Digit4executive n 31

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. Mariano Corso Il lavoro nell’era digitale: le sfide per le direzioni HR . La people strategy del Gruppo Hera . Antonio Marcegaglia, CEO: verso l’impresa 4.0 . Rachel Botsman: collaboration e trust, gli asset più preziosi . Il marketing diventa lean: la lezione di Philip Kotler


PARTNERS Partners ACCOMPAGNIAMO IMPRESE E PA NELLA TRASFORMAZIONE DIGITALE E NELL’INNOVAZIONE

smart working

&

workspace innovation

REALIZZIAMO IL CAMBIAMENTO ATTRAVERSO NUOVI MODELLI DI ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO Scopri di più | Group

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EDITORIALE

Cronache dalla digital disruption

di

UMBERTO BERTELÈ PRESIDENTE ADVISORY BOARD DIGITAL4EXECUTIVE

@umbertobertele

Da un lato PayPal che supera American Express in Borsa e Ikea che, come era già successo a Nike, è costretta a venire a patti con le grandi piattaforme di ecommerce (quali Amazon o Alibaba). Dall’altro il libro cartaceo che riprende slancio rispetto all’ebook e Aldi che punta sul suo ormai storico modello discount per crescere (sfidando Walmart e Amazon) sul mercato US. Quattro storie recentissime, che ho scelto per mostrare come la digitalizzazione continui in molti comparti a generare disruption, ma come in altri le imprese incumbent stiano reagendo, non necessariamente digitalizzandosi. PayPal supera per la prima volta American Express. In Cina i pagamenti e i trasferimenti di danaro sono da tempo saldamente nelle mani delle grandi del digitale, Alibaba e Tencent (ambedue con una capitalizzazione di Borsa di oltre 400 miliardi di $), che hanno saputo approfittare della debolezza del sistema bancario-finanziario locale per occupare i nuovi spazi che la crescita tumultuosa del PIL metteva progressivamente a disposizione. Alibaba ha anche creato un fondo monetario che – con 370 milioni di sottoscrittori e oltre 200 miliardi di dollari raccolti – è ora il più grande del mondo, con una consistenza doppia rispetto al secondo (gestito da JPMorgan). Ma in Occidente le grandi banche e le società che gestiscono le carte di credito continuano a essere molto forti, per cui il temporaneo superamento da parte di PayPal di un mostro sacro come American Express e il suo avvicinamento (sempre in termini di capitalizzazione) ad altri due mostri sacri come Morgan Stanley e Goldman Sachs appare molto sintomatico delle scommesse che la finanza fa sul futuro del comparto. E non va dimenticato che alle spalle di PayPal, e in concorrenza con essa, ci sono i sistemi di pagamento di Apple e Amazon. Ikea è costretta dopo 74 anni a cambiare il suo storico business model. Fino a poco fa un business model di grandissimo successo, quello di Ikea, che aveva nei suoi enormi punti di vendita – alla periferia delle città – e nel loro coinvolgente layout uno degli elementi più caratterizzanti. Ma in questa fase storica Ikea soffre un problema simile a quello dei grandi centri commerciali periferici: c’è sempre meno gente disposta a spostarsi fisicamente, quando molta informazione è rintracciabile sui siti delle grandi piattaforme di ecommerce. E disporre di un proprio sito di vendita può non bastare. Di qui l’annuncio che Ikea, a 74 anni dalla nascita, ha deciso di essere presente anche sulle grandi piattaforme di terzi (quali Amazon e Alibaba): con un potenziale impatto sui margini ma soprattutto con la necessità di ripensare il suo rapporto con i clienti. Aldi scommette invece sul suo business model pre-digitale per crescere negli US. Sull’onda del successo del modello discount sul mercato UK, ai danni del gruppo leader Tesco e in concorrenza con l’ecommerce, la tedesca Aldi vuole accrescere del 50% le sue vendite negli US e per questo ha deciso di investire 3,4 miliardi di $. Il modello discount, che vede come co-protagonista in Europa l’altra tedesca Lidl e ha diversi epigoni, è un tipico modello low cost (come peraltro quello di Ikea): la qualità dei prodotti offerti è buona, ma la scelta (ovvero il numero di referenze) è limitata, l’arredamento dei punti vendita è spartano e il servizio – agli antipodi rispetto a quello offerto dall’ecommerce - è al livello minimo indispensabile. Il libro cartaceo riacquista fascino. Dato prematuramente come moribondo, quando la crescita dell’ebook (introdotto nel 2007) sembrava inarrestabile, il libro cartaceo ha ripreso fiato. Ovviamente è cambiata la domanda. Ma l’offerta ha giocato un ruolo importante, ricorrendo soprattutto a strumenti di ristrutturazione tradizionali: concentrandosi (si sono ridotti a 4 i grandi editori che dominano il mercato mondiale), accrescendo il controllo sui costi, riducendo sensibilmente (con processi più snelli) il time to market, segmentando con più attenzione la domanda. www.digital4executive.it

