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. Umberto Bertelè: rivoluzione digitale, un’esplosione di business model innovativi . HR, come costruire una cultura dell’innovazione condivisa. L’esperienza di Generali Italia . Giuliano Noci (PoliMI): il Marketing oltre l’onda dell’integralismo digitale . Export online e Made in Italy, un enorme potenziale . La formula vincente dell’eCommerce di Ikea
EDITORIALE
Al perenne inseguimento di uno “sbocco al mare”
di
umberto bertelè PRESIDENTE ADVISORY BOARD DIGITAL4EXECUTIVE
@umbertobertele
“The end of smartphones and TVs is coming”, la vita degli smartphone e degli apparecchi TV – veri e propri simboli di due ere diverse dell’information & communication technology – volge ormai al termine. È la dichiarazione profetica, in realtà molto più una speranza che una previsione, fatta di recente da Mark Zuckerberg: la speranza che la scommessa al centro del master plan decennale presentato lo scorso anno - quella di puntare sulla realtà virtuale e aumentata e sull’olografia (Oculus VR e HoloLens le acquisizioni più famose) - permetta anche a Facebook di crearsi un ecosistema indipendente, raggiungibile direttamente dagli easy-to-wear standard-looking glasses che sta cercando di mettere a punto, dopo il tentativo non riuscito di costruire un proprio sistema operativo per smartphone in grado di competere con quelli dominanti di Apple e AlphabetGoogle (rispettivamente iOS e Android) e di evitare il passaggio attraverso le loro forche caudine. Amazon – anch’essa facente parte (con Apple, Alphabet e Microsoft) delle top-5 imprese digitali che si collocano nei primi sei posti della classifica mondiale per capitalizzazione di Borsa e anch’essa frustrata dalla impossibilità di accesso diretto su mobile al consumatore finale – fa da tempo tentativi simili, pur battendo strade diverse. Forte del successo di Kindle, ha provato innanzitutto la strada dell’hardware con il lancio di Fire Phone: probabilmente il più grande flop della carriera di Jeff Bezos. Ci sta provando di nuovo, sembra con molte più speranze di affermazione, con l’assistente vocale Alexa, che fa ampio ricorso all’intelligenza artificiale: presente nelle case, in accoppiata con Echo (il box cilindrico utilizzabile anche per ascoltare musica in streaming), ove è in grado su richiesta vocale di attivare gli elettromestici e gli allarmi o di inviare direttamente ordini di acquisto di alimentari piuttosto che di detersivi; presente da poco nelle auto (Ford la prima ad adottarla), ove è in grado tra l’altro di avviare la riproduzione di una canzone, chiedere le previsioni del tempo o i risultati delle ultime partite, inserire promemoria. Microsoft fece i suoi primi tentativi già all’epoca della nascita dei cellulari, quando era monopolista di fatto nei sistemi operativi (e non solo) per PC: sempre respinta però dalle imprese leader, come Nokia e Motorola, terrorizzate dalla prospettiva di trovarsi intermediate – nei rapporti con i clienti finali – da quella che era una delle imprese top del mondo e che poteva fare sinergia fra PC e cellulari. Ci provò di nuovo al profilarsi del successo travolgente degli smartphone, avviatosi con il lancio dell’iPhone nel 2007, acquisendo l’ex-leader mondiale Nokia in difficoltà: un’avventura sostanzialmente chiusa con un write-off totale, dal nuovo CEO, per l’impossibilità di scalfire il duopolio venutosi a creare. Una guerra fra giganti, per conquistare l’accesso diretto al cliente finale e poter così creare alle proprie spalle un ecosistema, il più grande possibile, da cui “estrarre valore”. Una guerra che ricorda, per chi ama la storia, le tante sostenute dai Paesi non rivieraschi per assicurarsi uno “sbocco al mare”: per non dover attraversare territori altrui - spesso “pagando pegno” - per un accesso libero al mondo, con finalità talora meramente commerciali e talaltra politico-militari. www.digital4executive.it
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COVER STORY
I nuovi business model “figli” della digitalizzazione
Umberto Bertelè, Professore Emerito di Strategia, Politecnico di Milano
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managEmEnT
Tante idee, anzi troppe. È ora di innovare anche il processo di innovazione
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La media impresa “inclusiva” traina l’industria italiana, deludente la grande azienda
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Roberto Verganti, Docente di Leadership and Innovation, Politecnico di Milano
InTERVISTE
Blockchain, rivoluzione in atto. «Può cambiare ogni business»
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IKEA, l’eCommerce piace agli italiani. «Più vicini e alle loro esigenze»
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véGé pronta al proximity marketing. «Ma solo se porta vero valore al cliente»
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Localizzazione e mappe digitali, il vero ago della bussola per l’IoT
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La formula unica di WoBI, l’evento che ispira i manager in tutto il mondo
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Al via anche in Italia dXC Technology: «servizi Enterprise veramente end-to-end»
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Marcella Atzori, University College of London
Sabrina Lucini, Country eCommerce Manager di IKEA Italia
Giorgio Santambrogio, Amministratore Delegato Gruppo VéGé Emilio Misuriello, Amministratore Delegato Esri italia Alberto Saiz, Chief Executive Officer WOBI in Europa
Sergio Colella, Vice President, Regional Sales South Europe e Ad Italia di DXC Technology OSSERVaTORI
Made in Italy, il 6% dell’Export si vende via eCommerce
Riccardo Mangiaracina, Direttore Osservatorio Export, Politecnico di Milano
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Industria italiana, crediti commerciali per 559 miliardi nelle filiere: come può aiutare il digitale
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Federico Caniato, Direttore Osservatorio Supply Chain Finance, Politecnico di Milano dIgITal TRanSfORmaTIOn
Marketing - Pubblicità, è finito il tempo dell’integralismo digitale
Giuliano Noci, Professore ordinario di Marketing, Politecnico di Milano
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Marketing - Il CMo di Mercedes-Benz Italia: «Il nuovo marketing? digitale, one-to-one e real time» 38 Hr - Come costruire una cultura dell’innovazione condivisa
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Hr - Europ Assistance punta sull’apprendimento continuo per tenere il passo dell’innovazione
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Marco Planzi, Associate Partner P4i - Partners4Innovation AdvIsory BoArd Umberto Bertelè Presidente Advisory Board Mariano Corso Politecnico di Milano Carlo Alberto Carnevale Maffè Università Bocconi
Cristiano Venanzoni, Chief Human Resources Officer Europ Assistance
Finance - McKinsey paladina del “Long Termism”: «Basta con l’assillo della trimestrale» 60 Procurement - I benefici del processo “source-to-Pay” digitale Stefano Gentilini, Director, BravoSolution
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REPORTagE
Maurizio dècina Politecnico di Milano
retail italiano: tutte le sfide dell’omnicanalità, tra consegne in un’ora e resi
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Giuliano Noci Politecnico di Milano
L’importanza di valorizzare le idee dei dipendenti: cosa insegna l’Hackathon di Generali Italia
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Paolo Pasini SDA Bocconi Alessandro Perego Politecnico di Milano Francesco sacco Università dell’Insubria - SDA Bocconi raffaello Balocco Segretario Advisory Board
Valentina Pontiggia, Osservatori Digital Innovation, Politecnico di Milano
nORmaTIVE
regolamento GdPr, pubblicate le prime linee guida. verso un nuovo modo di gestire la privacy Gabriele Faggioli, Giurista, Ceo, P4i - Partners4Innovation
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RubRICa | RICERChE E STudI
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RubRICa | nOmInE
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c ov e r s tory
di
I nuovi business model “figli” della digitalizzazione
umberto bertelè
ProfeSSore emerIto dI StrAtegIA PoLItecnIco dI mILAno
Sono molteplici le forme e gli impatti che può avere la “disruption”, termine un po’ abusato che denota gli stravolgimenti nell’intera economia globale e nella vita delle imprese provocati dalla diffusione, sempre più veloce ed estesa, delle tecnologie digitali. L’analisi di Umberto Bertelè fa il punto della trasformazione in atto, focalizzando alcuni temi di particolare attualità e gli esempi più significativi
Questo articolo di Umberto Bertelè prende lo spunto dalla relazione che ha tenuto al Politecnico il 29 marzo, in occasione dell’incontro (con lo stesso titolo) per la presentazione della nuova edizione del suo libro “Strategia”, focalizzata sul tema della digitalizzazione. Un incontro organizzato dagli Osservatori Digital Innovation, che ha visto la partecipazione - oltre che di Ferruccio Resta, Rettore del Politecnico e di Enrico Sassoon (Direttore di Harvard Business Review Italia) quale moderatore - di docenti che spesso appaiono anche su Digital4Executive: Vittorio Chiesa, Giuliano Noci e Andrea Rangone (CEO di Digital 360), professori ordinari di Strategy & Marketing, e Alessandro Perego, nuovo Direttore del Dipartimento di Ingegneria Gestionale. Data l’ampiezza della materia, l’autore ha scelto di focalizzare l’attenzione - trattandoli come tasselli di un ideale mosaico - su alcuni concetti di fondo e su alcuni temi di particolare attualità. | 6 |
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Che Cos’è il “business model” di un’impresa Anche se può apparire paradossale, la forza di una definizione sta spesso nella sua indefinitezza. Sono i concetti fuzzy - sfumati nei loro confini quelli che usiamo di più, perché ci permettono di dare un senso alle comunanze senza farci distogliere dalle differenze che un’analisi più puntuale metterebbe in luce. La nozione di business model, largamente diffusa, rientra in questa categoria: non ne esiste una definizione precisa condivisa, per cui fornisco la mia (anch’essa peraltro fuzzy). Il business model di un’impresa racconta: - quale sia il suo output, ovvero i prodotti – beni (materiali e/o immateriali) e/o servizi – che essa mette sul mercato, - a chi siano destinati tali prodotti e per soddisfare quali bisogni, - attraverso quali canali essi arrivino ai destina-
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tari e se siano i destinatari o altri soggetti a pagarli, - quale parte dei prodotti sia fatta «in casa» e quale acquistata o commissionata in outsourcing, - in quali aree geopolitiche l’impresa venda o produca o si rifornisca, - quali siano le potenziali sinergie nel caso di portafoglio composito, - su quali differenziali - di costo piuttosto che di attrattività - si basi l’impresa per conquistare quote di mercato nelle aree di business in cui compete e per creare valore. Se ci si pone nell’ottica speculare della competizione, ovvero si guarda a cosa avviene in una particolare area di business (concetto anch’esso fuzzy), le imprese - o le loro specifiche unità di business - che competono in tale area possono: - soddisfare i bisogni/clienti con prodotti simili oppure con prodotti (anche molto diversi fra loro) in grado però di offrire funzionalità simili; - avere business model con configurazioni simili oppure diverse fra loro. L’ebook è molto diverso dal libro cartaceo, ma soddisfa bisogni in larga misura sovrapposti. Il libro cartaceo acquistato attraverso Amazon è identico a quello acquistato in libreria, così come identica è la casa editrice del libro, ma diverse sono le filiere distributive e diversi i soggetti – con business model molto “distanti” fra loro - in esse operanti. Lo streaming di Spotify o di Apple Music è molto diverso dai CD o dai dischi in vinile, è diverso anche
dal download (un business model pure digitale che tanto successo aveva avuto con il lancio da parte di Apple dell’iPod e di iTunes), ma - analogamente a essi e a differenza ad esempio dei canali radiofonici musicali - offre la possibilità di ascoltare musica scegliendola a piacimento. La scelta del business model ha una grande rilevanza, ma altrettanto rilevante – ai fini della competitività - è la fase di execution, di implementazione e di conduzione cioè del modello stesso. Così come possono essere determinanti altri aspetti, come ad esempio in molti casi la scala. Disruption Dei business moDel o Disruption Delle imprese? Il termine disruption ha avuto molto successo in questi anni per denotare gli stravolgimenti – nell’organizzazione dell’economia e nella vita delle imprese – provocati dal successo dei business model “figli” della digitalizzazione, del processo cioè di diffusione sempre più veloce ed estesa delle tecnologie digitali. Anche se nei casi che vengono più spesso citati la disruption dei business model esistenti e quella delle imprese esistenti (incumbent) coincidono, i due fenomeni non devono essere assolutamente confusi. Ci si deve cioè porre separatamente le due domande: - i nuovi business model “figli” della digitalizzazione sostituiscono quelli esistenti o convivono
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cover story | I n u ov I bu s I ne s s m od e l “ fIgl I ” d e l l a dI g Ita l Iz z a z I o n e
Anche se nei casi che vengono più spesso citati la disruption dei business model esistenti e quella delle imprese esistenti (incumbent) coincidono, i due fenomeni non devono essere assolutamente confusi con essi? La disruption riguarda l’intera filiera o si concentra su specifici tratti? - l’entrata in gioco dei nuovi business model comporta l’uscita dal mercato delle imprese incumbent a favore di nuove entranti? Se sì, perché? L’attenzione su quanto accade nella filiera (e non solo nella specifica area di business) è importante, perché quasi sempre le innovazioni di matrice digitale vanno a toccare, in misura più o meno consistente, i rapporti fra i diversi soggetti lungo le filiere: anche quando, come nello smart manufacturing (robotica avanzata, tecnologie additive ecc.), esse sembrano confinate in ambiti molto più puntuali e ristretti.
ro antecedente l’entrata in gioco di Internet. Esse sono sopravvissute, dopo il prevedibile fallimento del tentativo di creare siti congiunti fra imprese concorrenti (quali Pressplay lanciato da Universal and Sony Music per contrastare Napster), con la scelta da manuale - “non digitale” - di aumentare il livello di concentrazione, passando da 6 “grandi” a 3 (Universal, Warner Music e Sony Music), per ridurre drasticamente i costi e accrescere il potere contrattuale: una scelta al momento vincente, data anche la crescita (perlomeno temporanea) della concorrenza fra distributori. La fotografia: daLLa peLLicoLa aLLo smartphone
La musica: daL viniLe aLLo streaming Nel caso ad esempio della musica visto in precedenza, la grande vittima del successo della distribuzione “via Internet” (iniziata con i siti-pirata) è stata la distribuzione “fisica”, all’ingrosso e attraverso i negozi specializzati (drasticamente ridottisi). Sono sopravvissute invece le case produttrici, seppur con un fatturato complessivo che negli US supera di poco la metà di quello del periodo d’o-
Illuminante il caso della fotografia, ove (analogamente a quanto accaduto per la musica) si è avuta una doppia transizione, a distanza di qualche anno una dall’altra: la fotografia “digitale” ha travolto quella “chimica”, che era stata dominante in tutto il ‘900; gli smartphone, offrendo la possibilità di fotografare “a costo zero” e di condividere le foto con estrema facilità, hanno già provocato una riduzione drammatica delle vendite di mac-
musica, iL successo deLLo streaming (previsioni di fatturato gLobaLe, miLiardi doLLari)
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Fonte: Goldman Sachs
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*include diritti di performance, servizi di streaming personalizzati, film, e connessioni (tie-in) a messaggi pubblicitari www.digital4executive.it
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Innovazione e regolamentazione in perenne conflitto Esiste un conflitto naturale fra l’innovazione, che significa cambiamento, e le regole, che mirano a disciplinare l’esistente (come se fosse destinato a durare per l’eternità) e non raramente a garantire gli interessi costituiti. È per questo che una componente importante del successo di molte delle principali imprese digitali è la propensione a ignorare le regole, nonchè la bravura – con l’aiuto dei migliori avvocati e dei più efficaci lobbisti - nell’evitare eccessive punizioni a fronte delle violazioni. Uber e Airbnb sono sicuramente il prototipo di imprese che senza violazioni non avrebbero avuto successo, ma sono ora costrette a combattere duramente per la stessa sopravvivenza, a causa delle forti reazioni di chi si è sentito danneggiato dalla loro crescita e si appella al rispetto delle regole. Ma anche Apple, Alphabet-Google, Amazon e Facebook sono oggetto di forti contestazioni – ad esempio a livello UE – e Microsoft, essa pure facente parte delle top-5 (le imprese a massima capitalizzazione su scala mondiale) lo è stata a lungo nel passato. È giustificata la violazione – o talora più semplicemente l’elusione - delle regole? In diversi casi, in relazione ad esempio alla diffusa e consistente elusione fiscale da parte delle imprese maggiori, la risposta è no: anche se sono gli Stati che, in concorrenza fra loro, aprono
chine fotografiche compatte (nonché dei negozi che le vendevano) e l’effetto di sostituzione potrebbe estendersi ulteriormente a causa dei continui miglioramenti qualitativi che i produttori di smartphone introducono, non per rubare mercato a Canon e Nikon ma per aumentare la loro attrattività rispetto ai competitori diretti. È illuminante soprattutto il caso di Kodak (che ora “vale” meno di mezzo miliardo di dollari dopo essere stata per circa un secolo una delle principali società del NYSE), vittima non tanto di attacchi da parte di nuove imprese innovative miranti a rubarle la leadership, quanto della sparizione – nel nuovo contesto venutosi a creare con la fotografia digitale – di quella che era la sua massima fonte di differenziazione e di creazione del valore, ovvero della pellicola. Kodak, che nell’era “chimica” era presente in tutta la filiera (dalle macchine fotografiche compatte alla carta per la stampa) e che disponeva di numerosi brevetti nell’ambito “digitale”, non fu spiazzata dai nuovi entranti, ma perse – con il cambiamento del business model – il suo differenziale di attrattività; nessun’altra impresa riuscì peraltro a raggiungere, nel nuovo contesto, il livello di profittabilità che essa aveva in precedenza e il grande vincitore fu il consumatore finale. Vi è un altro fenomeno interessante
buchi legislativi che vengono subito sfruttati. In altri casi la risposta è più dubbia, soprattutto quando le regole violate sembrano corrispondere più che a interessi della collettività al mantenimento in vita di attività decotte o alla protezione di interessi molto puntuali. Il problema, come appare chiaramente dal recentissimo caso Uber che rischia l’espulsione dall’Italia, è che simili decisioni non dovrebbero essere affidate alla magistratura, che non può che applicare regole nate nel passato in un contesto che non c’è più, ma richiederebbero una riscrittura delle regole da parte della politica, che non penalizzi il nuovo garantendo però equità negli obblighi e nella tassazione. La regolamentazione, se gestita con lungimiranza, può essere però anche un fattore di promozione dell’innovazione. Due esempi: la California che ha semplificato le autorizzazioni per le prove su strada delle self-driving car; l’UE che con l’introduzione del cosiddetto open banking (della possibilità cioè di accesso diretto previo autorizzazione ai conti bancari) ha aperto una importante possibilità di crescita per le cosiddette fintech, per le startup tecnologiche cioè operanti nell’ambito bancario-finanziario).
da sottolineare, il manifestarsi - nella (seconda) transizione che portò all’uso sempre più diffuso dello smartphone come macchina fotografica - di quelli che potremmo definire danni collaterali non intenzionali: Canon e Nikon rimasero vittime di una guerra interna fra produttori di smartphone, così come (con un paragone un po’ ardito) gli editori dei giornali continuano a perdere fatturato pubblicitario a favore di Google e Facebook, che non sono loro concorrenti diretti ma che hanno nel digital advertising un caposaldo dei loro business model, basati sull’erogazione gratuita di servizi (search e social network rispettivamente). Un oUtpUt simile o del tUtto originale? Ipersemplificando la realtà, si devono innanzitutto distinguere i casi in cui l’output del business model innovativo offra: 1. funzionalità prima inesistenti, oppure 2. funzionalità simili a quelle dei business model esistenti. Se i business model innovativi offrono funzionalità prima inesistenti, come storicamente accaduto per il search e per i social network, non esistono vittime dirette immediatamente individuabili. Ci www.digital4executive.it
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Il caso Uber conferma che le decisioni non dovrebbero essere affidate alla magistratura, che non può che applicare regole nate in un contesto che non c’è più. Occorre una riscrittura delle regole da parte della politica
possono essere effetti sostitutivi più lontani, quali il calo ad esempio degli ascolti televisivi a causa del maggior tempo passato sui social. Ci possono essere come visto danni collaterali inintenzionali, quali quelli inferti dal digital advertising agli editori di giornali. E va comunque richiamato il fatto ovvio che non basta offrire funzionalità prima inesistenti per avere successo, come il caso Google glass chiaramente dimostra. Se i business model innovativi offrono funzionalità simili, ed è il caso di gran lunga più frequente, essi devono ovviamente promettere di essere
- come precondizione per la loro stessa nascita competitivi rispetto ai modelli esistenti in termini di attrattività e/o di costi. Una configUrazione simile o radicalmente diversa? Nel caso di funzionalità dell’output simili si possono evidenziare tre situazioni diverse, ancorchè con confini fuzzy fra loro, in base al grado di “vicinanza” fra le configurazioni dei business model: 2.1 la configurazione del business model innova-
È sempre più sbagliato pensare che l’innovazione digitale richieda pochi investimenti I costi dell’innovazione digitale meritano alcune considerazioni. La prima: sembrano finiti i tempi in cui un’impresa come WhatsApp riuscì, con soli 60 milioni di dollari di finanziamento, a crearsi una clientela di 400 milioni di persone e a vendersi a Facebook per 19 miliardi di dollari. La seconda: l’idea che un’impresa che gestisce una piattaforma abbia bisogno di pochi soldi, potendo far leva sulle risorse di coloro che utilizzano la piattaforma per offrire i loro servizi, è del tutto smentita dal fatto che Uber ha raccolto da finanziatori privati ben 12,9 miliardi di dollari, Didi Chuxing (la “Uber cinese”) 8,6 e Airbnb 3,3. Gli investimenti in R&D, soprattutto delle imprese
maggiori, sono in espansione continua e la loro crescita rende più difficile la vita a chi vuole crescere ora: come i casi di LinkedIn, acquisito poi da Microsoft, e di Twitter, presumibilmente alla ricerca di un acquirente dopo il crollo della quotazione, mostrano. Le top-5 imprese digitali per investimenti in R&D – nell’ordine Amazon, Alphabet-Google, Intel, Microsoft e Apple – hanno speso complessivamente nel 2016 ben 65 miliardi di dollari, la stessa cifra delle 40 imprese che le seguono nella classifica. Le top-8 – con l’aggiunta di Cisco, Oracle e Facebook – 85 miliardi di dollari, la stessa cifra cumulata delle 400 quotate seguenti nella classifica.
investimenti in ricerca e svilUppo (Ultimi 12 mesi, miliardi di dollari) 0
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AMAZON ALPHABET - GOOGLE INTEL MICROSOFT Fonte: Bloomberg
APPLE CISCO ORACLE FACEBOOK
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tivo non differisce in misura sostanziale da quella dell’esistente; 2.2 la configurazione del business model innovativo si differenzia rispetto a quella dell’esistente per il ruolo sensibilmente più rilevante di alcuni componenti (quali la componentistica elettronica nell’auto); 2.3 la configurazione del business model innovativo è radicalmente diversa rispetto a quella dell’esistente (come nel caso dell’eCommerce rispetto alla distribuzione tradizionale). Se le differenze non sono forti (caso 2.1), cioè quando la configurazione del business model innovativo è simile, è molto probabile che siano le imprese incumbent le protagoniste dell’innovazione, che siano esse a introdurre modifiche incrementali nei modelli esistenti e a sfruttare le potenzialità offerte dall’innovazione per migliorare la loro posizione competitiva. È il tipico caso della digital transformation. Mentre è probabile che non si creino opportunità significative per nuove entrate, se non in assenza di reattività da parte delle imprese incumbent. Molto diversa la situazione in presenza di differenze radicali (caso 2.3), quando la configurazione del business model innovativo è radicalmente diversa. Sempre ipersemplificando, si possono evidenziare due possibili scenari: 2.3.1 il business model innovativo è nettamente vincente rispetto all’esistente, per la maggiore attrattività e/o il minore costo; 2.3.2 il business model innovativo è molto competitivo rispetto all’esistente, ma la probabilità
che essi siano destinati a convivere è elevata. Nel primo scenario (caso 2.3.1) la probabilità di disruption delle imprese (o delle loro specifiche unità di business) incumbent è molto alta. Sia perché esse, per convertirsi al nuovo business model, devono affrontare costi di restructuring molto elevati (principalmente per la liquidazione delle risorse umane ridondanti e per il write-off delle risorse materiali e immateriali divenute inutili) e devono rinnegare la cultura d’impresa che è stata alla base del loro passato successo. Sia perché, come visto per Kodak, esse perdono nel nuovo contesto competitivo molti dei punti di forza e di differenziazione che avevano nel precedente. Nel secondo scenario (caso 2.3.2), invece, i nuovi entranti – startup o imprese consolidate provenienti da altri comparti – e gli incumbent si battono fra loro, con modalità e dinamiche molto variabili nei diversi casi. Più il business model innovativo risulta competitivo rispetto all’esistente, più grande deve essere lo sforzo di ristrutturazione degli incumbent per non perdere profittabilità e valore. La ristrutturazione può avvenire sostanzialmente attraverso due vie o una loro combinazione. Gli incumbent possono rispondere in maniera classica, puntando a una riduzione dei costi e a un rafforzamento della posizione contrattuale attraverso un aumento del livello di concentrazione (con il ricorso ad acquisizioni o fusioni) e/o una rigida politica di controllo dei costi: come visto per i produttori di musica. Oppure possono cercare di introdurre modelli ibridi, con una componente digitale che si affianca e si integra con quella più tradizionale.
digital disruption vs digital transformation Quali probabilità ha il business model innovativo di rappresentare lo strumento per l’affermazione dei nuovi entranti digitali e la digital disruption delle imprese
esistenti (incumbent)? La risposta varia in funzione dei diversi casi descritti nell’articolo, come mostra la tabella seguente:
1) Ha un output con funzionalità prima inesistenti Il busIness model InnovatIvo rIspetto a quello/I esIstente/I
90%
2.1) Ha una configurazione simile
2) Ha un output con funzionalità simili
Legenda dei colori
2.2) Ha un peso sensibilmente diverso dei componenti
10%
50% 2.3.1) Risulta vincente per attrattività e/o costo
90%
2.3) Ha una configurazione radicalmente diversa
Probabilità molto elevata: troppo radicale il cambiamento solitamente richiesto agli incumbent
2.3.2) Risulta competitivo 50% per attrattività e/o costo
Probabilità molto ridotta: sono gli incumbent gli innovatori “naturali”, attraverso la digital transformation Esito incerto: guerra a tutto campo fra nuovi entranti digitali e incumbent
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L’evoLuzione deL retaiL: WaLmart, amazon, zara, LvmH e Kering
per potenziare la sua offerta di prodotti freschi “entro un’ora”.
È il caso ad esempio di Walmart, la più grande impresa di distribuzione del mondo (con oltre 2 milioni di addetti), che sta faticosamente rispondendo all’attacco di Amazon con l’introduzione di una componente di eCommerce al suo interno, frutto anche dell’acquisizione di una startup. È il caso di Zara, che – non toccata sinora (a differenza ad esempio di H&M) dagli attacchi dell’eCommerce – sta comunque ristrutturandosi cautelativamente, aumentando la dimensione media dei suoi punti di vendita (attraverso la chiusura dei piccoli e l’apertura di nuove grandi superfici) e creando una continuità fra i servizi offerti nei punti di vendita stessi e online. È il caso delle grandi case di moda, a partire da LVMH e Kering, che – tenendo anche conto delle preferenze delle nuove generazioni ad acquistare online – hanno drasticamente ridotto le aperture di nuovi punti di vendita fisici e hanno viceversa potenziato quelli virtuali. È importante notare come la creazione di modelli ibridi, a prima vista la risposta più naturale per un incumbent, si scontri spesso con il rischio di un aumento dei costi. Nel caso di H&M, ad esempio, il mercato finanziario ritiene che l’affiancamento di una componente online ridurrebbe la possibile caduta delle vendite, ma peserebbe negativamente sul margine di profittabilità. Un fenomeno simile si ha per molti editori tradizionali di giornali, che hanno investito per accrescere il numero di copie vendute online senza però tagliare in misura adeguata i costi di produzione e vendita delle copie cartacee (in continuo drastico calo). Non sono solo gli incumbent ad adottare i modelli ibridi, ma talora lo fanno anche le imprese nativamente digitali. Lo sta facendo Amazon, per ora su piccola scala, aprendo ad esempio librerie fisiche concepite in modo innovativo rispetto alle tradizionali. Lo sta facendo su scala molto più ampia Alibaba, che ha speso miliardi di dollari per l’acquisizione di alcune catene tradizionali (ad esempio di prodotti elettronici) e che ha di recente stretto un accordo con uno dei principali distributori cinesi
Quando cambia La riLevanza dei componenti: i casi dei pc e deLL’auto
Per difendersi dai nuovi entranti, molti incumbent cercano di introdurre modelli ibridi, con una componente digitale che si affianca e si integra con quella più tradizionale: è il caso di Walmart, Zara, LVMH. Ma i costi sono a rischio | 12 |
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L’esempio storico più famoso (caso 2.2) è quello dei PC, ove i microprocessori e i sistemi operativi divennero sempre più importanti nella determinazione delle performance dei PC stessi e come tali furono sempre più percepiti anche dagli acquirenti finali. Nulla di particolare sarebbe successo se Ibm, che all’epoca dominava il mercato dei PC, fosse stata integrata verticalmente o se ci fosse stata un’offerta molto concorrenziale di microprocessori e sistemi operativi. Ibm si ritrovò progressivamente invece ad avere due fornitori (che aveva fatto crescere “sotto le sue ali”) quasi monopolisti, Intel e Microsoft, che per giunta mettevano i loro prodotti a disposizione anche dei suoi competitori diretti (quali Compaq). I profitti si spostarono progressivamente verso monte e a un certo momento Ibm preferì vendere l’unità di business a Lenovo. Il caso attualmente più importante è probabilmente quello dell’industria automobilistica, che vede il peso della componentistica elettronica in continuo aumento - a livello sia di costi sia di attrattività esercitata nei riguardi dei clienti finali - e che teme un ulteriore aumento di tale rilevanza nel caso di affermazione della selfdriving car. È per questo motivo che molte delle principali imprese del comparto stanno cercando di integrarsi a monte, aprendo centri di ricerca nella Silicon Valley o acquisendo startup ivi operanti. Il timore è che imprese digitali come Alphabet (che ha avuto una lunga sperimentazione della sua Google Car) o Apple o grandi componentisti come Bosch mettano a punto sistemi di guida con prestazioni superiori, obbligando le imprese automobilistiche ad acquistarli. Le case automobilistiche non sarebbero disrupted, ma una quota importante dei loro profitti e del loro valore si sposterebbe verso monte.
