parte del valore di un’azienda nasce da asset intangibili come il “sentiment” del consumatore e la reputazione del marchio. Secondo un’analisi Ocean Tomo citata dal Wall Street Journal, gli “intangibles” costituiscono in media l’84% del valore delle imprese dell’indice S&P 500. Ma pochi dei Chief Financial Officer e direttori dell’area finanza, amministrazione e controllo della regione EMEA dispongono dei dati necessari per “misurarli”. Questo il responso principale di “The Digital Finance Imperative”, un’indagine del Chartered Global Management Accountant (CGMA) su 744 manager di tutto il mondo - di cui il 37% appunto in Europa, Medio Oriente e Africa - commissionata da Oracle. Per gli intervistati europei gli asset intangibili più importanti sono customer satisfaction (75%), qualità dei processi (62%), e relazione con il cliente (62%), seguiti da qualità delle persone e reputazione del marchio. Ma solo il 16% è in grado di raccogliere e analizzare i dati per misurare il customer sentiment, o l’impatto della forza del brand sui risultati aziendali. E solo il 29% è in grado di misurare la qualità dei processi di business. «Il settore Finance può diventare il “timone” di una gestione avanzata del business, se è in grado di estrarre i dati rilevanti da sistemi ERP e di performance management moderni e Cloud-based – commenta Laurent Dechaux, Vice President ERP Western Europe di Oracle Applications -. Ma se non è in grado, rischia di essere aggirato dalle linee di business più avanzate nella digitalizzazione». In effetti secondo l’indagine solo il 10% dei dipartimenti Finance è finora coinvolto nei

processi per misurare indici “non finanziari” rispetto agli obiettivi strategici. «La digitalizzazione rende più difficile differenziarsi e creare valore aggiunto, per cui la qualità del processo decisionale diventa essenziale per il successo di un’impresa, e il reparto Finance in questo può avere un ruolo trainante – sottolinea Noel Tagoe, executive director of education di CIMA, una delle associazioni di accounting che formano la CGMA, e co-autore del report -. Avendo una visione ampia dell’azienda e le competenze necessarie per interagire con diversi interlocutori, può garantire che l’impresa raggruppi e analizzi i dati giusti per migliorare le proprie performance».

Southwest: il Finance come “data supervisor” dell’intera azienda Il report di CGMA riporta i pareri di diversi CFO, tra cui Paul Cullen, Managing Director Financial Planning & Analysis di Southwest Airlines: «La funzione Finance ha accresciuto la sua influenza in azienda nel tempo. 10 anni fa abbiamo investito per migliorare la qualità dei dati e assumere dei data expert. Poi anche altre funzioni ne hanno assunti, per esempio per lavorare sui dati dei clienti, ma alla funzione Finance resta un ruolo primario nell’analisi dei dati, ed è logico che si proponga come centro servizi condiviso. Se ci sono 10 parti dell’azienda che lavorano sui dati, ci dev’essere un centro d’eccellenza che supervisiona tutto questo, e il Finance è il candidato ideale».

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digital transformation - supply chain di

Giorgio Fusari

Logistica di magazzino, Unieuro: se il progetto è vincente si ripete Dopo aver aumentato la capacità di stoccaggio del 25% e la produttività del 30% nel deposito di Forlì, con soluzioni di navigazione assistita e automazione dei carrelli, ora la catena di elettronica di consumo replica l’iniziativa nel magazzino di Piacenza, che ha estensione tripla. «Il payback sarà ancora più breve», spiega il Direttore logistica Claudio Marchionni

Forse oggi è più “di moda” parlare di ottimizzazione della logistica esterna, ma i miglioramenti della logistica interna sono ugualmente importanti, soprattutto in un’epoca in cui l’esplosione dell’eCommerce sta richiedendo sempre più efficienza nei magazzini e nella gestione degli stock di prodotti. Al riguardo, un caso interessante è il progetto incentrato sul magazzino di Unieuro. La catena italiana di elettronica di consumo oggi utilizza un magazzino centrale di 50mila metri quadri a Piacenza. Ma solo 3 anni fa aveva appena realizzato un progetto per conferire al magazzino di Forlì del partner SGM Distribuzione (15 mila mq) una capacità di gestione di volumi di traffico adeguata alla crescita dell’azienda. Poi la fusione con SGM, con relativa unificazione delle reti vendita, ci spiega Claudio Marchionni, Direttore logistica di Unieuro, ha reso insufficiente il magazzino di Forlì e si è deciso di trasferire la logistica appunto sul magazzino di Piacenza, lasciando a Forlì attività secondarie. | 52 |

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A Forlì un modello da riprodurre In circa un anno e mezzo di attività, il magazzino di Forlì ha centrato gli obiettivi di efficienza fissati nel progetto 2013, e l’idea ora è riprodurre questo modello d’innovazione anche nel magazzino di Piacenza, seppur in un contesto di differenti dimensioni dell’area di stoccaggio e caratteristiche tecniche. Ma facciamo un passo indietro. Nel magazzino di Forlì gli obiettivi erano due: aumentare la capacità totale di stoccaggio del 25% e aumentare la produttività del 30% circa, portando da 15 a 20 il numero di prelievi/depositi in un’ora. «Il magazzino, di 15 mila mq, era arrivato alla saturazione degli spazi», chiarisce Marchionni. «Il cuore del progetto prevedeva una revisione totale del layout del magazzino, senza però incrementare i costi di struttura derivanti dalla sua espansione o dall’uso di spazi esterni». Tali requisiti sono stati soddisfatti implementando, insieme al partner logistico Jungheinrich, un


digi tal transfor m ati on - s up p ly c h a i n | L ogi s t ic a di mag a z z in o , Un ie u ro : se il p ro g e t t o è v in c e n t e si rip e te

magazzino semiautomatico a navigazione assistita, con corsie ‘strette’ (circa 1,90 metri) che hanno consentito in primo luogo di incrementare la capacità. «Per questo tipo di impianto basta un corridoio più stretto rispetto a un impianto tradizionale, in cui di norma il carrello retrattile di stoccaggio richiede una larghezza di almeno 3 metri». Invece con spazi di manovra più contenuti l’ingombro ridotto dei corridoi permette d’inserire più scaffalature, e aumentare così la capacità di stoccaggio. tempo di payback: 22,4 mesi Quanto all’aumento di produttività, è stato ottenuto con una soluzione di automazione dei carrelli, basata su guida induttiva a campo magnetico, con installazione nel pavimento di un filo conduttore (filo guida). Una volta ricevuti i comandi di prelievo o deposito dei pallet dal WMS (warehouse management system), il carrello può dirigersi in automatico lungo la corsia verso il posto pallet indicato, evitando manovre inutili. L’operatore ha il solo compito di attivare le funzioni di marcia e sollevamento: la tecnologia elimina gli errori di percorso che può commettere, semplificando le sue mansioni, facendo risparmiare tempo, energia e migliorando la precisione e qualità delle operazioni di stoccaggio e prelievo. Rispetto alla situazione iniziale (10.398 posti pallet), il progetto ha aumentato la capacità del 23% circa (12.783 posti pallet), mentre in termini di produttività oraria di stoccaggio il numero di prelievi/ depositi è passato da 15 a 17,5, aumentando del 17%.

«L’investimento per l’acquisto di scaffalature e carrelli trilaterali e l’allestimento del filo guida è stato di 316mila euro, ma l’abbiamo recuperato con un tempo di payback di 22,4 mesi, grazie a diversi benefici». Tra questi i risparmi sui costi di “navettaggio” merce e la riduzione delle ore lavoro, e soprattutto la cancellazione del costo di un magazzino esterno (84 mila euro), che oltre al canone d’affitto comportava esborsi aggiuntivi di movimentazione, per la necessità di trasferire poi la merce al magazzino principale dove si svolge il ciclo di produzione. Oggi però la crescita di Unieuro sta provocando problemi di esaurimento degli spazi anche nel magazzino di Piacenza. Ed ecco quindi l’idea di replicare qui quest’anno il progetto di magazzino semiautomatico a navigazione assistita. Con investimenti più bassi, grazie al recupero di componenti usati nell’applicazione precedente. E un payback ancora più breve, andando incontro alle indicazioni dei CFO dell’azienda, sottolinea Marchionni. «Il magazzino attuale ha una capacità di 18 mila posti pallet, l’obiettivo è arrivare a oltre 20mila». Oltre all’allestimento di questo magazzino intensivo, il 2016 vedrà anche l’interfacciamento al WMS, e la riattivazione degli armadi verticali, che erano già funzionanti nel magazzino di Forlì e sono destinati al prelievo di precise quantità di prodotti. «C’è anche un terzo step - conclude Marchionni -: l’implementazione delle funzionalità e reintroduzione delle attività di voice picking, anch’esse già operanti in precedenza nel magazzino di Forlì». Quest’ultimo passaggio avverrà però probabilmente nel 2017.

Unieuro, un colosso da un miliardo e mezzo di euro Nata dalla unione in tempi successivi con Marcopolo Expert, Consumer, Venex ed Eldo, Unieuro è una delle più grandi catene di vendita di elettronica di consumo ed elettrodomestici in Italia, con un fatturato 2015 di oltre 1,5 miliardi di euro, più di 400 negozi - di cui circa 180 punti vendita diretti, su tutto il territorio nazionale, e circa 4mila dipendenti. Al di là dei negozi fisici, l’azienda offre ai clienti tutti i canali di contatto resi oggi disponibili dalle tecnologie: sito web, sito mobile, app, e social network. Fulcro di questo sistema multicanale il sito unieuro.it, che è stato appena rinnovato. Dato il fatturato 2015 di circa 1,5 miliardi di euro, il Sole 24 Ore attribuisce a Unieuro una quota tra il 9 e il 10% del mercato del retail dell’elettronica di consumo ed elettrodomestici in Italia, davanti a Trony che fattura 1,1 miliardi ma dietro a Mediamarket (intorno a 2 miliardi), Expert con 1,8 miliardi ed Euronics con 1,7 miliardi. I primi 5 operatori dell’elettronica di consumo in Italia controllano il 59% del mercato, contro l’80% della Francia e il 94% della Germania. Sempre secondo il Sole 24 Ore, l’azionista di riferimento di Unieuro con il 70% è il fondo di private equity Rhône Capital, mentre quote minori sono in possesso dei manager e del colosso inglese Dixons Carphone.