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I prossimi Convegni

Gli Osservatori Digital Innovation della School of Management del Politecnico di Milano organizzano ogni anno oltre 30 convegni pubblici di presentazione dei risultati delle ricerche, con testimonianze del Top Management di importanti imprese nazionali e internazionali. Per offrire una fotografia accurata e continuamente aggiornata sugli impatti che le tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) hanno in Italia su imprese, pubbliche amministrazioni, filiere, mercati. Le ricerche affrontano i più importanti temi dell’Innovazione Digitale per elaborare strategie e modelli per molteplici ambiti B2c, B2b, PA, Professinisti e Startup: finance, customer experience, export, gioco online, risorse umane, sanità, beni e attività culturali, retail, turismo, media, banking, food, sport, manufacturing, supply chain finance, logistica.

di presentazioni dei risultati delle Ricerche degli Osservatori Digitalizzazione: opportunità o minaccia per l’occupazione del reddito? Digital Innovation Talks

L’impatto della digitalizzazione sull’occupazione e sulla distribuzione del reddito è un tema oggetto di grandissima attenzione da parte dei principali media internazionali e al centro dei dibattiti in sedi prestigiose, quali il World Economic Forum di Davos. La crescente robotizzazione nel manufacturing, lo sviluppo di software sempre più sofisticati nei servizi e l’ampliamento della cosiddetta gig economy potrebbe portare – almeno nel breve-medio periodo – a una contrazione in assoluto dei posti di lavoro – in particolare di quelli tipici della classe media – e una divaricazione nelle remunerazioni, con conseguenze in parte già emerse sugli equilibri politici. Per l’Italia, che vede nascere e crescere poche imprese digitali, il problema potrebbe essere più grave rispetto a Paesi, come gli Stati Uniti e la Cina, ove viceversa è in atto uno sviluppo tumultuoso in tale ambito. L’incontro – primo della serie “Digital Innovation Talks” – intende avviare una riflessione puntuale ed un confronto su queste tematiche, attraverso il coinvolgimento di rappresentanti istituzionali, studiosi, imprenditori e manager.

Convegno di presentazione dei risultati della Ricerca 2017 Osservatorio Omnichannel Customer Experience

I consumatori multicanale hanno raggiunto quota 31,7 milioni e, tra questi, cresce il segmento più evoluto degli Everywhere Shopper, coloro che nel proprio processo d’acquisto si muovono liberamente tra i canali fisici e quelli digitali. In quest’ottica, la capacità delle imprese di conoscere questi clienti, adottare strategie di marketing e customer relationship data-driven, oltre che creare esperienze coerenti tra i diversi punti di contatto, diviene sempre più un fattore critico di successo. Il Convegno vuole essere un importante momento di confronto e discussione su cosa significa adottare tali strategie e su come farlo. Per la prima volta, verrà anche presentata una fotografia dello stato di adozione in Italia di strategie di marketing omnicanale e data-driven. I risultati della Ricerca saranno discussi con i principali attori di questo mercato e con esponenti di rilievo all’interno di diversi settori industriali.

Corporate Entrepreneurship e Open Innovation: innovare con un occhio alle startup! Osservatori Startup Hi-tech, Startup Intelligence, Digital Transformation Academy

In questi ultimi anni stiamo assistendo a una trasformazione epocale nei paradigmi competitivi delle imprese, effetto soprattutto della digital disruption che ha trascinato molte imprese verso il successo e molte altre verso il declino. Tutte, però, hanno dovuto prendere coscienza di un inesorabile cambiamento culturale in atto (nei comportamenti del cliente, negli stili di leadership aziendali, nella velocità delle decisioni).ll Convegno è l'evento annuale rivolto alla Community dei decisori aziendali, Chief Innovation Officer e Business Executive, che intendono accrescere la sensibilità e la consapevolezza verso la cultura dell’innovazione aperta come strumento di competitività per le imprese. L’evento è rivolto soprattutto all’ecosistema startup e agli attori istituzionali e imprenditoriali che ruotano intorno ad esso, così da rafforzare la commistione tra i mondi delle imprese consolidate e dell’imprenditorialità. Verranno presentati i risultati emersi delle ricerche degli Osservatori Startup Hi-tech e Startup Intelligence e dai Workshop svolti durante l'anno dalla Digital Transformation Academy.