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tante idee, anzi troppe. È ora di innovare anche il processo di innovazione
DOCEnTE DI LEADERShIP AnD InnOVATIOn, POLITECnICO DI MILAnO
Fino a pochi anni fa generare spunti da cui sviluppare nuovi prodotti e servizi era difficile. Oggi invece, anche grazie al digitale, è facile e costa poco: le imprese ne sono sommerse, ma non sanno come gestirli. E il mercato continua a premiarne pochi. Occorre passare dall’ormai classica “innovation of solutions” alla “innovation of meaning”, spiega Roberto Verganti nel suo libro “Overcrowded”, edito dal MIT
Siamo in un mondo in piena trasformazione digitale, e abbiamo bisogno di innovazione per sfruttare le enormi opportunità che apre l’evoluzione tecnologica. È normale quindi che siamo circondati di strutture, meccanismi, strumenti e metodologie che facilitano la generazione di idee. Tante, tantissime idee. Pure troppe: il mercato non può “digerirle” tutte. Le persone iniziano a essere molto selettive rispetto a tutti i nuovi prodotti e servizi con cui vengono “bombardate”. Cercano valore. Cercano “esperienze uniche”. E d’altra parte imprese e organizzazioni sono sommerse dalle idee, e i processi innovativi che le generano non danno i ritorni sperati. Occorre insomma innovare il processo d’innovazione stesso, rovesciando i due principi su cui si regge da 15 anni, ma che oggi sono utili solo per migliorare prodotti che ci sono già. Da queste riflessioni è partito Roberto Verganti, docente di Leadership and Innovation al Politecnico di Milano, per scri| 14 |
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vere il libro “Overcrowded. Designing Meaningful Products in a World Awash with Ideas”, pubblicato da MIT Press e recentemente presentato in un convegno dell’ateneo milanese. oltre un lavoratore su 3 è un creativo La rivoluzione digitale, ha spiegato Verganti al convegno, sta cambiando le regole del gioco anche nel modo stesso di fare innovazione. Fino a 10-15 anni fa generare idee era difficile, le idee erano poche, e ancora più difficile era selezionarne una buona. Oggi invece, anche grazie alle tecnologie e agli strumenti digitali, le organizzazioni possono attivare facilmente e a basso costo meccanismi di innovazione dall’esterno (crowdsourcing, open innovation) o interni (brainstorming, design thinking). E poi il numero di creativi è fortemente aumentato. Secondo l’economista Richard Florida già 15 anni fa i creativi negli USA erano 40 milioni,
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«Se si vogliono creare cose che la gente ama, non si può partire da un problema da risolvere. Risolvere problemi richiede un approccio asettico e impersonale. Creare significato, invece, richiede di partire dai propri valori, dalla propria visione del mondo» il 30% della forza lavoro, e ora avrebbero superato la soglia del 40%. Lo scenario, insomma, è completamente diverso dall’era pre-digitale. Oggi siamo sommersi dalle idee, come dice il titolo del libro di Verganti. «Parlo con executive di grandi imprese che mi spiegano di avere un gran numero di idee “in cantiere”, ma di non saper bene cosa farne. Provano a esplorare strade nuove, ma finiscono sempre per tornare in ambiti che conoscono bene». E questa è la regola, non l’eccezione: «Le idee in un certo senso sono diventate commodity, e le organizzazioni cadono in un paradosso: più idee producono, più si perdono in mille rivoli, senza una direzione coerente e una reale evoluzione». Ma siccome l’innovazione rimane il modo migliore per creare valore, la domanda oggi è come creare innovazione di successo in un mondo pieno di innovazione. E la risposta secondo Verganti è che non si deve più puntare sulla quantità ma sul valore delle idee, sul loro significato. «L’esempio più eclatante è Apple: un’impresa che genera poche idee innovative, ma molto potenti». Le persone non sono soLo “contenitori di probLemi” Occorre in altre parole rovesciare i due principi di base del processo d’innovazione che troviamo sui manuali di management. Il primo è che più idee si generano, più si è innovativi, e non bisogna criticare le idee, perché la critica uccide l’innovazione. Il secondo è che l’innovazione viene dall’esterno (Outside In), da indicazioni e idee di utenti, clienti e outsider. «Questo approccio, che definisco “innovation of solutions”, oggi continua ad avere una sua utilità, ma solo per cercare soluzioni a problemi già emersi, risaputi, e a migliorare prodotti già esistenti - sottolinea Verganti -. Serve per continuare lungo una direzione già intrapresa, mentre per fare innovazioni epocali, come l’iPhone, Uber, Airbnb, Spotify, Ikea o Wikipedia, occorre trovare una “meaningful direction” che dia alla gente prodotti o servizi per loro pieni di un nuovo significato e valore, di cui si “innamorino”: devono essere
prodotti e servizi che la gente ama». Prodotti e servizi che nascono, spiega Verganti, da un processo di “innovation of meaning” che non punta a generare un gran numero di idee, provenienti da indicazioni di utenti e outsider, ma parte dall’idea di una sola persona – il creativo, il progettista, l’imprenditore - nata sulla base dei suoi valori e della sua visione del mercato (from the Inside Out). Dopo questa prima fase, il processo - che nel libro è descritto nei dettagli - ne prevede altre quattro (vedi box a pag. 16), in cui l’idea viene analizzata, migliorata e raffinata dall’analisi critica di un’altra persona, e poi di un circolo ristretto, e solo alla fine sottoposta a esperti di un ampio ventaglio di discipline, e ai test degli utenti. «Sono partito dal presupposto che le persone
Nest, «un termostato da amare» Un esempio eclatante di “innovation of meaning” citato da Verganti è Nest Labs, fondata nel 2010 da Tony Fadell e Matt Rogers. Fadell è partito dall’idea di fare della propria casa una “smart home” piena delle cose che lui e la sua famiglia amano, di tecnologie allo stato dell’arte, ed energeticamente efficiente. A cominciare dal termostato. Fadell pensava che i termostati fossero bruttissimi e complicati da programmare, e si è chiesto, coinvolgendo Rogers, come fare un termostato “da amare”. «Questi due non hanno fatto brainstorming: si sono criticati a vicenda. E non hanno cercato le idee all’esterno: sono partiti dalla propria visione, da se stessi». Il risultato è un oggetto addirittura di design, una semplice “ghiera” rotonda in vetro e metallo senza pulsanti e interfacce, connesso a internet e capace di auto-apprendere in pochi giorni le abitudini della famiglia, e di regolare quindi da solo il funzionamento della caldaia e la temperatura in casa: basta accenderlo o spegnerlo. «Fadell e Rogers hanno tenuto conto dell’imprevedibilità della vita quotidiana, dell’esasperazione per le complicate interfacce software di programmazione, e dell’evoluzione digitale, per inventare una proposta di valore radicalmente nuova - spiega Verganti -. Hanno capito che alla gente interessa vivere in una casa calda e confortevole, e non controllare la temperatura minuto per minuto. Hanno così venduto milioni di prodotti, e Nest Labs ha raggiunto in 4 anni un valore di 3,2 miliardi di dollari: la cifra pagata da Google nel 2014 per acquisirla».
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Le 5 fasi del processo di “innovation of meaning” Il processo di “innovation of meaning” secondo Roberto Verganti si svolge in 5 fasi. Nella prima (Envisioning) il creativo cerca un’idea, partendo dai propri valori e dalla propria visione di cosa possa “cambiare il significato” di un prodotto o di un settore. Nella seconda l’idea viene sottoposta a uno “Sparring Partner”, e nella terza a un ristretto “Radical Circle”. Qui un passaggio cruciale è la “Meaning Factory”, un workshop di 2 giorni basato su quella che Verganti
definisce “l’arte della critica”. «Quando si parla di innovazione, la parola “critica” ha un significato negativo. Per me critica significa far emergere diverse visioni e prospettive, evidenziare i punti di contrasto, e sintetizzare il tutto in una nuova e più forte visione». La quarta fase poi coinvolge gli “interpreti”, esperti di varie discipline da selezionare accuratamente e affrontare in un workshop di un giorno (Interpreter’s Lab), e solo la quinta e ultima fase riguarda i test con gli utenti.
non sono solo dei “contenitori di problemi”. Se vuoi creare cose che la gente ama, non puoi partire da un problema da risolvere. Risolvere problemi richiede un’attitudine asettica e impersonale. Creare significato invece richiede di partire dai tuoi valori, dalla tua visione del mondo. Da ciò che ami. Non puoi pensare che la gente ami una cosa che gli proponi se non la ami tu per primo. E se una cosa è piena di significato sia per chi la crea sia per chi la riceve, non può non generare valore di business». Perché la gente continua a comPrare candele: il caso Yankee candle Nel libro Verganti descrive nei dettagli molti casi concreti di “innovation by meaning”, tra cui Gucci, Feltrinelli, Prysmian, Fiat Chrysler, Mutti in Italia, e Apple, Nestlé, MSC, Braun, Gillette,
La tesi di “Overcrowded” è supportata da 10 anni di studi e progetti di innovazione strategica presso imprese in Italia (Gucci, Feltrinelli, Prysmian, FCA, Mutti) e nel mondo (Nestlé, MSC, Braun, Gillette, Unilever, Zappos)
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Unilever, Zappos, Deloitte, Philips Healthcare a livello internazionale. Qui ne sintetizziamo due: Nest Labs (vedi box a pag. 15) e Yankee Candle, un esempio di trasformazione di un settore considerato estremamente maturo e consolidato. «Le candele sono sempre servite a due scopi, quello di fare luce e quello votivo. Ora entrambi non hanno più senso, eppure in Europa il consumo di candele è molto più alto degli anni ’80 e ’90, negli anni 2000 è cresciuto del 10% all’anno, e persino negli anni della crisi economica è rimasto stabile in volume, crescendo però ulteriormente in fatturato». Perché la gente continua a comprare candele? Perché, spiega Verganti, ora hanno un significato completamente diverso: le persone le amano perché attraverso la luce colorata e la fragranza che emanano danno “calore emotivo” alla casa in funzione delle varie situazioni, creando un’atmosfera di accogliente benvenuto per gli ospiti, di relax quando si è soli, di intimità per una cena romantica, e così via. Tre quarti degli acquirenti definiscono il profumo della candela come una motivazione molto importante per l’acquisto. «Questo cambiamento nel “significato”, nel “valore” delle candele ha decretato il fallimento di Price’s Candles, che ancora vent’anni fa era il leader di mercato, ma non ha saputo adattarsi, e il successo di Yankee Candle, impresa fondata circa 40 anni fa nel Massachusetts e acquisita nel 2013 per 1,75 miliardi di dollari quando aveva una quota del 44% del mercato mondiale delle candele profumate. «Dal punto di vista degli scopi tradizionali della candela il successo di Yankee Candle non ha senso: nei suoi prodotti la cera è nascosta in spessi vasi, e la fiamma spesso non è neppure visibile. Quel che rende queste candele uniche è la loro fragranza – Yankee ne propone oltre 150 – ben evidenziata da una grande etichetta. E questo è perfettamente coerente con il nuovo “significato” della candela in questi anni».
U LT R A R E S I ST E N T E . S E N Z A I N F I LT R A Z I O N I . D IFFER E N T
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Windows 10 Pro è sinonimo di business.
intervista di
annalisa casali
Marcella atzori
Blockchain, rivoluzione in atto «Può cambiare ogni business»
Ph.D E RICERCAtRICE UnIvERSIty CoLLEgE oF LonDon
L’esperta di Blockchain governance Marcella Atzori spiega quali sono le applicazioni più promettenti della tecnologia dei registri distribuiti. «Il trend verso la decentralizzazione non si può sottovalutare: il rischio è di uscire dal mercato nel prossimo futuro. Oggi vince chi inizia a sperimentare e a orientarsi verso architetture più efficienti. E chi fa sistema»
Secondo il World Economic Forum, negli ultimi 3 anni aziende ed enti hanno investito in tecnologie Blockchain già oltre un miliardo e mezzo di dollari. Si tratta di una delle innovazioni digitali più promettenti, con un impatto rilevante su tantissimi settori verticali. Spesso si utilizzano, in alternativa al termine Blockchain, gli equivalenti registri distribuiti, distributed ledger o, ancora, trust distribuiti. Marcella Atzori, Ph.D e ricercatrice alla University College of London, è tra i maggiori esperti internazionali in materia di Blockchain governance, oltre che Blockchain Advisor per Ifin Sistemi. Con lei abbiamo cercato di capire meglio la portata della rivoluzione dei registri distribuiti applicata al mondo enterprise. Quali fattori, a livello normativo e di business, spingono verso la decentralizzazione del trust? «Lo scorso anno il Parlamento Europeo ha ap| 18 |
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provato una Risoluzione che riconosce il potenziale innovativo della tecnologia Blockchain come strumento economico e organizzativo, capace di migliorare l’efficienza, la velocità e la sicurezza dei servizi digitali. La Risoluzione incoraggia imprese e istituzioni a sperimentare applicazioni decentralizzate, dopo opportune valutazioni d’impatto. Al momento però le istituzioni si limitano più che altro a monitorare l’iniziativa privata. Diciamo che è dalla naturale curiosità e voracità dei mercati che arriva la spinta maggiore verso la decentralizzazione dei servizi. Dalle piccole start-up che finanziano un’idea attraverso il crowdfunding, fino ai colossi globali dell’informatica, oggi le imprese studiano l’applicabilità della Blockchain in molti ambiti, dal finance alla sanità, dalla tracciabilità alimentare all’e-government. Siamo ancora in fase esplorativa e conoscitiva, ma questo trend verso la de-
intervista | Blockchain rivoluzione in atto. «può camBiare ogni Business»
«La tecnologia può essere utilizzata come sistema di tracciatura e verifica di identità, proprietà, transazioni o eventi digitalizzati di qualsiasi tipo. Si può, quindi, gestire in maniera efficiente qualsiasi registro pubblico e privato» centralizzazione non si può sottovalutare, perché il rischio è altrimenti quello di diventare poco competitivi e di uscire dal mercato nel prossimo futuro». Quali sono i principali settori coinvolti nella rivoluzione Blockchain? «La Blockchain può essere utilizzata come sistema di tracciatura e verifica di identità, proprietà, transazioni o eventi digitalizzati di qualsiasi tipo. Può dirci, ad esempio, se un evento è accaduto, quando e con quali esiti e può anche confermare che i soggetti coinvolti nell’evento avevano l’autorizzazione per agire. Con la Blockchain si può, quindi, gestire in maniera efficiente qualsiasi tipo di registro pubblico e privato. I settori di applicazione sono svariati e includono l’e-government, la conservazione documentale, i servizi notarili, la gestione dei dati sanitari, le filiere e le catene di fornitura. Ma le applicazioni Blockchain possono integrare in maniera significativa anche l’Internet of Things e le interazioni M2M (machine-to-machine - ndr)». Quali sono i benefici più immediati? «A livello organizzativo, la Blockchain consente genericamente di rifondare, in tutto o in parte, la governance di molti servizi, sia pubblici che privati. I vantaggi sono notevoli e includono una maggiore efficienza, automazione e semplificazione dei flussi di lavoro su ampia scala, un abbattimento dei tempi e dei costi gestionali, una maggiore protezione dell’integrità dei dati e un coinvolgimento più equo e trasparente dei
vari soggetti interessati messi a sistema. Per ogni settore esistono applicazioni diverse e vantaggi specifici, ma in generale è molto interessante la capacità dei protocolli crittografici di rendere i dati resistenti a modifiche o allo sfruttamento arbitrario da terze parti». Ci può fare alcuni esempi? «In ambito commerciale, la Blockchain può mettere al riparo dalla raccolta, analisi e divulgazione incontrollata dei dati degli utenti, che spesso conducono ad attività di localizzazione, identificazione, profilazione e, addirittura, ingegneria sociale. In ambito industriale, è una tecnologia che ci consente ad esempio di gestire in maniera sicura e inalterabile la tracciabilità dei prodotti di un’intera catena di produzione, a partire dalle materie prime. Se poi sono applicate all’e-government, le proprietà della Blockchain permettono ai cittadini di accedere ai servizi governativi online senza rivelare la propria identità a terze parti. La privacy infatti è garantita bydesign, ovvero in modo nativo, dagli stessi protocolli crittografici. È un tipo di tutela applicabile anche alla gestione dei dati medico-sanitari, con benefici sociali notevoli». Quali sono, invece, i benefici a lungo termine? «Un’ampia diffusione di architetture decentralizzate consentirebbe la completa re-ingegnerizzazione di tutti i processi di creazione, gestione e conservazione dei dati, in ambito sia pubblico che privato. La burocrazia, la necessità di infrastrutture e il carico di lavoro della pub-
Efficienza, automazione e semplificazione dei flussi di lavoro, abbattimento dei tempi e dei costi gestionali, maggiore protezione dell’integrità dei dati. Sono questi i grandi vantaggi della Blockchain www.digital4executive.it
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intervista | Blockchain rivoluzione in atto. «può camBiare ogni Business»
Blockchain, che cos’è e a cosa serve il “trust” distribuito? Per capirlo, va ricordato che il database utilizzato in azienda tipicamente accentra le informazioni in un unico punto di accesso (e di vulnerabilità). Nel caso della Blockchain, invece, la base dati totale è costituita dall’insieme dei singoli dati cifrati e immagazzinati in modo anonimo al livello dei singoli elementi (nodi) di una rete, tutti concatenati tra loro. Ogni record nuovo è memorizzato in modo tale da includere una quota parte delle informazioni che afferiscono a tutti gli dati già immagazzinati in precedenza. La correlazione dei record tra loro rende virtualmente impossibile manometterli senza che questo sia immediatamente messo in evidenza su tutti gli altri presenti nel database. La possibilità di affidarsi a una forma di trust distribuito permette alle controparti coinvolte in un processo – come la distribuzione di un prodotto – o in un contratto – come una transazione – di utilizzare un
sistema che, automaticamente, assicura la legittimità nel far valere i propri diritti e la correttezza dello svolgimento delle operazioni/attività senza che sia necessario affidarsi a un’autorità super partes che faccia da garante in questo senso. Dalla gestione degli eventi sportivi fino alle gift card, non esiste industria che non possa trarre benefici più o meno consistenti dall’applicazione della tecnologia dei distributed ledger. Nelle assicurazioni, per esempio, è già oggi possibile procedere alla liquidazione di un danno senza che nessun perito sia coinvolto. Nell’agrifood, invece, è possibile creare automatismi che assicurano l’origine di un prodotto (si pensi all’importanza di queste applicazioni per i vini D.o.C., nei quali deve essere accertata la zona di provenienza delle uve), senza che gli operatori di un ente di certificazione debbano compiere controlli puntuali.
blica amministrazione, ad esempio, risulterebbero drasticamente semplificate e alleggerite, con notevoli risparmi di risorse economiche e di tempo. Anche in ambito aziendale molti degli attuali modelli organizzativi centralizzati e verticalizzati potrebbero trasformarsi radicalmente. Una governance algoritmica consentirebbe anche a imprese che non hanno rapporti fiduciari tra loro, o che sono addirittura concorrenti, di condividere o scambiarsi dati con reciproci vantaggi, mantenendo sempre confidenzialità e privacy, e dando vita così a modelli di business e di scambio economico del tutto nuovi, fondati sulla cooperazione». Quali sono le implicazioni a livello organizzativo? «Il mutamento profondo e sistemico dei servizi digitali ottenuto attraverso la Blockchain rappresenta una sfida notevole sul piano tecnico
«In ambito aziendale molti degli attuali modelli organizzativi centralizzati e verticalizzati potrebbero trasformarsi radicalmente. Imprese che non hanno rapporti fiduciari potrebbero condividere o scambiarsi dati»
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e normativo, che va affrontata con gradualità e che necessita di un intervallo temporale di sufficiente respiro. Bisogna considerare le esigenze di tutti i partecipanti del sistema e procedere per aggiustamenti progressivi, possibilmente a basso rischio. Oggi i mercati vivono una fase di grande fervore propositivo. Ciò non significa però che i percorsi applicativi siano sempre del tutto validi o coerenti. L’entusiasmo imprenditoriale non deve portare a confondere il fine con il mezzo. La Blockchain non è un fine in sé e non si può applicare indiscriminatamente. Piuttosto è un mezzo per avere qualcos’altro, è un driver per conquistare vantaggi che altrimenti rimarrebbero preclusi. È necessario considerare sempre i contesti pratici di utilizzo in termini tecnici, economici e sociali, e identificare con grande lucidità e altrettanto buon senso i vantaggi reali di eventuali applicazioni».
ManageM ent di
daniele lazzarin
La media impresa “inclusiva” traina l’industria italiana, deludente la grande azienda L’analisi di Mediobanca e Unioncamere su 3300 manifatture italiane (50-499 addetti, 16-355 milioni di fatturato) mostra dati di produttività, margini e vendite molto migliori delle realtà più piccole e più grandi. «Un modello virtuoso, la cui priorità non è crescere, ma migliorare la governance, e aumentare l’export verso Paesi lontani». Per esempio attraverso l’eCommerce
Non è vero che il manifatturiero italiano è in crisi, anzi è il motore della crescita della nostra economia. E al suo interno, la media impresa è il modello vincente, anche grazie ad alcuni elementi opposti rispetto al capitalismo globale. Sono alcune conclusioni - non certo scontate - del rapporto Mediobanca-Unioncamere 2016 sulle medie imprese industriali italiane, presentato da Gabriele Barbaresco, Direttore Area Studi di Mediobanca, in un convegno al Politecnico di Milano. Partendo dallo scenario mondiale, le economie occidentali sono rallentate da due problemi, il calo demografico e la crescita lentissima della produttività. «Il primo è estremamente complicato da invertire, la seconda langue da decenni», ha detto il ricercatore, mostrando eloquenti grafici sia per gli USA (dove la crescita di produttività è andata oltre il 2% annuo solo nel decennio 1940-50, e dal 1970 è sotto l’1%), sia per l’Europa e l’Italia. Secondo i dati statistici neanche la forte evoluzione tecnologica | 22 |
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in corso almeno dal 1980, trainata da informatica e internet, è riuscita a stimolare una crescita più forte della produttività. «Questa stagnazione ha fatto calare il PIL pro-capite, e si è intrecciata con la riduzione della quota di ricchezza destinata ai salari, man mano che i profitti perdono natura residuale e sono fissati ex ante. La crisi economica quindi è stata pagata soprattutto dai lavoratori». In questo scenario, molti hanno incolpato l’industria per la crisi economica in Italia. «Ma il 75% del nostro PIL è fatto di servizi: l’industria vale solo il
ManageMent | La media impresa “incLusiva” traina L’industria itaLiana, deLudente La grande azienda
e le più piccole sono sotto l’1%» (vedi grafico a pag. 24). Nel decennio 2005-2014, le medie imprese hanno aumentato il fatturato netto del 24%, il fatturato all’estero del 44%, il ROI del 49% e ridotto del 26% l’indebitamento. E incrociando le crescite del margine operativo e del fatturato, emergono nettamente come la categoria migliore, mentre le imprese più grandi hanno aumentato di poco (6%) il fatturato ma peggiorato di oltre l’80% i margini. più è alta la quota di export, migliore è il merito creditizio
15%, che sale al 25% considerando settori correlati come l’edilizia. Inoltre il manifatturiero negli ultimi 20 anni ha aumentato la produttività dell’1,1% medio annuo, più di tutti i comparti di servizi tranne ICT e Finanza. E genera più del 70% della spesa in R&S, e l’80% dell’export». Sfatato il mito del manifatturiero “pecora nera”, Barbaresco si è concentrato sulle medie imprese industriali italiane, definite nel report come le società di capitale a controllo italiano tra 50 e 499 addetti con fatturato annuo tra 16 e 355 milioni di euro. Sono circa 3300 imprese, che rappresentano il 16% sia del valore aggiunto manifatturiero italiano, sia dell’export. «I dati parlano da soli. Tra 2010 e 2014, le medie imprese hanno ottenuto una crescita annua di produttività del 3,5%. Le più grandi
Venendo all’export, dal 1996 al 2014 le medie imprese industriali che esportano sono salite dall’82% all’88% del totale, la loro quota di fatturato all’estero dal 39% al 48%, e il fatturato export da 31 a oltre 65 miliardi di euro. «Questa forte presa sui mercati esteri si riflette positivamente sullo “stato di salute” dell’azienda: abbiamo accertato una correlazione netta e molto interessante tra quota di export e merito creditizio delle medie imprese industriali». Un punto migliorabile è il mix di mercati di destinazione. Le nostre medie imprese preferiscono i più vicini, cioè l’Eurozona (65% del fatturato da export, contro il 53% del resto del manifatturiero). «Ma le opportunità migliori sono nei più lontani e rischiosi: chi esporta per esempio in Africa sub-sahariana, Russia o Cina ottiene ROI del 12-13%: dai 5 agli 8 punti in più rispetto a chi non esporta in quelle aree». Un modo per sbarcare in questi mercati riducendo il rischio, come ha evidenziato una recente ricerca dell’Osservatorio Export del Politecnico di Milano, è vendere attraverso l’eCommerce (vedi a pag 26). Secondo una survey dell’Osservatorio su 100 aziende italiane esportatrici operanti nei settori consumer, circa la metà vende all’estero su canali digitali. I principali mercati di sbocco sono Europa e USA, con predominanza dei Paesi occidentali europei (in primis la Germania). Crescono anche alcuni Paesi dell’Est Europa, tra cui Russia e Polonia, mentre resta marginale l’Export verso mercati come Sud America, Sud-Est Asiatico e Cina. Circa il 64% delle aziende che non esportano ancora online però hanno intenzione di farlo in futuro, la metà entro 3 anni. nel modello “inclusivo”, il profitto è in parte condiviso con i dipendenti Altro punto chiave è la governance: in Italia 2 aziende su 3 sono familiari. «I dati parlano chiaro: chi ha risolto il passaggio generazionale ha ROI, ROE e tasso di export più alti». Ben il 66% delle nostre www.digital4executive.it
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«Le aziende con CdA bilanciato tra famiglia e manager esterni hanno i migliori ROI, mentre i peggiori sono ai due estremi: board “tutto in famiglia”, o tutto in mano ai manager»
imprese ha manager parenti dell’imprenditore: in Spagna sono il 35%, in Francia il 26%. «Dalle nostre analisi emerge che le aziende con board bilanciato tra famiglia e manager esterni hanno i migliori ROI, mentre i peggiori sono ai due estremi: board “tutto in famiglia”, o tutto in mano ai manager». Il cuore del report è la tesi del “modello inclusivo”: anche in questi anni di crisi e affermazione del liberismo economico, le medie imprese industriali hanno continuato a condividere una parte di crescita e profitto con i dipendenti. «Nel nostro campione negli ultimi 20 anni produttività e costo del lavoro per addetto sono rimasti allineati, quindi l’aumento di produttività è stato declinato anche sulla forza lavoro, e non solo sulla remunerazione del capitale. Inoltre emerge un leggero aumento occupazionale e della quota di “colletti bianchi” (dal 30 al 36% del personale), mentre le tute blu sono diminuite». Grande impresa, in 40 anni perso il 37% del personale Barbaresco cita anche la tesi («un po’ estrema, ma interessante»), di Gianfelice Rocca (Presidente di Techint e Assolombarda, ndr), per cui il modello inclusivo emerge soprattutto nelle “medium hitech”: medie imprese in cui gran parte del personale ha livelli di qualificazione medi, ed è capace di
svolgere anche mansioni diverse da quelle abituali. La varianza dei salari è quindi minima, e lo stesso imprenditore spesso mantiene e reinveste gran parte degli utili in azienda, per cui non ha mai redditi enormemente superiori ai suoi dipendenti. A fronte dei dati confortanti delle medie imprese, Barbaresco parla apertamente di “delusione” per le più grandi. Le imprese oltre 1000 addetti nel 1971 impiegavano il 25% del totale degli addetti in Italia, nel 2011 sono scese all’11%. «In 40 anni la grande impresa ha perso il 37% della sua forza lavoro: decisamente non è un modello vincente, ma sul perché il dibattito è aperto tra gli economisti». Per Gallino la causa è l’inadeguatezza manageriale, e analogamente Pellegrino e Zingales incolpano il clientelismo (cronyism), cioè la scelta dei manager basata sulla fiducia e non sulle competenze. Per Macchiati la colpa è invece del conflitto sociale negli anni ‘70, mentre per Coltorti è soprattutto della scarsa imprenditorialità nell’impresa pubblica.
ma quale industria, sono i servizi a doversi “dare una mossa” Moltissimi spunti, quindi, che Barbaresco sintetizza in tre punti. Un primo elemento è che la manifattura rappresenta un quarto del PIL italiano, e
i problemi della manifattura italiana sono “aGli estremi” Variazione media annua dal 2010 al 2014 della produttività del lavoro (per occupato, a valore)
3,5% Tra il 2010 e il 2014 le medie imprese italiane hanno aumentato la produttività del lavoro del 3,5% all’anno. Le imprese italiane più grandi non sono andate oltre l’1,2%, mentre le più piccole si sono fermate allo 0,7%
2,0%
0,5%
Medie imprese
Imprese medio-grandi
Imprese maggiori a controllo estero
Fonte: Elaborazione su dati Area Studi Mediobanca e Istat
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Gli estremi si toccano?