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normative

Gabriele Faggioli*(FOTO), Chiara Giorgini, Guglielmo troiano

di

Il Parlamento europeo approva il Regolamento Generale sulla protezione dei dati

*giurista, P4I-Partners4Innovation Presidente Clusit

Finalmente una svolta: quando sarà applicabile (nel 2018), il Regolamento andrà ad abrogare integralmente la Direttiva 95/46/CE, rimasta in vigore per oltre venti anni, quindi tutte le relative leggi nazionali di recepimento, compreso il nostro Codice della Privacy. «Le aziende devono immediatamente porre la tematica della sicurezza dei dati tra le priorità del management»

A poco più di 4 anni dalla proposta della Commissione europea del 25 gennaio 2012, dal 14 aprile 2016 l’Unione Europea ha una nuova disciplina in materia di trattamento e protezione dei dati: il Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati (Regolamento) e la Direttiva sul trattamento in ambito investigativo da parte delle autorità di polizia e giudiziarie. Il Regolamento sarà pubblicato entro 45 giorni nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea ed entrerà in vigore dal ventesimo giorno dalla pubblicazione con un periodo di inapplicabilità di due anni. Ciò significa che, presumibilmente, il Regolamento sarà pienamente applicabile a partire dal 20 giugno 2018. La Direttiva, invece, non meno importante ma di sicuro non rilevante per molte aziende, necessiterà di un recepimento con legge nazionale. Il Regolamento andrà ad abrogare integralmente la Direttiva 95/46/CE, rimasta in vigore per oltre venti anni, quindi tutte le relative leggi nazionali di recepimento, compreso il nostro Codice Privacy, il | 54 |

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Decreto legislativo n. 196/2003. Tuttavia, il Regolamento non produrrà un azzeramento totale dell’intero corpus normativo esistente in materia, non abrogherà le decisioni della Commissione europea e le autorizzazioni delle Autorità nazionali di controllo che si basano sulla Direttiva 95/46/CE. Quest’ultime, infatti, resteranno in vigore fino a quando non verranno modificate, sostituite o abrogate dall’Autorità che le ha emanate. Il Regolamento non abrogherà nemmeno la Direttiva 2002/58/CE sul trattamento dei dati nel settore delle comunicazioni elettroniche (Direttiva e–privacy), che verrà riesaminata ed eventualmente modificata per assicurare coerenza con il Regolamento. Occorre precisare, e ribadire, che il Regolamento sarà direttamente efficace (c.d. self-executing o diretta applicabilità) e non prevede leggi di recepimento come la Direttiva. Formalmente esso si porrà al di sopra di tutte le altre fonti del diritto nazionale, esclusa la Costituzione, sulla base di un principio


normati ve | il Par l am e nt o e u r op e o app r ova il R e g o l a me n t o G e n e ra l e sul l a P ro t e z io n e de i Dat i

Resteranno immutati, quindi in vigore ed applicabili, tutti i provvedimenti e le autorizzazioni generali del Garante Privacy che nel corso degli anni hanno disciplinato puntualmente alcuni trattamenti specifici, come videosorveglianza o fascicolo sanitario

ormai consolidato che vuole il primato del diritto dell’Unione europea sulle leggi nazionali. Dunque, in caso di conflitto, di contraddizione o di incompatibilità tra il Regolamento e le norme nazionali, il primo prevarrà sulle seconde (tale principio fu affermato per la prima volta dalla Corte di giustizia dell’UE nella sentenza 6/64, Costa c. Enel). All’atto pratico, significa quindi che il Regolamento sostituirà il Codice Privacy e occorrerà citarlo quando, per esempio, si produrrà e pubblicherà una informativa per gli interessati (ora ex art. 13 del Codice Privacy in futuro ex art. 13 del Regolamento - la coincidenza del numero dell’articolo di riferimento è puramente casuale). Ciò premesso, occorre fare una considerazione importante. Spesso il contenuto di un regolamento dell’UE rappresenta un compromesso politico, soprattutto per la complessità della materia che può trattare, e il trattamento dei dati e la sicurezza degli stessi lo è, ora più che mai. Motivo per cui, il Regolamento rappresenta un’ampia cornice normativa che, in alcuni ambiti specifici, ha volutamente conferito a legislatori e Autorità nazionali il potere di intervenire affinché esso dispieghi concretamente i suoi effetti. Per questo motivo, come accennato precedentemente, il Regolamento lascerà che i provvedimenti delle Autorità nazionali continuino ad applicarsi sen-

za variazioni, a meno che non sia l’Autorità stessa a provvedervi. Per esempio, resteranno immutati, quindi in vigore ed applicabili anche successivamente alla data di applicabilità del Regolamento (indicativamente 20 giugno 2018), tutti i provvedimenti e le autorizzazioni generali del Garante Privacy che nel corso degli anni hanno disciplinato puntualmente alcuni trattamenti specifici (es. videosorveglianza, fascicolo sanitario elettronico, tracciamento operazioni bancarie, amministratori di sistema, biometria, fidelity card) e, al tempo stesso, resteranno in vigore anche i provvedimenti autorizzativi emessi a seguito di richiesta di verifica preliminare da parte di titolari del trattamento. Aziende pronte al cambiamento Dalla data di entrata in vigore e fino alla data di applicazione del Regolamento (periodo che intercorre tra giugno 2016 e giugno 2018), si vivrà un periodo transitorio in cui le nuove norme si aggiungeranno alle vecchie, sostituendole definitivamente solo al termine del periodo di inapplicabilità. I trattamenti in corso potranno essere resi immediatamente conformi al Regolamento sin dalla sua data di entrata in vigore ma, evidentemente, occorrerà del tempo per farlo, soprattutto perché a molte aziende occorre

Il sito di consulenza Verifica Contratti ICT Quando si tratta di contratti per prodotti, soluzioni o servizi digitali è difficile avere chiari tutti gli impatti dell’accordo, le implicazioni normative, o l’efficacia dei livelli di servizio. Ciò vale ancora di più per i contratti del mondo “Cloud”, che vedono nella sicurezza e nell’equilibrio delle clausole elementi di particolare attenzione. Partire con un contratto affidabile, presidiato e senza rischi di brutte sorprese è il modo migliore per attivare una sana relazione di business. Per verificare un contratto, è oggi disponibile il nuovo sito di consulenza online sviluppato dal Team Legal di P4I-Partners4Innovation: “VERIFICA CONTRATTI ICT” (www.verificacontratti.it). Dal sito è possibile richiedere la valutazione di un contratto per verificare se soddisfa le esigenze di chi lo va a sottoscrivere. La risposta viene data al massimo entro 24 ore lavorative.

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n ormati ve | il Pa r l am e nt o e u r op e o app r ova i l R e g o l a me n t o G e n e ra l e sul l a P ro t e z io n e de i Dat i

Con le nuove norme, si passerà essenzialmente da una attività di assessment ex post ad una ex ante. I trattamenti di dati dovranno essere conformi al Regolamento fin dalla loro progettazione (Privacy by design)

capire se le previsioni del Regolamento sono tutte applicabili ed obbligatorie. Vi sono, in effetti, molti principi generali applicabili erga omnes, ma anche molte disposizioni che, invece, presentano eccezioni. In generale, con le nuove norme, si passerà essenzialmente da una attività di assessment ex post ad una ex ante. I trattamenti di dati dovranno essere conformi al Regolamento fin dalla loro progettazione (Privacy by design). Non si potrà quindi attivare un servizio se in fase di progettazione dello stesso non si è provveduto a verificarne gli aspetti relativi al trattamento dei dati. Per sviluppare e implementare soluzioni che rispondano ai requisiti del Regolamento, sulla sicurezza informatica in particolare, si dovranno evitare correttivi o misure aggiuntive successive o, peggio, solo dopo che si sono verificati eventi di violazione o di tentata violazione dei dati. Nello specifico, se un trattamento presenta un rischio elevato per i diritti e le libertà delle persone, occorrerà una valutazione dell’impatto del trattamento sulla protezione dei dati (Privacy Impact Assessment - PIA) che, in pratica, è la valutazione preliminare degli impatti a cui andrebbe incontro un processo qualora dovessero essere violate le misure di protezione dei dati. Il PIA necessita di alcune attività come la mappatura dei dati e dei trattamenti, la pianificazione degli interventi tecnologici e organizzativi di protezione dei dati con una valutazione complessiva di riduzione dello stato di rischio. Per le aziende con un’organizzazione complessa, che non hanno mai implementato queste attività, non è praticabile riesaminare completamente tutti i processi interni che trattano dati personali e svolgere su di essi un PIA. Sembra più opportuno avviare valutazioni per i nuovi progetti ed estenderle alle soluzioni esistenti al variare delle soluzioni tecnologiche e all’emergere di vulnerabilità o di carenze. Con il Regolamento la sicurezza e le misure di protezione dei dati diventano quindi protagoniste. Lo si evince anche dalla eliminazione di un riferimento a misure minime di protezione predefinite, lasciando come unico riferimento l’adozione di qualunque misura che possa garantire un livello di sicurezza adeguato al rischio, tenuto conto dello stato dell’ar| 56 |

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te e dei costi di attuazione, nonché della natura, del campo di applicazione, del contesto e delle finalità del trattamento. Il Data Protection Officer La complessità, non solo giuridica ma evidentemente anche tecnico-informatica, di tutti gli adempimenti che prevede il Regolamento ha portato il Legislatore europeo ad individuare una figura capace di governarli al meglio, il Data Protection Officer, obbligatorio per gli enti pubblici e per le aziende la cui attività principale consiste in trattamenti che, per loro natura, ambito di applicazione e/o finalità, richiedono il monitoraggio regolare e sistematico degli interessati su larga scala o di categorie particolari di dati personali (per es., per il primo caso, le aziende che svolgono trattamenti per finalità di marketing e profilazione o, per il secondo, le aziende che trattano dati sanitari). Il DPO si occuperà non solo di rendere compliant i trattamenti ma anche di sorvegliare e controllare che venga costantemente applicata e rispettata tutta la disciplina in materia (Regolamento in primis). Inoltre, dovrà gestire i rapporti con le autorità e le notifiche di violazioni di dati alle autorità stesse oltre che, in alcuni casi, le notifiche anche agli interessati. Da ultimo, ma non meno importante, il Regolamento ha un focus particolare sulle sanzioni amministrative, volutamente fissate di importi rilevanti, per spingere le aziende a non sottovalutare le tematiche del trattamento e la protezione dei dati e adeguarsi ed applicare correttamente tutte le previsioni del Regolamento. In conclusione, le aziende devono immediatamente preoccuparsi di porre la tematica del trattamento e della sicurezza dei dati tra le priorità del management, coinvolgendo la governance dell’azienda che possa assicurare le coperture economiche necessarie all’adeguamento da attuare entro i prossimi due anni, a partire dal CEO passando per il dipartimento IT ed il CIO e, quindi, individuare i principali gap organizzativi e tecnologici per pianificare poi la messa in produzione delle misure tecniche ed organizzative per colmare i gap individuati.


speciale formazione

PRES: System Integrator e Learning Center per i professionisti dell’ICT

Al Cisco Partner Summit di San Diego, PRES ha ricevuto il premio di Cisco Learning Partner of the Year 2016 della regione EMEAR. Cisco ha inoltre premiato quattro docenti PRES con il Cisco Excellence Instructor Award 2016. «Siamo Cisco Gold Partner e Cisco Learning Specialized Partner da oltre 15 anni - afferma Fabio Aquilano, Education Manager di PRES -. I nostri tecnici progettano e realizzano nelle aziende le più innovative soluzioni di Netwoking, Security, Collaboration, Data Center, Cloud e formano i professionisti dell’ICT. Essere contemporaneamente System Integrator e Centro Formazione ci rende un unicum sul mercato italiano e permette ai nostri docenti di coniugare la massima preparazione teorica con la diretta conoscenza dei bisogni e delle sfide affrontate oggi dalle aziende». Perché scegliere la formazione ufficiale? In quanto Learning Center ufficiale, ci avvaliamo solo dei migliori docenti certificati, utilizziamo manuali realizzati dai vendor e offriamo laboratori di ultima generazione. I vendor sono molto esigenti con i Centri di Formazione ufficiali e i loro alti standard garantiscono ai corsisti una learning experience ai massimi livelli. Quali vantaggi offre certificare le competenze? Un professionista ICT valorizza il suo profilo professionale e permette alla sua azienda di partecipare a gare pubbliche e private, che sempre più spesso richiedono personale certificato. PRES è Testing Center Pearson Vue. Nelle nostre sedi di Torino, Milano e Roma è possibile sostenere gli esami e certificarsi.