16.11.2017 (17:30-19:30) Aula Magna Carassa-Dadda Politecnico di Milano Campus Bovisa Edificio BL28 Via Lambruschini, 4 20156 Milano

21.11.2017 (9:30-13:30) Aula Magna Carassa-Dadda Politecnico di Milano Campus Bovisa Edificio BL28 Via Lambruschini, 4 20156 Milano

30.11.2017 (9:30-13:30) Aula Magna Carassa-Dadda Politecnico di Milano Campus Bovisa Edificio BL28 Via Lambruschini, 4 20156 Milano

Scopri tutti i prossimi convegni e rivedi quelli passati su: www.osservatori.net/it_it/convegni


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COVER STORY

Il futuro del lavoro nell’era digitale

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Polimi: gli smart worker in Italia raggiungono quota 305mila

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Oltre lo Smart Working: come creare una results driven organization

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Valutare le competenze digitali nelle imprese: il modello Digital DNA

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BCG, nelle aziende italiane la parità di genere è lontana: quattro azioni per favorirla

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Mariano Corso, Docente di leadership & Innovation, Politecnico di Milano Fiorella Crespi, Direttore Osservatorio HR Innovation Practice, Politecnico di Milano Emanuele Madini, P4i- Partners4Innovation

Laura Cavallaro e Marco Planzi, P4i - Partners4Innovation

MANAGEMENT

La sharing economy è solo l’inizio, il futuro è la fiducia distribuita

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Il futuro del CMO? Collaborare con i C-level e guadagnare un ruolo strategico

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Process Mining, processi aziendali al microscopio per andare oltre il classico BPR

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Rachel Botsman, ricercatrice, scrittrice, esperta di trust e sharing economy

Stefano Aiello e Luca Flecchia, P4i - Partners4Innovation DIGITAL TRANSFORMATION

Hr - Hera, le persone al centro della digital trasformation

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Marketing - Philip Kotler spiega il nuovo marketing: «L’unica via per la crescita»

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Marketing - L’Oréal spinge sulla tech beauty con App, IoT, realtà virtuale, wearable e Big Data

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Supply Chain - Da Industria 4.0 a Impresa 4.0: il Piano Calenda continua nel 2018, focus sugli skill

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Finance - Il Gruppo FS prova il Planning in Cloud: «Un progetto pilota per “fare esperienza”»

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Alessandro Camilleri, Direttore Sviluppo, Formazione e Organizzazione Gruppo Hera Philip Kotler, autore, docente di marketing

Guive Balooch, Global Vice President L’Oréal’s Technology Incubator Carlo Calenda, Ministro dello Sviluppo Economico

Donato Pastore, Dir. Centr. Amministrazione Bilancio e Fiscale, Ferrovie dello Stato OSSERVATORI

Consumatori italiani multicanale, per oltre 20 milioni l’intero processo d’acquisto è online Giuliano Noci, Ordinario di Strategia e Marketing al Politecnico di Milano

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INTERVISTE

Marcegaglia verso l’impresa 4.0 «Una rivoluzione culturale»

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The Digital Box innova la piattaforma di Mobile Engagement

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Wind Tre Business: «Un partner per la trasformazione digitale delle PMI italiane»

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La digital transformation? Passa prima di tutto dalla gestione documentale

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DXC Technology rafforza la leadership nei servizi IT. Greco: «L’Italia mercato importantissimo»

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La trasformazione digitale è all’insegna della semplificazione con Intesa

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Antonio Marcegaglia, Chairman and CEO Gruppo Marcegaglia Roberto Calculli, CEO di The Digital Box

Davide Villa, Direttore Marketing Business Wind Tre Pier Luigi Zaffagnini, CEO Top Consult

Lorenzo Greco, Coverage e Sales Offering Leader per l’Italia

Emilio Baselice, Direttore Generale di Intesa, società del Gruppo IBM NORMATIVE

Data Protection Officer (DPO): quali compiti ha e come sceglierlo Gabriele Faggioli e Marco Catalano, P4i - Partners4Innovation