{
1,2%
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Imprese maggiori a controllo italiano
0,7%
Altre imprese (stima)
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«La politica industriale può aiutare evitando interventi generalisti e top-down su interi settori: servono invece azioni “leggere” per mettere le nostre medie imprese nelle stesse condizioni dei loro concorrenti esteri» non è certo il comparto con le performance peggiori. «È il restante 75% del PIL che deve “darsi una mossa”: dai servizi industriali - vedi per esempio il potenziale inespresso della logistica e del turismo – a banche e assicurazioni, dal commercio - ancora troppo legato a modelli tradizionali - alla Pubblica Amministrazione». Non stupisce che proprio questi settori siano tra quelli dove la “trasformazione digitale” sta avendo i più forti impatti. Un secondo è che le medie imprese sono il motore della crescita manifatturiera, perché conciliano obiettivi di efficienza e redistributivi, remunerando sia gli stakeholder (lavoro in primis) sia il capitale. «È un modello ‘virtuoso’ per molti versi antitetico a quello del capitalismo globale». Ma la crescita è un fenomeno raro e non va sprecato: «La priorità non è iniettare nel sistema “dosi di dimensione”,
anche perché il modello della grande impresa è fallimentare, e non ha senso tendere a una dimensione perdente, almeno finché non si chiariscono i motivi del fallimento». Un terzo punto è che il modello media impresa è comunque migliorabile. «Per esempio esportando di più nei mercati più lontani, rischiosi ma premianti, e affrontando con obiettività il nodo della governance e del ruolo della famiglia». La politica industriale (vedi per esempio il recente Piano “Calenda” per Industria 4.0, ndr) può aiutare evitando interventi generalisti e top-down su interi settori: «Servono invece azioni “leggere” per mettere le medie imprese nelle stesse condizioni dei concorrenti esteri, e interventi mirati alle esigenze specifiche della singola realtà, esigenze assai diversificate anche entro lo stesso comparto».
Sdogati (Polimi): le 4 leve per far ripartire l’industria italiana «Dal 2008 gli USA hanno vissuto una recessione, l’Europa due. L’Italia ne ha subite 3 e ha perso un quarto della capacità produttiva industriale. L’unico modo per uscirne è agire su 4 leve: formazione, imprenditorialità, internazionalizzazione, innovazione». Così Fabio Sdogati, docente di Economia Internazionale al Politecnico di Milano, ha introdotto all’ateneo milanese il convegno dedicato al rapporto Mediobanca-Unioncamere 2016 sulle medie imprese manifatturiere. «La spesa per investimenti in Italia è scesa del 20% dal 2010, nessuno dei grandi Paesi europei ha fatto peggio. Di conseguenza siamo ultimi anche sulla produttività, che non è “buona volontà dei dipendenti”, è questione di quanto si investe per farli lavorare con i migliori strumenti». Ma la produttività è l’unica via per uscire finalmente dalla recessione, ha detto Sdogati, «e per aumentare la produttività bisogna agire sulle 4 leve citate prima». Una è la formazione: dotare i giovani di skill avanzati e valorizzarli significa formare una base di bravi manager e quadri per risollevare il Paese. I dati World Bank mostrano un evidente legame tra PIL per
persona e numero di anni di scolarizzazione. «Eppure nei 28 Paesi UE solo la Romania è peggio dell’Italia nella percentuale di dipendenti di imprese private con grado di istruzione terziario». Poi c’è l’internazionalizzazione. «Abbiamo una grande tradizione di export ma possiamo fare molto di più, c’è un mondo da industrializzare, arredare, vestire, e noi siamo capaci di fare queste cose». E non c’è solo l’export, c’è anche l’offshoring. «La delocalizzazione non è “alto tradimento”, ma uno strumento per confrontarsi col mondo, partecipando alle catene globali di produzione». Terza leva l’imprenditorialità. «Nessuno in Europa è peggio dell’Italia come tasso di imprenditori nascenti nella popolazione tra 18 e 64 anni, ma possiamo imparare anche a diventare imprenditori». Infine l’innovazione. I dati OECD mostrano nette correlazioni tra produttività e volume di ricerca pubblica. «Le imprese non fanno innovazione, la adottano. Si parla molto di politiche fiscali espansive e spesa pubblica in infrastrutture: io credo che lo Stato debba spendere prima di tutto in ricerca e innovazione da mettere a disposizione delle imprese».
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osservatorio di
daniele lazzarin
Made in Italy, il 6% dell’Export si vende via eCommerce. «È ora di andare oltre europa e usa» Cresciute del 24% in un anno le vendite di beni di consumo italiani all’estero su canali digitali: 7,5 miliardi di euro nel 2016. Più del 60% è Fashion, il 17% Food. «Sale la consapevolezza delle opportunità, non facili però da concretizzare. Enorme potenziale in Cina, sottovalutati Asia e Medio Oriente, grande incertezza con Trump in USA», sostiene l’Osservatorio Export del Politecnico di Milano
Nel 2016 il 6% dell’Export italiano di beni di consumo è stato venduto via eCommerce (l’anno scorso era il 4%), per un fatturato di 7,5 miliardi di euro, salito del 24% in 12 mesi. Il settore Fashion ha realizzato più del 60% di questo valore, seguito a distanza dal Food (17%) – che è il settore che cresce di più (32%) - e da Arredamento e Design, entrambi al 12%. Quanto al canale di distribuzione, i grandi retailer online procurano il 52% dell’Export via eCommerce, seguiti dai marketplace (34%), dai siti di vendite private (8%) e dai siti eCommerce degli stessi produttori dei beni venduti (6%). I principali mercati di sbocco sono ancora Europa (in primis la Germania) e USA, ma crescono le vendite in alcuni Paesi dell’Est Europa, tra cui Russia e Polonia, mentre resta marginale l’Export verso Sud America, Sud-Est Asiatico e Cina. Questi i principali dati del report 2017 dell’Osservatorio Export del Politecnico di Milano. | 26 |
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«Quest’anno abbiamo ampliato l’analisi dei mercati Cina e USA, e dedicato approfondimenti specifici alle regioni meno indirizzate e più promettenti per l’export italiano: Sud-Est asiatico, Europa e Medio Oriente», ha spiegato Riccardo Mangiaracina, Direttore dell’Osservatorio. Dalla ricerca emerge una forbice ancora molto ampia fra Export online diretto e indiretto. Nel primo caso l’interazione con il cliente è gestita dall’Italia attraverso siti di produttori (per esempio Campari, Diesel, Zegna), portali dei retailer online o multicanale (come Yoox, LuisaViaRoma) o marketplace “italiani”, basti pensare ad Amazon. it o eBay.it. Nel secondo caso è gestita da siti eCommerce di grandi retailer online stranieri (come Zalando, JD.com, Suning), grandi marketplace (eBay e Amazon con domini stranieri, Tmall) e siti di vendite private internazionali (ne sono un esempio venteprivee.com o VIP).
os s e r vat o rio | Ma de in i ta ly, il 6 % de l l’ e x p o rt si v e n de v ia e C o MMe r C e
Metà di chi fa export digitale lo fa da Meno di 2 anni
Fonte: Politecnico di Milano
L’Export diretto, pur cresciuto del 23% nel 2016, vale solo 2 miliardi di euro: due terzi sono vendite di Fashion, mentre Food e Arredamento/Home Design rappresentano il 10% ciascuno e l’Elettronica di consumo il 4%. Il canale principale sono i retailer nazionali (58% del fatturato) seguiti da siti propri di produttori (26%), e marketplace con dominio .it (16%). L’Export online indiretto invece genera 5,5 miliardi di fatturato: il 60% riconducibile al Fashion, il 21% al Food e il 13% all’Arredamento/Home Design. I retailer online stranieri abilitano circa metà delle transazioni. I marketplace stranieri pesano molto più dei corrispettivi italiani (40%). I siti delle vendite private internazionali rappresentano il 10%. «In uno scenario internazionale molto competitivo, con consumatori sempre più “digitali”, l’eCommerce può essere una scelta vincente per fare Export – osserva Mangiaracina -. In Italia crescono i volumi e la consapevolezza delle opportunità, non facili però da concretizzare. Occorrono preparazione, competenze, propensione al cambiamento e adeguati investimenti. Occorre studiare le caratteristiche dei Paesi target e definire il modello
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osservatori o | Mad e i n i taly, i l 6% d e l l’ e x por t si v e n de v ia e C o MMe rC e
10 consigli per esportare nel Sud-Est Asiatico L’ organizzazione economica ASEAN riunisce 10 Paesi del Sud-Est asiatico: Brunei, Cambogia, Indonesia, Laos, Malesia, Myanmar, Filippine, Singapore, Thailandia e Vietnam. È il quarto mercato digitale al mondo: 260 milioni di utenti online e acquisti eCommerce per 5,5 miliardi di dollari, che entro 10 anni (2025) cresceranno di 16 volte fino a 88 miliardi. Ecco i 10 consigli dell’Osservatorio Export per esportare in quest’area: 1) Muoversi in fretta. Forti tassi di crescita economica, alta incidenza di giovani, competizione non ancora intensa: è meglio arrivare in ASEAN da leader che da follower. 2) Usare i retailer per testare il mercato. I più noti sono Zalora (versione locale di Zalando), e Lazada (appena acquisito da Alibaba). 3) Costruire una forte identità del brand con una presenza diretta: distinguersi in un marketplace è molto più difficile.
4) Usare un magazzino in loco (con un partner locale) per abbattere i costi, soprattutto man mano che crescono i volumi. 5) Attenti alla logistica “ultimo miglio”. Alcuni mercati sono piccoli (Singapore, Thailandia) e permettono tempi di consegna simili all’Italia, altri enormi (Indonesia), con zone che richiedono anche 10 giorni. 6) Comunicare le peculiarità del Made in Italy, collegandole ai gusti del consumatore locale. 7) Coinvolgere i professionisti del vostro settore, in modo da affrontare al meglio temi come pricing, shelf-life, resi, visibilità verso il consumatore. 8) Non trascurare le modalità di pagamento tradizionali, come cash-on-delivery e transfer bancari: la carta di credito non è ancora diffusa. 9) Diffidare degli imitatori. Occorre adottare misure legali tra quelle disponibili nei diversi Paesi per proteggere il Made in Italy. 10) Rispettare la privacy. Molti paesi ASEAN hanno normative simili a quelle dei Paesi europei.
di Export digitale più indicato, agendo su 5 leve: canali commerciali, logistica, canali di marketing/ comunicazione, sistemi di pagamento, aspetti legali». L’indagine dell’Osservatorio su 100 aziende italiane esportatrici nei settori consumer rivela che circa il 50% usa già l’eCommerce per l’Export. Di queste, il 5% esporta solo online, il 30% varia tra offline e online a seconda del Paese di destinazione, il 15% usa sempre una strategia multicanale. Circa il 50% usa l’eCommerce da non più di 2 anni, un quarto da un solo anno. Il 64% delle aziende che ancora non fa Export online intende farlo in futuro, la metà entro 3 anni. Le imprese esportatrici italiane sono 210mila, ma il 45,5% esporta meno del 10% del fatturato, solo il 10% esporta almeno il 75%. L’Export è un traino per l’economia nazionale, poiché la domanda estera è molto più dinamica di quella interna. Nel 2016 il fatturato delle imprese italiane all’estero è del 45% superiore rispetto al 2009, mentre quello domestico è quasi invariato. La propensione all’Export (rapporto tra valore delle esportazioni e PIL) nel 2016 è del 43% per i beni manufatti, in linea con Francia e Spagna, ma inferiore alla Germania, maggior esportatore europeo. Dagli Emirati al SuD CorEa: opportunità “naSCoStE” Fattori congiunturali, come la diversa velocità di ripresa della domanda, e fattori strutturali, tra cui | 28 |
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la crescita del peso dei mercati emergenti extraeuropei, spingono l’Export italiano, ancora molto concentrato nei mercati maturi, a una maggior diversificazione geografica, spiega Lucia Tajoli, Responsabile scientifico dell’Osservatorio Export. «Germania e USA restano i Paesi più attrattivi, ma Emirati Arabi, Cina, Corea del Sud e Paesi ASEAN sono opportunità sempre più importanti, anche se più rischiosi». in Cina mEtà DEll’ECommErCE monDialE, in uSa l’inCognita trump Venendo in breve alle 5 regioni approfondite dall’Osservatorio, la Cina ha numeri impressionanti: 413 milioni di “web shopper”, 717 miliardi di euro di mercato eCommerce B2C (circa la metà di quello mondiale), cresciuto del 24% in un anno, e 30 miliardi di euro di import via eCommerce (+86%). «In questi 30 miliardi la quota italiana è ancora piccola, ma il consumatore cinese mostra crescente interesse per i marchi Made in Italy: è un mercato ad alto potenziale per l’Export digitale italiano, ma la scarsità di indicazioni pratiche su come accedervi e l’incertezza sui ritorni sono barriere importanti – rileva Lucio Lamberti, Senior Advisor dell’Osservatorio Export -. Esistono almeno 6 modelli diversi per esportare online in Cina: trovare il più idoneo alle proprie caratteristiche è determinante. A prescindere dal settore e dal modello scelto, però, secondo le nostre simulazioni l’investimento in Export digitale verso
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la Cina risulta profittevole nel medio periodo, ma lo sforzo di marketing ha un ruolo chiave». Quanto agli USA, il loro eCommerce B2c è il secondo al mondo: 489 miliardi di euro nel 2016 (+12%), e 192 milioni di “web shopper”. Un mercato molto attrattivo quindi, già tra i preferiti dall’export italiano, anche sul canale eCommerce. Emergono però alcuni elementi di incertezza legati più alla politica che alle prospettive dell’economia, che sono sostanzialmente buone, sottolinea Tajani. «L’amministrazione Trump ha annunciato politiche molto diverse rispetto al passato: ai fini dell’Export le più importanti sono una strategia fiscale più espansiva, una monetaria più restrittiva, la possibilità di uscite dagli accordi di libero scambio, di tasse sui beni importati, e anche di parziale chiusura a concorrenti del Made in Italy come la Cina. È impossibile capire ora se questi propositi si realizzeranno, ma non sembrano probabili sviluppi negativi per l’Export italiano». in Europa il prEsEntE, futuro a oriEntE In Europa il quadro economico presenta segnali decisi di ripresa dopo la crisi, ma con crescite sempre più variegate. L’incertezza è alta, ma ci sono buone
opportunità. Anche qui l’Osservatorio raccomanda di considerare che ogni Paese è diverso, e poi di testare il mercato attraverso un canale indiretto prima di investire in un sito eCommerce proprio, utilizzare un approccio multicanale per aumentare l’efficacia del sito, e proporre contenuti informativi familiari per il singolo mercato target, in lingua locale. Nei Paesi del Medio Oriente, che hanno avviato riforme strutturali per essere meno dipendenti dal petrolio, ci sono buone opportunità di Export digitale per il boom dell’eCommerce previsto per i prossimi anni. L’Osservatorio consiglia di puntare ai giovani, raccontare il Made in Italy puntando sulla riconoscibilità del marchio, magari tramite brand ambassador e influencer locali, e stipulare accordi con partner e distributori locali. Nel Sud-Est Asiatico il potenziale è ancora tutto da sfruttare: è il mercato digitale con il più alto tasso di crescita al mondo, e il commercio è facilitato dagli accordi di libero scambio stipulati con l’Unione Europea. Anche per quest’area, come per Medio Oriente ed Europa, l’Osservatorio dà 10 consigli, tra i quali: costruire una forte identità del brand con una presenza diretta, usare un magazzino in loco per abbattere i costi, e calibrare attentamente la “logistica dell’ultimo miglio”.
Occorre studiare i Paesi target e definire il modello di Export digitale più indicato per la singola iniziativa, agendo su 5 leve: canali commerciali, logistica, canali di marketing/ comunicazione, sistemi di pagamento, aspetti legali
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intervista di
IKEA, l’eCommerce piace agli italiani «Più vicini ai clienti e alle loro esigenze» A quattro anni dal debutto, in Italia le vendite online della società svedese sono in costante aumento e la base clienti si è ulteriormente ampliata: l’obiettivo per il 2020 è il 10% del fatturato complessivo. Trasparenza dell’offerta e omnicanalità, con la massima integrazione tra le vendite on e offline, al cuore della strategia. Ce ne parla Sabrina Lucini, Country eCommerce Manager di IKEA Italia
Negli ultimi anni il reparto dell’home furnishing è stato molto dinamico e ha visto l’ingresso di numerosi player online: dai grandi retailer come Amazon ai portali di arredamento come LOVETheSIGN molto apprezzati dalla community dei “design addicted”, i patiti dell’arredamento per la casa. «Ma questo, anziché penalizzarci, ci ha favorito, perché insieme abbiamo fatto crescere un mercato che prima era piccolo, stimolando gli italiani a comprare anche online mobili e accessori della casa e ha rafforzato la nostra posizione competitiva», esordisce Sabrina Lucini, Country eCommerce Manager di IKEA. L’Italia per una volta non è fanalino di coda, anzi «siamo stati paese pilota per l’eCommerce IKEA nel mondo, 4 anni fa. Ci abbiamo creduto tantissimo, io per prima, e i risultati ci hanno dato ragione. Nell’ultimo anno fiscale terminato ad agosto 2016, infatti, l’eCommerce ha fatto incassare a IKEA Italia 50 milioni di euro, ovvero circa il 3% del fatturato della country (1,7 miliardi, quello a consuntivo dello scorso anno | 30 |
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annalisa casali
intervista | IKEA, l’ECommErCE pIACE AglI ItAlIAnI
sabrina Lucini CoUntry ECommErCE mAnAgEr IKEA ItAlIA
- ndr), in linea con gli obiettivi dichiarati nel 2013, quando è stato avviato il progetto, e superiore alla media del mercato. E l’obiettivo è di arrivare a ricavare dalle vendite online il 10% del turnover entro il 2020». l’eCommerce ha permesso all’azienda svedese di essere più vicina (la prossimità è uno dei punti focali di questa strategia) al luogo in cui vive o lavora il cliente. E i benefici sono evidenti: «la nostra base clienti si è allargata. grazie all’eCommerce nuove persone si avvicinano ogni giorno ai prodotti IKEA. online gli acquisti sono molto vari e vanno dall’arredamento di più stanze della casa a una selezione di complementi di arredo a volte anche solo per completare l’acquisto appena fatto in negozio. Ci sono inoltre anche molti clienti business, come titolari di ristoranti, uffici e piccole attività, che comprano online da noi proprio per risparmiare tempo». L’arredatore? È in videoconferenza nell’ultimo anno sono stati introdotti alcuni servizi web aggiuntivi per essere ancora più rilevanti rispetto alle esigenze dei clienti. per le cucine è disponibile un servizio specifico: è possibile prenotare un appuntamento online e compilare una scheda con dimensioni e stile della cucina. Un consulente esperto realizza il progetto e videochiama il cliente l’Italia è stata paese pilota per l’eCommerce IKEA nel mondo, 4 anni fa. oggi vende online 8mila articoli
all’orario concordato per illustrarglielo in dettaglio e perfezionarlo insieme. Si tratta di un servizio molto apprezzato soprattutto da chi abita lontano da un negozio IKEA. Una volta visionato il progetto, cliente potrà decidere di pensarci su oppure cliccare un link e finalizzare direttamente online l’acquisto. Sono oltre 8mila gli articoli venduti sul web, praticamente tutte le referenze presenti in negozio esclusi i beni deperibili, come le piante ornamentali, e quelli fragili come alcuni specchi sottili. l’eCommerce IKEA si fonda su alcuni principi base, spiega lucini. la trasparenza dell’offerta, anzitutto. Il principio guida del “design democratico”, della casa bella per tutte le tasche viene rispettato. la scelta del colosso svedese dell’arredamento modulare è di trattare allo stesso modo il cliente che visita il punto vendita e quello che opera sul web. «Alcuni retailer praticano prezzi diversi per gli stessi prodotti a seconda che siano venduti in negozio oppure online. IKEA, invece, ha la strategia del prezzo basso ogni giorno, uguale in tutti canali. non ci interessano le operazioni “mordi e fuggi” ma vogliamo che il cliente possa scegliere di comprare nel canale che gli è più comodo, alle stesse condizioni». ogni cLiente È diverso Altro elemento focale è l’omnicanalità, per cui si lavora alla massima integrazione tra le vendite on e offline perché, spiega lucini, «i clienti, e le persone in generale, sono sempre meno aggregabili in cluster. Ci troviamo davanti a tanti individui con gusti, esigenze e sogni diversi e ognuno di loro deve poter scegliere di comprare come, quando e dove vuole. Ci sono persone che hanno problemi a muoversi, altre che vivono lontano dai nostri store. Ancora, www.digital4executive.it
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intervista | IKEA, L’ECoMMERCE pIACE AgLI ItALIAnI
«Sono già attivi 33 punti di ritiro su tutto il territorio nazionale che ci hanno permesso di portare i prodotti ancora più vicini alla larga maggioranza degli italiani. Stiamo anche testando un servizio di click&collect in negozio» commercianti che devono stare 12 ore al giorno a presidiare il loro negozio, quindi hanno forti vincoli di orario, ma anche semplicemente persone che preferiscono comprare online. Le esigenze dei clienti sono diverse e noi vogliamo esaudirle al meglio». Nuovi format ibridi fisico-oNliNe E se i maxi store non sono replicabili in tutte e 20 le Regioni dello Stivale, la ricerca di una prossimità “fisica” con il luogo in cui vive o lavora il cliente ha portato IKEA Italia ad aprire lo scorso anno due punti di ordine e ritiro, a Roma e Cagliari (primo baluardo IKEA nell’Isola dei Quattro Mori). Si tratta di un nuovo format nel quale è possibile acquistare subito una selezione di circa 250 articoli, ordinare e ritirare successivamente tutti gli altri presenti a catalogo all’interno di uno showroom di circa 3mila metri quadri (1/10 rispetto alla superficie media dei punti vendita della casa svedese). Le dimensioni di questi magazzini sono decisamente più contenute rispetto ai tradizionali maxi shop IKEA, ma offrono la comodità di poter visitare alcuni ambienti-tipo e
concludere rapidamente l’acquisto. «Questa formula piace sia all’utenza privata che a quella business. I clienti possono vedere prodotti e soluzioni e anche progettare i propri ambienti di casa con l’aiuto di un venditore esperto, magari gustando un buon caffè svedese. Stiamo anche testando un servizio di click&collect, che prevede la prenotazione online e il ritiro veloce dell’ordine in negozio. Inoltre, sono già attivi 33 punti di ritiro su tutto il territorio nazionale, da Bolzano a Canicattì, che ci hanno permesso di portare i prodotti ancora più vicini alla larga maggioranza degli italiani. Vogliamo essere ogni giorno più accessibili, per questo ascoltiamo le richieste delle persone e poi attuiamo nuove soluzioni». All’insegna dell’omnicanalità c’è anche lo sviluppo del canale Mobile, che per Lucini è particolarmente apprezzato dai clienti, grazie alle funzionalità informative ma anche di vendita. Smartphone e tablet permettono di ordinare o acquistare ovunque. «Abbiamo un’App e una versione mobile del sito che riceve ogni giorno un numero elevato di visite e stiamo lavorando per ottenere una migliore esperienza d’acquisto anche sui device».