La formazione è la chiave per raggiungere i risultati di business. Il punto di vista di PRES, che ha all’attivo più di 25 anni di esperienza, 15 aule a milano, torino e roma, 3 Testing Center, oltre 100 docenti certificati e 1.000 corsi a catalogo

Fabio Aquilano Education Manager di PRES

È possibile redimere Voucher Formativi in PRES? Sì. Le aziende possono così usufruire della massima semplicità amministrativa. Ad esempio utilizzando Cisco Learning Credit, Voucher Microsoft e IBM. Quali sono le più importanti aree formative offerte da PRES Formazione? Oltre ai corsi dei principali vendor ICT - Cisco, Microsoft, IBM, Oracle...- il catalogo PRES 2016 offre una vasta gamma di percorsi formativi manageriali quali: Soft Skills, ITIL, COBIT, Lean IT, Prince2, Project Management, Change Management, Agile Development, IEC 20000, ISO/IEC27002, Business English e molti altri. È possibile seguire corsi PRES on-line? Offriamo soluzioni in modalità e-Learning e attraverso le Virtual Classroom consentiamo ai partecipanti di seguire corsi “in diretta” dall’ufficio o da casa, senza perdere i vantaggi dell’interazione.

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intervista

intervista a

Sherif Rizkalla

Direttore business Marketing Wind

Wind, ancora più ampia l’offerta di servizi per le imprese Dalla Sales Force Automation al Fleet Management, dalla Collaboration ai servizi Cloud: l’operatore telefonico guidato da Maximo Ibarra propone una gamma di soluzioni business personalizzabili per aiutare le aziende a digitalizzare e “mobilizzare” i processi. E per favorire lo Smart Working, la possibilità di avere sullo smartphone due ambienti separati per il lavoro e per la vita privata

Lo stesso ambiente di lavoro e gli stessi strumenti in ufficio, a casa o in viaggio. È ciò che oggi si aspettano le persone ed è quello che Wind propone alle aziende, attraverso una vasta gamma di servizi e applicazioni che permettono di comporre la soluzione ideale per ciascuna esigenza. Con un denominatore comune: la massima attenzione nella progettazione della modalità di accesso, che è un aspetto fondamentale per poter usufruire di applicazioni Cloud e che è il punto di forza di un operatore di Tlc, come sottolinea Sherif Rizkalla, Direttore Business Marketing di Wind. Il Business sta diventando sempre più Mobile: quali trend osservate in Italia, dal vostro punto di vista di operatore Tlc? Già da tempo si sta diffondendo il lavoro in mobilità e le aziende stanno via via “mobilizzando” le risorse a disposizione dei collaboratori. Da un paio di anni però le esigenze sono cresciute e il trend sta accelerando. In parallelo le aziende stanno digitalizzando i | 58 |

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processi: oggi non basta più mettere a disposizione l’accesso solo all’email, ma a tutti i sistemi. Le persone desiderano per esempio poter leggere e aggiornare i documenti ovunque si trovino, interagire con il CRM e utilizzare sistemi di Sales Force Automation. Insieme i due trend portano un valore aggiunto doppio per le aziende. Da un lato è possibile ottimizzare i costi, eliminando la carta, ottimizzando il flusso di informazioni e riducendo le trasferte. Dall’altro aumenta la produttività perché ciò che fino a poco tempo fa si realizzava in un mese ora richiede 2-3 settimane. Pensiamo a una trattativa di vendita: un commerciale può avere accesso al catalogo prodotti su tablet o su notebook, disegnare l’offerta sul posto, negoziare il prezzo e anche stampare e firmare il contratto. È un’esperienza che abbiamo fatto al nostro interno, riducendo della metà la durata media della trattativa. Quali ostacoli principali incontrano le imprese nel portare avanti questi progetti di innovazione?


intervista | Wind, più ampia l’offerta di servizi per le imprese

«Il rapporto fra aziende e operatore tlc si sta evolvendo verso nuove forme di collaborazione. Se in passato i nostri interlocutori erano il Telco manager, l’IT manager o il responsabile acquisti, ora parliamo sempre più spesso con i manager del Marketing, delle Vendite o delle Operations» Gli ostacoli possono essere diversi e specifici per ciascun contesto, ma ciò che riscontriamo come criticità è il tema della connettività necessaria per accedere alle risorse che risiedono su piattaforme Cloud. È infatti necessario offrire agli utenti la stessa user experience su qualsiasi tipo di connessione, fissa o mobile. E se la soluzione non è progettata in modo ottimizzato questo non è possibile. L’offerta Wind Business nasce convergente, con l’obiettivo di fornire lo stesso ambiente di lavoro in ufficio, a casa o in viaggio. La progettazione della modalità d’accesso è un aspetto cruciale, indipendentemente dal fatto che avvenga dal mobile o tramite fibra, dall’Adsl di casa, magari con una VPN, o attraverso un Wi-Fi pubblico. Sempre garantendo la sicurezza. Le richieste di innovazione arrivano sempre più dai manager delle Line Of Business: è un trend che riscontrate anche in questo ambito? Sì, perché anche il rapporto fra aziende e operatore telefonico ora si sta evolvendo verso nuove forme di collaborazione. Se in passato i nostri interlocutori erano il Telco manager, l’IT manager o il responsabile acquisti, ora parliamo sempre più spesso con il Marketing, le vendite o le Operations. I manager delle LOB sono sempre più interessati ai nuovi strumenti digitali e le Telco non sono più viste solo come un interlocutore in grado di ottimizzare la spesa e ridurre i costi, ma come un partner per aprire nuovi mercati e ottimizzare i processi. E in che modo rispondete all’esigenza di portare in mobilità i processi? Avete stretto delle partnership per completare l’offerta? Abbiamo sviluppato un’offerta business completa che include servizi e soluzioni verticali, in Cloud, che risiedono nei nostri data center dedicati. Sono pensati sia per le grandi aziende, per le quali progettiamo in modo sartoriale soluzioni secondo le specifiche esigenze, sia per le PMI, che chiedono soprattutto semplicità e velocità d’uso e a cui proponiamo un portafoglio di soluzioni standard. Un esempio è la Work Force Mobility per le aziende che vogliono migliorare il processo di manutenzione e dotare il personale di tablet “rugged” personalizzati. Altri esempi sono la Sales Force Automation o il Fleet Management, con soluzioni per le flotte in grado di tenere traccia dei consumi, dell’aderenza ai percorsi

prestabiliti, dei tempi, eccetera. Arricchiamo l’offerta anche tramite partnership: l’operatore di Tlc non può fare tutto da solo, ma può dare un forte valore aggiunto nel velocizzare l’accesso. Abbiamo accordi con Microsoft, per la Sales Force Automation e per Office 365, con una soluzione che permette di virtualizzare l’ufficio sul cellulare, con servizi storage, condivisione documenti ecc. Abbiamo accordi anche con Google, per le Business Apps, e con Viasat per il Fleet Management. Utilizziamo, inoltre, soluzioni leader di mercato come VMware per il Cloud e Arbor Networks per la security. Le soluzioni di collaboration consumer e free sono sempre più utilizzate: qual è il vostro punto di vista? La differenza fra le soluzioni che utilizzano le persone per comunicare come consumatori e quelle per l’ambito professionale sta nel livello di servizio. E infatti la maggior parte dei fornitori offre due versioni diverse dei propri servizi. Le aziende necessitano di soluzioni smart che garantiscano affidabilità e fruibilità delle componenti. Wind fornisce soluzioni di collaboration complete, ma anche le sole funzionalità di video da device mobile e con qualunque tipo di connessione, fissa o mobile. E’ garantita una piattaforma sicura, che poggia sui data center Wind, a Roma e Milano, dedicati solo ai clienti aziendali e progettati per garantire continuità di servizio, in ottica di disaster recovery. Da poco avete lanciato il nuovo servizio Work&Life: da quali presupposti nasce? Quali sono le caratteristiche principali? L’offerta Work&Life nasce proprio per dare una risposta ai due trend descritti all’inizio: la mobilizzazione e la digitalizzazione dei processi. È una soluzione in grado di soddisfare diverse esigenze in ambito business, come ad esempio lo smart working, e prevede sullo smartphone due ambienti separati, uno per l’aspetto lavorativo e l’altro per quello personale, come l’uso dei social network e la gestione delle foto. Nell’ambito professionale è presente una cartella sicura che contiene, ad esempio, la posta, la rubrica, l’applicazione di videoconferenza, uno storage condiviso e gli strumenti di comunicazione con i membri del team. Il traffico è gestito separatamente ed è protetto con una VPN. La rendicontazione e la relativa fatturazione sono a parte. www.digital4executive.it

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osservatorio di

daniele lazzarin

Federico Caniato Osservatori digital innovation Politecnico di Milano

Supply Chain Finance, il mercato in Italia vale 570 miliardi Cicli di pagamento tripli rispetto alla media europea, e un gran numero di piccoli fornitori: il nostro Paese è un target ideale per le soluzioni che finanziano il capitale circolante nelle filiere. Che però al momento coprono solo il 27% del monte crediti. Occorre avvicinare mondo finanziario e industriale con sistemi di valutazione del rischio estesi alle operation, dice l’Osservatorio Supply Chain Finance del Politecnico di Milano

La crisi economica degli ultimi anni ha colpito duramente le imprese italiane: tra 2009 e 2015 il numero di realtà ad alto rischio di fallimento è aumentato del 25%, e i fallimenti sono cresciuti da 9mila a 14mila all’anno. E in quasi tutti i casi, la causa sono le difficoltà finanziarie, legate anche ai cicli di pagamento. Le grandi imprese italiane hanno un tempo medio di incasso crediti di quasi 96 giorni contro una media europea di 53. Ma soprattutto hanno un tempo medio di pagamento dei debiti commerciali di 149 giorni: più del triplo della media europea (45 giorni), con inevitabili forti ripercussioni lungo le filiere manifatturiere, specialmente per i piccoli fornitori. Questa, si sa, è una criticità storica dell’economia italiana. Ma forse il digitale finalmente può cambiare le cose anche in questo campo, per esempio attraverso le soluzioni di Supply Chain Finance (SCF), che consentono a un’impresa di finanziare il capitale circolante facendo leva, oltre che sulle caratteri| 60 |

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stiche economiche, finanziarie e di business, sul suo ruolo all’interno della filiera in cui opera. Il Politecnico di Milano crede fortemente in questa possibilità, tanto da creare tre anni fa un Osservatorio Supply Chain Finance, che recentemente ha presentato a Milano il suo report 2015-2016 in un convegno presso Assolombarda. Meno dell’1 per cento del mercato per le soluzioni basate sul digitale «Il valore del monte crediti commerciali complessivo di tutte le imprese italiane a fine 2014 era oltre 570 miliardi di euro, contro i 320 della Germania e i 332 del Regno Unito: questo fa dell’Italia un mercato ideale per i fornitori di soluzioni di SCF – ha spiegato Federico Caniato, Direttore dell’Osservatorio -. Ma a fronte di un tale mercato potenziale, le soluzioni di finanziamento del circolante più diffuse in Italia, Factoring e Anticipo Fattura, insieme


os s e r vator i o | S u pp ly C h a in F in a n c e , il me rc at o in I ta l ia va l e 5 70 mil ia rdi di e u r o

ne finanziano circa il 26%, cioè 146 miliardi. Mentre le soluzioni di Supply Chain Finance innovative, basate su tecnologie digitali - come Carta di Credito, Inventory Finance, Purchasing Finance, o anche Invoice Auction e Dynamic Discounting, appena affacciatesi in Italia - ne coprono 5 miliardi: meno dell’1%». In altre parole in Italia l’offerta di Anticipo Fattura e Factoring (dove il Reverse Factoring rimane minoritario come incidenza, circa il 5%, ma è in forte crescita), è ormai matura, con quasi 400 banche che offrono l’Anticipo di fattura e circa 40 società di factoring. Ma le soluzioni innovative di Supply Chain Finance sono ancora ai blocchi di partenza, con pochissimi provider specializzati davvero attivi. Qualche passo avanti nella diffusione di una “cultura della Supply Chain Finance” è già stato fatto, sottolinea Stefano Ronchi, Responsabile scientifico dell’Osservatorio. Sono partiti diversi progetti di filiera (un esempio nel fashion è il “reverse factoring” evoluto di OTB, il gruppo di Diesel, per una platea potenziale di circa 450 fornitori), sono nate alcune startup specialiste di SCF, e in particolare piattaforme di Invoice Auction, e la digitalizzazione sta avanzando nel manifatturiero. «Ma per ottenere un vero salto in avanti occorre avvicinare il mondo finanziario e quello industriale. Il primo non sempre trasmette la liquidità disponibile in modo rapido ed efficace, usa modelli di va-