SPECIALE HR

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RUBRICA | RICERCHE E STUDI

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RUBRICA | NOMINE

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C OV E R S TORY

di

MARIANO CORSO

DOCENTE DI LEADERSHIP & INNOVATION POLITECNICO DI MILANO

Il futuro del lavoro nell’era digitale La quarta rivoluzione industriale ha caratteristiche peculiari ed estreme: è velocissima, pervasiva e profondamente impattante sull’interà società. Per affrontare le sfide che ci aspettano e salvaguardare l’occupazione urgono misure specifiche. Tutti sono chiamati in causa: i singoli individui, le imprese e i policy maker

Ormai la consapevolezza è piena: siamo di fronte a una nuova, vera rivoluzione industriale, destinata, come le precedenti, ad avere un impatto profondo sulle persone, l’economia e l’intera società. Non è la prima volta che una rivoluzione tecnologica cambia la storia dell’uomo: si parla infatti di Quarta Rivoluzione Industriale. Tuttavia, per comprendere appieno e poi affrontare le sfide che ci aspettano, non è sufficiente rifarsi alla storia e alle precedenti esperienze anche recenti. LE PRIME TRE RIVOLUZIONI INDUSTRIALI. DALL’AGRICOLTURA AI SERVIZI Nelle rivoluzioni industriali del passato, automatizzare i lavori e i processi significava prevalentemente sostituire le mansioni ripetitive svolte dall’uomo con macchine più efficienti che aumentavano la produttività. In questo modo si creava ricchezza togliendo alle persone attività | 6 |

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operative spesso sgradite. La trasformazione nei contenuti e nei modi di lavorare, inoltre, avveniva in tempi sufficientemente lunghi per permettere alla “mano invisibile” del mercato di agire, trasformando l’aumento di ricchezza in nuovi bisogni e, conseguentemente, in nuovi lavori e professionalità. Così nelle prime tre rivoluzioni industriali l’occupazione si è gradualmente spostata dall’agricoltura verso l’industria, e successivamente verso i servizi, continuando a creare nuova ricchezza e permettendo a un numero sempre crescente di persone di uscire dalla povertà. Un passaggio che ha fatto emergere una middle class sempre più istruita e benestante, capace di fare da collante sociale e da spinta all’affermazione della democrazia. TRE CARATTERISTICHE PECULIARI La Quarta Rivoluzione Industriale tuttavia si


COV E R ST O RY | IL F UT URO DE L L AVO RO N E L L’ E RA DIG ITA L E

Vengono sostituite non tanto le mansioni ripetitive, ma soprattutto i lavori “di concetto”, andando a colpire la middle class e quei settori di terziario che erano stati avvantaggiati dalle precedenti rivoluzioni industriali

discosta sensibilmente da quelle precedenti, essenzialmente per tre ordini di ragioni. • Velocità: il ritmo incalzante ed esponenziale dell’innovazione non dà ai lavoratori il tempo di adattare le proprie competenze nè consente di creare nuovi bisogni e professionalità. Ne deriva innanzitutto un saldo negativo dell’occupazione: il numero di posti che si perdono che superano di gran lunga quelli che si vengono a creare. E in secondo luogo uno “spiazzamento” delle competenze: i lavoratori che perdono il proprio impiego non sono in grado di svolgere le nuove professioni di cui nel frattempo è nata l’esigenza, mentre i sistemi educativi faticano a produrre le nuove competenze con la velocità richiesta. • Pervasività: vengono sostituite non solo e non tanto le mansioni ripetitive, ma anche e soprattutto i lavori “di concetto”, andando a colpire proprio quella middle class e quei settori

di terziario che erano stati avvantaggiati dalle precedenti rivoluzioni industriali. Si pensi, ad esempio, all’uso dei Big Data, cioè all’analisi automatica dei dati per interpretare e prevedere fenomeni e comportamenti, o alla multicanalità nelle banche o nel retail, dove è in atto una progressiva sostituzione di filiali e negozi fisici (e quindi di addetti e commessi) con sportelli automatizzati e canali online di eCommerce. • Profondità d’impatto: la magnitudo dell’aumento di produttività fa sì che una parte sempre minore della ricchezza creata si traduca in reddito per i lavoratori. Tale ricchezza si va concentrando in un numero sempre più limitato di “super ricchi” a detrimento della classe media, che non è più in grado di generare quei nuovi bisogni che nelle precedenti rivoluzioni industriali erano alla base dalla creazione di nuovi prodotti e servizi e quindi di occupazione e benessere sociale. La rivoluzione industriale che stiamo viven-