Conoscere e ascoltare i clienti per essere sempre in sintonia con desideri ed esigenze Avendo a che fare quotidianamente con decine di migliaia di clienti, non è facile essere sempre in sintonia con i loro desideri ed esigenze. «Ci assicuriamo un feedback costante dal cliente in diversi modi – spiega Sabrina Lucini, eCommerce Manager di IKEA –. Tutti gli anni conduciamo ricerche di mercato standardizzate a livello globale, condotte da società esterne. Si tratta di interviste telefoniche o di questionari sottoposti ai visitatori del negozio da operatori dotati di tablet. A queste aggiungiamo l’analisi costante dei comportamenti d’acquisto dei 6 milioni di titolari di una carta IKEA Family che hanno autorizzato il trattamento dei dati. L’obiettivo è di utilizzare al meglio questo enorme database profilato per sviluppare offerte sempre più mirate, che tengano conto degli interessi dei nostri clienti e degli acquisti più recenti». IKEA ha un’attività di customer | 32 |
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relation e loyalty marketing davvero molto efficace, che raccoglie gli input provenienti da tutti i punti di contatto come e-mail, chat e social media. «Questi rappresentano non strumenti di comunicazione, che ci servono per condividere e dare evidenza alle iniziative in atto, come nuovi lanci, eventi e promozioni, ma anche e soprattutto canali di dialogo con le persone, attraverso cui cogliere segnali e messaggi importanti. Personalmente, ogni mese leggo circa un centinaio di chat dei clienti e ogni persona nel mio team (8 persone in tutto – ndr) fa altrettanto. Credo sia davvero importante creare questa connessione razionale ed emotiva coi clienti. E sulla base di richieste e dei suggerimenti più frequenti andiamo a migliorare la nostra offerta sia in termini di comunicazione, aggiornando la sezione FAQ del sito web che di offerta di nuovi servizi».
digital transformation - marketing
di
giuliano noci
professore orDInArIo DI MArkeTIng poLITecnIco DI MILAno
pubblicità, è finito il tempo dell’integralismo digitale Molte previsioni sul Marketing di pochi anni fa non si sono realizzate: la pubblicità televisiva non è affatto morta, e ci si è resi conto che lavorare in modo iper personalizzato non sempre ripaga. Oggi tradizione e innovazione convivono e per essere davvero distintivi serve focalizzarsi su creatività, capacità di raccolta e utilizzo dei dati, e assetti organizzativi coerenti
Da più di 15 anni ormai mi occupo di analizzare e studiare i cambiamenti indotti dal cosiddetto mondo digitale nel mercato della pubblicità. Lungo tutto questo periodo abbiamo registrato asserti e proclami, più o meno conclusivi, frutto di presunte certezze del momento; ad esempio, credo sia capitato a tutti voi sentire da autorevoli esponenti della comunità del marketing o di leggere che la pubblicità televisiva avrebbe subito un fenomeno di rilevante implosione, oppure che finalmente si sarebbe potuto fare comunicazione assolutamente personalizzata - diretta e mirata al singolo individuo - o ancora che il digitale sarebbe stato alla portata di tutte le imprese e avrebbe aperto opportunità di business a molteplici nuovi soggetti/editori: la cosiddetta democrazia diretta della rete. La progressiva diffusione di Internet, infatti, l’affermarsi progressivo dei device digitali - smartphone in primis - e gli stessi cambiamenti delle esperienze mediali degli individui - sintetiz| 34 |
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zabili nelle cosiddette 4M (Mobile, Multichannel, Multitasking, Multi-screen) - non hanno fin qui, nei fatti, confermato quelle certezze che sembravano dar corpo alle consapevolezze di cui sopra. La TV non è morta: non solo perché si è evoluta profondamente (da mezzo di trasmissione lineare a oggetto in grado ormai di lavorare sia in logica push che pull sul fronte dei contenuti nonché della personalizzazione della proposta di contenuti) ma anche perché rappresenta ancora oggi lo strumento migliore e più efficace se si voglia lavorare in funzione di un obiettivo di riconoscibilità della marca. Allo stesso modo, ci si è resi conto che lavorare in modo iper personalizzato (con segmenti di piccolissime dimensioni fino a collassare con il singolo individuo) non sempre ripaga; la fama aggiunge valore a un brand e per conquistarla è ancora oggi necessario/opportuno veicolare una comunicazione capace di catturare la pubblica immaginazione e, per questo motivo, è importante lavorare
digital transformation - marketing | pubblicità, è finito il tempo dell’integralismo digitale
La distinzione tra media tradizionali (TV) e canali digitali viene a cadere. Esiste nei fatti un unico spazio in cui convivono tradizione, cioè la pubblicità in logica push, e innovazione, ovvero la comunicazione che tiene conto del contesto
in una logica di broadcasting. Non si è d’altro canto rivelata tale proprio la cosiddetta democrazia della rete: ad oggi, Google e Facebook rappresentano un duopolio che raccoglie circa il 70% degli investimenti nella comunicazione digitale effettuati dalle imprese, determinando nei fatti condizioni di mercato non sempre trasparente. Questa considerazione ci porta a dire che fare comunicazione pubblicitaria oggi richiede la gestione integrata di tre dimensioni/leve: arte e scienza, su cui ci eravamo concentrati nel periodo pre-Internet e che abbiamo quasi dimenticato in questi anni; tecnologia - che invece negli ultimi anni sembrava essere obiettivo principe e assolutizzante qualsiasi scelta di comunicazione (il canale prima di tutto!). comunicare in logica display o contestuale: obiettivi diversi
- attraverso la quale dobbiamo re-interpretare, in una prospettiva moderna, il modo di fare pubblicità oggi. In termini concreti, la possibilità di essere rilevanti richiede di costruire un’architettura di comunicazione integrata in cui la distinzione tra media tradizionali (TV) e canali digitali viene a cadere. Non esiste infatti alcuna differenza sostanziale tra comunicazione veicolata tramite smart tv (ormai addressable) e banner veicolati via web/ mobile app; la vera differenza si ha tra l’attuazione di un programma di comunicazione in logica display e contestuale. Nel primo caso, l’obiettivo è contribuire alla brand equity e quindi alla costruzione di legami emotivamente orientati con la customer base; un risultato che può essere ottenuto - tenendo conto delle caratterizzazioni specifiche dei differenti mezzi - attraverso la (smart) tv e/o i media digitali. Questa prospettiva comunicativa va a lavorare,
Per meglio comprendere questa affermazione, dobbiamo cercare di mettere in fila alcuni aspetti che appaiono ora consolidati. Non mancano schermi e impressions attraverso i quali vengono veicolati messaggi pubblicitari. Vi è invece una carenza di connessioni di valore tra marca e individui e questa è la chiave - assolutamente tradizionale
La TV si è evoluta profondamente e rappresenta ancora oggi lo strumento migliore e più efficace quando l’obiettivo è la riconoscibilità della marca
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digital transformation - marketing | pubblicità, è finito il tempo dell’integralismo digitale
Il digitale non solo non toglie rilievo all’estro creativo tipico delle attività di comunicazione tradizionali, ma per certi versi lo rafforza. Sono spesso necessari sviluppi creativi differenti, ma consistenti rispetto all’obiettivo del piano
in altre parole, sui meccanismi di attenzione e memorizzazione selettiva che inducono un individuo a considerare una specifica marca nel consideration set in fase di acquisto. Nel secondo caso, l’assunzione di fondo è che la comunicazione sia un’ambient activity, che deve tenere conto dello specifico contesto in cui l’individuo si trova, delle azioni che compie e della sua (geo) localizzazione nella prospettiva di ingaggiare l’individuo e quindi indurlo ad orientarsi verso l’acquisto (o spostarsi verso fasi più avanti del funnel di marketing). creatività, dati, organizzazione: la ricetta per fare pubblicità oggi In questa prospettiva, esiste nei fatti un unico spazio di comunicazione in cui convivono tradizione (comunicazione in logica push, diremmo pubblicità) e innovazione (comunicazione contestuale) e la cui progettazione richiede la contemporanea presenza di tre determinanti: 1) creatività: come abbiamo visto infatti il digitale non solo non toglie rilievo all’estro creativo tipico delle attività di comunicazione tradizionali ma per certi versi lo rafforza. La grande frammentazione comunicativa e la possibilità per gli individui di accedere ai contenuti in logica multiscreen e alla bisogna rendono ancora più rilevante la capacità di ingaggio da parte di una marca/impresa. Ovviamente molto diverso è sviluppare la creatività oggi: non esiste più una sola creatività dato un obiettivo/brief di comunicazione; sono spesso necessari sviluppi creativi differenti (ma consistenti rispetto all’obiettivo del piano) in ragione della necessità di tenere in conto delle specificità dei touchpoint e dei contesti di vita attraverso i quali si raggiunge la target audience deliberata; 2) capacità di raccolta e utilizzo dei dati: se è infatti vero che i dati non hanno potere di agire sull’immaginazione degli individui (e quindi di creare legami emotivi) è altrettanto importante considerare che giocano un’importanza fondamentale nel momento in cui si gioca la partita della comunicazione come ambient activity. La rilevanza dei dati è, in particolare, diretta conseguenza | 36 |
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della necessità di acquisire rilevanza rispetto alla specifica contingenza in cui si trova l’individuo; una rilevanza che può essere conquistata solo conoscendo comportamenti di acquisto, interessi e decisioni di un individuo e, in questo senso, è il frutto di una significativa capacità di integrazione di silos informativi (differenti componenti del data warehouse aziendale, social network) da parte dell’impresa. 3) assetti organizzativi coerenti con i requisiti di una piattaforma comunicativa efficace. A questo proposito si guardi agli elementi chiave della progettazione organizzativa in ambito marketing. Occorre, in primis, essere consapevoli del fatto che non ha più alcun senso discriminare nell’organigramma aziendale tra unità di comunicazione tradizionale e quella digitale proprio in virtù dell’unicità percepita dal mercato con riferimento allo spazio di interazione tra individuo e impresa/marca. Appare sempre meno sostenibile la tendenza verso la frammentazione dei meccanismi di accesso ai servizi di comunicazione: all’aumentare del numero di agenzie/soggetti con cui si interagisce per la progettazione/implementazione di un piano di comunicazione, cresce il rischio di veicolare al mercato messaggi/comunicazioni incoerenti. È infine rilevante - e scontato alla luce di quanto sopra evidenziato - che si innestino nell’organizzazione competenze di data intelligence. un posizionamento distintivo non può prescindere dal contesto Abbiamo allora sbagliato tutto in questi quindici anni? No; abbiamo però vissuto lo sconquasso provocato da Internet con un eccesso di integralismo digitale. Ci siamo in parte dimenticati che la possibilità per un’impresa di creare valore economico è ancora frequentemente connessa con la sua capacità di affermare un posizionamento distintivo sul mercato (ce lo insegna Apple) e, in ragione di questo obiettivo, la marca deve ancora oggi diventare elemento/humus del contesto culturale in cui gli individui sono immersi.
Il punto di riferimento
per l’aggiornamento Executive sull’Innovazione Digitale Gli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano sono una fonte unica di informazioni, dati e conoscenza sui temi chiave dell’Innovazione Digitale. Attraverso una piattaforma multimediale e interattiva, WWW.OSSERVATORI.NET, è possibile accedere al know-how e agli eventi sui temi chiave dell’Innovazione Digitale per essere costantemente aggiornati in qualsiasi luogo e con qualsiasi dispositivo. Gli Osservatori elaborano strategie e modelli per molteplici ambiti B2c, B2b e PA: finance, customer experience, export, gioco online, risorse umane, sanità, beni e attività culturali, retail, turismo, media, banking, agrifood, manufacturing, supply chain finance, ...
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digital transformation - marketing di
AnnAlisA CAsAli
Il CMO di MerCedes-Benz italia: «il nuovo marketing? digitale, one-to-one e real time» Analytics, automazione, programmatic, configuratori online e social media: il brand utilizza strumenti innovativi per creare engagement attraverso un dialogo personalizzato con i clienti. Perché oggi non vince chi è più creativo, ma chi sa leggere meglio i dati. Lo spiegano Cesare Salvini e Olimpia Schiavone, rispettivamente Marketing Director e Digital and Social Media Manager di Mercedes-Benz Italia
Come cambia, con l’aiuto delle tecnologie digitali, il rapporto con clienti e prospect di un marchio d’auto di prestigio come Mercedes-Benz? Lo abbiamo chiesto a Cesare Salvini, Marketing Director di MercedesBenz Italia. Per il brand, che vanta una storia quasi secolare (la casa è stata, infatti, fondata nel 1927) di affidabilità teutonica, sicurezza, prestazioni al top e design all’avanguardia, lo storytelling non è certo un problema. Diverso è, invece, l’engagement. La digital transformation del marketing di Mercedes è un processo che tende a far collimare fisico e digitale in un’esperienza fluida di comunicazione, coinvolgimento, ingaggio e lead nurturing. «La trasformazione del cliente in un cliente digitale fa sì che non si possa più parlare di target, come avveniva nella tradizione del marketing, ma di singoli individui ben identificati nei loro hobby, nelle loro abitudini e nelle loro frequentazioni – spiega Salvini –. Individui sempre più connessi e social, più esigenti e protagonisti, che si aspettano di essere più coinvolti nell’ambito di | 38 |
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un processo di comunicazione e promozione personalizzato e individuale, di vivere un’esperienza diretta, non un processo d’acquisto, all’interno dei nostri showroom, oppure indiretta, attraverso i social». Ma per riuscire a interagire con il cliente in questo modo nuovo occorre ripensare completamente il customer journey. «In passato il cliente Mercedes-Benz tipicamente guardava i nostri spot in TV, leggeva una o più riviste di settore, andava 4 o 5 volte in concessionario e poi si decideva ad acquistare una nostra automobile. Oggi, invece, il digitale non è più un canale alternativo ma permea tutte le nostre strategie di comunicazione. Il cliente va intercettato in momenti completamente diversi e con modalità diverse, attraverso messaggi estremamente personalizzati. Tutto questo richiede un cambiamento drastico per chi fa comunicazione. Un esempio su tutti? Il sito di e-commerce che abbiamo creato per vendere online la Smart. Impensabile fino a due anni fa che qualcuno ordinasse un bene complesso come un’automobile su
digital transformation - marketing | Il CMO dI MerCedes-Benz: «Il nuOvO MarketIng? dIgItale, One-tO-One e real tIMe»
«La marketing automation presidia l’area grigia non coperta dal CRM e neppure dall’operato dell’agenzia media. Si lavora quotidianamente all’analisi e al monitoraggio dei risultati ottenuti, in una logica di learning-by-doing»
un sito web». E l’Italia ha fatto da apripista in questo progetto dal forte sapore “programmatic”. Sul sito www.smartforstore.it è infatti possibile scegliere, attraverso un configuratore online, tutte le caratteristiche dell’auto e seguirne le varie fasi di acquisto e finanziamento, fino alla consegna della vettura direttamente a casa. La disponibilità di un personal shopper virtuale, accanto all’automobile, aiuta il visitatore a scoprirne tutte le funzionalità principali con un’interazione audio-video in tempo reale. «Il configuratore online, in questo momento per noi è il touch point più caldo, perché chi lo usa è già pronto per recarsi dal concessionario e sa già bene cosa vuole, ma stiamo esplorando meglio anche l’universo dei social, delle community online degli appassionati delle quattro ruote, che rappresentano comunque per noi un interlocutore già in qualche misura profilato».
tidianamente all’analisi e al monitoraggio dei risultati ottenuti, in una logica di learning-by-doing». È un progetto il cui approdo è, quindi, ancora da definire, perché totalmente data driven. Si punta a conoscere meglio il cliente o il prospect, basandosi sul suo stile di vita, le sue abitudini, i suoi hobby, le sue frequentazioni. «Avere un dialogo one-to-one con i potenziali clienti è impossibile in maniera strutturata se non attraverso queste tecnologie di analisi e automazione, che scovano il prospect attraverso le sue interazioni con il mondo Mercedes-Benz, siano queste un like su Facebook o una visita nei nostri showroom, e poi lo raggiungono con messaggi e comunicazioni ad hoc nel momento in cui appare più ricettivo».
l’analIsI deI datI è quotIdIana, grazIe alla marketIng automatIon
Il prodotto rimane sempre al centro di qualsiasi strategia marketing, soprattutto considerando che, nei prossimi anni, l’automobile diventerà CASE (Connected, Authonomous, Shared ed Electric). L’auto connessa prevede un contatto continuo con il cliente e richiede un presidio costante di questo nuovo canale di comunicazione, che si affianca a quelli più tradizionali e a quelli digitali. I touch point sono così tanti che sarebbe impossibile fare un lavoro specifico su ciascun cliente. «Gli analytics ci vengono incontro e permettono di implementare un approccio di behavioral targeting (la cosiddetta pubblicità comportamentale – ndr) che, attraverso l’analisi dei comportamenti e delle consuetudini del cliente o del prospect, permettono di creare percorsi di customer journey non più standardizzati ma personalizzati. Il tutto, poi, è condito con una buona dose di storytelling, che mira a incuriosire, far scoprire la nostra offerta e portare il cliente a entrare nel nostro showroom. Lì, poi, sarà il personale di vendita a finalizzare il processo d’acquisto. I dati che raccogliamo sono sottoposti a ulteriori analisi e permettono di fare business sui servizi post vendita, per cui la logica dell’engagement si riflette positivamente anche sul fatturato». Il funnel delle vendite, in un progetto di questo tipo, va alimentato in continuazione.
«La modernità ieri si giocava tra chi è grande e chi è piccolo mentre ora tra chi è più lento e più veloce. Prima vinceva la creatività degli spot, oggi vince chi è in grado di dominare i numeri che vengono dalla creatività», commenta il manager, che spiega come anche attività che in passato richiedevano un marketing plan spalmato su mesi o addirittura anni debbano, invece, essere completamente automatizzate perché «le logiche di push e pull, inbound e outbound sono oramai un po’ obsolete. Per il cliente serve l’engagement». Ecco che, come spiega Olimpia Schiavone, Digital e Social Media Manager di Mercedes-Benz Italia, «bisogna intercettare il cliente nel momento giusto, indipendentemente da dove si trova, e ingaggiarlo con messaggi e operazioni ad hoc, contingenti, in tempo reale». A questo scopo, lo scorso anno è stato sviluppato con l’agenzia di comunicazione H2H un progetto cloud di marketing automation basato su Oracle Eloqua. «L’iniziativa – sottolinea Salvini –, si inserisce tra i due momenti della customer experience e dello storytelling. La marketing automation di fatto va a presidiare l’area grigia non coperta dal CRM utilizzato internamente ma neppure dall’operato dell’agenzia media. Partito lo scorso ottobre, si lavora quo-
Il prodotto al centro delle strategIe dI engagement
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intervista di
domenico aliperto
giorgio santambrogio
VéGé pronta al proximity marketing «Ma solo se porta vero valore al cliente»
AmmInIStrAtOre DeLeGAtO GrUPPO VéGé
L’insegna della grande distribuzione italiana sperimenta per prima l’uso dei beacon per l’invio di notifiche push sul cellulare come nuova modalità di interazione all’interno dei punti vendita. Il progetto rientra in un più ampio piano mirato all’analisi dei dati. Ce ne parla l’Amministratore Delegato Giorgio Santambrogio
Si fa presto a dire servizi a valore aggiunto quando si parla di proximity marketing e geofencing. Siamo sicuri che sia davvero valore aggiunto anche per i consumatori? O si rischia di infastidirli usando in maniera impropria gli strumenti di promozione abilitati da mobile e digitale? Giorgio Santambrogio, Amministratore Delegato del Gruppo VéGé, sta cercando di capirlo, trovando insieme ai marchi fornitori dell’insegna il giusto equilibrio per non trasformare le notifiche push inviate via beacon in potenziali elementi di disturbo per l’esperienza di acquisto dei propri clienti. La sperimentazione avviata nel 2015 – e pronta a entrare ufficialmente nei listini del piano promozionale 2018 – è andata quindi per gradi verificando di volta in volta l’accoglienza da parte dei destinatari e puntellando un percorso che vede VéGé come pioniere italiano di questo approccio. Un percorso reso ancora più complesso dalla natura della catena, che è una cooperativa formata | 40 |
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da oltre 2.800 punti vendita (supermercati, ipermercati, superette, discount e specializzati) che fanno capo a 32 imprese diverse. Con una crescita del +14,3% il fatturato del Gruppo VéGé è passato dai 2.900 milioni di euro del 2014 ai 3.313 milioni di euro del 2015, mentre grazie ad alcuni nuovi ingressi nel 2016 ha ottenuto ricavi per oltre cinque miliardi, con una quota di mercato del 3,4%. Come si è evoluta la strategia del Gruppo per l’innovazione digitale in punto vendita? Abbiamo cominciato dieci anni fa: ci siamo avvicinati allo studio del comportamento dei clienti all’interno del punto vendita osservando la customer journey attraverso la basket analysis e approfondendola con il paniere d’acquisto che risultava dalle carte fedeltà. Abbiamo poi unito il database comportamentale alle caratteristiche geografiche dei visitatori, che raccoglievamo già dal 2001 per ottenere KPI sulle performance delle singole
intervista | Végé pronta al proximity marketing «ma solo se porta Vero Valore al cliente»
sezioni. Tutte queste attività sono servite negli anni a organizzare iniziative promozionali personalizzate, ex ante o ex post rispetto alla presenza in negozio. Nel 2015, per la prima volta, abbiamo provato a interagire con il cliente direttamente nel punto vendita, facendo partire un pilota a Crevalcore (BO). È stato inserito un beacon all’ingresso che, oltre a dare il benvenuto, offriva la possibilità di ricevere via Bluetooth, sugli smartphone dove fosse installata la nostra app ufficiale, un coupon per i banchi gastronomia e ortofrutta. Il progetto ha avuto successo. Non tanto per aver generato un incremento sensibile delle vendite – un coupon non può essere sufficiente a far aumentare il fatturato – ma perché è stato apprezzato: una sorta di captatio benevolentiae. Dopodiché siamo passati a un mini roll out, testando il sistema su circa 300 punti vendita, con tre beacon nei centri più piccoli e cinque in quelli più grandi. Vi siete mossi con grande prudenza. Come mai? Siamo ben consapevoli che il consumatore deve ancora digerire l’idea che mentre fa la spesa possa essere contattato dall’insegna. Dopo aver testato i messaggi di benvenuto, permettendo ai consumatori di certificare l’autenticità delle proposte, siamo potuti passare alla prova su alcune categorie di prodotti dei partner industriali. Il nostro obiettivo è stato infatti fin dall’inizio riuscire a far “parlare” i prodotti in corsia: Coca-Cola per esempio ha apprezzato molto il progetto, perché ha permesso di comunicare le caratteristiche della nuova Coca-Cola Life senza ricorrere a promozioni. Il passo successivo sarà il taglio del prezzo. Studiando la questione sia sul piano tecnologico sia su quello di marketing identificheremo categorie esclusive che trasmetteranno coupon digitali sugli smartphone dei clienti, che potranno essere riscattati attivando gli sconti alla cassa tramite la loyalty card. A settembre, lo proporremo ai partner industriali nel piano promozionale per il 2018.
dobbiamo comunque dimenticare l’importanza della comunicazione tradizionale, fisica. Non tutti i clienti sono dei tecnologi, dunque spieghiamo il meccanismo con locandine e affissioni all’interno dei negozi. In quanto pionieri, abbiamo anche la responsabilità di educare il mercato. E i fornitori? Hanno bisogno di essere educati anche loro? Stiamo facendo provare un’esperienza simile a tutti i fornitori che vengono a trovarci in sede a Milano per le normali attività di negoziazione. Quando si avvicinano, nel raggio di 2 km, a via Lomellina, ricevono attraverso la nostra mobile app B2B un messaggio in cui vengono fornite loro le indicazioni per raggiungerci tramite Google Maps, insieme a un coupon che può essere utilizzato per pagare la sosta in un parcheggio nelle vicinanze. La nostra convinzione è che il geofencing funziona solo se il destinatario del messaggio riceve valore reale oltre a una mera comunicazione. Concludo dicendo che la sede, che ospita anche il Museo VéGé (fondata nel 1959, è la prima insegna della distribuzione moderna italiana, ndr), è letteralmente infarcita di beacon. Come viene gestita questa implementazione sul piano dell’IT aziendale? L’iniziativa si inserisce in un più ampio piano Big Data partito l’anno scorso, attraverso il quale intendiamo convogliare in un unico centro, in Cloud, qualsiasi informazione afferente ai punti vendita. Anche qui, rispetto all’integrazione dei dati generati dai beacon, stiamo procedendo gradualmente: partiamo con dieci delle imprese che hanno aderito al progetto creando un data lake che diverrà il catalizzatore da cui scaturiranno le analisi delle performance.
VéGé sta testando il servizio di invio di messaggi sul cellulare in circa 300 punti vendita tramite beacon
Qual è la sua personale valutazione, come sta rispondendo il mercato? I clienti hanno reagito bene, anche perché ormai lo smartphone è più di un’estensione corporea, è quasi il nostro sesto senso. Ed è ancora più vero in ambito retail, visto che sul display ormai abbiamo tutto ciò che riguarda gli acquisti, dalle indicazioni per arrivare al negozio alla lista della spesa. Siamo ancora piuttosto lontani dal modello di Amazon Go, ma possiamo dire che il cellulare si sta trasformando in una sorta di memoria del processo di shopping, e questo è molto intrigante. Non
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reportage
retail italiano: tutte le sfide dell’omnicanalità, tra consegne in un’ora e resi
Valentina Pontiggia OSSERVATORI DIGITAL INNOVATION POLITECNICO DI MILANO
Solo il 35% dei Top Retailer in Italia ha una strategia digitale in corso, centrata soprattutto sui processi interni (back-end), ma intanto si diffondono anche progetti avanzati di Open Innovation, mentre marketing online, user experience e data analytics si impongono come le aree più “calde”. Sono alcuni dei temi emersi in un workshop con la partecipazione di Valentina Pontiggia, Direttore Osservatorio Innovazione Digitale nel Retail del Politecnico di Milano
Il Retail è certamente uno degli ambiti in cui la digitalizzazione sta incidendo più profondamente. Per restare competitivi occorre sincronizzare perfettamente canali fisici tradizionali e canali digitali - sia sul front-end verso i clienti, sia nel back-end dei processi interni e di supply chain – ma realizzare questa sincronizzazione (Omnicanalità) non è affatto facile. Da una parte i consumatori hanno esigenze sempre più sofisticate e difficili da prevedere; dall’altra la logistica ha raggiunto livelli di complessità senza precedenti anche a causa dell’eCommerce, vedi per esempio le problematiche di gestione dei resi (reverse logistics), e di moltiplicazione delle opzioni di consegna. Di questi temi di estrema attualità si è parlato al quarto evento del “Digital Performance Lab”, percorso di incontri ideato da TESISQUARE, con il supporto di P4I-Partners4Innovations. «L’obiettivo è ascoltare, favorire il confronto, e capire lo stato d’avanzamento reale del digitale nei vari settori - ha spiegato Giu| 42 |
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seppe Pacotto, CEO di TESISQUARE, introducendo l’evento -. Nel Retail per esempio l’innovazione sta prendendo molte forme e già definire precisamente di cosa si sta parlando è un passo importante». l’1% del fatturato per digitalizzare Tecnicamente l’Omnicanalità, ha spiegato Valentina Pontiggia, Direttore dell’Osservatorio Innovazione Digitale nel Retail del Politecnico di Milano, indica l’integrazione dei canali (negozio, web, mobile, ecc.) in modo che il consumatore non percepisca differenze di interazione con il retailer, a cominciare dal prezzo del prodotto. Un modello che oltretutto è da realizzare in uno scenario sempre più eterogeneo e composito. In Italia abbiamo 19 milioni di web shopper, il 77% di chi ha uno smartphone lo usa nel processo d’acquisto, la domanda è in lenta ripresa (escluso il settore alimentare), e l’offerta molto frammentata, con livelli sempre più alti di compe-
r e p or tage | R e tai l i tal i ano: t ut t e l e sf ide de l l’ o mn ic a n a l ità , t R a c o n se g n e in un ’ o R a e R esi
«Amazon impone un’accelerazione spaventosa rispetto alla consegna in giornata, che era la best practice in Italia. Il problema è la sostenibilità economica: la stessa Amazon ha detto che sarà in perdita per 5 anni su Prime Now»
tizione - per l’arrivo di multinazionali del retail (tipo Starbucks), e la pressione delle “dotcom” – e di complessità dei processi. «In questo quadro, i Top Retailer in Italia investono meno dell’1% del fatturato nel digitale, e solo il 35% ha una strategia digitale in corso, mentre un altro 47% ne sta definendo una – ha spiegato Pontiggia, citando un’indagine dell’Osservatorio Retail -. Quando investono, però, la governance è abbastanza evoluta: la modalità collaborativa è la più diffusa, i progetti di digitalizzazione in media coinvolgono 6 funzioni aziendali, e i meccanismi di coordinamento in 2 casi su 3 sono strutturati con regole, piani integrati, o comitati permanenti». CerCansi esperti di eCommerCe, marketing, analytiCs, soCial Le aree di competenza “calde” sono marketing online, user experience e data analytics. I profili più richiesti sono manager di eCommerce, CRM, digital marketing, customer analytics e social media. «Ce ne sono pochi, difficile anche stendere la job description e cercarli con canali tradizionali». L’Osservatorio ha anche rilevato il diffondersi tra i top retailer di meccanismi d’innovazione sperimentali, come corporate entrepreneurship (azioni del management per far emergere cultura innovativa), e soprattutto open innovation, cioè iniziative per recepire idee da attori esterni. In quest’ultimo campo Pontiggia ha citato per esempio gli “hackaton” di Illy, il “corporate venture capital” di Percassi per le startup selezionate da un apposito programma di H-Farm, la “mentorship” per startup di Miroglio Group, e il “partner scouting” di Iper per condividere con altri operatori un programma di consegna della spesa in un’ora.