lutazione del rischio spesso basati su dati e logiche non aggiornati, e ha difficoltà ad analizzare le imprese come componenti di una filiera. Il secondo fatica a condividere le informazioni significative con le banche, a comprendere le logiche di valutazione del rischio delle banche, e a rinunciare alla logica del “ciascuno per se” per sposare quella di filiera». I benefici finanziari non sono gli unici Oltre alla quantificazione del mercato potenziale, l’Osservatorio Supply Chain Finance in questo report ha approfondito altri tre temi: costi e benefici della SCF, profilazione finanziaria della Supply Chain, e integrazione di misure di produttività e operative nei modelli di valutazione del merito creditizio. Nel primo caso i ricercatori del Politecnico di Milano hanno definito un modello di valutazione di costi e benefici che evidenzia che i vantaggi finanziari - miglioramenti del cash-to-cash, minori costi di finanziamento, e così via - non sono gli unici conseguibili da una soluzione di SCF. «Le interviste con esperti e aziende utenti rivelano anche miglioramenti importanti (anche se difficili da quantificare) di ricavi e costi, minori rischi di default di partner strategici, migliori relazioni commerciali e sociali, e una maggiore spinta alla

prevalgono le soluzioni tradizionali: factoring e anticipo fattura Pubblica amministrazione: 79 mld e

14%

Factoring: 56 mld e

10%

B2C: 22 mld e

Anticipo fattura: 90 mld e

4%

Export: 35 mld e

6%

16%

570

Altre soluzioni: < 5 mld e

miliardi di euro*

~1% B2B: 436 mld e

76%

Mercato non servito: 421 mld e

73% * Mercato potenziale Supply Chain Finance: totale dei crediti commerciali delle imprese italiane alla fine del 2014

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Fonte: Politecnico di Milano

Il mercato servito delle soluzioni più consolidate – benché maturo – copre solo un quarto dei crediti commerciali delle imprese italiane


osservatori o | Supply Chai n F i nanc e , i l m e r c ato in I ta l ia va l e 5 70 mil ia rdi di e uro

digitalizzazione dei processi», ha detto Luca Gelsomino, co-Direttore dell’Osservatorio. Quanto ai costi delle soluzioni di SCF, «quelli finanziari (in primis il tasso di interesse) sono nettamente la voce principale, ma vanno considerati anche costi del personale, manutenzione del sistema, scelta, selezione e implementazione». Anche per la profilazione finanziaria della supply chain l’Osservatorio ha sviluppato un apposito modello, articolato in tre passi: capire in quale stadio della filiera si accumula maggior Capitale Circolante Operativo Netto (CCON), e quindi i maggiori costi per finanziarlo; scegliere la soluzione di SCF più promettente per quella filiera; e misurarne i benefici attesi. Merito creditizio: integrare i dati di vendor rating con quelli di bilancio Infine il tema dell’allargamento dei modelli di valutazione del merito creditizio. «In Italia le imprese

si valutano in gran parte con soli dati finanziari e di bilancio, ma considerando anche informazioni operative si potrebbe stimare più accuratamente la probabilità di default», ha spiegato Caniato. Queste informazioni sarebbero anche già disponibili, per di più in formato già digitale. I sistemi di vendor rating di molte aziende infatti raccolgono regolarmente misure di valutazione operativa dei fornitori: qualità, puntualità, livello di servizio, affidabilità, conformità e così via. Ma tipicamente non vengono condivise, tantomeno con il mondo finanziario. «Abbiamo analizzato un campione di circa 70 imprese italiane, confrontando il rating finanziario tradizionale e le performance operative nel periodo 2009/2015, e abbiamo trovato diversi casi di imprese con rating finanziario molto alto nel 2011 poi in rapido calo, e rating operativo già basso nel 2011: quindi con un’analisi congiunta finanziaria e operativa in questi casi il rischio di default si poteva prevedere molto prima».

Quando il credito passa per il digitale Le soluzioni di Supply Chain Finance possono impattare su crediti e debiti, modificandone l’ammontare o i tempi di pagamento/ incasso, o ridurre il volume delle scorte. Inoltre si distingono in soluzioni “tradizionali”, disponibili da tempo sul mercato, e “innovative”, nate di recente. Quelle tradizionali possono essere potenziate da un crescente utilizzo di tecnologie digitali, mentre quelle innovative sono nativamente e indispensabilmente basate su un utilizzo avanzato di tali tecnologie. Tra le soluzioni tradizionali, i ricercatori includono Anticipo Fattura, Factoring, Reverse Factoring, e Vendor Managed Inventory (VMI), detto anche Continuous Replenishment Program (CRP). Tra le soluzioni innovative ci sono Reverse Factoring Evoluto, BPO (Bank Payment Obligation), Inventory Finance, Invoice Auction, Carta di credito, Dynamic Discounting, e CPFR (Collaborative Planning, Forecasting and Replenishment). Le soluzioni innovative di SCF possono essere offerte da intermediari finanziari consolidati, o da “new entry” nel mondo del credito. Nella prima categoria rientrano le evoluzioni in chiave digitale delle tipiche soluzioni di finanziamento del circolante, come il Reverse Factoring Evoluto, che sfrutta un maggior scambio informativo tra azienda capofila e istituto finanziario per migliorare l’accesso al credito dei fornitori, o il BPO, che digitalizza la lettera di credito tradizionale per facilitarne l’uso come strumento di finanziamento. I nuovi operatori del credito invece presentano un’offerta basata, almeno in parte, su presupposti non tradizionali. È il caso dell’Invoice Auction, che attraverso un marketplace apre il mondo dell’Anticipo Fattura a nuovi investitori (anche privati), della Carta di Credito, che trasforma un sistema di pagamento in uno strumento di ottimizzazione del Circolante, o del Dynamic Discounting, che consente il pagamento anticipato a fronte di uno sconto proporzionale ai giorni di anticipo, e definito dinamicamente per ogni transazione. A metà strada troviamo servizi in rapida trasformazione, basati su collaborazioni tra attori diversi, diffusi per ora soprattutto all’estero. Un esempio è l’Inventory Finance, in cui un fornitore di servizi logistici – spesso alleato con un Istituto Finanziario – acquista beni da un fornitore e ne detiene la proprietà durante il trasporto e immagazzinamento, ottimizzando crediti e debiti commerciali del fornitore e del suo cliente.

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osservatorio di

paola capoferro ronchetta

Claudio Rorato

Polimi: Avvocati, Commercialisti e Consulenti del Lavoro sempre più digitali

Osservatori digital innovation Politecnico di Milano

Nel 2015 la spesa media in ICT per studio è stata di 9mila euro e circa un terzo dei professionisti è attento al cambiamento e aperto all’uso intensivo del digitale. La crescente diffusione delle tecnologie spinge così gli studi professionali a ripensare al proprio ruolo, ampliando l’attività di consulenza e l’utilizzo di strumenti social. I risultati della ricerca dell’Osservatorio Professionisti e Innovazione Digitale del Politecnico di Milano

Il 2015 è stato un anno importante per i Professionisti. Redditività e fatturato sono cresciuti per oltre la metà degli studi ma soprattutto per chi ha investito in tecnologie evolute, per una spesa ICT totale di oltre 1 miliardo di euro. Inoltre in media la spesa digitale per singolo studio ha toccato quasi 9mila euro, rispetto ai 6,3 preventivati lo scorso anno. Sono queste alcune fra le principali evidenze emerse dalla ricerca “Professionista, oggi apriresti uno studio?” dell’Osservatorio Professionisti e Innovazione Digitale della School of Management del Politecnico di Milano. «Tra le professioni giuridiche d’impresa cresce la consapevolezza che le tecnologie siano un alleato dello studio – afferma Claudio Rorato, Direttore dell’Osservatorio – e i cambiamenti che stanno compiendo sulla strada della digital transformation sono significativi, a tal punto che si può utilizzare in questo caso la metafora del bicchiere mezzo pieno». Infatti, con i pionieri che hanno fatto da apripista, il cambiamento coinvolge circa il 30% degli studi professionali | 64 |

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nell’uso più intensivo delle tecnologie informatiche, che è sempre più frequente anche nel modello di business oltre che in quello organizzativo. «Oggi si può parlare di circolo virtuoso tra tecnologie e redditività», continua Rorato. «Da una parte le tecnologie hanno consentito di migliorare la produttività e l’efficienza complessiva, dall’altra l’impatto positivo sulle redditività ha permesso agli studi più sensibili all’innovazione tecnologica di aumentare gli investimenti: i professionisti con crescita a doppia cifra sono quelli che utilizzano maggiormente gli strumenti più evoluti». Le tecnologie a elevato contenuto innovativo sono presenti nell’80% degli studi di grande dimensione (oltre 5 milioni di euro di fatturato), nel 59% di quelli medi (1 milione – 5 milioni), nel 26% dei piccoli (200 mila euro – 1 milione), nel 17% dei micro (fino a duecentomila euro di fatturato). È interessante notare che il 60% dei micro studi utilizza, comunque, tecnologie di medio ed elevato contenuto innovativo dimostrando che c’è una com-


os s e r vator i o | Pol i m i : Av vocat i, C o mme rc ia l ist i e C o n sul e n t i de l Lavo ro se mp re p iù dig ital i

ponente culturale forte alla base dell’adozione delle tecnologie, indipendentemente dalle disponibilità finanziarie e dalla dimensione dello studio. In termini di redditività la presenza di tecnologie cresce al migliorare della redditività aziendale, non necessariamente dipendente dalle dimensioni degli studi: l’utilizzo di tecnologie a elevato contenuto innovativo passa dal 17% degli studi che dichiarano una redditività in contrazione in doppia cifra, al 31% di quelli con una redditività in crescita oltre il 10%. La crescente diffusione delle tecnologie digitali per il business ha portato, anche, circa uno studio professionale su tre a ripensare al proprio ruolo, con l’ampliamento dell’attività di consulenza, l’avvio di nuovi servizi più orientati al mercato, l’arricchimento con nuove competenze, l’utilizzo in modo intensivo dell’ICT per migliorare efficienza e produttività. La consulenza, per esempio, pesa in media il 27% del totale dell’attività degli studi, ma è destinata ad aumentare di rilevanza. Pur rimanendo prevalente l’attività tradizionale, infatti, nell’ultimo anno è cresciuta per un numero di studi doppio rispetto a quelli che hanno incrementato l’attività tradizionale (29% vs 14%). Dall’approfondimento sugli studi che svolgono consulenza per almeno il 40% dei ricavi risulta che hanno in media compensi superiori del 25% e che l’incidenza del costo del personale dipendente è inferirore del 50%. Ma più tecnologia vuol dire anche più efficienza e quindi più tempo per il business. L’analisi di un panel composto da 258 studi ha rivelato infatti che con l’adozione della tecnologia c’è un recupero di produttività con un tempo risparmiato di circa il 10% - pari a circa 20 giorni-uomo lavorativi -, riallocato in attività che producono ricavi. Come si diceva, poi, la ricerca ha mostrato come i professionisti siano interessati a nuove aree di competenza, tra cui la comunicazione, le soft skill, e i social network. A utilizzare questi ultimi per promuovere i loro servizi è circa il 40% degli studi. Dal confronto delle risposte del 2013 e del 2015 di un panel di 134 studi è emerso che la percentuale di coloro che hanno usato i social network per ricercare nuovi clienti è passata dall’8% al 31%, a testimonianza del fatto che questo strumento è sempre più utilizzato in chiave business.