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COVER STORY | I L F U T U R O D E L L AVOR O NE L L’ E R A D I G ITA L E

Le imprese devono tradurre la propria strategia in una People First Strategy costruendo piani di sviluppo delle risorse che permettano di cogliere al meglio le opportunità e gestire le sfide poste dalla Digital Transformation

do dunque, benché entusiasmante e in grado di creare ricchezza quanto o forse più delle altre, è però diversa. Pensare di affrontarla facendo riferimento all’esperienza delle precedenti è quanto mai illusorio e pericoloso. Servono misure nuove e urgenti, in grado di dare risposta a quel crescente senso di ansia e disagio che già oggi è alla base di fenomeni a livello politico estremamente preoccupanti, come l’acuirsi dei populismi e dei neo nazionalismi, conseguenza della crescente rabbia delle classi medie e basse, che sfogano la loro paura verso il futuro in una crescente intolleranza verso l’altro e il diverso. I PASSI DA COMPIERE Le caratteristiche peculiari ed estreme di velocità, pervasività e profondità dell’impatto della Digital Transformation nella quarta rivoluzione industriale impongono risposte specifiche e proattive a livello degli individui, delle imprese e dei policy maker. Le persone sono le prime a dover investire in maniera continua nella propria formazione e nel continuo aggiornamento delle proprie competenze digitali e imprenditoriali, anche e soprattutto in considerazione del lavoro che svolgono. Questo è fondamentale per non lasciarsi cogliere impreparati dai cambiamenti che riguardano il proprio lavoro e che, a causa della trasformazione digitale, saranno sempre più veloci. Le imprese devono tradurre la propria strategia in una “People First Strategy” costruendo dei piani di sviluppo delle risorse e dei profili professionali che permettano di cogliere al meglio le opportunità e gestire le sfide poste dalla Digital Transformation. Questo significa lavorare costantemente all’individuazione delle competenze necessarie per operare, strutturando dei piani di sviluppo delle risorse umane capaci di colmare i gap riscontrati. Le imprese dovranno agire sulla cultura aziendale, promuovendo un approccio continuo al cambia| 8 |

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mento, alla digitalizzazione e all’innovazione, dovranno investire in ricerca e sviluppo, e ripensare il proprio modello organizzativo per sfruttare i benefici che la digitalizzazione può portare, tanto all’azienda, quanto ai dipendenti. Per fare questo occorre mettere al centro le persone, sviluppare strategie di life-long employability, e creare, attraverso strumenti digitali e iniziative di ripensamento dei processi, organizzazioni che siano flessibili e resilienti al cambiamento. I policy maker sono chiamati ad accompagnare il cambiamento favorendo la crescita di nuova occupazione e investendo sull’educazione e sul reskilling. In uno scenario in cui la tecnologia non solo sostituisce i lavoratori, ma se correttamente progettata, è in grado di affiancarsi a questi ultimi, potenziandone i talenti e le capacità, il ruolo dei policy maker si rivela essenziale per supportare, indirizzare e catalizzare il cambiamento. Fra le azioni che si rivelano più urgenti figurano la necessità di: • intervenire sul sistema scolastico e universitario promuovendo lo sviluppo delle competenze digitali e imprenditoriali in tutti i curricula, non solo nell’area STEM (Science, Technology, Engineering, Math); • promuovere l’investimento da parte delle organizzazioni in capitale umano, reskilling e programmi di sviluppo/aggiornamento delle competenze per i lavoratori maggiormente colpiti dal cambiamento; • favorire nuove forme di organizzazione del lavoro; • creare posti di lavoro che compensino in parte le perdite, attraverso investimenti in servizi pubblici strategici quali l’istruzione, la ricerca e i servizi alla persona; • regolare e promuovere nuovi trend in atto nell’economia, come l’emergere del terzo settore o della sharing economy, che possono fungere da ammortizzatori capaci di indirizzare il cambiamento verso sistemi più sostenibili.