2016 ogni top retailer ha fatto mediamente 6 innovazioni di back-end e il 93% ne ha introdotta almeno una. Le aree prioritarie sono CRM, ERP, fatturazione elettronica, business intelligence e picking, mentre per il 2017 emerge interesse per tecnologie più avanzate: monitoraggio dei comportamenti del cliente negli store, Intelligent Transport System e tracciamento RFID. Nel front-end il quadro è più arretrato. Nel 2016 quattro top retailer su 5 hanno introdotto almeno un’innovazione digitale, con prevalenza di soluzioni di pagamento innovative, couponing e loyalty, chioschi e sistemi di cassa evoluta o Mobile POS, mentre per il 2017 emerge interesse per realtà aumentata, digital signage e vetrine smart, indoor positioning e camerini smart. Al cuore di ogni strategia di digitalizzazione del retail comunque c’è la presenza Online e Mobile: «L’88% dei top retailer italiani è sia Online che su canale Mobile, il 10% solo Online e l’1% solo sul Mobile. Due terzi dei retailer fanno Online eCommerce, con grandi differenze tra settori (dal 100% dell’editoria al solo 32% del food), mentre il 35% sul web ha solo una presenza istituzionale. Quanto al Mobile, il 55% dei top retailer permette di comprare via smartphone, il 34% di ricevere servizi pre o post vendita».
giuseppe pacotto CEO TESISQuARE
top retailer: solo 2 su 3 vendono online, il 55% fa mobile CommerCe L’indagine del Politecnico distingue poi le innovazioni digitali nel retail tra back-end e front-end. «Nel back-end ci sono più investimenti: per fare un buon eCommerce bisogna partire da qui». Nel www.digital4executive.it
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reportage | Retail i tal i ano: t u t t e l e s f i d e d e l l’ o mn ic a n a l ità , t R a c o n se g n e in un ’ o R a e R e si
«I progetti di digitalizzazione in media coinvolgono 6 funzioni aziendali, e i meccanismi di coordinamento in 2 casi su 3 sono strutturati con regole, piani integrati, o comitati permanenti»
Supportare processi nelle filiere, ha poi spiegato Mauro Gullino, Business Line Executive Retail, è il core business di TESISQUARE, «e anche il Retail è una filiera, per cui qualche anno fa l’azienda ha deciso di proporre una piattaforma ad hoc a supporto della digitalizzazione appunto della Retail Value Chain e della collaborazione tra fornitori, distributori e anche consumatori». Si tratta di un pacchetto di soluzioni installabili anche separatamente, che permettono di governare sia i processi interni di un’azienda Retail sia quelli verso l’esterno. «Per quelle più verticali – Merchandising Management e Store Operations – che estendono la visibilità fino al consumatore, abbiamo stretto una partnership con Symphony Gold, vendor specializzato sulla GDO Grocery». Un modello a 5 variabili misUra la “matUrità omnichannel” Nella parte finale dell’evento le aziende utenti hanno partecipato al “tavolo di simulazione” sulla “maturità omnichannel”, misurandosi su un modello proposto dall’Osservatorio Retail basato su 5 variabili: canali, gestione front-end, gestione back-end, rete logistica e governance. Ne sono emersi diversi spunti di riflessione e problemi, tra i quali alcuni molto condivisi, sintetizzati da due interventi. «La pressione più forte nell’eCommerce è sul livello di servizio, soprattutto a causa di Amazon:
Si diffondono tra i retailer italiani iniziative sperimentali di Open Innovation, per recepire idee da attori esterni: per esempio hackathon, corporate venture capital, mentorship, partner scouting congiunto | 44 |
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la consegna in due ore degli acquisti eCommerce impone un’accelerazione spaventosa rispetto alla consegna in giornata, che è la best practice attuale in Italia - ha detto un manager di un operatore GDO -. Il problema cruciale è la sostenibilità economica: la stessa Amazon ha dichiarato che sarà in perdita per 5 anni su Prime Now». Altra criticità è quella dei resi, evidente soprattutto nell’eCommerce del fashion/abbigliamento, di cui molti operatori hanno sottovalutato costi e complessità logistiche. «In periodi come Natale e San Valentino, i tassi di prodotti resi raggiungono il 35-40%, ma in generale sono sempre più frequenti casi in cui il consumatore compra un prodotto in 2 o 3 misure per essere sicuro di avere quella giusta, restituendo poi le altre, o compra il prodotto per usarlo in una precisa occasione – una cena, una festa – e poi renderlo», ha spiegato un manager del settore Luxury. «Per questi e altri problemi una possibile soluzione è la sinergia con i negozi fisici: persino alcune Dot Com stanno pensando di aprire punti vendita di proprietà (Amazon) o utilizzano quelli di altri retailer per offrire servizi di click&collect o di reso – conclude Pontiggia -. Il negozio è indispensabile all’eCommerce non solo per abbattere alcune barriere all’acquisto dei web shopper, come la paura di non essere a casa al momento della consegna o l’esigenza di provare il prodotto prima di acquistarlo, ma anche per offrire servizi di consegna in poche ore grazie alla capillarità delle catene retail».
| 28ˆ EDIZIONE | PER L’INNOVAZIONE NELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE E NEI SISTEMI TERRITORIALI
23-25 MAGGIO 2017 ROMA CONVENTION CENTER LA NUVOLA
F O R
S U S T A I N A B I L I T Y
FOTO STEFANO CORSO
FORUM PA, l’evento nazionale che da 28 anni accompagna l’innovazione nella Pubblica Amministrazione e nei territori, ha scelto per l’edizione 2017 di rispondere a questa domanda: come può la nostra PA contribuire al raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile fissati dall’ONU al 2030? A FORUM PA 2017, in programma oltre 100 appuntamenti tra conferenze, tavoli di lavoro, laboratori, creativity room, seminari, workshop per: • favorire il confronto tra Governo centrale, Governi locali di Regioni e Comuni, Aziende innovative, Cittadinanza organizzata • offrire formazione gratuita e occasioni di capacity building agli operatori pubblici e a chi, in vario modo, collabora ai processi di modernizzazione della PA • comunicare sull’execution di politiche e processi in atto e definire un’agenda per i prossimi anni Nell’edizione 2016: 131 partner pubblici e privati, 14.000 partecipanti unici, 90 eventi tra conferenze, tavole rotonde, laboratori, 100 workshop di formazione e presentazione di best practice, 900 relatori pubblici e privati, 20 ore di diretta streaming su tre canali
+ 39 06.68 42 51
info@forumpa.it
www.forumpa2017.it
#forumpa17
intervista di
domEnico alipErto
Emilio misuriEllo AMMINISTRAToRE DElEGATo ESRI ITAlIA
Localizzazione e mappe digitali, il vero ago della bussola per l’IoT Che si tratti di trasporti e veicoli autonomi, utility e smart metering, Industry 4.0 e sicurezza, o anche solo di marketing di prossimità, è ormai indispensabile conoscere nel dettaglio lo spazio in cui operano strutture e servizi. L’Amministratore Delegato di Esri Italia spiega l’evoluzione del settore e anticipa i temi della conferenza che il gruppo terrà a Roma il 10 e l’11 maggio
Si parla tanto di identità digitale e di servizi on line all’utente forniti attraverso applicazioni di realtà aumentata e virtuale basati sulla geolocalizzazione. Ma forse non si è ancora diffusa la consapevolezza che tutto ciò è possibile grazie a un processo di acquisizione ed elaborazione dati che non si limita a replicare le caratteristiche del territorio e degli spazi fisici, dematerializzandoli: è in atto una vera e propria riscrittura delle mappe, da cui stanno scaturendo gli ambienti stratificati in cui macchine e informazioni si muoveranno per sostenere l’Internet of Things. A svolgere questo lavoro ci sono imprese come Esri, che dal 1969 si occupa di applicazioni per la gestione di database geolocalizzati. Emilio Misuriello, Amministratore Delegato di Esri Italia - che fornisce soluzioni geospaziali, geolocalizzazione e Sistemi Informativi Geografici -, spiega l’evoluzione dell’offerta e anticipa i temi di scena alla conferenza annuale che il gruppo terrà all’Ergife di Roma il 10 e l’11 maggio. | 46 |
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Qual è l’impatto della trasformazione digitale? Quello di Big Data è un concetto che si sposa bene con la vastità delle informazioni che riguardano il territorio. Stiamo cavalcando l’ennesima delle rivoluzioni informatiche. Desktop prima, Web poi e Industry 4.0 oggi – con l’esplosione delle app e delle smart city – hanno affinato le specificità di un settore che continua a crescere: la posizione è diventata una commodity fondamentale per rendere efficaci i servizi IoT, indipendentemente dal fatto che si parli di trasporti, utility o marketing. E la grande mole di dati stimola le capacità analitiche, indispensabili per supportare i nuovi sistemi di rilevazione. Stiamo investendo, ad esempio, sulla piattaforma GNSS (Global Navigation Satellite System) Galileo, che a differenza del GPS offre una precisione centimetrica rispetto alla localizzazione degli oggetti. Non si può pensare alla mobilità automatica o anche solo a una vera smart mobility se non si adottano tecnologie simili. In ambito GNSS abbiamo avviato uno
intervista | LocaLizzazione e mappe digitaLi, iL vero ago deLLa bussoLa per L’iot
«Che si tratti di commercio elettronico o di negozi fisici, oggi è impensabile riuscire a vendere se non si analizzano i movimenti delle persone o delle merci»
spin off con il Politecnico di Milano per tenere sotto osservazione grosse infrastrutture, come la rete autostradale e quella ferroviaria. Basti pensare a cosa può succedere ai viadotti e ai binari dell’alta velocità nel caso di un terremoto. Lo stesso discorso vale per il controllo effettuato dai droni, ambito rispetto al quale Esri ha sviluppato l’applicazione Drone2Map for ArcGIS, che permette di trasformare i dati grezzi acquisiti dai droni in mappe 2D e 3D. E poi c’è tutto il mondo della realtà immersiva, che approfondiremo in occasione della Conferenza Esri Italia 2017. La Regione Toscana sta per esempio legiferando per ottenere e sfruttare informazioni e immagini tridimensionali per migliorare l’avanzamento dei lavori e la sicurezza all’interno delle cave, per “osservare” gli ambienti sotterranei con un visore e verificare con simulazioni come modificarli, e con quali impatti sul territorio. Stiamo organizzando, inoltre, incontri su mobilità e trasporto, tenendo ben distinti, per quanto riguarda la PA, gli ambiti locale e centrale. Ma parleremo anche di tecnologie di geolocalizzazione nei settori portuale e aeroportuale. Con Aeroporti di Roma e con SEA stiamo studiando lo sviluppo di applicazioni per la mobilità di servizio, grazie alle tecnologie GIS “indoor”. C’è tutta una parte delle facility di uno scalo a cui i passeggeri non hanno accesso, cruciale per la mobilità interna e per la sicurezza. In questo caso si tratta di raccogliere e analizzare informazioni cartografiche indoor per migliorarne la gestione. Tra le partnership citeremo anche quella siglata con ACEA e SAP, che permette alla società di multiutility di affrontare in maniera completamente nuova la pianificazione degli interventi di manutenzione sul territorio. Ci saranno inoltre le sessioni speciali dedicate a difesa e law enforcement. Più in generale si parlerà di tecnologie geografiche per la trasformazione digitale. Punterete al mondo enterprise e alle PMI? Sicuramente sì, se parliamo di servizi assicurativi legati alla smart mobility o anche di proximity marketing. Che si tratti di eCommerce o di negozi fisici è impensabile vendere se non si analizzano i movimenti delle persone o delle merci. Penso poi all’agricoltura e alle applicazioni di precision farming: Drone2Map è una delle soluzioni di Esri per questo settore.
Chi sono i vostri competitor? Google costituisce una minaccia? No, in quanto si occupa di delivery di dati. Noi facciamo analisi, tant’è vero che il nostro motto è “The Science of Where”. Oggi il nostro principale competitor è l’open source, il cui uso è stato spesso frainteso in Italia, talvolta sembra più una “moda” politica che una efficace risposta a un problema vero. Io sto constatando che alcuni dirigenti degli enti pubblici iniziano a comprendere che l’efficienza si ottiene con una tecnologia “solida”. Si sta sempre più affermando che il risparmio non si valuta sul “valore economico” della licenza ma sulla capacità di risolvere e dare una risposta efficace alle richieste tecniche. Alcuni dirigenti pubblici si stanno rendendo conto che dopo aver adottato una piattaforma open source per l’analisi cartografica, le spese non sono diminuite, sono anzi aumentate. Tali applicazioni possono risultare vincenti in certi ambiti, ma in altri, dove si lavora con sistemi complessi, servono adattabilità e soluzioni consolidate, capaci di fornire risposte efficaci senza dover sviluppare funzionalità ad hoc troppo personalizzate. Insomma ci si “libera” dalla licenza software ma si diventa prigionieri dell’azienda o dello sviluppatore che ha congegnato il sistema. Inoltre stiamo puntando sul Cloud, che per noi è il futuro. Offriamo già soluzioni in ambito editoriale e giornalistico: per esempio le mappe interattive delle zone colpite dai terremoti sono prodotte con applicazioni Esri fornite via Cloud. Prospettive per l’immediato futuro? Dal momento che non si vendono più prodotti, ma soluzioni, e che l’innovazione va fatta su ambiti specifici, è necessario conoscere a fondo le realtà a cui ci si rivolge. Per questo abbiamo deciso di sostenere una struttura dedicata alle startup, GEOsmartcampus, diretta da Marco Ratti, attraverso cui assegneremo progetti in outsourcing del valore di 1,2 milioni di euro. Puntiamo su pacchetti di lavoro anziché fondi, insieme a un piano di assunzioni che farà crescere del 10% le risorse interne (107 tra le sedi di Roma e Milano, ndr). Chi cerchiamo? Giovani laureati che conoscano i GIS e la programmazione. www.digital4executive.it
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reportage di
manuela gianni
l’importanza di valorizzare le idee dei dipendenti: cosa insegna l’hackathon di generali italia Una strada poco percorsa dalle imprese italiane è quella che favorisce l’innovazione che nasce dall’interno. I benefici sono molti: coinvolgere le proprie persone nel disegnare il futuro significa generare motivazione, superare i silos aziendali, premiare lo spirito imprenditoriale e agire più rapidamente, favorendo la contaminazione fra competenze diverse. Un esempio? L’Hackathon interno di Generali Italia
Che le imprese debbano costantemente trasformarsi e innovare per garantirsi un futuro di successo è noto. Ma come fare? Quale strada intraprendere? Di certo, oggi il processo tradizionale, quello che parte dalla Ricerca e Sviluppo interna e segue poi un approccio lineare e chiuso, è giunto al capolinea. I più autorevoli esperti di management lo confermano: è ora di aprire gli orizzonti e impostare un processo di innovazione collaborativo e condiviso. È il paradigma dell’Open Innovation, di cui molto si parla negli ultimi tempi. Semplificando, uno dei principi alla base del modello è che le imprese avranno successo se saranno capaci di sfruttare al meglio le nuove idee provenienti dall’interno e dall’esterno. Molto spesso, però, questo aspetto bidirezionale viene trascurato. Si focalizza cioè l’attenzione solo sul mondo esterno, in particolare sulle start up, una fucina di innovazione che è diventata cruciale soprattutto per approcciare la trasformazio| 48 |
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ne digitale delle imprese tradizionali. Invece, è altrettanto importante spingere l’innovazione originata all’interno dell’impresa verso l’esterno, secondo un percorso outbound (o insideout), coinvolgendo i dipendenti. A differenza di quanto accade all’estero (e in particolare nella Silicon Valley e nel mondo delle dotcom), non sono molte le aziende italiane che si muovono in questa direzione. Lo ha fatto Generali Italia, che ha organizzato il 16 e 17 marzo un Hackathon interno, un contest per lo sviluppo di idee innovative che ha visto impegnati 160 dipendenti e agenti suddivisi in 20 squadre, ciascuna affiancata da un tutor esperto. Per la storica compagnia assicurativa, impegnata in un impegnativo percorso di trasformazione e digitalizzazione (solo un anno fa si è conclusa la fusione con Ina-Assitalia e il Gruppo Toro, che raccoglieva i brand Augusta e Lloyd), cambiare passo è più che mai necessario per guardare al futuro e af-
reportage | L’I M POR TANZ A D I VAL OR I Z Z AR E L E I D E E DE I DIP E N DE N T I: C O SA IN SE G N A L’ H AC KAT H O N DI G E N E RA L I ITAL IA
frontare un mercato in profonda trasformazione. «L’Hackathon per noi è un momento fondamentale – conferma l’AD di Generali Italia, Marco Sesana -. Cerchiamo di generare innovazione in modo condiviso con i nostri dipendenti e con i nostri agenti. Bisogna prendere il meglio che il mercato offre e il meglio delle idee che vengono generate a tutti i livelli dell’organizzazione, per poi portarle rapidamente sul mercato». Del resto, così fanno le aziende più innovative: solo per fare l’esempio più noto, alcune funzioni Facebook di che oggi noi utilizziamo quotidianamente, come il “Like button” e il Tag derivano proprio da Hackathon interni. Entusiasmo E coinvolgimEnto, EnErgia pEr l’innovazionE Sono andata a Venezia a seguire l’evento - 24 ore no stop di lavoro – e ho potuto respirare l’entusiasmo dei partecipanti, protagonisti per un giorno di un’esperienza unica, coinvolgente e divertente, che di sicuro resterà per loro indimenticabile (basta guardare Facebook e Twitter). Non so quante delle idee che hanno vinto la competizione diventeranno prodotti apprezzati dai clienti. Ma di certo, l’Hackathon genera un’onda creativa, una grande motivazione nelle persone coinvolte, mettendo in circolo energia positiva che contagia anche coloro che non sono presenti, attraverso i social network e i racconti del lunedì davanti alle macchinette del caffè. Il metodo dello sviluppo di un progetto in 24 ore aiuta a trasformare le modalità di lavoro, attiva nuove modalità di collaborazione interna, di sharing delle informazioni. Insomma, uno strumento potente per attivare il cambiamento e innescare un circolo virtuoso dell’innovazione. Anche sul fronte delle competenze, i benefi-
Marco SeSana AD GeNerALI ITALIA
ci sono notevoli. Intanto, il percorso di selezione serve a scoprire talenti, spesso nascosti in un grande gruppo, un tesoro prezioso e inesplorato. Si privilegiano persone con un mindset innovativo, curiosi, con voglia di sperimentare e un approccio imprenditoriale, in grado cioè di assumersi la responsabilità del proprio agire, attivarsi, promuovere iniziative in autonomia. L’Hackathon è dunque una bella esperienza di Open Innovation, un’opportunità per aziende che vogliono davvero migliorarsi. Perchè sia davvero efficace, è bene affidarsi a degli esperti in questo ambito e ricordare che le iniziative di questo tipo creano valore se non rimangono episodi isolati, ma vengono inserite in un processo sistematico e strutturato, nell’ambito di una visione più ampia.
L’Hackathon “Semplifichiamo”: le selezioni e la sfida tra squadre Per poter essere selezionati per l’Hackathon “Semplifichiamo”, che si è svolto a Venezia il 16 e 17 marzo, i 6.000 dipendenti di Generali Italia sono stati invitati a partecipare a un Game di selezione, ideato in collaborazione con la società di advisory P4I (Partners4Innovation). Il Game propone in modo “giocoso” una serie di prove attitudinali (business game, domande aperte, video creativi, ecc.) e restituisce un profilo da “Semplificatore”, ispirato a un manager del mondo digitale (Sheryl Sandberg, COO di Facebook), un innovatore come Steve Jobs (fondatore di Apple), l’eclettico Elon Musk (fondatore tra le altre cose di SpaceX e Tesla), il giovane fondatore di Spotify (Daniel Ek), ma anche a una
figura di spicco del mondo scientifico come l’astronauta Samantha Cristoforetti). I 120 dipendenti e 40 agenti così selezionati si sono poi sfidati per 24 ore non-stop in una maratona creativa mirata a ideare soluzioni innovative e tecnologicamente all’avanguardia per il mondo assicurativo, seguendo 4 brief differenti. I partecipanti erano suddivisi in 20 team, ciascuno affiancato da un tutor esperto per guidare i lavori. Al termine, i team hanno presentato i progetti con un pitch di 10 minuti, secondo il modello della presentazione delle startup ai potenziali investitori. La giuria di Generali Italia ha poi selezionato 4 vincitori. Oltre 700 persone hanno completato la candidatura, il doppio dello scorso anno. www.digital4executive.it
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EUHRNET, l’efficacia del coaching come metodologia per guidare il cambiamento
Mentre le Hard Skills sono competenze tecniche e possono essere acquisite ed applicate nella loro totalità, le Soft Skills sono “competenze” trasversali che fanno riferimento alle intime potenzialità di ogni individuo e possono essere scoperte, valorizzate e gestite ma non imparate se non presenti. Determinante nei processi di riorganizzazione strategica dell’azienda, la valorizzazione delle Soft Skills rappresentano il vero catalizzatore di successo. Euhrnet, la prima rete di imprese specializzata in servizi di outsourcing amministrazione del personale, integra i suoi servizi con un supporto consulenziale alla Direzione del Personale rivolto non solo agli aspetti più amministrativi, ma anche puntando a una crescita professionale e personale di ogni singolo soggetto. Grazie al progetto Kairos Coaching Project di Laura Piovano e Alfonso Carbone – www.kairoscoaching.it – Euhrnet si rivolge alle Funzioni del personale che vogliono interpretare attivamente il cambiamento organizzativo che le nuove sfide di mercato impongono, attraverso la co-definizione di una strategia organizzativa e la coimplementazione di un modello gestionale più efficiente ed efficace, basato sulla metodologia del coaching rivolta a Manager, team e singole figure. Il supporto esterno, certificato, aiuta le persone a sviluppare un nuovo punto di vista rispetto alla gestione ordinaria, facendone emergere le potenzialità come singoli individui e/o nel team, rendendo più concreto e misurabile un processo di cambiamento definito all’interno dell’organizzazione. L’ufficio del personale, così come l’azienda in generale, è un’organizzazione costituita da processi, ruoli, mansioni e persone completamente diverse, e non sempre è
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La rete di imprese, speciaLizzata neLL’erogazione di servizi per L’amministrazione deL personaLe aziendaLe, integra iL progetto Kairos coaching project, potenziando La propria presenza neL nord itaLia e diversificando i servizi rivoLti aLLa funzione hr
Laura piovano Coach
aLfonso carbone Coach
facile trovare un equilibrio tra le esigenze e motivazioni dei singoli e del team nel suo complesso, impattando sull’efficienza operativa e di conseguenza sul benessere comune. Prima dei sistemi software o dei modelli organizzativi va spesso cambiata la mentalità, per poterli poi interpretare al meglio, e le Direzioni del Personale, o l’imprenditore laddove sia egli stesso a presidiare la tematica, possono avere bisogno di un sostegno operativo in questa fase di cambiamento. Con il progetto Kairos Coaching Project, Euhrnet si pone l’obiettivo di accelerare lo sviluppo di un ufficio oppure impostare ed avviare il modello, temporaneamente, per poi lasciare all’imprenditore la stabilizzazione della funzione con risorse dedicate, accompagnandolo nel processo di selezione e inserimento del candidato al presidio. Un intervento consulenziale concreto e misurabile, temporaneo, basato su una metodologia consolidata e svolto da figure professionali certificate. «Credo molto in questo supporto – dichiara Ermanno Bini Chiesa, Presidente della rete di imprese Euhrnet –. Molto spesso troviamo Direzioni del Personale che hanno già una visione del cambiamento ben precisa, a volte però il principale ostacolo è proprio la mentalità. Essere attori attivi ci fa piacere e rende la relazione con il cliente ancora più forte, allargando la visione progettuale».
digital transformation - Hr | Formazione, solo un terzo delletransformation aziende punta sul digitale digital - Hr
Come costruire una cultura dell’innovazione condivisa Eventi mirati, community, nuove metodologie di lavoro: i passi da compiere per valorizzare il potenziale creativo nascosto nelle organizzazioni, favorendo una collaborazione fra colleghi basata sulle competenze e non sulla gerarchia L’Hackathon è uno dei principali “hashtag” di moda oggi nel mondo business. Di solito si tratta di un evento-maratona della durata di un paio di giorni non-stop in cui sviluppatori e imprenditori si sfidano per creare nuovi prodotti e servizi “digital”. Oggi, alcune grandi imprese concentrate in un impegnativo percorso di Digital Transformation hanno iniziato ad applicare i principi alla base dell’Hackathon e utilizzano questa modalità di collaborazione nata all’interno del mondo delle startup per vincere l’inerzia organizzativa e diffondere una cultura maggiormente orientata all’innovazione. Gli Hackathon interni, che coinvolgono i dipendenti, sono perlopiù focalizzati a trovare idee per “hackerare” processi aziendali datati e poco orientati all’agilità. Tuttavia, le singole idee di innovazione che nascono in un Hackathon interno, per quanto creative e importanti per l’azienda, rappresentano solo una delle finalità di queste iniziative. I partecipanti provano sulla propria pelle nuove modalità di collaborazione, si ricordano che anche la propria azienda è in grado di innovare con la rapidità di una startup se tutti vivono il proprio ruolo in azienda con entusiasmo, scoprono le proprie energie e il proprio potenziale creativo nascosto. Si tratta di un vero e proprio evento culturale, che non deve rimanere un caso isolato, ma deve essere parte di un piano per costruire una cultura dell’innovazione condivisa. Quali passi vanno seguiti per valorizzare davvero il potenziale creativo nascosto di un’organizzazione e costruire la cultura dell’innovazione? Il primo passo è quello di creare momenti collaborativi e focalizzati nel tempo come gli Hackathon interni per coinvolgere i dipendenti nel processo di innovazione. In questo modo si può far leva sull’intel-
di marco planzi ASSOCIATe PArTner P4I - PArTnerS4InnOvATIOn
ligenza collettiva, ritrovare motivazione e speranza nel futuro del proprio business, liberare energie nascoste e creatività. Diventa quindi indispensabile costruire una Innovation Community, un “luogo” virtuale in cui i dipendenti possono provare direttamente a lavorare applicando metodologie nuove, nate per innescare processi di innovazione, come il design thinking e la lean startup. La Community non deve essere un gruppo di lavoro chiuso, costituito da membri permanenti nel tempo. Al contrario, deve essere un gruppo di lavoro aperto, la cui composizione è dinamica sulla base delle competenze necessarie a sviluppare un progetto di innovazione. La realizzazione di momenti collaborativi e di Innovation Community deve far leva su una mappatura estesa dei dipendenti, che punti a scoprire i migliori talenti da coinvolgere nella fase iniziale del processo di innovazione. Anziché vedere i propri collaboratori come gruppi generazionali, basati sull’inquadramento e sul ruolo che ricoprono in azienda, serve conoscere quali tra loro hanno spiccate capacità creative e imprenditoriali e quali sono le loro aspettative personali rispetto all’innovazione dell’azienda. Più in generale, serve promuovere la collaborazione. I dipendenti devono abituarsi a far leva contemporaneamente sui propri colleghi, sulla tecnologia e su metodologie nuove che abilitano la collaborazione basata più sulle competenze che sulla gerarchia. Il coinvolgimento deve essere trasversale a tutta l’organizzazione e passa dalla condivisione di linee guida accuratamente spiegate, in cui ogni dipendente può ritrovarsi e comprendere quale è il suo ruolo e il contributo che può dare nell’esecuzione della strategia. www.digital4executive.it
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digital transformation - Hr di
Gaia Fiertler
HR, Europ Assistance punta sull’apprendimento continuo per tenere il passo dell’innovazione La società di assistenza automobilistica, che in Italia ha circa 1000 dipendenti, si prepara alle sfide del futuro valorizzando il capitale umano e puntando sul costante aggiornamento delle competenze. Implementata una nuova piattaforma per gestire tutti i principali processi HR, mentre si sta lavorando a un innovativo modo di concepire la formazione, l’adaptive learning. Ne parla Cristiano Venanzoni, Chief Human Resources Officer
Europ Assistance, la società di assistenza del Gruppo Generali, con 8mila dipendenti in 33 Paesi, di cui un migliaio in Italia, negli ultimi due anni ha sviluppato un progetto di digitalizzazione della gestione delle risorse umane, con l’obiettivo di creare un ambiente di relazioni digitali e interfunzionali che favoriscano l’innovazione diffusa e l’apprendimento continuo. Il settore dovrà affrontare grandi sfide in futuro e non può farsi trovare impreparato. «Il ritmo dell’innovazione è destinato a cambiare uno dei paradigmi del mondo del lavoro - spiega in questa intervista Cristiano Venanzoni, Chief Human Resources Officer -. Prima le competenze tecniche che si acquisivano all’inizio della propria vita lavorativa erano sufficienti per l’intera durata della stessa, ora serve il continuo aggiornamento sia delle abilità tecniche sia delle soft skill, mentre l’alfabetizzazione digitale è divenuta irrinunciabile. | 52 |
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Per innovare non bastano, infatti, aree specifiche dedicate a prodotti e servizi, ma è l’intera organizzazione che deve procedere spedita in tal senso. Noi dell’ufficio HR abbiamo la responsabilità di guidare questo processo, garantendo per questa via la continua employability della nostra forza lavoro». Quali sono stati i principali step del progetto? Siamo partiti dalla Intranet che era ancora ferma alla generazione 1.0, in pratica era una vetrina aziendale unidirezionale. Per questo abbiamo deciso di realizzare una piattaforma dinamica e collaborativa, che permettesse di costruire profili individuali personalizzabili e fruibili dai propri device. In Italia siamo un migliaio, con età media di 33 anni in buona parte part-time e/o con possibilità di lavorare in remoto (smart working), distribuiti nelle due centrali operative di Milano e Cosenza.
digital transformation - Hr | Europ AssistAncE puntA sull’ApprEndimEnto continuo pEr tEnErE il pAsso dEll’innovAzionE
«Un sistema HR integrato fa sì che oggi il performance management sia l’input delle politiche retributive, in modo chiaro e trasparente. Inoltre, consente il job posting delle candidature interne, favorendo la mobilità»
era quindi prioritario consentire un facile accesso ai sistemi operativi aziendali, in sicurezza anche dai propri dispositivi. Secondo step? all’interno della piattaforma abbiamo previsto un’area hR, dove abbiamo digitalizzato processi core che fino a un anno e mezzo fa gestivamo in excel, come il recruiting, l’onboarding, il learning, il performance review e le politiche di rewarding. ora con questo hR Integrated System, un open source implementato da amicucci formazione, abbiamo integrato i diversi processi nel rispetto della nostra visione di talent management, performance review e smart working. Il sistema aderisce perfettamente alle nostre esigenze e ha un grado di flessibilità tale da consentirci di intervenire agilmente sugli obiettivi (modificarli, aggiungerne, associarli ai valori aziendali del Gruppo Generali di cui facciamo parte) e dare feedback in qualsiasi momento. Inoltre, con questo sistema integrato il performance management diventa l’input delle politiche retributive in modo chiaro e trasparente e, al tempo stesso, favoriamo la mobilità interna con un sistema di job posting altrettanto trasparente, cui si può mandare la propria candidatura. Segue quindi un assessment digitale, un piccolo caso di gamification e poi, se si supera la selezione online, si arriva all’assessment in aula. Resta invece affidata agli applicativi di Sap la gestione amministrativa delle risorse umane, compreso il pay-roll.