cinque tipi di comportamenti, Dalle “avanguardie” ai “periferici” Gli oltre mille studi professionali analizzati dall’Osservatorio - degli oltre 150.000 stimati dall’incrocio con
 gli ultimi dati disponibili
 sugli iscritti provenienti 
dai Consigli Nazionali o 
dalle Fondazioni Studi delle categorie esaminate - mostrano comportamenti differenti nell’approccio alle tecnologie: se il 30% ha compreso l’utilità delI’CT, un altro 30% è ancora indeciso e non sa sa fare e il restante 40% è immobile e mostra disinteresse verso l’innovazione. Dall’analisi di alcuni elementi che caratterizzano il comportamento e di sensibilità nei confronti dell’innovazione digitale - indicatori dimensionali, indicatori di performance, servizi erogati, ICT e investimenti, cultura d’impresa -, l’Osservatorio è arrivato a raggruppare in 5 cluster gli studi analizzati. Il 14% di essi appartiene alle “Avanguardie strutturate”: si tratta di quegli studi che, prima di altri, hanno creduto nella capacità delle tecnologie di creare valore per l’attività e che in tutte, o quasi, le tipologie di comportamento e di sensibilità nei confronti delle tecnologie si collocano al di sopra della media, anche per gli indicatori di prestazione. La schiera degli “Innovatori caotici” raggruppa l’11% degli studi: sono coloro che partiti successivamente alle Avanguardie strutturate, testimoniano interesse e sensibilità verso le tecnologie e hanno beneficiato di questo “ritardo” per effettuare le scelte più in chiave tattica che strategica. Di fatto, si potrebbe definire un cluster reattivo, che si qualifica per l’elevata propensione all’investimento in tecnologie (valori ben oltre il 5% per quanto riguarda il rapporto investimento/fatturato e il possesso di strumenti ICT sia di relazione con la clientela, sia di efficienza interna). A seguire si trovano i “Benestanti ricettivi” (17%): si tratta di studi che dispongono di indicatori di performance e dimensionali ben al di sopra della media (organico superiore a 3,7 unità, fatturato per addetto oltre i 60 mila euro), in virtù dei quali non hanno investito in tecnologia sia per il modello organizzativo, sia per quello di business. Tuttavia, manifestano un interesse concreto ed elevato per i temi formativi orientati alla digitalizzazione, segno di una riflessione sul tema

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osservatori o | P ol i m i : Av vocat i , C om m e r ci a l i s t i e C o n sul e n t i de l Lavo ro se mp re p iù dig ita l i

che nel futuro prossimo potrebbe portare almeno una parte di essi all’avviamento di progetti digitali, avvicinandoli ai cluster più sensibili alle tecnologie. Il 10% degli studi fa parte degli “Efficienti miopi”: si tratta si quelli che dispongono di buoni indicatori di efficienza interna (fatturato per addetto in linea o appena superiore a 60 mila euro), ma con una redditività in calo. Il contesto ambientale favorevole – sono, infatti, ben radicati in territori benestanti con PIL territoriale superiore a 26 mila euro pro-capite - non li stimola a sviluppare interesse verso le tecnologie, verso le quali si dimostrano indifferenti anche in chiave prospettica, con indicatori ben al di sotto

della media, e non li spinge al cambiamento. Infine, la schiera più nutrita è quella dei “Periferici seduti”, con il 48% degli studi che ne fanno parte. Mediamente appartengono a territori con economie modeste (PIL territoriale ben al di sotto di 26 mila euro pro-capite), non dispongono di buoni indicatori economico-finanziari e non rivelano reazioni sensibili alla contingenza sfavorevole. È il cluster che, più di altri, ha la necessità di mettersi in movimento, anche attraverso le tecnologie, per migliorare sia il modello organizzativo, sia quello di business. In mancanza di ciò, questi studi si espongono a una progressiva emarginazione, da cui sarà difficile tornare indietro e recuperare.

oltre 1,1 miliardi di euro investiti nel digitale Se nel 2015 la spesa ICT complessiva ha superato 1,1 miliardi di euro – ripartita in investimenti innovativi (12%), sviluppo dell’esistente (16%) adeguamento tecnologico o normativo (20%), gestione dell’esistente (53%) – per il prossimo biennio si prevede una spesa di circa 1,2 miliardi di euro annui, con una crescita dell’8%. Come emerge dall’analisi della survey che è stata compilata integralmente da 1040 Studi di Avvocati, Commercialisti, Consulenti del Lavoro e Multidisciplinari, dal punto di vista più specificamente tecnologico negli studi le soluzioni maggiormente adottate sono quelle che abilitano l’esercizio professionale, come la firma digitale, le banche dati, la gestione dei flussi telematici. Gli investimenti futuri, invece, riguarderanno principalmente software per la gestione elettronica documentale e la conservazione digitale a norma dei documenti dello studio (entrambi al 39%), i portali per la condivisione documentale e di attività con i clienti (34%) e i siti internet (33%). Dalle esperienze raccolte dall’Osservatorio nel corso degli ultimi due anni sono stati selezionati 145 Studi, che hanno avviato o concluso progetti

di miglioramento digital based per andare ad analizzare quale sia oggi l’effettiva sensibilità sulle diverse soluzioni adottate in più di un’area organizzativa. In particolare, i progetti puntano al miglioramento dell’efficienza interna (74%) - attraverso la gestione della dematerializzazione documentale, l’archiviazione digitale, il lavoro in mobilità, la firma grafometrica dei clienti per i dichiarativi – della relazione con i clienti (72%) con portali per la condivisione di documenti e attività, e infine all’erogazione di nuovi servizi (55%), come l’acquisizione dati da altri soggetti per la pianificazione finanziaria, le App per fornire un calendario delle scadenze dei pagamenti, la formazione a distanza. Inoltre è anche cresciuta la propensione all’uso del Cloud Computing, pur con qualche perplessità ancora esistente: tra coloro che hanno adottato soluzioni basate sulla nuvola, il 79% lo utilizza per la PEC, il 66% per la posta elettronica di studio e il 62% per le banche dati. Tra coloro, invece, che lo usano per le strutture hardware, solo il 12% lo impiega per tutti i server e il 22% solamente per una parte di essi. Del 66% che non lo usa il 37% è interessato a valutarlo già il prossimo anno.

cresce la propensione al cloud computing Tipi di applicativi in Cloud (base empirica: 737 risposte) 79%

PEC

NO 19%

66%

Posta elettronica di studio

62%

Banche dati

49%

Fatturazione elettronica PA

SI’ 81%

28%

Archiviazione documenti Conservazione digitale a norma

16%

Gestionale per le paghe

16%

Base empirica: 1040 risposte

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34%

Moduli del Gestionale di Studio

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Business Intelligence

3%

Fonte: Politecnico di Milano

Lo studio ha una o più di queste applicazioni software in cloud?


Prossime presentazioni dei risultati delle Ricerche LA SCHOOL OF MANAGEMENT

La School of Management del Politecnico di Milano, con oltre 240 docenti, e circa 80 fra dottorandi e collaboratori alla ricerca, dal 2003 accoglie le molteplici attività di ricerca, formazione e alta consulenza, nei campi del management, dell’economia e dell’industrial engineering che il Politecnico porta avanti attraverso le sue diverse strutture interne e consortili. Fanno parte della Scuola il Dipartimento di Ingegneria Gestionale, le Lauree e il PhD Program di Ingegneria Gestionale e il MIP, la business school del Politecnico di Milano. La School of Management ha ricevuto nel 2007 l’accreditamento EQUIS. Dal 2009 è nella classifica del Financial Times delle migliori Business School d’Europa. 4 MAGGIO 2016

Istituto Mario Negri Aula A - Mariella Alberini Via Privata Giuseppe La Masa, 19 20156 Milano

18 MAGGIO 2016

Intesa Sanpaolo Formazione Centro Bonola Via Antonio Cechov 50 20151 Milano

GLI OSSERVATORI DIGITAL INNOVATION Gli Osservatori Digital Innovation della School of Management del Politecnico di Milano (www.osservatori.net) vogliono offrire una fotografia accurata e continuamente aggiornata sugli impatti che le tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) hanno in Italia su imprese, pubbliche amministrazioni, filiere, mercati, ecc. Gli Osservatori sono ormai molteplici e affrontano in particolare tutte le tematiche più innovative nell’ambito delle ICT, classificate secondo 3 macro categorie. 1) Digital Transformation: Agenda Digitale, Digital Innovation Academy, Startup Hi-tech, Startup Intelligence; 2) Digital Solutions: Big Data Analytics & Business Intelligence, Cloud & ICT as a Service, eCommerce B2c, Enterprise Application Governance, Fatturazione Elettronica e Dematerializzazione, Gestione Progettazione e PLM (GeCo), Information Security & Privacy, Internet of Things, Mobile B2c Strategy, Mobile Payment & Commerce, Smart Working; 3) Verticals: Cloud nella PA, Digital Finance, Digital Innovation in Arts & Cultural Heritage, Digital Insurance, eGovernment, Export, Gioco Online, HR Innovation Practice, Innovazione Digitale nel Retail, Innovazione Digitale in Sanità, Innovazione Digitale nel Turismo, Internet Media, Mobile Banking, Professionisti e Innovazione Digitale, Smart Manufacturing, Supply Chain Finance. OSSERVATORIO INNOVAZIONE DIGITALE IN SANITÀ Convegno di presentazione dei risultati della Ricerca 2015-2016 La Ricerca si è posta le seguenti finalità: fornire una stima della spesa ICT in socio-sanità, evidenziando i trend in atto sia a livello complessivo (Ministero, Regioni, MMG, strutture sanitarie) sia nei principali ambiti di innovazione digitale; analizzare l'evoluzione della maturità e del livello di diffusione dei principali ambiti di innovazione digitale (ad esempio: Mobile Health, Telemedicina, Servizi Digitali al Cittadino, Dematerializzazione dei documenti, Cartella Clinica Elettronica, Fascicolo Sanitario Elettronico, Cloud Computing, Business Intelligence, Big Data Analytics, Sistemi a supporto della Clinical Governance); approfondire la roadmap di evoluzione della Sanità Digitale (eHealth Journey) con analisi dei driver di innovazione e delle principali barriere; monitorare lo stato di avanzamento dei piani previsti nel documento “Strategia per la Crescita Digitale 2014-2020” per quanto riguarda la sanità digitale. Durante l’evento, oltre alla presentazione dei risultati, sono previste tavole rotonde e interventi dei principali protagonisti del mondo della Sanità, approfondimenti di esperienze concrete di innovazione e premiazione dei vincitori del premio “Innovazione Digitale in Sanità”. OSSERVATORIO HR INNOVATION PRACTICE Convegno di presentazione dei risultati della Ricerca 2016 La Ricerca si è posta le seguenti finalità: rilevare gli obiettivi, il budget ICT e i trend di investimento della Direzione HR; rilevare e analizzare le nuove competenze e le nuove professionalità necessarie alla Direzione HR nel suo percorso di evoluzione verso un ruolo di Innovation Partner; analizzare come la Direzione HR sta affrontando la sfida delle nuove competenze e capacità necessarie a supportare l’innovazione digitale del Business; identificare e analizzare il ruolo delle tecnologie digitali nei processi di gestione delle Risorse Umane approfondendo il tema del Digital Learning e della formazione e il workforce management; identificare e analizzare gli approcci disruptive e le metodologie di utilizzo dei Big Data e Analytics a supporto dei processi di gestione e sviluppo delle Risorse Umane; identificare gli approcci da utilizzare per favorire l’engagement delle persone e i comportamenti e le capacità che servono per fare Smart Working. Durante l’evento, oltre alla presentazione dei risultati, sono previste sessioni parallele di approfondimento con il contributo anche dei sostenitori dell’Osservatorio e la premiazione dei vincitori del premio “HR Innovation Award”. L'evento è a invito e gratuito. La partecipazione è riservata esclusivamente a professionisti HR e IT di aziende della domanda, per maggiori informazioni e per l'iscrizione all'evento si visiti la pagina: www.osservatori.net/hr_innovation_practice