secondo un Recommendation System, un sistema automatizzato che suggerirà percorsi formativi individuali attraverso l’utilizzo degli analytics. Ma poiché a tal fine serve una notevole mole di informazioni, oltre a tracciare le preferenze e la profondità di navigazione dei nostri collaboratori nella Intranet e nella nostra offerta formativa, ad aprile lanceremo il modulo “Raccontati all’organizzazione” per raccogliere maggiori elementi sulle attitudini, passioni e aspirazioni dei nostri dipendenti ed entro sei mesi saremo pronti a partire con la fase di sperimentazione di questo innovativo modo di concepire la formazione, in chiave adattiva (adaptive learning). Come avete accompagnato il processo di cambiamento digitale? Premesso che la tecnologia dev’essere user friendly al di là della propensione del singolo, nel percorso di change abbiamo previsto alcuni interventi formativi e, soprattutto, abbiamo coinvolto le persone nei cosiddetti “cantieri di innovazione” fin dalla fase di progettazione e lungo il percorso con follow-up e survey di valutazione. La risposta Cristiano Venanzoni ChIef huMan ReSouRCeS offICeR euRoP aSSISTanCe
avete potenziato anche la formazione online? Sì, all’interno dell’hR Integrated System abbiamo creato un modulo di learning and development, che al momento prevede un primo livello di corsi a catalogo (generazione 1.0) e un secondo livello personalizzabile di duecento pillole formative con contenuti tecnici e manageriali. Mentre è in fase di sviluppo un terzo livello che completerà l’ecosistema di apprendimento www.digital4executive.it
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«Nel percorso di change management abbiamo previsto alcuni interventi formativi e coinvolto le persone nei cosiddetti “cantieri di innovazione” fin dalla fase di progettazione e lungo il percorso con follow-up e survey di valutazione»
è stata di forte entusiasmo e adesione da parte dei dipendenti, perché non si registravano cambiamenti da tempo. È mia opinione che oggi si trovino molte meno resistenze al cambiamento di un tempo all’interno delle aziende, se lo stesso è comunicato in modo credibile, se è trasmesso come novità e opportunità e se non si deludono le attese. Qualche resistenza si incontra ancora nei middle manager, che devono abituarsi a un nuovo modo di lavorare, più basato sui risultati e meno sul controllo, come insegna lo smart working. Quali sono le principali sfide del vostro settore? Sono tre: la robotica, ossia la possibilità di au-
«In Italia siamo un migliaio, con età media di 33 anni in buona parte part-time e/o con possibilità di lavorare in remoto (smart working), distribuiti nelle due centrali operative di Milano e Cosenza»
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tomatizzare task ripetitivi soprattutto all’interno dei call centre; le auto senza conducente (driverless car) che cambieranno la logica dell’assistenza stradale e nuovi competitor della cosiddetta “on demand economy”, ovvero digital marketplace in grado di fornire servizi di qualunque genere. Nell’economia 4.0, dove la competitività è garantita dalla capacità di innovazione e da skill e competenze presenti nell’organizzazione, quindi sempre più da capitale umano e sempre meno da capitale fisico, il nostro compito come HR è preparare l’azienda del futuro, investendo da un lato sui talenti, ma dall’altro portando tutta l’organizzazione a pensare e ad agire in modo digitale.
speciale “formazione”
PRES: le nuove frontiere della Collaboration
La comunicazione deve essere agile, mobile e collaborativa. I team di progetto devono poter essere indipendenti dal luogo, dal dispositivo utilizzato e, sempre più spesso, anche dalla società di appartenenza. «Con questi key marker ben in mente, Cisco ha progettato Spark, una soluzione di comunicazione allin-one che rivoluziona il mondo della collaboration», afferma Giorgio Ghiglia, Head of Direct Sales di PRES, Gold Partner Cisco dal 1999. «Con Spark il focus è sul lavoro di team, il cuore pulsante di ogni innovazione aziendale». Quali sono le possibilità offerte da Cisco Spark? Cisco Spark è un servizio di collaborazione cloud-based che abilita l’utente a inviare messaggi, organizzare meeting e videochiamate, in maniera semplice e immediata. Basta scaricare l’app, registrarsi e si è subito in grado di creare una virtual room dove invitare i colleghi, ma anche clienti o partner che non dovessero aver sottoscritto il servizio. Nella virtual room si condividono informazioni, progetti, file e si avviano videoconferenze multiple. Quali sono i vantaggi di una soluzione di collaborazione? Nello sviluppo di un progetto, dalla sua partenza al completamento, è fondamentale incrementare l’agilità del team e la velocità delle risposte, condividere e confrontarsi sulla documentazione che deve essere sempre accessibile, sia prima che durante e dopo i meeting. Il workstream in Spark è continuo. In ogni momento ho tutte le informazioni necessarie, contestualizzate e identificate, anche dopo che il progetto si è concluso e la virtual room è stata archiviata. Non ha importanza che stia lavorando dal mio no-
un ServIzIo Cloud-baSed Che abIlIta l’utente a InvIare meSSaggI e organIzzare meetIng e vIdeoChIamate In manIera SemplICe e ImmedIata. eCCo Come CISCo Spark InCrementa la produttIvItà deI team
gIorgIo ghIglIa Head of Direct Sales PRES
tebook o dal mio smartphone. L’esperienza utente è la stessa e sono sicuro di non perdermi nulla. Inoltre ogni comunicazione, sia audio che video, ed ogni informazione o messaggio condiviso sono criptate per garantire la riservatezza e la proprietà dei dati. In che modo sono protetti gli investimenti fatti? Cisco Spark può collegarsi ai sistemi Cisco di Unified Communication già presenti, diventando quindi una estensione naturale del nostro telefono fisso, integrandosi con la rubrica aziendale, il calendario e con la call history del nostro sistema classico di comunicazione aziendale. Posso ricevere e fare chiamate direttamente da Spark con il mio interno telefonico. Allo stesso modo posso collegarmi ad una virtual room di Spark da un endpoint telefonico, da una sala di telepresence e dalle nuovissime Spark Board, vere e proprie lavagne interattive progettate per rendere al meglio la collaborazione e la comunicazione con il mio team. Spark non è un sistema accessibile solo da prodotti e soluzioni Cisco: qualunque endpoint video standard di terze parti può connettersi, anche Skype for Business. Cisco Spark è un sistema in rapida evoluzione, che apre nuove frontiere nella collaborazione di team. Grazie ai servizi PRES, le aziende possono semplificare l’integrazione, l’implementazione e la gestione delle più innovative soluzioni di Collaboration, cogliendone a pieno tutti i benefici e concentrandosi sul loro core business.
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osservatorio di
daniele lazzarin
federiCO CaniaTO
Industria italiana, crediti commerciali per 559 miliardi nelle filiere: come può aiutare il digitale
DIREttORE OSSERvAtORIO SUPPLy ChAIn FInAnCE POLItECnICO DI MILAnO
In Italia il tempo medio per il pagamento dei fornitori è 137 giorni. Le imprese si finanziano all’esterno solo per un euro su 4, con strumenti come anticipo fattura e factoring: c’è un mercato enorme per soluzioni basate su tecnologie innovative e rating misti finanziari e operativi. L’analisi dell’Osservatorio Supply Chain Finance del Politecnico di Milano
«La ricerca di quest’anno evidenzia un cambio radicale nello sviluppo del mercato del credito di filiera in Italia. Cambio che, più che nei numeri, si manifesta nelle evoluzioni normative favorevoli, nell’ingresso di nuovi player e startup, e nell’emergere di nuove soluzioni e di tecnologie abilitanti, come Blockchain, Big Data e Application Programming Interface». Così Stefano Ronchi, ha aperto il convegno di presentazione del report 2017 dell’Osservatorio Supply Chain Finance del Politecnico di Milano, di cui è Responsabile Scientifico. «È la quarta edizione dell’Osservatorio: il nostro obiettivo è studiare e promuovere le soluzioni per finanziare il capitale circolante che fanno leva sul ruolo di un’impresa all’interno della filiera, oltre che sulle caratteristiche economiche e finanziarie». Un tema estremamente attuale, visto che queste soluzioni sono la risposta a un mercato potenziale di 559 miliardi di euro, che è il totale dei crediti commerciali delle imprese italiane. «La necessità | 56 |
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di finanziare il capitale circolante è un problema strutturale soprattutto in Italia, dove il tempo medio di incasso dei crediti commerciali (DSO) è di 78 giorni contro una media europea di 47, e peggiora per le piccole imprese (94 giorni), e le microimprese (115 giorni), che sono la grandissima parte delle filiere industriali», ha spiegato Federico Caniato, Direttore dell’Osservatorio. Discorso analogo sul fronte dei tempi di pagamento dei debiti verso i fornitori (DPO): in Europa la media è 65 giorni, in Italia oltre il doppio (137 giorni), con punte di 165 giorni nelle piccole imprese. «In ItalIa tutte le condIzIonI per lo svIluppo del supply chaIn fInance» Al momento solo il 26% di quei 559 milioni è servito da soluzioni di finanziamento, che in larga parte sono tradizionali: l’anticipo fattura (finanziamento delle fatture non ancora riscosse), che
os s e r vatorio | in dust ria ita l ia n a , il c o n t rib ut o de l sup p ly c h a in f in a nce
Le piattaforme Supply Chain Finance più diffuse in Italia sono chiuse: creano un rapporto univoco tra impresa cedente e provider di finanziamento. Ma le grandi banche internazionali stanno introducendo proposte innovative “fintech”
vale 87 miliardi di euro, e il factoring, la cessione di crediti commerciali a operatori terzi, che vale 57 miliardi. Stentano a decollare invece le soluzioni più innovative, come la carta di credito virtuale per la gestione semplificata dei pagamenti tra buyer e supplier, l’inventory finance (finanziamento delle scorte attraverso una linea di credito), l’invoice auction (asta digitale per investire nelle fatture), e il dynamic discounting (pagamento anticipato a fronte di uno sconto proporzionale ai giorni di anticipo). I ricercatori però sono ottimisti. «Se le imprese italiane riusciranno a operare come network di sistema e non come entità singole, ci sono tutte le condizioni per lo sviluppo del Supply Chain Finance, ha sottolineato Alessandro Perego, Direttore scientifico degli Osservatori Digital Innovation -. Per le aziende però è fondamentale scegliere adeguatamente la soluzione da adottare per finanziare il capitale circolante, individuando il giusto mix in funzione delle proprie specifiche esigenze». i principali modelli d’offerta Nell’edizione di quest’anno l’Osservatorio ha approfondito molti aspetti del mondo SCF. Uno è
l’inquadramento dei principali modelli d’offerta di soluzioni SCF in Italia. In questo campo ci sono due tipi di attori: i finanziatori veri e propri, e i fornitori delle eventuali infrastrutture/piattaforme ICT sui cui i finanziamenti vengono erogati. Il problema è che, anche per la domanda di SCF ancora immatura, sono quasi solo i grandi gruppi bancari a mettere a disposizione piattaforme digitali. L’Osservatorio infatti ha accertato che in Italia la stragrande maggioranza dei primi, perlopiù banche e factor (intermediari finanziari) locali, eroga il servizio senza sfruttare una piattaforma dedicata. Le piattaforme disponibili e più utilizzate in Italia sono “chiuse” e abilitano una relazione univoca tra impresa cedente e provider di finanziamento. Ma le grandi banche internazionali stanno introducendo in Italia proposte di finanziamento “Supply Chain Finance” innovative, sfruttando piattaforme fintech in modalità “open finance” (piattaforma customizzata sulle esigenze di una specifica azienda cliente, con un numero limitato di provider di finanziamento) e “double open” (piattaforma aperta sia in termini di imprese cedenti che di provider di finanziamento, che fa incontrare domanda e offerta) emergenti a livello europeo.
il mercato del SUpplY cHain finance FACTORING 57 miliardi di euro (+ 1,8% su 2014)
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE: 62 miliardi di euro
10% di cui Reverse factoring 2,8 miliardi di euro (+ 7,7% su 2014)
11% EXPORT: 37 miliardi di euro
7% B2C: 43 miliardi di euro
8%
Solo il 26% del capitale circolante è finanziato da operatori terzi
ANTICIPO FATTURA 87 miliardi di euro (- 3,3% su 2014)
559 miliardi di euro (- 2,3% su 2014)
B2B: 416 miliardi di euro
74%
16% SOLUZIONI INNOVATIVE < 3 miliardi di euro
MERCATO NON COPERTO 412 miliardi di euro (- 2,2% su 2014)
74%
Fonte: Politecnico di Milano, Osservatori Digital Innovation
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osservatori o | ind u s t r i a i tal i ana, i l cont r i bu t o de l sup p ly c h a in f in a n c e
Costi e benefici delle soluzioni di Supply Chain Finance Il modello per il calcolo dei ritorni d’investimento nelle soluzioni di Supply Chain Finance dell’Osservatorio del Politecnico di Milano si basa su 3 tipologie di costi e 4 di benefici: • Costi di selezione, per la selezione e scelta della soluzione e del provider finanziario e tecnologico; • Costi di implementazione: acquisto e setup del sistema, change management, revisione dei contratti; • Costi di utilizzo: costi finanziari (tasso d’interesse, commissioni alla cessione, ecc.), costi operativi interni.
• Benefici finanziari: riduzione del cash-to-cash, miglioramento accesso al credito e tempi di pagamento, riduzione costo di finanziamento, etc. • Benefici economici: aumento di fatturato, riduzione dei costi d’acquisto; • Benefici intangibili: miglior gestione dei rapporti di filiera e di quelli con le banche, minor rischio di default dei fornitori, miglioramento delle proprie performance di sostenibilità; • Benefici operativi: gestione dei processi interni più efficiente ed efficace, aumento della digitalizzazione e miglioramento dei processi dei fornitori.
Un altro approfondimento riguarda la valutazione del merito creditizio delle imprese di filiera: «È necessario un approccio che vada oltre i parametri finanziari, utilizzando fonti diverse e integrando anche indici di performance operativa – spiega Caniato -. Questo può dare un’idea molto più realistica dello stato di salute dell’impresa e del suo ruolo nella filiera, permettendo al mondo finanziario di anticipare situazioni di sofferenza, e anche di cogliere il potenziale di aziende finanziariamente deboli ma meritevoli di sostegno». 2 milioni di euro di costi vivi per sostituire 12 fornitori falliti Qui Caniato ha citato ad esempio il caso di un’impresa capofiliera che ha analizzato 15 fallimenti di suoi fornitori nel 2015: «Per ben 12 di essi sia la funzione Acquisti sia la funzione Qualità avevano riscontrato cali di performance, e la funzione Finance tassi di saturazione delle linee di credito oltre l’85%. Sostituire questi fornitori ha avuto per l’azienda un costo vivo di 2 milioni di euro». L’Osservatorio però è andato ben oltre il singolo caso, incrociando i dati di rating finanziario e quelli di rating operativo (basati su indici di prestazioni di puntualità, qualità, conformità, costi ecc.) di 143 imprese italiane variegate sia per dimensione sia
«Molte imprese hanno sistemi di vendor rating, spesso entro appositi software o ERP aziendali, con informazioni aggiornate su prestazioni operative e stabilità finanziaria dei loro fornitori. Ma nessuna le scambia con le banche» | 58 |
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per fatturato, nel periodo 2009-2015. Scoprendo che per ben il 40% del campione i due rating sono discordanti: quello finanziario è alto e quello operativo basso, o viceversa. Un risultato oltretutto valido per imprese di tutte le dimensioni. In particolare c’è una rilevante percentuale (dal 35% delle grandi aziende al 28% delle piccole) che ha livelli alti di valutazione dei loro clienti sulle prestazioni operative, ma basso rating finanziario, e quindi difficoltà nell’accesso al credito. Mediamente insomma ben un terzo delle aziende industriali trarrebbe beneficio da una valutazione integrata di performance operative e finanziarie. «Una base di partenza ci sarebbe già: molte imprese industriali hanno sistemi di vendor rating, spesso supportati da appositi software o dai sistemi ERP aziendali, e quindi con informazioni già digitalizzate e aggiornate regolarmente, che integrano appunto le prestazioni operative e alcuni indici di stabilità finanziaria». Ce ne sono diverse anche nel campione analizzato dall’Osservatorio, ha precisato Caniato. «Ma nessuna oggi scambia in modo strutturato queste informazioni con le banche per facilitare l’accesso al credito dei propri fornitori: è auspicabile più collaborazione, perché condividere tali informazioni in modo trasparente e tempestivo contribuirebbe a migliorare la competitività dell’intera filiera».
Il punto di riferimento
per l’aggiornamento professionale sull’Innovazione Digitale Gli Osservatori Digital Innovation della School of Management del Politecnico di Milano sono una fonte unica di informazioni, dati e conoscenza sui temi chiave dell’Innovazione Digitale.
I Percorsi di Aggiornamento Executive
Workshop e Webinar tenuti da analisti ed esperti degli Osservatori Digital Innovation
permettono di stare al passo con i trend di innovazione e con le nuove teconologie digitali per essere sempre competitivi Percorso: Big Data & Analitycs Strategy (2016-2017)
Gli Osservatori Digital Innovation della School of Management del Politecnico di Milano organizzano un percorso di Webinar e Workshop con l'obiettivo di supportare i professionisti che si occupano concretamente di progetti di Big Data & Analitycs Strategy e che desiderano accrescere le proprie conoscenze.
Percorso: Mobile B2C Strategy (2016-2017)
Le aziende non possono più sviluppare Mobile App solo con un approccio tattico, con l’unica finalità di essere presenti anche su questo canale. Occorre definire una chiara strategia di sviluppo e gestione del “touch point” Mobile (dal concept al design, dallo sviluppo tecnico al testing, dalla promozione alla misurazione dei risultati) per il successo delle proprie iniziative.
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Percorso: Internet Media Strategy (2016-2017)
Gli Osservatori Digital Innovation della School of Management del Politecnico di Milano organizzano un percorso di Workshop e Webinar con l'obiettivo di supportare i professionisti che si occupano di Internet Media nella comprensione degli aspetti più importanti e dei principali trend in quest'ambito.
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digital transformation - finance di
daniele lazzarin
McKinsey paladina del “Long Termism”: «Basta con l’assillo della trimestrale» Un’analisi su 615 grandi imprese USA quotate mostra che quelle che tra 2001 e 2015 hanno privilegiato obiettivi di lungo termine hanno aumentato fatturato, utile e capitalizzazione di Borsa rispettivamente del 47%, 36% e 56% in più rispetto ai concorrenti. «Chi si concentra sul breve termine investe meno e mina il suo futuro». Per esempio rischia di rimanere indietro sulla digitalizzazione, «che sarà il principale differenziatore tra imprese vincenti e perdenti»
Le strategie di breve termine (“Short Termism”), con orizzonte limitato alla fine del trimestre o dell’anno, stanno diventando la norma tra le aziende quotate. Invece di definire ed eseguire strategie mirate a creare valore nel lungo termine, moltissime imprese dedicano grandi risorse al raggiungimento degli obiettivi trimestrali, minando il loro stesso futuro. Questa tesi è sempre più diffusa negli ambienti finanziari e di business, soprattutto anglosassoni. E ha sostenitori eccellenti, come Laurence Fink, CEO di BlackRock, il più grande fondo di asset management del mondo (5100 miliardi di dollari gestiti), che nel 2016, in una lettera a tutti i CEO delle aziende S&P 500, ha scritto «molte delle vostre compagnie sono solite puntare su grandi dividendi, profitti trimestrali e buy-back di azioni per compiacere investitori come me. Ma è ora di cambiare: investite di più nella crescita, e spiegate agli investitori la vostra strategia di creazione di valore nel lungo termine». BlackRock è tra i fondatori – insieme a nomi come | 60 |
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McKinsey, Dow Chemical e Tata – di “Focusing Capital on the Long Term” (FCLT Global), organizzazione non-profit che supporta appunto le strategie di business e investimento di lungo termine, e oggi conta altri iscritti “eccellenti” come AT&T, BP, Unilever, e molti fondi d’investimento e fondi pensione di tutto il mondo. La nascita di FCLT Global, e altre iniziative del genere – tra cui la creazione di un “S&P Long-Term Value Index” per imprese quotate – ha ravvivato un dibattito tra economisti ed esperti della finanza che è in corso da decenni. Da una parte c’è chi dice appunto che lo Short Termism mina la capacità delle imprese di investire e crescere, e questo impatta su tutta l’economia, rallentando l’innovazione, la crescita del PIL e la creazione di posti di lavoro. Altri sono molto scettici, e citano la crescita dell’economia negli ultimi decenni come prova che il fenomeno Short Termism riguarda singole imprese e non ha effetti negativi generali.
digital transformation - finance | McKinsey paladina del “long terMisM”
L’87% Sotto preSSione per portare riSuLtati tangibiLi entro 2 anni In questo quadro McKinsey – la più prestigiosa società mondiale di consulenza strategica – si è schierata decisamente tra i sostenitori del “long termism”, scrivendo una serie di articoli su testate come Harvard Business Review, Financial Times, Wall Street Journal, e conducendo indagini e analisi per sostenere con fatti e numeri le sue tesi. All’inizio del 2016 per esempio, con un’indagine su oltre 1000 executive C-Level e membri di consigli d’amministrazione di imprese di tutti i settori in tutto il mondo, McKinsey ha accertato che l’87% subisce forti pressioni per dimostrare risultati finanziari evidenti della propria strategia entro 2 anni, il 65% pensa che queste pressioni siano aumentate negli ultimi 5 anni, e il 55% che la propria azienda eviterebbe un investimento con sicura creazione di valore se questa rinuncia permettesse di centrare i target trimestrali. Il classico caso sono gli investimenti in tecnologie digitali - un sistema CRM, di eCommerce, o di Logistic Management - che tipicamente raggiungono il potenziale completo di benefici solo in qualche anno. In un’impresa di orientamento Short Term questi progetti sono spesso a rischio, anche perché le tecnologie digitali soffrono di un ulteriore svantaggio: nella teoria strategica non sono quasi mai associate alla creazione di valore, perché l’IT è sempre stato considerato un centro di costo. Eppure, sottolinea McKinsey, in tutti i settori una
strategia di digitalizzazione coraggiosa e fortemente integrata su tutte le sue principali componenti (prodotti e distribuzione, processi di business, supply chain, ed ecosistema), sarà nei prossimi anni il principale differenziatore tra imprese vincenti e perdenti. E i più grandi ritorni da questi investimenti saranno per chi partecipa fin dall’inizio alla “digital disruption” del suo settore. «Se tutte foSSero Long term, 5 miLioni di poSti di Lavoro in più» Insomma l’atteggiamento giusto è il Long Termism, sostiene McKinsey, ma per la sua complessa natura di confluenza di diversi fattori, i suoi effetti positivi finora erano stati evidenziati solo a livello teorico. Finora, perché poche settimane fa sulla Harvard Business Review un articolo (“Finally, Proof That Managing for the Long Term Pays Off”), firmato da Dominic Barton, Global Managing Partner di McKinsey, James Mayinka, Director McKinsey Global Institute (MGI), e Sarah Williamson, CEO di FCLT Global, ha spiegato i risultati di un’analisi empirica effettuata da MGI su 615 grandi e medie imprese USA quotate in Borsa. Analisi che dimostra – secondo gli estensori – che le imprese con strategie a lungo termine ottengono risultati notevolmente superiori ai loro concorrenti dello stesso settore su tutti gli indici finanziari più importanti. I ricercatori hanno studiato i dati finanziari e operativi delle 615 imprese del campione che rappresentano oltre il 60% della capitalizzazione
CoSa SignifiCa eSSere “Long term” Nella ricerca di McKinsey Global Institute, un’impresa è definita Long Term (LT) se ha superato in almeno 12 anni sui 15 analizzati (2001-2015) la media di settore del Corporate Horizon Index, calcolato come media pesata dei seguenti cinque indicatori:
approCCio di miSurazione
ipoteSi
1) inveStment
Le imprese LT investono di più, e in modo più consistente rispetto alle altre
Rapporto capital expenditures/depreciation
2) earningS QuaLity
I profitti delle imprese LT sono generati da cash flow reali, e non da decisioni di allocamento contabile
Percentuale di ratei attivi (accruals) rispetto al fatturato
3) margin growth
Le imprese LT sono meno propense a “gonfiare” i margini in modo insostenibile per centrare gli obiettivi trimestrali
Differenza tra crescita degli utili e crescita del fatturato
4) QuarterLy management
Le imprese LT sono disposte a mancare anche di pochissimo i target trimestrali, evitando “manovre artificiose” per centrarli a tutti i costi
Percentuale di volte che il target di EPS (Earnings per Share) è stato superato per meno di 2 cent, e di volte che è stato mancato per meno di 2 cent
5) epS growth
Le imprese LT sono meno propense a “gonfiare” l’EPS rispetto al profitto reale, per esempio con azioni di buyback
Differenza tra crescita dell’EPS e crescita dell’utile netto
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Fonte: McKinsey Global institute Analysis
indiCe
digital transformation - finance | mckinsey paladina del “long termism”
totale delle Borse USA – relativi ai bilanci dal 2001 al 2015. «Per tracciare sistematicamente gli impatti del Long Termism – scrivono i tre autori – abbiamo definito il Corporate Horizon Index, basato su cinque indicatori finanziari: investimenti, qualità dei profitti, margin growth, earnings growth, quarterly targeting (le definizioni sono specificate nel box)». È emerso un gruppo di 164 aziende (il 27% del campione) che sono “Long Term” dal 2001, o lo sono diventate entro pochi anni, e che nel periodo esaminato hanno incrementato il fatturato, l’utile netto, la capitalizzazione di borsa rispettivamente del 47%, del 36% e del 56% in più rispetto alla media dei concorrenti nei rispettivi settori. Inoltre nel periodo hanno speso il 50% in più in ricerca e sviluppo, e negli anni della crisi economica (2008 e 2009) hanno subito oscillazioni in borsa più forti dei concorrenti, ma dopo hanno recuperato più velocemente. Non solo. Le imprese Long Term nel periodo hanno creato in media 12mila posti di lavoro in più della media dei concorrenti: se tutte le imprese si fossero comportate come loro, gli USA avrebbero avuto 5 milioni di posti di lavoro in più dal 2001 al 2014, e un PIL di 1000 miliardi di dollari più alto. I crItIcI: lo Short termISm non è un problema generale Questa analisi, scrivono gli autori, è solo un primo passo, anche perché il campione comprende solo
Long Term, la figura più decisiva è il CFO Un altro articolo sul tema Long Termism/Short Termism apparso ultimamente sulla Harvard Business Review (“How CFOs Can Take the Long-Term View in a ShortTerm Economy”) indica nel Chief Financial Officer (CFO) la figura decisiva per promuovere l’orientamento al lungo termine in azienda. È infatti il CFO, più che il CEO, che spiega agli investitori le strategie di crescita aziendali, e che supervisiona l’allocazione delle risorse per realizzarle. E la posizione favorevole del CFO è decisiva per creare una cultura che incoraggi i manager a fare innovazione in azienda. L’articolo dà cinque consigli ai CFO per farsi “paladini” del Long Term. 1) Evidenziate le minacce di oggi e le conseguenti opportunità per cambiare il business. Non temete di spaventare gli investitori: il mercato apprezzerà la capacità di capire le possibili evoluzioni dei settori in cui l’azienda opera. 2) Definite una convincente visione futura del vostro | 62 |
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imprese USA quotate, mentre gli effetti dello “short termism” vanno approfonditi anche in altre regioni del mondo, nelle medie imprese, e settore per settore. «Però ha già ottenuto due grandi risultati. Oltre a quantificare gli enormi ritorni del Long Termism, ha dimostrato anche che questo orientamento si può acquisire: il 14% del campione non era LT nel 2001, e lo è diventato durante il periodo esaminato». L’articolo McKinsey-FCLT Global sulla Harvard Business Review naturalmente ha suscitato molte reazioni. Ne citiamo solo due a titolo d’esempio. Larry Summers, già US Treasury Secretary nell’amministrazione Clinton, sulla stessa HBR si dice scettico sulle conclusioni dell’analisi (“se davvero lo Short Termism danneggiasse la propensione agli investimenti, provocherebbe una stagnazione secolare”) ma la definisce molto importante: «Occorre un approfondito dibattito, con altre analisi empiriche che rispondano a questa». L’Economist invece, con l’articolo “Corporate short-termism is a frustratingly slippery idea”, nella sua rubrica “Schumpeter”, sostiene che solo in singole aziende lo Short Termism fa davvero danni. Quindi è una distrazione dalla vera criticità: gli eccessivi profitti degli “incumbent” nei vari settori, settori che diventerebbero molto più dinamici e innovativi se la politica industriale indebolisse le posizioni dei leader abbassando le barriere all’entrata. Il dibattito, insomma, è più che mai aperto.
mercato, partendo dalle emergenti esigenze dei clienti. Non dite che il futuro è incerto e che reagirete man mano: un’azienda che guarda avanti deve saper capire come stanno cambiando i comportamenti del cliente. 3) Dimostrate la necessità di investire da oggi in progetti non-core per “creare” il futuro. Il CFO deve chiarire a tutti che è più economico varare un portafoglio di piccoli progetti di lungo termine oggi, invece di perdere opportunità ed essere poi costrette a recuperare con costose acquisizioni. 4) Fissate obiettivi di lungo termine. Non è necessario specificare dei target di fatturato e utile a 5 anni, ma senza traguardi precisi è impossibile capire “quanta” crescita è necessaria, quanto occorre investire, e quando. 5) La visione di lungo termine del management dev’essere pubblica, ma flessibile riguardo alle modalità di realizzarla. I grandi investimenti vanno fatti solo quando assicurano un forte vantaggio competitivo. Siate due passi avanti rispetto ai concorrenti, non 10.