GIUGNO 2015

Istituto Mario Negri Aula A - Mariella Alberini Via Privata Giuseppe La Masa, 19 20156 Milano

OSSERVATORIO INTERNET MEDIA Convegno di presentazione dei risultati della Ricerca 2015-2016 La Ricerca si è posta le seguenti finalità: fornire una quantificazione del mercato Media in Italia, con focus sui Media digitali e sulle componenti del New Internet; studiare i mercati “confinanti” al mondo dei Media (l’entertainment, il mercato esclusivamente advertising, il mondo eventi e PR, l’eCommerce “promozionale”, ecc.), diretti concorrenti nello share of advertising e share of time del consumatore; analizzare criticamente l’offerta in tutti gli ambiti dell’Internet Media; studiare il comportamento dell’utente nella fruizione dei Media digitali e nell’utilizzo dei nuovi device; analizzare l’approccio dei marketer italiani a iniziative innovative di advertising digitale; identificare i fenomeni emergenti per tracciare possibili scenari futuri. Durante l’evento, oltre alla presentazione dei risultati, sono previste tavole rotonde e interventi dei principali protagonisti del mondo dei Internet Media. Informazioni aggiornate al 8 aprile 2016 - Per dettagli completi visitare la pagina web: www.osservatori.net


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ClubHouse Brera, uno spazio esclusivo pensato per imprenditori e decision makers

Un luogo elettivo, fonte d’ispirazione, dove organizzare meeting, sviluppare relazioni professionali e far nascere nuove sinergie di business. Tutto questo è ClubHouse Brera, il nuovo spazio di “Copernico Where Things Happen”. ClubHouse Brera rientra in un progetto complessivo che fa capo a Copernico Holding e prevede l’apertura di nuovi spazi sull’intero territorio nazionale, in città con più di 60mila abitanti. «L’obiettivo è creare una vera e propria piattaforma dedicata allo Smart Working e alla crescita delle imprese, che alimenta l’affermazione di un nuovo lifestyle e risponde alle esigenze di lavoro di oggi: flessibilità, scalabilità, accessibilità e benessere», sottolinea Pietro Martani, l’imprenditore ideatore e CEO di Copernico. Il primo workspace allestito secondo queste logiche, e inaugurato nel febbraio 2015, è stato Copernico Milano Centrale, che offre 15.000 mq di spazi suddivisi in 6 piani di uffici gestiti con formula “plug&play”, e un “social floor”, concepito come luogo flessibile di networking, relax, ristoro ed eventi. Anche la nuova ClubHouse, nata nel cuore di Milano, nell’ex Teatro delle Erbe, è da intendersi come un innovativo spazio di lavoro, dedicato a imprenditori, professionisti, decision makers e C-Level, italiani e stranieri. «ClubHouse Brera nasce nell’alveo del forte cambiamento che caratterizza il mercato del lavoro e il modo in cui si fanno affari: le organizzazioni sono fluide, le persone lavorano in movimento e ovunque, a casa, nelle lobby d’albergo, in treno, in modo sempre più informale, attorno al cibo, a un caffè o un drink», racconta Martani. «Tutto è pensato per soddisfare le esigenze dei membri,

si alza il sipario del membership club, ospitato nell’ex teatro delle erbe di milano: un luogo dove lavorare, fare networking e arricchire le proprie conoscenze. 500 members di alto profilo, 250 uomini e 250 donne, potranno sviluppare relazioni professionali e creare proficue sinergie di business

Pietro Martani CEO di Copernico

con forte attenzione alla centralità dell’individuo, non soltanto in termini di servizi, ma anche di valori intangibili». Tutto infatti ruota intorno al concetto di Membership Club accessibile a 500 membri di alto profilo, suddivisi equamente tra uomini e donne, appartenenti a settori diversi (finance, design, real estate, food) che favorisce le sinergie e si pone come punto di riferimento in cui è anche possibile avere ispirazione da eventi e approfondimenti legati all’arte e alla cultura, in un ambiente esclusivo. Non a caso come location è stato scelto un edificio storico di Milano, della prima metà del XX secolo, sito in Foro Buonaparte 22, che fa rivivere l’atmosfera di un passato ricco di stimoli ed espressioni culturali. Le linee sono state reinterpretate in chiave contemporanea, partendo da riferimenti art déco che si mescolano con i segni storici ancora conservati, fino all’inserimento di icone del design milanese degli anni ’40 e ’50. Inoltre un ampio patio, il cosiddetto “giardino segreto”, infonde luce naturale a tutta la struttura, rendendo ogni ambiente ideale per lavorare, e apposite office suites permettono di alternare le esigenze di lavoro a quelle di relax. Del vecchio teatro rimane anche il palco, che offrirà l’occasione di salire in scena agli speaker internazionali che parteciperanno alla vita del Club.

p er u lt er i o r i i n f o rma zioni...

http:/ / clubhousebr e r a .com /

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reportage

Hybrid IT, Cloud e On-Premise: compliance, gestione dei dati e best practice Alla ricerca di un punto di equilibrio tra le nuove opportunità del Cloud e i sistemi gestiti “in casa”, guardando al controllo dei rischi, all’ottimizzazione dell’infrastruttura, e ai problemi legali. Questo il tema di una tavola rotonda organizzata da Digital4Executive con Fujitsu, con la partecipazione di manager di Banca Popolare di Sondrio, Credito Valtellinese, Compagnia Ergo Previdenza, Edison, Il Sole 24 Ore e Mediobanca

Un confronto tra C-Level sui punti critici delle strategie “Hybrid IT”, cioè sulla ricerca dell’equilibrio tra le opportunità del Cloud e i sistemi gestiti “in casa” (On-Premise), con particolare attenzione al controllo dei rischi, all’ottimizzazione dell’infrastruttura, e ai problemi legali e di conformità. Questo il filo conduttore di una tavola rotonda sul tema Hybrid IT che Digital4Executive ha organizzato in collaborazione con Fujitsu, e che ha visto la partecipazione di Gabriele Faggioli, Legale e Adjunct Professor del MIP-Politecnico di Milano, nonché membro del Group of Expert in Cloud Computing Contracts della Commissione Europea e Presidente del Clusit, e la testimonianza di diversi C-Level di importanti aziende: Banca Popolare di Sondrio, Credito Valtellinese (Creval), Compagnia Ergo Previdenza, Edison, Il Sole 24 Ore e Mediobanca. | 70 |

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La necessità di Due Diligence, sia prima che durante L’incontro è stato introdotto appunto da Faggioli, che ha sottolineato che non è al momento in programma un intervento normativo specifico sull’Hybrid IT, e occorre quindi far riferimento alle varie disposizioni attinenti alla materia, tra cui il Parere 5/2012 del Gruppo di lavoro Articolo 29 della Comunità Europea, la Mini-Guida del Garante della Privacy del giugno 2012 (“proteggere i dati per non cadere dalle nuvole”) con relativo “decalogo”, e in generale la normativa italiana ed europea sul trasferimento di dati personali all’estero, nonché – per il settore bancario – la circolare 285 della Banca d’Italia. «La gestione della filiera è estremamente complessa soprattutto per i Cloud provider internazionali, per i quali è fondamentale creare «trust» con i clienti – ha detto Faggioli -. Ogni organizzazione


r e p or tage | Hybr i d I T, Cl o ud e O n - P re mise : c o mp l ia n c e , g e st io n e de i dat i e b e st p ractice

gration, «che può fare davvero la differenza: con Fujitsu Cloud Service Management Platform (e strumenti come UshareSoft e RunMyProcess) per esempio è possibile ridurre i costi di gestione operativa dell’IT fino al 70%». Ma al di là delle soluzioni tecnologiche, continua Riboldi, è cruciale anche affiancare l’azienda utente nel definire la strategia di passaggio e gestione dell’Hybrid IT, per esempio per definire quali servizi migrare, disegnare la nuova infrastruttura secondo i principi del Software Defined DataCenter, definire la migliore strategia d’evoluzione per ciascuna applicazione. «L’ampia disponibilità di data center di Fujitsu, anche a livello locale (abbiamo per esempio un centro primario a Basiglio, presso Milano), permette di supportare qualsiasi scelta di Cloud, dal Private Cloud al Public infrastructure-as-a-service “trusted”, con servizi che vanno dal Remote Infrastructure Management al Managed Hosting, fino al Cloud IaaS e al Data Center Co-location o Data Center Outsourcing». L’arte di integrare esistente e nuovo

deve di volta in volta affrontare in modo specifico i temi legali e contrattuali sottesi al Cloud, effettuando delle “due diligence” sia prima dell’accordo che in corso di rapporto». Quanto a Fujitsu, «dal nostro punto di vista non possiamo che confermare che il ricorso al Cloud sta crescendo, perché assicura agilità di business, innovazione e vantaggio competitivo, tutte cose che oggi per le organizzazioni sono priorità primarie - ha spiegato Davide De Nova, Engagement Manager e Business Developer -. La valutazione, decisione, adozione e integrazione di questi servizi però provoca grandi cambiamenti, anche nel caso dell’Hybrid IT che è la scelta migliore per conciliare i benefici del Cloud con la tutela degli investimenti pregressi». Il punto focale, ha aggiunto Federico Riboldi, Business Program Manager Marketing di Fujitsu Italia, diventa lo strato di gestione e Cloud Inte-

Quando la parola è passata agli utenti, sono emersi diversi punti critici che, all’atto pratico, i CIO devono affrontare nella gestione dell’integrazione tra dati e applicazioni On Premise e il Cloud. È chiaro infatti che si tratta di passaggio difficile, per quanto appaia ormai inevitabile. Del resto, per realizzare ogni percorso di trasformazione e di innovazione occorre superare diffidenze e ostacoli culturali, e fare uno sforzo per individuare il percorso ottimale, ciascuno con le proprie specificità, prendendo via via confidenza con tecnologie e tool che evolvono rapidamente. Carlo Capalbo, Direttore Tecnologie Informatiche de Il Sole 24 Ore, ha infatti sottolineato come «il Cloud da solo non risolve tutti i problemi ed è quindi necessario creare un ecosistema che comprende anche le piattaforme On Premise. Non dimentichiamoci poi che se si va verso l’Hybrid IT è assolutamente necessario gestire e risolvere via via le criticità che si presentano a livello architetturale, prendendo per esempio in considerazione un’infrastruttura a servizio dell’integrazione di www.digital4executive.it