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digital transformation - ProCUr EmEnt di
ManUela Gianni
intervista a
Stefano Gentilini
Procurement, i benefici del processo “Source-to-Pay” digitale
DIreCtOr BrAvOSOLutIOn
La digitalizzazione “end to end” della supply chain è oggi una delle priorità delle aziende più innovative da un punto di vista tecnologico e organizzativo. Ne è un esempio la gestione integrata del ciclo Source-To-Pay, che parte dalla generazione dei fabbisogni, attraversa gli acquisti e arriva fino alla fatturazione. Ne parliamo con Stefano Gentilini, Director di BravoSolution, specialista in questo ambito
Gestire ordini e fatture, rinegoziare i contratti di acquisto, raccogliere informazioni sui fornitori, tenere sotto controllo le spese. Sono tutte sfide e attività che ogni giorno le aziende affrontano, generalmente con un approccio a silos: la divisione Acquisti, l’area Finance, la Logistica seguono ciascuno la propria area di attività, in autonomia. Ora però lo scenario sta cambiando rapidamente. Come? Lo spiega Stefano Gentilini di BravoSolution, società leader nell’ambito delle piattaforme software per la digitalizzazione dei processi di Procurement end-to-end, con importanti clienti in tutto il mondo. «Le barriere di un tempo fra le diverse funzioni aziendali sono state abbattute. Le organizzazioni più mature da un punto di vista organizzativo e tecnologico si muovono in modo deciso verso un approccio integrato al processo, noto come Source-to-Pay», spiega il manager. Che significa, dunque, Source-to-Pay? È il processo di business che parte dal sourcing strategico per gli approvvigionamenti e arriva fino al pagamento, passando per la definizione | 64 |
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dei fabbisogni, gli acquisti, la contrattualizzazione e la gestione del ciclo passivo. Come viene approcciata oggi nelle aziende la digitalizzazione della filiera di fornitura, ovvero il processo Source-to-Pay? Sempre più questa tipologia di progetti, soprattutto in organizzazioni complesse, ha una valenza interfunzionale e coinvolge attori diversi rispetto al passato. Il nostro interlocutore è un team che comprende Procurement, Finance, Logistica e altri top manager che lavorano in modo coordinato lungo tutta filiera di fornitura. I clienti non ci chiedono quindi solamente di fornire una tecnologia abilitante efficace, ma la capacità di progettare e realizzare la trasformazione, un deployment che sia anche supportato da conoscenze di processo e forti competenze di ridisegno organizzativo. Se si adotta una piattaforma tecnologica senza intervenire parallelamente sul layer organizzativo e di processo non è facile ottenere risultati apprezzabili.
digital transformation - ProCUrEmEnt | i benefici del processo “source-to-pay” digitale
Quali sono i primi passi da compiere? Si parte da una fase di Assessment, importante per capire la maturità dell’ecosistema aziendale e dei principali fornitori di riferimento al fine di individuare i gap da colmare, in termini di funzionalità e di expertise di processo. Poi si progetta l’intero processo Source-toPay con ottica integrata: tanto più si allarga lo scope del progetto, tanto più ampi sono i benefici correlati. La tecnologia arriva dopo: la nostra soluzione BravoAdvantage prevede un insieme di feature che vengono attivate in funzione delle esigenze del cliente che siamo andati a mappare, sia in termini di funzionalità che di integrazione con i sistemi legacy aziendali. Quali vantaggi si possono ottenere? Una piattaforma di Procurement online crea mediamente un fattore moltiplicativo fino a 3: significa che le stesse persone arrivano a gestire 3 volte ordini e fatture rispetto alle aziende che operano in modalità tradizionale. È un’opportunità di riorganizzare il lavoro e orientare le persone verso attività a più alto valore aggiunto: invece della verifica di conformità fra un ordine e una fattura, si può ad esempio dedicare più tempo al marketing d’acquisto o all’analisi dei rischi di fornitura. Ci sono poi vantaggi intangibili come la maggiore collaborazione interfunzionale e con i fornitori, la condivisione di conoscenza fra le diverse aree aziendali: ad esempio, le informazioni sulla negoziazione o i feedback sui fornitori diventano un valore condiviso, disponibile a tutte le aree coinvolte. Un altro vantaggio riguarda l’analisi dei dati, tema di grande attualità. Gli Analitycs possono creare poco valore e non generare capacità predittiva se non si applicano al ciclo completo Source-to-Pay in maniera integrata: solo così è possibile valutare i reali impatti sul business. La fatturazione elettronica che ruolo ha in questo processo? È molto importante, ma per generare un vero beneficio tutto il processo deve essere interamente digitalizzato: dematerializzare il solo documento fattura rischia di creare unicamente un ulteriore carico di lavoro. Ricordo che la fatturazione elettronica verso la PA è già obbligatoria e che quella B2B, fra privati, è oggetto di un iter normativo già avviato, con una spinta anche a livello europeo. Chi si attiva oggi sarà avantaggiato nel prossimo futuro. Chi è di solito lo sponsor interno di questi progetti di digitalizzazione? In generale, i progetti hanno successo se hanno un commitment che parte dalla direzione generale. Un tempo erano iniziative spinte dagli acquisti o dall’IT, ora in prima battuta nascono dalle funzioni di busi-
ness. Chi genera il bisogno spesso sono le funzioni aziendali a valle, come la produzione, che hanno vantaggi indotti consistenti se viene snellito il processo a monte. Guardando nel complesso al mercato italiano, a che punto sono le aziende rispetto a questo tipo di iniziative? L’Italia è un mercato a due velocità. Per molte grandi aziende la digitalizzazione del processo Source to Pay è un dato di fatto, un modo di agire ormai consolidato, mentre nelle PMI troviamo ancora un approccio non progettuale ma tecnologico. I benefici non sono percepiti globalmente e l’ufficio acquisti si focalizza principalmente sulla negoziazione dei contratti con i fornitori, per spuntare i prezzi migliori possibili. È un retaggio culturale che va superato. BravoSolution si propone di individuare il percorso migliore e stabilire un obiettivo realistico, dando indicazioni del ROI di progetto, ma andando al di là della singola attività negoziale. Predisponiamo cioè il cosiddetto Proof of Concept, partendo non dalla tecnologia ma dalle esigenze di business e dai processi del cliente. In altre parole, il cliente vede mappati i suoi processi “as is” e “to be” sulla nostra piattaforma e riesce a coglierne in tempo reale tutti i benefici correlati tramite le simulazioni di processo che siamo soliti effettuare, andando oltre la classica “demo standard”. Le aziende chiedono di ottenere benefici anche nel breve periodo. Come si concilia questa esigenza con l’approccio che guarda alla digitalizzazione dell’intero processo end-to-end? Ci sono due strade. La prima prevede di avviare un progetto pilota per dimostrare nel breve il beneficio e successivamente allargare lo scope di progetto. Un secondo approccio, più frequente, prevede di segmentare il progetto in “wave”, per processi, geografia, divisione aziendale o categoria merceologica. Ad esempio, si comincia con il Sourcing dei materiali indiretti: una volta rinegoziati i contratti, si ottengono risparmi che permettono di finanziare l’ampliamento del progetto, approcciando per esempio le fasi di gestione ordini e fatture. Una volta percepiti i benefici della Digital Transformation sia di carattere economico che organizzativo in un contesto competitivo difficile come quello italiano, i possibili dubbi generalmente svaniscono. I fornitori, se correttamente coinvolti, spesso sono un importante fattore di cambiamento. Ci sono poi anche aziende, soprattutto quelle grandi, che affrontano il processo di innovazione nella sua globalità, ovviamente supportando risorse interne e mercato di fornitura con adeguati programmi di onboarding dell’iniziativa. www.digital4executive.it
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intervista di
MANUELA GIANNI
la formula unica di WOBI, l’evento che ispira i manager in tutto il mondo Personalità prestigiose del mondo del business e dell’economia (ma non solo) intervengono sui temi piu “caldi” della leadership, dell’innovazione e del management. Una due giorni, quella del World Business Forum organizzato da WOBI, che viene replicata con crescente successo in tutto il mondo. «Offriamo idee capaci di innescare il miglioramento all’interno delle organizzazioni. Ciascuno porta a casa qualcosa di davvero positivo»
Il grande imprenditore Richard Branson; il guru della strategia Gary Hamel; il padre del marketing moderno Philip Kotler; il campione di tennis Andrè Agassi. Sono alcune delle personalità che hanno calcato in questi anni il palco del World Business Forum, evento creato da WOBI (World of Business Ideas) oggi replicato in tutto il mondo, da Bogotà a Sydney, da New York a Madrid. Evento che ha visto in questi anni un crescente successo di pubblico. Il segreto? Una formula unica, adatta alle esigenze di oggi dei manager e in grado di ispirare innovazione e miglioramento, come spiega Alberto Saiz, CEO per l’Europa, fra i principali artefici della crescita dell’evento. Approdato in WOBI nel 2002 come Direttore Commerciale, due anni dopo è diventato Direttore Generale per la Spagna e il Portogallo e nel 2012 si è trasferito in Australia dove ha organizzato il primo World Business Forum a Sidney. Nel 2015, poi, ha realizzato la prima edizione dell’evento in Asia, a Hong Kong. | 66 |
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Quali sono gli elementi distintivi del format, gli aspetti che lo rendono un evento speciale nel panorama attuale? Fin da quando abbiamo iniziato a organizzare i nostri eventi, abbiamo sempre avuto una missione ben definita. L’idea era la seguente: la maggior parte dei manager provengono dal mondo universitario, molti hanno conseguito degli MBA, altri hanno frequentato Master in diverse Business School, ma tutti hanno la medesima esigenza di aggiornare costantemente le proprie conoscenze in materia di gestione aziendale. Tuttavia è molto difficile fare formazione a un amministratore delegato o a un direttore generale. Quando un’azienda offre formazione ai propri dipendenti, a qualsiasi livello, ha una moltitudine di offerte che la portano a chiedersi “Qual è l’offerta migliore? Quali opportunità offrire ai nostri manager?”. È lì che noi colmiamo il vuoto: in soli due giorni di evento offriamo idee capaci di innescare innovazioni e miglioramento all’interno delle organizzazioni. Riteniamo che il nostro
intervista | la formula unica di WoBi, l’evento che ispira i manager in tutto il mondo
successo si basi sulla consapevolezza che ogni azienda che partecipa ai nostri eventi con i propri manager, direttori generali o responsabili di funzione, porta a casa qualcosa di davvero positivo che le consente di migliorare.
aLBERTO SaIZ CHIEF ExECUTIvE OFFICEr WOBI In EUrOPA
Come scegliete le tematiche da sviluppare? La pianificazione inizia con la selezione dei temi: alcuni non sono cambiati e ricorrono nel tempo, come leadership e strategia, altri invece si sono aggiunti man mano, come l’innovazione e la trasformazione digitale. Una volta scelto il tema del panorama imprenditoriale più “caldo”, cerchiamo le persone giuste in grado di trasferire una conoscenza inconsueta, fuori da schemi e convenzioni. Ciò fa di ogni edizione un appuntamento unico che cambia in funzione del momento imprenditoriale che il Paese in questione sta attraversando. A quali interlocutori vi rivolgete principalmente? E come si compone la vostra platea? Abbiamo un Dipartimento Marketing che studia i profili di maggiore interesse per i nostri clienti e per il tema che vogliamo trattare in ogni edizione. Da quel momento gli speaker diventano i nostri interlocutori. Si tratta di profili prestigiosi e professionali, opinion leader dei temi che affrontiamo, ma anche figure universalmente riconosciute con alle spalle autentiche storie di successo. Il nostro pubblico è composto da menti “inquiete” con una passione autentica per il business, persone che vogliono trarre ispirazione dalle figure più influenti del mondo degli affari e non solo. Persone che si emozionano di fronte alla sfida di trasformare le idee in progetti e i progetti in imprese. Che cosa o chi il pubblico apprezza maggiormente? C’è un aspetto davvero importante per il nostro pubblico ed è il fatto che noi di WOBI cerchiamo di essere sempre molto realisti e trasparenti. Siamo consapevoli che le imprese sono le persone che la formano. Per questo riteniamo che qualsiasi piccolo cambiamento nello stile di leadership dell’azienda, qualsiasi ispirazione che
consenta di cambiarne e migliorarne l’organizzazione o qualsiasi idea che accenda una luce in qualcuno per creare determinati processi di innovazione e di trasformazione digitale è di grande utilità. Un’utilità che i nostri clienti percepiscono: se qualcuno di loro migliora anche di poco in alcune di queste aree grazie alle idee e ai contenuti circolati al World Business Forum, il prezzo del ticket è più che ripagato. Ce lo confermano ogni edizione i clienti. Il tema scelto per il prossimo evento è Humanification: che significa? Tutti siamo consapevoli che il progresso tecnologico ha rivoluzionato il modo gestire il business, mettendo a disposizione dati, metriche e automazione che hanno dato un grande impulso alla produttività. Tuttavia non dobbiamo dimenticarci delle persone. È proprio a loro che dobbiamo rivolgere l’attenzione, sviluppandone tutto il potenziale affinché diventino leader in grado di integrare quelle tecnologie che rafforzano le aziende. È ciò che noi di WOBI chiamiamo “Humanification”, ossia il passaggio dalla produttività al massimo potenziale, dall’automazione all’arte, dall’individualismo alla collaborazione.
Gli speaker dell’edizione di Milano: 7-8 novembre 2017 La prossima edizione del World Business Forum in Italia si terrà a Milano il 7-8 novembre. Come sempre, gli speaker incoraggeranno le aziende a valorizzare il talento, nutrire la creatività, liberare il potenziale, lavorare in rete, ascoltare i propri clienti e soprattutto umanizzare la tecnologia. Michael Porter, illustre economista, analizzerà il tema a partire dalla strategia; Chris Anderson, imprenditore tech ed ex Editor in Chief di Wired, invece, lo affronterà dal punto di vista dell’innovazione; Nicholas Negroponte, cofondatore del MIT Media Lab, spiegherà l’importanza di studiare il futuro; Randi Zuckerberg,
ex Direttrice Marketing di Facebook, metterà in risalto la trasformazione digitale; mentre Rachel Botsman sottolineerà l’importanza dell’economia collaborativa; Jonah Berger, Professore di Marketing alla Wharton School, affronterà il tema nell’ambito del marketing; George Kohlrieser lo collegherà all’importanza della leadership; Abigail Posner, Head of Strategic Planning in Google, metterà in evidenza l’importanza della creatività e, infine, Chris McChesney, Global Practice Leader of Execution per FranklinCovey, si concentrerà sull’importanza dell’Execution. www.digital4executive.it
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LA SCHOOL OF MANAGEMENT
La School of Management del Politecnico di Milano, con oltre 240 docenti, e circa 80 fra dottorandi e collaboratori alla ricerca, dal 2003 accoglie le molteplici attività di ricerca, formazione e alta consulenza, nei campi del management, dell’economia e dell’industrial engineering che il Politecnico porta avanti attraverso le sue diverse strutture interne e consortili. Fanno parte della Scuola il Dipartimento di Ingegneria Gestionale, le Lauree e il PhD Program di Ingegneria Gestionale e il MIP, la business school del Politecnico di Milano. La School of Management ha ricevuto nel 2007 l’accreditamento EQUIS. Dal 2009 è nella classifica del Financial Times delle migliori Business School d’Europa.
GLI OSSERVATORI DIGITAL INNOVATION
Gli Osservatori Digital Innovation della School of Management del Politecnico di Milano (www. osservatori.net) vogliono offrire una fotografia accurata e continuamente aggiornata sugli impatti che le tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) hanno in Italia su imprese, pubbliche amministrazioni, filiere, mercati, ecc. Gli Osservatori sono ormai molteplici e affrontano in particolare tutte le tematiche più innovative nell’ambito delle ICT, classificate secondo 3 macro categorie. Digital Transformation: Agenda Digitale, Digital Transformation Academy, Startup Hi-tech, Startup Intelligence. Digital Solutions: Big Data Analytics & Business Intelligence, Cloud & ICT as a Service, eCommerce B2c, Enterprise Application Governance, Fatturazione Elettronica & eCommerce B2b, Gestione Progettazione e PLM (GeCo), Information Security & Privacy, Internet of Things, Mobile B2c Strategy, Mobile Payment & Commerce, Omnichannel Customer Experience, Smart Working. Verticals: Cloud nella PA, Contract Logistics, Digital Finance, Digital Insurance, eGovernment, Export, Gioco Online, HR Innovation Practice, Industria 4.0, Innovazione Digitale in Sanità, Innovazione Digitale nei Beni e Attività Culturali, Innovazione Digitale nel Retail, Innovazione Digitale nel Turismo, Internet Media, Mobile Banking. Professionisti e Innovazione Digitale. Smart AgriFood. Supply Chain Finance.
I prossimi Convegni
di presentazioni dei risultati delle Ricerche degli Osservatori Osservatorio HR Innovation Practice
Convegno di presentazione dei risultati della Ricerca 2061/2017 L’Osservatorio HR Innovation Practice, durante la nuova Ricerca, si è posto di rilevare e analizzare: gli obiettivi, il budget ICT e i trend di investimento della Direzione HR; le nuove competenze e le nuove professionalità necessarie alla Direzione HR; il ruolo delle tecnologie digitali nei processi di gestione delle Risorse Umane approfondendo il tema del Digital Learning e della formazione, e il workforce management; gli approcci disruptive legati ai nuovi trend digitali (Analytics, Mobile, Social e Cloud); gli approcci da utilizzare per favorire l’engagement delle persone attraverso iniziative come lo Smart Working e il welfare aziendale. In linea con le precedenti edizioni, la Ricerca si è basata su un’analisi empirica che, attraverso survey e casi di studio, coinvolge ogni anno oltre 100 attori tra Direttori HR, Responsabili Formazione, Responsabili Comunicazione Interna, Responsabili Amministrazione del personale, Responsabili ricerca e selezione del personale.
Osservatorio Internet Media
Convegno di presentazione dei risultati della Ricerca 2016/2017 L’Osservatorio Internet Media, giunto alla sua decima edizione, ha come obiettivo principale quello di fornire la fotografia del mercato dei Media digitali in Italia, con particolare attenzione alla quantificazione delle diverse componenti (advertising e a pagamento). Nell’ultimo anno, l’Osservatorio ha studiato le strategie dei diversi attori dell’offerta e analizzato l’approccio dei marketer italiani a iniziative innovative di advertising digitale, identificando i principali trend del settore. Attraverso survey e censimenti, sono stati esaminati i comportamenti degli utenti online e sono state studiate le dinamiche imprenditoriali delle startup, sia in Italia sia a livello internazionale. Durante l’evento verranno quindi descritti i possibili scenari futuri per il panorama italiano di questo settore.
Osservatori Industria 4.0
Convegno di presentazione dei risultati della Ricerca 2016/2017 L’Osservatorio Industria 4.0, giunto quest’anno alla sua terza edizione, si propone in Italia come riferimento per manager e decisori che debbano comprendere in profondità le innovazioni digitali che stanno trasformando il comparto industriale, codificando e rendendo fruibile la conoscenza sul tema e creando una comunità italiana attiva e aperta al confronto con le pratiche internazionali. La Ricerca di quest’anno si è focalizzata su molti aspetti: la stima della diffusione del tema e il valore del mercato italiano; il confronto con l’estero, sia a livello di esperienze aziendali, sia a livello di politiche nazionali; l’identificazione dei profili professionali e delle skills necessarie per l’Industria 4.0; la mappatura degli standard più rilevanti per i processi di digitalizzazione della manifattura; l’approfondimento di temi di grande interesse (Augmented/Virtual Reality, Cloud, CPS, Industrial IoT, Startup). Il Convegno sarà quindi l’occasione per comprendere tutti questi aspetti relativi all’Industria 4.0.
25 maggio 2017 Aula Rogers Politecnico di Milano Campus Leonardo Edificio 11 Via Ampère, 2 20133 Milano
14 giugno 2017 Aula Magna Carassa-Dadda Politecnico di Milano Campus Bovisa Edificio BL28 Via Lambruschini, 4 20156 Milano
22 giugno 2017 Aula Magna Carassa-Dadda Politecnico di Milano Campus Bovisa Edificio BL28 Via Lambruschini, 4 20156 Milano
Informazioni aggiornate al 6 aprile 2017 - Per i dettagli completi visitare www.osservatori.net/it_it/convegni/prossimi
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Cotonella supera la prova disaster recovery
La business continuity è uno dei temi portanti su cui spesso le aziende si trovano a dibattere. Molto dipende dalla capacità degli imprenditori di comprendere quanto sia utile investire in qualcosa che ha un impatto in pratica nullo sulla produttività. L’azienda bresciana Cotonella ha vissuto in prima persona quanto possa essere decisivo in alcuni momenti avere un piano di business continuity. «Una sera di fine novembre, una telefonata a casa mi avvisa di un incendio nella nostra sede di Sonico, in Valcamonica - ricorda Marco Zannier, uno dei figli della proprietà, e Responsabile sviluppo retail di Cotonella -. Non si trattava di un piccolo rogo, l’edificio bruciava da tutte le parti. Il problema vero era la continuità - prosegue Zannier -. Qualcuno è riuscito a mettere al sicuro almeno una parte dei backup. Prima di mezzogiorno eravamo già relativamente tranquilli di poter superare l’incidente». Solo nel momento in cui vengono a mancare tutti insieme i supporti digitali ci si rende conto di quanto sia pericoloso per un’azienda non poter più interagire. Essere lungimiranti, in Cotonella si è invece rivelato uno degli investimenti migliori. «Abbiamo sempre ritenuto importante la sicurezza dei dati - sottolinea Zannier -. È una polizza assicurativa contro la perdita di controllo della filiera produttiva, una delle evenienze peggiori». In quarant’anni di storia, l’azienda non ha mai esitato ad adottare nuovi strumenti, anche quando realizzare un progetto di business continuity in zone come la valle del bresciano non risulta facile. «Circa quattro anni fa eravamo in scadenza con diverse licenze - spiega Andrea Mariotti, IT manager di Cotonella -. Il Cloud era molto meno spinto di oggi, ma di fronte alla carenza infrastrutturale, una soluzione ibrida era la scelta obbligata». Puntare al Cloud senza esitazioni si
Grazie a un piano di business continuity, studiato con project informatica e basato su tecnoloGie Veeam, l’azienda bresciana è riuscita a Garantire la continuità e salVare i dati durante un incendio
marco zannier Responsabile sviluppo Retail Cotonella
sarebbe rivelato un elemento importante per far fronte a imprevisti gravosi. «Non è sufficiente ridondare i dati in azienda - osserva Mariotti -. Abbiamo studiato un sistema di backup remoto e disaster recovery nella sede del nostro partner tecnologico Project Informatica in aggiunta al nostro. Si è rivelata la vera carta vincente nel momento del disastro». Una rapporto di fiducia cresciuto nel tempo, superando anche storici pregiudizi. «Ogni problema viene affrontato direttamente con la proprietà, il mio interlocutore è chi decide. Anche per questo, è stato facile spiegare il valore di principi come backup, business continuity e disaster recovery». Un lavoro di squadra capace di garantire risultati. «Con Cotonella abbiamo sviluppato la componente dei sistemi in varie fasi - interviene Enrico Bassi, pre-sales manager Servizi e Soluzioni Cloud di Project Informatica -. Abbiamo imboccato già da tempo la strada dei servizi remoti, individuando in Veeam il partner strategico per tutta la parte di difesa dei dati. Abbiamo la possibilità di connetterci con le infrastrutture Cotonella e agire come repository remoto». A garantire il lieto fine di una storia potenzialmente drammatica, la giusta combinazione di fattori come lungimiranza, disponibilità e affiatamento con i partner. «Project per noi ha fatto salti mortali - conclude Zannier -, garantendoci subito la priorità necessaria a salvare l’azienda».
pe r u lt er i o r i i n f o rma zioni...