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reportage | Hybri d I T, Cl ou d e O n-Pr e m i s e : c omp l ia n c e , g e st io n e de i dat i e b e st p ract ic e Da sinistra: Davide De Nova, Engagement Manager e Business Developer, e Federico Riboldi, Business Program Manager Marketing di Fujitsu

strutture complesse, come l’enterprise service bus». Costi e compliance completano poi il “podio” dei punti critici delle strategie Cloud in questo momento. «Noi da tantissimi anni non abbiamo proprietà di server ma utilizziamo soltanto servizi», racconta Massimo Pernigotti, CIO Edison. «Per noi il Cloud è un’evoluzione naturale, che tuttavia è frenata dai costi e dalla normativa europea vigente, in particolare per la gestione della privacy. In tema di compliance poi abbiamo riscontrato alcune criticità nel gestire servizi offerti da fornitori con casa madre negli Stati Uniti, dove di fatto si trovano i datacenter che gestiscono i dati». «Il tema della compliance dei sistemi e della sicurezza del dato nella nostra compagnia è centrale nel confronto tra i colleghi dei vari Paesi», riferisce Michele Biasoni, Responsabile Information & Communication Techonology di Ergo Italia, il noto gruppo assicurativo di matrice tedesca che opera a livello internazionale, principalmente in Europa e Asia. «Nel valutare le alternative per

Da sinistra: Carlo Capalbo, Direttore Tecnologie Informatiche de Il Sole 24 Ore, e Massimo Pernigotti, CIO Edison

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la razionalizzazione dei datacenter ci si scontra inevitabilmente con le specificità di ogni Paese, quando ciò che dovrebbe guidare è la valutazione del rischio». Costi e compliance, problemi o aiuti? Ma le preoccupazioni sulla parte normativa e di compliance potrebbero essere addirittura un aiuto, osserva Piergiorgio Spagnolatti, Responsabile Infrastrutture Banca Popolare di Sondrio, perché così c’è il tempo per lavorare all’evoluzione della parte tecnologica, che è il reale ostacolo da superare: «Per me l’Hybrid IT è ancora tecnologicamente immaturo. L’interoperabilità delle piattaforme on premise rispetto quelle public è ancora un po’ indietro, per cui la cosa più sensata oggi a livello tecnologico è di fare un’integrazione puntoa-punto con uno o due provider che hanno già accumulato molta esperienza sul mercato». Oggi pensare di giocare sulla differenziazione, sul passaggio da un giorno all’altro da un provider all’al-


r e p or tage | Hybr i d I T, Cl o ud e O n - P re mise : c o mp l ia n c e , g e st io n e de i dat i e b e st p ractice Da sinistra: Michele Biasoni, Responsabile Information & Communication Techonology di Ergo Italia, e Iacopo Salacrist, Responsabile Divisione Infrastrutture di Creval Sistemi e Servizi

tro per sfruttare le specializzazioni delle rispettive piattaforme non è realistico, sottolinea Spagnolatti: «Dal punto di vista tecnico sarebbe un incubo, o in alcuni casi semplicemente impossibile». «Nel 2015 abbiamo focalizzato la nostra attenzione sui servizi offerti nel Cloud e sono emersi due fattori limitanti. Innanzitutto per molti tipi di workload il rapporto costi-benefici è al momento sfavorevole. C’è poi una difficoltà culturale nel far accettare in azienda la delega di servizi all’esterno in modalità Cloud, per preoccupazioni soprattutto di audit e compliance», spiega Iacopo Salacrist, Responsabile Divisione Infrastrutture di Creval Sistemi e Servizi. «Basandoci sulle valutazioni effettuate e sui casi study e le realizzazioni portate nel Cloud, in particolare in modalità SaaS, abbiamo altresì osservato emergere un forte vendor lock-in. Contrariamente all’opinione comune, non si può cambiare provider ogni tre mesi, ci sono difficoltà tecniche di spostamento di macchine virtuali e carichi da una piattaforma all’altra o di servizi da un provider all’altro». Per Creval l’approccio migliore per ora, aggiun-

ge Salacrist, è integrare servizi Cloud che coprono processi facilmente enucleabili e a bassa interazione con il sistema “core” aziendale, per esempio videoconferenze o fonia. «È poi chiara la necessità di mantenere una forte governance centralizzata di tutti i servizi Cloud che andremo ad utilizzare e integrare». «Dall’esperienza che stiamo vivendo il problema delle barriere culturali verso il Cloud nel settore bancario italiano rimane rilevante», conferma Stefano Stropino, Group IT Governance - Enterprise Architect di Mediobanca. «Il punto di partenza ovviamente è che se ho il data center in casa ho la convinzione di dominare il dato in qualunque momento. C’è un problema ad accettare che il controllo non è più “fisico” e si sposta nel contratto: occorre “contrattualizzare il controllo” nel miglior modo possibile. Si sta facendo esperienza con i grandi provider, nel nostro caso essendo di origine italiana si sconta anche la differenza con i principi giuridici e contrattualistici anglosassoni, che a volte si discostano molto dai nostri».

Da sinistra: Stefano Stropino, Group IT Governance - Enterprise Architect di Mediobanca, e Piergiorgio Spagnolatti, Responsabile Infrastrutture Banca Popolare di Sondrio

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rubrica | ricerche e studi a cura di

paola capoferro ronchetta

New Digital Payment, le transazioni più innovative crescono del 22% fino a 21 mld di euro Dai risultati dell’Osservatorio Mobile Payment & Commerce della School of Management del Politecnico di Milano emerge la forte vitalità di eCommerce, ePayment, Proximity, Contactless, Mobile Payment e Mobile POS L’addio al contante non è ancora dietro l’angolo, ma cominciano a vedersi segnali concreti di una tendenza che dovrebbe portarci ad abbandonare banconote e monete per tutti i nostri acquisti. Nel 2015 le transazioni che fanno riferimento a forme di pagamento digitali innovative ammontano a 21 miliardi di euro, un valore che per quanto lontano dai Paesi europei conferma che anche l’Italia c’è aria di cambiamento. La vera svolta in questo senso arriverà nel momento in cui i clienti sceglieranno in modo definitivo la strada dei digital payment, e non a caso l’evento dedicato alla presentazione dell’edizione 2016 dell’Osservatorio Mobile Payment & Commerce della School of Management del Politecnico di Milano è stato intitolato “Engage Your Customer”. Un acquisto su cinque nelle famiglie italiane è già oggi in digitale, e la com-

ponente più evoluta del digital payment, che l’Osservatorio definisce come New Digital Payment, mostra forte vitalità sotto tutti gli aspetti. A partire dall’acquisto di beni e servizi, che vede crescere del 48% a 2,8 miliardi il transato che passa tramite App e siti Mobile (Mobile Remote Payment & Commerce), per una quota che pesa per il 13% dei nuovi pagamenti digitali. La parte del leone la fa il Mobile Remote Commerce, che arriva a 1,7 miliardi e rappresenta il 10% dell’eCommerce, ma si prevede arriverà al 15% entro il 2018 toccando i 4,2-4,8 miliardi di euro. Il Mobile Remote Payment rappresenta ancora una piccola fetta del transato (300 milioni di euro) grazie anche al contributo di pagamenti legati alle utility con bollette e bollettini, che passano da 21 milioni di euro nel 2014 a oltre 57 milioni nel 2015. Esplode la crescita (circa il

160% rispetto al 2014) del ticketing nel mondo dei trasporti, con tante transazioni di piccola entità. Per questo settore è attesa un’accelerazione da qui al 2018, che porterà questi acquisti a superare i 500 milioni di euro. L’altra grande componente dei New Digital Payment è rappresentato dal contacless – che ha registrato un aumento delle carte da 12 a 20 milioni - e dal MobilePOS (pagamenti mediante carta o telefono contactless), per cui si è riscontrato un raddoppio rispetto al 2014 degli apparecchi abilitati, che hanno superato quota 500mila. Analizzando il contesto generale, le stime per il 2015 segnano una crescita del 5,6% per i pagamenti con carta di credito, che hanno raggiunto 164 miliardi di euro, mentre i New Digital Payment raggiungono nel complesso i 21 miliardi di euro nel 2015 (+22% rispetto al 2014).

quadruplica la quota da mobile pos e contactless

14,7 mld E 126,7 mld E

17,6 mld E 138,2 mld E

21,3 mld E

Dettaglio New Digital Payment New Digital Payment

143,2 mld E

Mobile POS Contactless Payment

eCommerce ePayment

14,7 mld E 0,04 mld E 1,4 mld E

Old Digital Payment

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21,3 mld E

Mobile Payment & Commerce

17,6 mld E 0,3 mld E 2,0 mld E 15,3 mld E

1,2 mld E 2,8 mld E 17,3 mld E

13,2 mld E

90%

89%

87%

91%

87%

81%

2013

2014

2015

2013

2014

2015

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Fonte: Politecnico di Milano

141,4 mld E

155,8 mld E

164,5 mld E


RU B RICA | ric e rc h e e st u di

La spinta più forte arriva dall’acquisto di beni e servizi e dai pagamenti da PC e tablet (81%) e per il 13% da acquisti e pagamenti via Smartphone, che registrano appunto una crescita del 48%. Anche se triplicate rispetto al 2014 le transazioni digitali sono ancora una su 85 (quasi 30 milioni nel 2015), e in termini di valore transato rappresentano ancora solo 1 euro su 200 (circa 700 milioni di euro nel 2015, erano 200 nel 2014). Le partite più importanti per il futuro si giocano sul contactless per le carte, dove alcuni attori stanno spingendo forte anche a livello di comunicazione e dove c’è un’attesa per un transato

tra 6 e 8 miliardi di euro entro il 2018, e sul Mobile Proximity Payment, dove sono in pista di lancio diversi annunci, che potrebbe raggiungere un valore tra 2,6 e 4,5 miliardi di euro di transato nel 2018. E la crescita del digital payment è auspicabile anche e soprattutto perché “fa bene” all’economia e al Paese. È una vera forma di lotta all’economia sommersa che permette anche di tagliare una serie di costi direttamente e indirettamente collegati al contante che sono calcolati in 9,5 miliardi di euro all’anno, a cui devono aggiungersi i mancati introiti per l’erario che valgono come una vera e propria finanziaria (27 miliardi).

BCG: per realizzare l’Industria 4.0 ci vogliono nuove professionalità Con la digitalizzazione dei sistemi di produzione, l’organizzazione del lavoro sta cambiando, così come le competenze necessarie e il modo in cui interagiscano fra loro tecnologie, uomini e macchine. Le figure più richieste saranno gli Industrial Data Scientist e i Robotic Coordinator. Uno studio di Boston Consulting Group La rivoluzione digitale soppianterà la forza lavoro dell’industria manifatturiera? Sì e no. Di sicuro sostituirà, come già sta avvenendo, i compiti più ripetitivi e a basso valore aggiunto e quelli rimpiazzabili da sistemi intelligenti a distanza. Al tempo stesso, però, l’affermazione del modello Industry 4.0 sta facendo nascere nuovi profili professionali. I più richiesti saranno gli specialisti dei dati (Industrial Data Scientist) che estraggono, incrociano e analizzano la mole di dati disponibili per fare previsioni e programmazione su prodotti, produzione e mercati. Come pure ci sarà un gran bisogno di coordinatori degli stessi sistemi digitali, compresi i Robotic Coordinator. Alla fine, il saldo dell’occupazione sembra che sarà positivo. È quanto sostiene Boston Counsulting Group (BCG) nello studio “How Will Technology Transform the Industrial Workforce Through 2025?”, che ha analizzato 23 aziende manifatturiere tedesche registrando come stia oggi-

cambiando l’organizzazione del lavoro - con la digitalizzazione dei sistemi di produzione, del servizio post vendita e della comunicazione - e quali siano le nuove competenze richieste e come interagiscano fra loro tecnologie, uomini e macchine. Lo scenario che emerge mostra più un supporto, un’assistenza della tecnologia al lavoro dell’uomo, che una sostituzione delle persone. BCG fa l’esempio della robotica al servizio degli addetti più “senior” sulla linea di produzione: alleviandone la fatica, secondo gli esperti, si aiuterà anche la loro occupabilità nella quarta età lavorativa, purché aggiornino le loro competenze. Con una proiezione da qui a 10 anni lo studio presenta lo scenario su quello che sarà il bilanciamento tra ruoli e funzioni nel 2025. Per le aziende che adotteranno l’Industry 4.0 si prevede un incremento aggiuntivo di produttività dell’1% annuo e una crescita dei posti di lavoro del 5%, confrontata con l’attuale forza lavoro di 7 milioni nelle aziende analizzate.

Se è vero che si perderanno 610mila posti di lavoro nelle funzioni di assemblaggio e produzione, per il maggior uso di computerizzazione e automazione, ce ne saranno però 910mila in più legati a competenze IT, analytics e ricerca e sviluppo da un lato (210.000), e dall’altro nei ruoli resi necessari dalla crescita delle aziende. In generale, in Germania la richiesta di operatori informatici e di data integration raddoppierà: i data scientist, che sono la figura più nuova insieme ai robot coordinator, saranno quelli che cresceranno di più con 70.000 nuovi posti di lavoro. Addirittura, contrariamente ai timori di perdita di occupazione, sembra che nel 2025 anche in Germania mancheranno 120.000 ingegneri informatici in grado di rispondere alle nuove esigenze dell’Industry 4.0: la soluzione a questo gap tra domanda e offerta può nascere unicamente dal maggior coordinamento tra scuola, università e impresa che contrasta con la tradizionale immagine di eccellenza tedesca in quest’ambito.

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RUBRICA | ri cerch e e s t u d i

Social Network nel Business, i numeri e le opportunità in Italia Ormai in Italia il 90% di chi naviga su Internet è iscritto ad almeno una piattaforma e vi accede perlopiù da smartphone. Sui Social transita il 13% dell’Internet Advertising. L’analisi dell’Osservatorio Internet Media del Politecnico di Milano Fino a un paio d’anni fa mettere insieme le parole “Social Media Strategist” aveva un che di esotico anche per gli uffici marketing delle aziende più illuminate sotto il profilo dei temi digitali. Oggi invece si può dire che la maggior parte delle principali organizzazioni ha una figura più o meno specifica che pianifica, coordina e soprattutto gestisce le relazioni delle imprese o dei brand con il proprio pubblico on line. E il 38% delle aziende italiane dispone di un Social Network aziendale, secondo i dati degli Osservatori del Politecnico di Milano. Questo però non implica automaticamente che le aziende abbiano assimilato l’idea di cosa voglia dire convivere sulle piattaforme social con concorrenti e clienti, e soprattutto che riescano a sfruttare a pieno le enormi opportunità che i dati generati da queste relazioni comportano. Le premesse per sfruttare il canale nel modo ottimale non mancano. Il 90% delle persone che in Italia navigano su Internet è iscritto ad almeno una piattaforma e al di là dei 26 milioni di utenti attivi su Face-

book, un terzo degli utenti è su Twitter, mentre un quinto posta su Instagram e Linkedin. Tre quarti degli utenti iscritti a Facebook vi accedono tutti i giorni. Su Instagram e Twitter rispettivamente il 35% e il 23% degli utenti vi accede almeno una volta al giorno. La fruizione dei Social Network è prevalente da Mobile: circa l’80% avviene da Smartphone e Tablet. Ancora, la raccolta pubblicitaria sui Social Network, in forte crescita, è stimata in 277 milioni a fine 2015, pari al 13% del totale Internet Advertising e il 15% delle aziende fa largo utilizzo dei Social Network nei processi di selezione del personale. I clienti diventano il megafono del brand Prima di ogni altra cosa, spesso ancora non è chiara la differenza tra pubblicità e comunicazione all’interno delle reti sociali. A dirla tutta, nemmeno le discipline del digital PR sono sufficienti a descrivere l’approccio ottimale che un social media strategist dovrebbe tenere quando si in-

terfaccia con gli strumenti on line, senza contare che ciascuno ha proprie regole peculiari. Inoltre la proliferazione di nuove applicazioni specializzate, che puntano su determinate comunità di interesse con ambienti, meccanismi e funzionalità che gli analisti definiscono verticali, sta rendendo lo scenario più complesso. Presidiare i social network ormai non riguarda solo la visibilità di un brand: l’engagement non guarda unicamente la seduzione del potenziale cliente, così come le call to action non possono limitarsi a invitare ad approfondire o a comprare. Nell’ottica di una comunicazione bidirezionale, brand e clienti cooperano, facendo corrispondere a un trend, o a una serie di azioni, precise risposte e strategie. Oltretutto, grazie alla Rete, i clienti diventano ambasciatori ed evangelizzatori di prodotti, servizi e specialmente esperienze nei confronti di follower e contatti, come un vero megafono dei valori del marchio, non solo con una elevata reach a costi sostenibili, ma anche inquadrando i giusti target.

internet advertising: il mercato per formati 2.500

mln E

2.000

1,74 mld E 25 207

+11% –16%

1.500

+13%

1,94 mld E

+10%

25 173

–1%

671

25 171

100

+70%

+5%

702

170

+63%

277

236

+23%

291

+19%

346

582

+6%

615

+2%

626

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2013

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2014

Social Video Banner

500

0

Classified Search

595 1.000

Email

2015

Dati a preconsuntivo

Fonte: Osservatorio Internet Media Politecnico di Milano e IAS Italia

2,15 mld E


RU B |RICA | n o mine rubrica nomin e

Flavio Cattaneo Amministratore Delegato, Telecom Italia Flavio Cattaneo è il nuovo Amministratore Delegato di Telecom Italia, in cui da aprile 2014 ricopriva già la carica di Consigliere indipendente. Classe 1963, da un anno Cattaneo era alla guida di Ntv, dove è approdato dopo essere stato l’Amministratore Delegato di Terna, da novembre 2005 a maggio 2014. In precedenza ha ricoperto rilevanti posizioni di responsabilità in diverse imprese italiane nei settori delle costruzioni, della radiotelevisione, dei servizi, delle nuove tecnologie, dei pubblici servizi.

Dal 1999 è stato alla guida dell’ex Ente Autonomo Fiera Internazionale di Milano quale Commissario Straordinario, ne ha poi curato la quotazione in Borsa come Fiera di Milano, diventandone Presidente e Amministratore Delegato fino al 2003, quando è arrivato alla guida della RAI come Direttore Generale, ruolo ricoperto fino ad agosto 2005. Flavio Cattaneo da dicembre 2014 è anche Consigliere indipendente di Generali Assicurazioni, ed è stato Consigliere di Amministrazione di numerose società

nel settore energetico (dal 1999 al 2001), tra cui AEM di Milano (con la carica di Vicepresidente), Serenissima Gas, Triveneta Gas, Seneca e Malpensa Energia.

Riccardo Sciutto Amministratore Delegato, Sergio Rossi

A un mese dall’acquisizione di Sergio Rossi da parte di Investindustrial, il fondo di private equity, il 44enne Riccardo Sciutto è stato nominato Amministratore Delegato del brand di calzature di lusso. Il manager ha lasciato così Hogan del Gruppo Tod’s che dirigeva dal 2012. Prima ancora era stato diversi anni in Pomellato, dove negli ultimi tempi si era occupato del marchio di gioielleria Dodo con il ruolo di worldwi-

de Managing Director. Dopo la laurea in Economia, ha lavorato presso il GFT Group - a cui fanno capo brand come Valentino, Ungaro, Calvin Klein - come Key Account Manager e Trade Marketing Manager, e in seguito è stato Direttore Commerciale di Calvin Klein Collection Worldwide e cK Calvin Klein Europe. La nomina del nuovo amministratore delegato rappresenta il primo importante tas-

sello del piano di crescita e sviluppo definito per lo storico brand di calzature di lusso. «Sciutto - spiegano dalla Sergio Rossi - ha messo in evidenza forti capacità organizzative e commerciali, naturali doti di leadership e particolare attenzione sia al prodotto che al marketing strategico e innovativo. Tutte doti che, associate a una forte energia personale, daranno un contributo fondamentale allo sviluppo del marchio».

Riccardo Mollo Amministratore Delegato, Gruppo Permasteelisa Riccardo Mollo è il nuovo Amministratore Delegato di Permasteelisa, il Gruppo noto a livello mondiale nel campo della progettazione, produzione ed installazione di involucri architettonici, con un fatturato di circa 1,5 miliardi di euro e con oltre 50 aziende in 30 Paesi. Mollo, 57 anni, laureato in Ingegneria Meccanica, ha fatto il suo ingresso nel Gruppo nel gennaio 2015 con il ruolo di Chief Operating Officer, lasciando la carica di Direttore Generale di Autostrade per l’Italia, in cui era anche membro del Consiglio di Ammini-

strazione di varie controllate. In precedenza ha ricoperto ruoli di responsabilità crescente nel project management di impianti industriali oil&gas in Iran, Cina, Usa, Taiwan, Svezia. Dal 2001 al 2004 è stato CEO della Strategic Business Unit “Alliances” di Technip, uno dei principali Engineering Contractors mondiali, e successivamente, tra il 2004 e il 2005, Managing Director di Technip in Brasile, nel periodo in cui è stata costruita la più grande piattaforma al mondo per l’estrazione in acque profonde.

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RUBRICA | nomine

Philippe Donnet Amministratore Delegato, Generali

Philippe Donnet succede a Mario Greco, che ha assunto la carica di CEO di Zurich, come Amministratore Delegato del colosso assicurativo triestino Generali. Donnet, classe 1960, laureato presso l’Ecole Polytechnique di Parigi e presso l’Institut des Actuaires Français, ha sviluppato negli anni una profonda conoscenza del settore assicurativo in Axa, in cui dal ’97 al ’99 è stato Vice-direttore Generale di Axa Conseil e a seguire Amministratore Delegato di Axa Assicurazioni in Italia, per poi entrare nel comitato esecutivo come Direttore Generale della regione Mediterraneo, America Latina e Canada nel

2001. Nel 2002 è stato nominato anche Presidente e Amministratore Delegato di Axa Re e Presidente di Axa Corporate Solutions, e successivamente nel 2003 Amministratore Delegato di Axa Japon in cui ha ricoperto il ruolo di Presidente nel 2006. Nel 2007 è approdato nel gruppo siderurgico francese Wendel, con l’incarico di creare un’attività di investimento nella regione Asia Pacifico. Prima della recente nomina ha ricoperto il ruolo di Amministratore Delegato di Generali Italia ed era membro del Group Management Committee del Gruppo Generali e del Consiglio di Amministrazione di Banca Generali.

Alessandro Decio CEO, Ing Bank Italia

Cambio al vertice di Ing Bank Italia. Al CEO uscente Don Koch, che andrà a ricoprire un ruolo in ING Asia, succede Alessandro Decio, che approda in Ing dopo 15 anni di esperienza nel Gruppo UniCredit, dove ha avuto ricoperto vari ruoli di responsabilità in diversi Paesi, fino alla posizione di Chief Risk Officer nonché membro del CEO office e dell’Executive Management Committee. Decio è anche membro del CDA di alcune controllate chiave del Gruppo Uni-

Credit, nonché di Mediobanca. In precedenza, dopo un’esperienza in McKinsey, ha lavorato per oltre cinque anni presso la Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BERS) ed è entrato in UniCredit nel 2000 per supportare lo sviluppo internazionale del Gruppo - in Croazia, Bulgaria e Turchia -, prima di assumere la responsabilità di Global Head of Retail nel 2010, di CRO di Gruppo nel 2012 e di lasciare UniCredit ai primi di gennaio di quest’anno.

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