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intervista
sergio colella
Al via anche in Italia DXC Technology: «Servizi enterprise veramente end-to-end»
VICE PRESIDENT, REGIoNAL SALES SouTH EuRoPE E AmmINISTRAToRE DELEGATo ITALIA DXC TECHNoLoGY
La nuova realtà è nata dalla fusione a livello globale fra due storiche protagoniste del mondo della consulenza tecnologica, CSC e Hewlett Packard Enterprise (HPE) Services. Un colosso con 170mila dipendenti in 70 Paesi, che ha solide radici in Italia e che punta a guidare le più importanti aziende italiane nella loro trasformazione digitale
Da aprile è operativa anche in Italia DXC Technology, azienda nata dalla fusione tra CSC (quotata alla Borsa di New York come CSC) e il ramo Enterprise Services di Hewlett Packard Enterprise (HPE). Annunciata lo scorso maggio, l’operazione è tra le più significative effettuate negli ultimi anni nel mondo ICT, e dà vita a una delle più grandi società globali di servizi IT con un fatturato annuo superiore a 25 miliardi di dollari, oltre 170.000 dipendenti al servizio di oltre 5.900 clienti e presenza in più di 70 Paesi, solo per citare alcuni numeri. La nuova azienda, come spiega Sergio Colella, Vice President, Regional Sales South Europe e AD Italia, si pone obiettivi ambiziosi: «Guidare le aziende italiane nella trasformazione digitale, indicando come la tecnologia possa non solo supportare il business ma essere al suo centro, trasformandolo». Dopo questa fusione, qual è il focus strategico di DXC Technology? La nuova società capitalizza l’incredibile esperien| 70 |
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za di due leggende del settore dei servizi IT: sia CSC sia HPE ES hanno guidato, per oltre mezzo secolo, le più grandi imprese pubbliche e private nella trasformazione della loro attività grazie alle tecnologie via via resesi disponibili. Questa è la base di partenza di DXC Technology, ma da maggio scorso la leadership delle due società si è dedicata a definire una strategia, un portafoglio di offerte di servizi e un modello operativo innovativi, che meglio rispondano alle nuove sfide che i nostri clienti devono affrontare in un mercato che evolve in continuazione e in maniera imprevedibile: oggi il cambiamento è la sola certezza. E come vi proponete ai clienti? I processi e l’organizzazione di questa nuova società sono stati costruiti per essere completamente “client centric”. Cioè tutto comincia e finisce con i nostri clienti: partendo dalle loro esigenze, le soluzioni e i servizi vengono pensati e costruiti per arrivare al
intervista | Al viA Anche in itAliA DXc technology: «servizi enterprise verAmente enD-to-enD»
«Abbiamo definito una strategia, un portafoglio di offerta di servizi e un modello operativo innovativi, per rispondere alle nuove sfide che i nostri clienti devono affrontare in un mercato che evolve in continuazione»
risultato atteso, non solo a livello di servizi ma in termini di “business outcome”. Ciò implica che la gamma di servizi offerti sia veramente “end-to-end”, con un arricchimento in particolare sui servizi di consulenza. Inoltre la governance dell’azienda è molto semplificata e ciò si traduce in una più veloce capacità di risposta alle esigenze del mercato. Si tratta poi di una società di servizi indipendente, che collabora in piena libertà con i migliori attori/ecosistemi per produrre le migliori soluzioni. Si avvale di un esteso network formato da più di 250 partners a livello globale e 14 alleanze strategiche con i più importanti fornitori di soluzioni innovative per le imprese. Inoltre DXC Technology, con i sui 37 centri di produzione a livello globale (Strategic Delivery Center), garantisce una capacità di risposta e un modello di delivey dei servizi tra i più performanti al mondo. Si tratta quindi di un nuovo leader mondiale, fornitore di servizi tecnologici, che si posiziona come il partner ideale per accelerare il percorso di trasformazione digitale in atto presso le grandi aziende. Con queste premesse DXC Technology ha debuttato ufficialmente il 3 aprile con la quotazione sul mercato di New York (NYSE) con il simbolo “DXC”, e serve l’importante base di clienti sul nostro mercato con rinnovate competenze e una maggior capacità di trasformazione delle realtà in cui opera. Cosa vi aspettate, dunque, da questa fusione? Ciò che ha spinto CSC e Hewlett Packard Enterprise Services a unirsi è certamente l’opportunità di creare una nuova società con risorse e capacità di innovazione uniche, capace di operare su scala globale capitalizzando l’incredibile esperienza delle due aziende ma con rinnovato slancio e capacità di investimento per affrontare le nuove sfide del mercato. È chiaramente il caso di dire che in questa fusione 1+1 è uguale a molto più di 2, sia per le importanti sinergie tra le due aziende, sia per la trasformazione in un nuovo soggetto che opera con modalità che meglio rispondono al bisogno di velocità e flessibilità delle nuove sfide che i nostri clienti devono affrontare. La priorità è quindi sempre la soddisfazione dei nostri clienti, ma crediamo che questa fusione permetterà anche, da un lato di offrire ai nostri dipendenti la possibilità di crescere in un ambiente
altamente qualificante, dall’altro di continuare ad attirare i migliori talenti disponibili sul mercato che potranno trovare in DXC Technology prospettive uniche di crescita professionale. Quali saranno le principali aree di attività? DXC Technology continuerà a operare in tutti i settori industriali in cui già operano CSC e HPE ES, con un’offerta strutturata attorno a diverse tipologie di servizi. Nello specifico, la società offre al mercato otto tipologie di servizi: Cloud & Workload Platforms, Workplace & Mobility, Application Services, Enterprise & Cloud Apps, Business Process Services, Big Data & Analytics, Security e Consulting. Inoltre, DXC Technology investe in modo particolare in 4 settori in cui propone soluzioni innovative proprietarie: Insurance, Travel and Transportation, Banking & Capital Markets, Life Sciences & Healthcare. Che ruolo ha l’Italia nella nuova strategia? L’Italia è un mercato di primaria importanza per DXC Technology. HPE ES ha operato nel nostro paese per oltre 50 anni, con importanti investimenti - come i data center e i centri di produzione locali - e con impegni di lungo termine presi per esempio nel settore pubblico, con concessioni pluriennali volte ad aumentare la competitività del paese nel campo dell’istruzione, dell’amministrazione o della logistica. Anche in Italia potremo mettere al servizio dei nostri clienti queste nuove capacità di investimento, innovazione e trasformazione, continuando a garantire il massimo livello di servizio per le attività in corso. In particolare tengo a sottolineare le vere novità che fin da subito saranno evidenti sul mercato italiano. Innanzitutto una vera capacità di offrire servizi “end-to-end”, in particolare con nuovi servizi di consulenza. In seconda battuta l’indipendenza da particolari tecnologie e l’accesso a un esteso network di partners globali. Infine l’accesso a soluzioni innovative sviluppate specificamente per alcuni settori, come spiegato in precedenza. I settori industriali sui quali DXC Technology focalizzerà la sua attività in Italia sono molteplici: in dettaglio, sono Healthcare, Insurance, Banking, Manufacturing, Energy & Tech, Consumer & Retail & Transport e Public Sector. www.digital4executive.it
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normative
Regolamento GDPR, pubblicate le prime linee guida. Verso un nuovo modo di gestire la privacy
di
gabriele faggioli
GIURIsTA CEO, P4I - PARTNERs4INNOVATION
In tre documenti ufficiali le prime indicazioni relative al nuovo Regolamento UE sulla Data Protection, che diverrà applicabile il 25 maggio 2018. Si tratta di un primo tentativo di fornire dei chiarimenti su istituti di particolare rilevanza come l’”Autorità capofila” e di risolvere nodi problematici quali la definizione di trattamenti “su larga scala” o la figura del Data Protection Officer (DPO)
Il 13 dicembre 2016 il Gruppo di Lavoro art. 29 ha pubblicato tre documenti contenenti indicazioni e raccomandazioni relative al nuovo Regolamento UE n. 679/2016 (Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati, RGPD, o General Data Protection Regulation, GDPR), che diverrà definitivamente applicabile a decorrere dal 25 maggio 2018. Essi riguardano, in particolare, il diritto alla portabilità dei dati, il Responsabile per la protezione dei dati (“Data Protection Officer”) e l’”Autorità capofila” che fungerà da “sportello unico” per i trattamenti transnazionali. Il dIrItto alla portabIlItà deI datI Il diritto alla portabilità dei dati permette all’interessato di poter ricevere i dati personali, che ha fornito ad un Titolare del trattamento, in un formato strutturato, di uso comune e leggibile da un dispositivo automatico e di ottenere, ove possibile, la trasmissione diretta degli stessi. Al riguardo, il | 72 |
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Gruppo di Lavoro art. 29 ha precisato che tale diritto è esercitabile a condizione che i dati si riferiscano all’interessato (ad eccezione di quelli che non lo riguardano o che hanno carattere anonimo) e siano stati dallo stesso forniti. In tale ultima ipotesi sono da ricomprendere sia i dati forniti attivamente e consapevolmente, che quelli derivanti dall’utilizzo di servizi o dei device. Il primo aspetto introdotto dall’art. 20 del Regolamento europeo, la ricezione dei dati, completa il già esistente diritto dell’interessato a poter accedere ai propri dati. Tuttavia, il secondo aspetto non consiste solamente nella possibilità di poter ottenere un riutilizzo dei dati, ma anche nella trasmissione dei dati da un Titolare del trattamento ad un altro. Da un punto di vista tecnico, i titolari del trattamento dovrebbero offrire diverse implementazioni del diritto alla portabilità dei dati (ad esempio, consentendo di effettuare un download dei dati specificamente richiesti e al contempo offrendo la possibilità di scegliere la trasmissione dei dati a un
normati ve | Reg ol am e nt o gD PR , Pu b b l i cat e l e P Rime l in e e g uiDa . V e R so un n uoVo mo D o Di g e st iR e l a P Ri Vacy
altro Titolare). Pertanto, appare evidente come tale diritto determinerà una notevole semplificazione del processo mediante il quale l’interessato può copiare, spostare o trasmettere i propri dati da un Titolare del trattamento a un altro. Il ruolo del responsabIle per la protezIone deI datI (dpo, data protectIon offIcer) La figura del DPO. assume nel Regolamento una funzione di rilevanza fondamentale, in quanto ha il compito di facilitare il rispetto, da parte delle singole organizzazioni, delle disposizioni dettate dalla nuova disciplina. D’altro canto, l’onere di garantire il rispetto delle previsioni dettate dal nuovo Regolamento grava in capo al Titolare del trattamento, non essendo il DPO direttamente Responsabile qualora si verifichino dei casi di non conformità. Il WP29 si è soffermato innanzitutto sulle ipotesi nelle quali la nomina del DPO debba avvenire obbligatoriamente, fermo restando che le singole organizzazioni potranno prevedere un Responsabile per la Protezione dei dati anche al di fuori di tali casi. Ad esempio, costituisce una buona prassi designare un DPO anche qualora la singola organizzazione non sia un’”Autorità pubblica o organismo pubblico” (art. 37 co. I l.a), ma eserciti di fatto funzioni di natura pubblicistica. Affinché il DPO assolva efficacemente le proprie funzioni, è necessario che sia consultato ogniqualvolta debbano essere adottate decisioni che comportino implicazioni in tema di protezione dei dati personali. Ancora, è fondamentale che sia posto nelle condizioni di operare in modo del tutto indipendente e non si trovi in una situazione di conflitto d’interessi rispetto ad eventuali posizioni ricoperte all’interno della medesima organizzazione. Ciò comporta che il Data Protection Officer non potrà rivestire dei ruoli che gli consentano di stabilire i mezzi e le finalità di operazioni di trattamento effettuate nella stessa azienda nella quale svolge la funzione di Responsabile per la Protezione dei dati. l’autorItà capofIla (“lead supervIsory authorIty”) Il terzo e ultimo parere pubblicato dal Gruppo di Lavoro art. 29 fornisce indicazioni essenziali per l’individuazione dell’Autorità capofila (“Lead Supervisory Authority”) in caso di trattamento transfrontaliero, come definito dall’art. 4(23) del nuovo Regolamento. Per trattamento transfrontaliero si intende, infatti: a) trattamento di dati personali che ha luogo
nell’ambito delle attività di stabilimenti in più di uno Stato membro di un Titolare del trattamento o Responsabile del trattamento nell’Unione ove il Titolare del trattamento o il Responsabile del trattamento siano stabiliti in più di uno Stato membro; oppure b) trattamento di dati personali che ha luogo nell’ambito delle attività di un unico stabilimento di un Titolare del trattamento o Responsabile del trattamento nell’Unione, ma che incide, anche, in modo sostanziale su interessati in più di uno Stato membro. Pertanto, in caso di trattamento transfrontaliero, l’Autorità capofila individuata sarà Responsabile delle attività relative al trattamento dei dati e svolgerà un’azione di coordinamento con le altre Autorità interessate nel trattamento (“Supervisory Authority concerned”). L’individuazione dell’Autorità capofila dipenderà dall’identificazione dello stabilimento principale o dello stabilimento unico del Titolare o Responsabile del trattamento transfrontaliero. Il Regolamento, all’art. 4(16), definisce lo stabilimento principale del Titolare del trattamento quale “il luogo della sua amministrazione centrale nell’Unione, salvo che le decisioni sulle finalità e i mezzi del trattamento di dati personali siano adottate in un altro stabilimento del Titolare del trattamento nell’Unione e che quest’ultimo stabilimento abbia facoltà di ordinare l’esecuzione di tali decisioni”. Diventa così essenziale per il Titolare e/o Responsabile del trattamento transfrontaliero individuare il luogo dell’amministrazione centrale o dove sono prese le decisioni relative al trattamento, per poter individuare l’Autorità capofila a cui far riferimento. Nel caso in cui, infatti, il criterio dell’amministrazione centrale non possa essere applicato, il Gruppo di Lavoro art. 29 ha definito gli elementi utili all’individuazione dello stabilimento principale. Infine, il WP29 ha preso in esame anche i cosiddetti “borderline cases”, cioè le situazioni in cui è complicato individuare lo stabilimento principale o il luogo in cui le decisioni relative al trattamento vengono prese. In tali casi, la società dovrà designare lo stabilimento che funge da principale e, nel caso in cui non sia possibile, sarà compito delle Autorità di controllo procedere all’individuazione dello stesso. Le Linee Guida emanate lo scorso 13 dicembre dal WP 29 rappresentano il primo tentativo di fornire dei chiarimenti in ordine ad istituti di particolare rilevanza del nuovo Regolamento e di risolvere nodi problematici quali, a titolo esemplificativo, la definizione di trattamenti “su larga scala” o l’individuazione delle ipotesi nelle quali il DPO si trova in una situazione di conflitto d’interessi. www.digital4executive.it
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rubrica | ricerche e studi a cura di
paola capoferro ronchetta
GooGle e Facebook dilaGano nel mercato della pubblicità online Secondo eMarketer, a fine anno sarà in mano ai due colossi il 60% del mercato USA, dove il sorpasso del digitale sulla televisione appare imminente. Il punto di forza? Una grandissima capacità di profilazione dell’utente, soprattutto in ambito Mobile. In Italia il “quasi duopolio” è ancora più evidente Si amplia l’egemonia di Google e Facebook nel mercato della pubblicità online. La conferma arriva dalle ultime previsioni rilasciate dalla società di ricerca eMarketer e relative al mercato USA che parlano di una quota del 40,7% delle revenue in mano al motore di ricerca, mentre circa il 20% è da ascrivere alla piattaforma fondata da MarK Zuckerberg. Insieme, dunque, i due colossi gestiscono il 60 % del mercato americano, che a fine anno varrà 83 miliardi di dollari, con una crescita nell’anno del 15,9%. Siamo ormai vicini a un duopolio, come scrive a chiare lettere il Financial Times, che assegna ai due Big di Internet il ruolo di “gatekeeper”, i piantoni che controllano chi entra e chi esce dal mercato. in italia la concentrazione è particolarmente alta: 66% Lo scenario non è molto diverso nel nostro Paese, anzi. Secondo i dati
dell’Osservatorio Internet Media del Politecnico di Milano, in Italia due terzi del mercato, precisamente il 66%, è in mano a Google e Facebook (dati 2016), quota che sale al 68% se si considerano tutti i grandi Over The Top internazionali (quindi anche Linkedin, Twitter e Microsoft Bing). Inoltre, sono proprio gli OTT che spingono la crescita complessiva (+16%): la restante parte del mercato italiano infatti è sostanzialmente stabile. E le cifre aumentano se si guarda solo al Mobile Advertising: 82%.
perché è sempre più diffusa l’abitudine dei consumatori a utilizzare la ricerca in ogni momento della giornata, che si tratti di indicazioni sulle mappe o di un’informazione di dettaglio su un prodotto. Facebook (che controlla anche Instagram, il social di foto e video, il cui utilizzo è sempre più ampio) domina invece il mercato display, cioè quello della banneristica, con il video che occupa una fetta crescente del tempo passato dagli utenti, sia per le trasmissioni in diretta che per i contenuti registrati, attirando crescenti investimenti.
GooGle domina la search, Facebook il display adv
una trasFormazione molto rapida: la tv cede il passo
In particolare, Google (che possiede anche YouTube) è il numero uno assoluto nella “search”, la pubblicità legata alle ricerche di parole chiave sui suoi motori di ricerca, e sta erodendo quote a Yahoo e Bing. Il successo si deve in particolare alle ricerche su smartphone,
È in atto, dunque, una rapida trasformazione del mercato pubblicitario, in cui il digitale è ormai testa a testa con la televisione: negli Stati Uniti il sorpasso è imminente. Cosa spinge le aziende e i Centri Media
internet advertisinG: la dinamica del mercato italiano
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Fonte: Politecnico di Milano
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RU B RICA | ric e rc h e e st udi
a orientare una quota crescente dei loro budget verso Google e Facebook? «La loro capacità di attrarre grandi bacini di utenza, la semplicità di pianificazione consentita dalle loro soluzioni tecnologiche, il lancio frequente di nuovi formati pubblicitari, soprattutto sui Social network, e i costi bassi sono i principali
punti di forza», spiega Marta Valsecchi, direttore dell’Osservatorio Internet Media del Politecnico di Milano. Ma più in generale, la pubblicità digitale conquista gli investitori perché offre una grandissima capacità di profilazione dell’utente, grazie ai dati che le piattaforme online raccolgono sui com-
portamenti, gli interessi e i bisogni dei potenziali clienti. Ciò che attira i brand è dunque l’opportunità di una pubblicità sempre più mirata, che si alimenta di dati degli utenti come prezioso carburante, e che permette alle aziende di investire in modo molto più efficace e mirato.
PMI ottIMIste sul dIgItale: non sIgnIfIca solo autoMazIone. Ma Manca la PIanIfIcazIone Una ricerca Ipsos Mori su 800 piccole e medie imprese di 19 Paesi mette in luce aspettative e approcci di queste realtà rispetto alle nuove tecnologie. I vantaggi più evidenti? Dematerializzazione, app specifiche, gestione clienti e data analysis. Rari i processi strutturati per definire strategie IT e di business, a causa di risorse limitate e priorità contingenti
Qual è il rapporto delle piccole e medie imprese (PMI) con le tecnologie digitali, e in che modo queste possono sostenere e potenziare l’iniziativa imprenditoriale? Ipsos Mori l’ha chiesto direttamente alle PMI, realizzando - su commissione di Microsoft - un’indagine in 19 Paesi europei su 804 manager di tutte le aree aziendali. La ricerca, presentata in occasione del Microsoft Forum di Milano, ha innanzitutto messo in evidenza un generale ottimismo sul futuro: il 46% degli intervistati si dichiara infatti positivo sul futuro, contro il 27% di pessimisti. Per chi lavora nelle piccole e medie aziende, infatti, la parola “digitalizzazione”, viene ricondotta nel 53% dei casi al concetto di automazione, che non significa solo dematerializzazione (32%), ma anche adozione di app o servizi per attivi-
tà specifiche come contabilità e controllo del magazzino (28%), potenziamento dei processi di CRM/gestione dei clienti (19%), fino ad arrivare all’analisi dei dati di business. Naturalmente è stato evidenziato anche l’aspetto dello smart working, interessante per il 24% degli addetti: per il 79% dei dipendenti delle PMI italiane queste tecnologie permettono di ottimizzare i tempi, mentre il 73% riconosce le opportunità che offrono in termini di flessibilità. Nonostante questo, le scelte sui sistemi informativi non sono ancora frutto di processi decisionali strutturati: solo il 26% dichiara di avere un processo formale ricorrente per discutere esigenze e trend. Un approccio che si riflette anche sulle strategie di business. Rispetto alla pianificazione delle attività aziendali, l’I-
talia è il Paese europeo in cui è più alta la percentuale di PMI che dichiarano di non avere un business plan strutturato (30% contro la media europea del 22%). Le cause? Focalizzazione sulle priorità di breve termine (23%), mancanza di risorse (17%) e dinamiche dei flussi di cassa (15%). Un’ultima nota, un po’ meno tecnologica, ma significativa per la comprensione del fenomeno PMI nell’era digitale: dall’indagine emerge che spesso l’iniziativa imprenditoriale nasce dall’aspirazione a conquistare un miglior work-life balance (28% degli imprenditori) o a sentirsi più sicuri sul proprio futuro (26%), diventando in effetti più padroni del proprio tempo e degli sviluppi del proprio lavoro. Ovviamente, poi, un nuovo business rappresenta anche l’opportunità di trovare un impiego (24%) in tempi di crisi.
L’Italia è il Paese europeo a più alta percentuale di PMI che dichiarano di non avere un business plan strutturato (30% contro la media europea del 22%). Le cause? Focalizzazione sulle priorità di breve termine (23%), mancanza di risorse (17%) e dinamiche dei flussi di cassa (15%) www.digital4executive.it
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RUBRI CA | ri cerch e e s t u d i
AutomAzione e intelligenzA ArtificiAle, come renderle AlleAte per il successo delle Aziende europee Più tempo per attività a maggior valore aggiunto e forme di lavoro più flessibili e collaborative con la digital transformation. I lavoratori europei scommettono sulle nuove tecnologie e chiedono ai capi una strategia digitale chiara e a lungo termine. Le conclusioni di una ricerca du 2mila lavoratori di venti Paesi dell’Istituto Coleman Parkes Research I lavoratori europei sono ottimisti rispetto all’impatto che le nuove tecnologie avranno sulla propria azienda e sulla qualità del lavoro. Una ricerca dell’Istituto Coleman Parkes Research commissionata da Ricoh conferma i dati emersi al World Economic Forum di quest’anno a Davos: il 95% del campione intervistato ha dichiarato che trasformazione digitale, automazione e intelligenza artificiale già quest’anno porteranno benefici economici alle imprese e, per il 59%, un miglior posizionamento sul mercato. In particolare, dei 2mila lavoratori intervistati, in una ventina di Paesi, i più fiduciosi sono quelli del settore finanziario, tra i primi ad aver “cambiato pelle” grazie alla forte innovazione dei processi aziendali e dei servizi al pubblico. Seguono quelli dell’industria, dei servizi e del retail, convinti per oltre il 60% che la propria organizzazione sia pronta ad affrontare e trarre vantaggio dal cambiamento, mentre sono più cauti nel settore pubblico e in quello sanitario, dove per quest’anno si prevede più un impatto sulla cultura aziendale e sul modo di lavorare che non sui risultati economici. In generale, comunque, si scommette sulle potenzialità dell’IT per gestire il cambiamento ormai ineluttabile (60%). Il 91% sa che quest’anno
cambieranno le modalità di lavoro; il 66% considera pronti i capi a gestire e guidare la rivoluzione in atto e il 42% si aspetta che le tecnologie consentiranno loro di svolgere meglio il proprio lavoro. Grazie all’intelligenza artificiale e all’automazione (citata come “molto positiva” dal 57%) pensano infatti che si libereranno energie per attività a maggior valore aggiunto, mentre la digital transformation favorirà forme di lavoro più flessibili e collaborative.
Ma cosa chiedono i lavoratori al top management perché tutto si realizzi senza intoppi e si tragga davvero vantaggio dall’innovazione? Innanzitutto una visione chiara sul futuro digitale dell’impresa e del business e sull’impatto che avrà sull’organizzazione del lavoro. Suggeriscono di dare priorità alle tecnologie che migliorano la produttività dei dipendenti,
Il 91% sa che quest’anno cambieranno le modalità di lavoro; il 66% considera pronti i capi a gestire la rivoluzione in atto e il 42% pensa che le tecnologie consentiranno di svolgere meglio il lavoro e liberare tempo per attività con più valore aggiunto | 76 |
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la collaboration, la semplificazione dei processi e il servizio ai clienti, perseguendo strategie di digital transformation di lungo periodo e non limitandosi a interventi spot. I lavoratori chiedono inoltre di essere informati delle innovazioni e dei cambiamenti stabiliti, sia in fase di lancio che di implementazione. Il 30% dei dipendenti ha infatti ammesso che vorrebbe una più efficace condivisione interna delle strategie, in pratica una maggiore comunicazione del significato di certe scelte, e poi anchela possibilità di seguirne lo sviluppo in corso d’opera. Come emerso anche dall’annuale indagine di Assochange, una minore distanza fra i vertici e i lavoratori, con una comunicazione più puntuale e continuativa dello stato d’avanzamento dei progetti avrebbe un impatto positivo sul loro stesso livello di impegno, visto che sono comunque chiamati a farsi carico del cambiamento. In generale, però, i lavoratori si fidano dei propri manager e della loro capacità di guidare il cambiamento negli anni a venire e non hanno intenzione di cambiare lavoro, almeno per quest’anno. La sicurezza lavorativa resta una priorità per loro, insieme alla stabilità del ruolo e alla salute finanziaria dell’impresa.
RU B |RICA | n o m ine rubrica nomin e
Dario Di Muro aMMinistratore Delegato, Finanza&Futuro Il Consiglio di Amministrazione di Finanza&Futuro, società del gruppo Deutsche Bank che opera nel settore del risparmio gestito, ha nominato Dario Di Muro Amministratore Delegato. Contestualmente Flavio Valeri, a capo di Deutsche Bank in Italia, è stato confermato Presidente e il precedente AD Armando Escalona è il nuovo Vice Presidente della società. Di Muro, classe 1966, ha fatto il suo ingresso in Deutsche Bank nel 2001, occupandosi delle attività di banca tra-
dizionale, prima come responsabile del Private Banking (2001-2004) e, successivamente, come responsabile territoriale dell’area Nord e Toscana (2005-2006). Nel 2007 si è spostato a Francoforte con il ruolo di coordinatore globale dei prodotti di investimento e assicurativi, per poi rientrare in Italia nel 2009 come responsabile dei prodotti di investimento e assicurativi. Nel 2014 è entrato in Finanza&Futuro come responsabile della Sales Network Unit. Prima di Deutsche Bank ha lavorato
presso San Paolo Imi, sia a Milano che in Lussemburgo (1991-2000). È laureato in Economia e Commercio presso l’Università La Sapienza di Roma.
lapo Civiletti nuovo Ceo Di Ferrero Il colosso dolciario ha annunciato una nuova governance di gruppo, che ha lo scopo di «rafforzare la capacità competitiva sui mercati mondiali». Dal primo settembre 2017, Giovanni Ferrero lascerà il ruolo di CEO e assumerà quello di Executive Chairman, ovvero di Presidente Esecutivo. Come tale guiderà il gruppo concentrandosi sullo sviluppo di strategie, indirizzi di business e innovazione di lungo termine.
Il ruolo di Chief Executive Officer sarà ricoperto da un manager interno, che avrà il compito di guidare tutte le attività che prevedono risultati a breve e medio termine. Ad assumere questo incarico sarà Lapo Civiletti, 56 anni, ai vertici del gruppo dolciario da oltre 13 anni, membro del Group Leadership Team Ferrero dal 2011 e attuale responsabile dell’area Centro Est Europa. Origini toscane, nato a Firenze, Civiletti ha
lavorato sempre nell’industria alimentare di largo consumo a partire da Masterfood. Si tratta del primo CEO esterno alla famiglia, segnale da non trascurare soprattutto nel contesto di un’impresa familiare italiana. «Civiletti è stato scelto per il suo business acumen e per l’orientamento ai risultati, oltre che per la sua capacità di valorizzare la cultura e promuovere i valori Ferrero», ha dichiarato Giovanni Ferrero.
gruppo Digital360, Maria grazia Filippini entra nel CDa Di iCt&strategy
Maria Grazia Filippini è entrata a far parte del Consiglio di Amministrazione di ICT&Strategy, la società del Gruppo Digital360 che si occupa di comunicazione, lead generation ed eventi nel mondo dell’innovazione. ICT&Strategy gestisce il più grande network in Italia di testate B2B dedicate
alla trasformazione digitale e all’open innovation, che include AgendaDigitale.eu, CorCom, Digital4Executive, Digital4Trade, EconomyUp, StartupBusiness, ZeroUno, e numerose testate verticali, come ad esempio Internet4Things, Blockchain4Innovation, Digital4HR. Nell’ultimo anno il network ha pubblicato oltre 13.000 articoli e approfondimenti originali, ha prodotto 550 white paper e ha organizzato 500 eventi, frequentati da oltre 30.000 partecipanti. Maria Grazia Filippini, laureata in Scienze dell’Informazione, ha un’esperienza ultra ventennale nel mondo dell’Information Technology, con importanti
incarichi ricoperti nel corso della carriera, tra cui AD di EDS Servizi ICT, AD e DG di Sun Microsystems Italia, Direttore del Public Sector di Microsoft Italia, AD e DG di Edenred, DG di Insiel. «L’ingresso di una manager di grande esperienza e comprovate capacità come Maria Grazia Filippini rafforza e consolida la società, permettendoci di puntare con maggior decisione agli obiettivi di crescita per il prossimo futuro - dice Andrea Rangone, Amministratore Delegato di Digital360 –. Il Gruppo Digital360 è infatti cresciuto negli ultimi 5 anni a un tasso medio del 55% annuo, e ha superato nel 2016 i 12,5 di fatturato».
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R UBRI C A | no mi ne
alberto caMerlengo aMMiniStratore Delegato, Furla Alberto Camerlengo, 52 anni, è il nuovo Amministratore Delegato di Furla. il manager, nominato all’unanimità dal Cda del gruppo, è laureato in economia all’Università Bocconi di milano, e vanta una consolidata carriera nel settore del lusso e una forte esperienza legata al mondo retail. Dopo una breve esperienza negli Usa, dal 1999 al 2004, Camerlengo ha ricoperto in
Fossil italia il ruolo di Chief operating officer. Successivamente, dal 2004 al 2011, ha assunto la carica di Chief executive officer in Brooks Brothers europa. entrato in Furla nel 2011 ha ricoperto la posizione di Direttore Generale, ruolo nel quale gli è stata riconosciuta una forte visione strategica che ha contribuito alla crescita del business e alla riconoscibilità del brand. Fabrizio Faltoni aMMiniStratore Delegato, ForD italia il nuovo Presidente e Amministratore Delegato di Ford italia è Fabrizio Faltoni. nato a Roma nel 1970 e laureato in ingegneria, il manager è entrato in Ford nel 1998, dove ha ricoperto ruoli di crescente responsabilità in tutti i settori dell’azienda – dal Sales al marketing al Service – sia nel nostro Paese che in europa, dove è stato Regional Director european Sales
operations, con responsabilità di tutti mercati europei a esclusione di inghilterra, Spagna, Francia Germania e italia. Faltoni, prende il posto di Domenico Chianese che, dopo 20 anni di carriera in Ford culminati con i cinque anni di presidenza della filiale tricolore, ha scelto di lasciare l’azienda per perseguire nuove esperienze professionali.
Sirio Magliocca aMMiniStratore Delegato Motorola SolutionS italia Sirio magliocca è stato nominato Amministratore Delegato di motorola Solutions italia, con la responsabilità per lo sviluppo e l’implementazione delle strategie di vendita delle soluzioni destinate alle aziende private e agli enti pubblici. il manager è anche il Channel Account manager per italia, Grecia, Cipro e malta con la piena responsabili-
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tà di tutto il canale di rivendita e delle attività di business. Sirio inizia e sviluppa la sua carriera in motorola Solutions a partire dal 1986, anno in cui entra in azienda in qualità di tecnico. Da allora ha ricoperto ruoli di sempre maggiore responsabilità. in concomitanza con la sua nomina, motorola Solutions italia ha comunicato anche
il potenziamento della sue rete distributiva italiana, affiancando ad Aikom Technology, azienda che fin dalla sua costituzione (10 anni fa) è un distributore autorizzato, Radiotrans, da sempre dedicata alla progettazione, fornitura, installazione e assistenza post vendita di apparecchiature e sistemi di telecomunicazione.
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è una testata di iCT and Strategy S.r.l. Via Copernico, 38 - 20125 milano iscrizione presso il R.o.C. Registro degli operatori di Comunicazione al n. 16446 Testi e disegni: riproduzione vietata.
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benvenuta Margherita il 4 novembre è nata la figlia della nostra collega erika Lovisetto. Un affettuoso benvenuto alla piccola, compagna di giochi per il fratellino Leonardo
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