COV E R S TORY di

GAIA FIERTLER FIORELLA CRESPI DIRETTORE OSSERVATORIO HR INNOVATION PRACTICE POLITECNICO DI MILANO

Polimi: gli smart worker in Italia raggiungono quota 305mila Cresce l’adozione di modelli di lavoro agile: il 36% delle grandi imprese ha progetti strutturati e i lavoratori coinvolti sono più soddisfatti, “digital”, e più produttivi del 15%. «Le aziende italiane non hanno più alibi per rimandare una riorganizzazione del lavoro più intelligente, che può dare nuovo slancio al Paese, con benefici potenziali di 13,7 miliardi di euro», commenta Fiorella Crespi

Il 2017 sarà ricordato come l’anno della legge sullo Smart Working, il modello di esecuzione di lavoro subordinato che prevede, mediante accordo tra le parti, forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi senza precisi vincoli di orario e luogo di lavoro, e con l’uso di strumenti tecnologici per svolgere l’attività lavorativa. «La nostra legge è la più evoluta d’Europa, le aziende italiane non hanno più alibi per rimandare l’introduzione di un vero e proprio pilastro per una riorganizzazione del lavoro più intelligente, con vantaggio reciproco tra le parti. Aumento di produttività, meno assenteismo e costi, lavoratori più motivati e capaci di esprimere talento e passioni, una società più giusta, sostenibile e inclusiva», ha spiegato Fiorella Crespi, Direttore dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, alla presentazione dei risultati dell’edizione 2017 dell’Osservatorio. Oggi i vantaggi dello Smart Working sono quantificabili: un progetto maturo porta a un aumento di produttività del 15% | 10 |

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per lavoratore, che a livello di Sistema Italia significa 13,7 miliardi di euro di benefici complessivi, ipotizzando una base potenziale di 5 milioni di persone che potrebbero aderire (per tipologia di attività compatibile) e una pervasività al 70% dei lavoratori interessati. I vantaggi per i lavoratori si misurano anche in termini di riduzione dei tempi e costi di trasferimento, di miglioramento del work-life balance e aumento della motivazione e soddisfazione. Considerando anche solo una giornata a settimana di remote working, il tempo risparmiato in un anno è di 40 ore a testa, che per l’ambiente significherebbe una riduzione di emissioni di 135 kg di CO2 all’anno. Ma di fatto quanti sono oggi gli smart worker e che livello di maturità hanno le grandi imprese, le PMI e la pubblica amministrazione in tema di lavoro agile? La ricerca condotta su 206 grandi imprese e 567 PMI rileva che gli smart worker oggi sono 305mila - l’8% del totale dei lavoratori -, con una crescita del 14% rispetto al 2016 e del 60% rispetto al 2013.


C OV E R ST O RY | POLIMI: GLI SMART WORKER IN ITALIA RAGGIUNGONO QUOTA 305MILA

In particolare cresce l’adozione nelle grandi imprese: il 36% ha già lanciato progetti strutturati (il 30% nel 2016), una su due ha avviato o sta per avviare un progetto di Smart Working. Tuttavia le iniziative che hanno portato veramente a un ripensamento complessivo dell’organizzazione del lavoro, fino allo sviluppo di nuovi strumenti e competenze digitali (anche digital soft skill) e alla diffusione di modelli manageriali basati su autonomia e responsabilizzazione sui risultati, sono ancora limitate e riguardano solo il 9% delle grandi aziende italiane. Anche tra le PMI cresce l’interesse, anche se a livello più informale: il 22% ha progetti in corso, ma di queste solo il 7% ha introdotto iniziative strutturate; un altro 7% non conosce il fenomeno e il 40% si dichiara “non interessato”. Nella Pubblica Amministrazione solo il 5% degli enti ha attivi progetti strutturati e un altro 4% pratica lo Smart Working informalmente, ma a seguito della legge Madia c’è un notevole fermento: il 48% ritiene l’approccio interessante, un ulteriore 8% ha già pianificato iniziative per il prossimo anno e solo il 12% si dichiara non interessato. Ma cosa c’è sotto la punta dell’iceberg, sotto gli aspetti visibili dell’adozione di questa modalità di lavoro, abilitata oggi dalle tecnologie digitali? «C’è un’interpretazione ancora superficiale dello Smart Working - commenta Crespi -. Nella maggior parte dei casi si dà enfasi solo a una delle leve, il lavoro in remoto (“remote working”), mentre le organizzazioni che hanno progetti strutturati hanno compreso la necessità di basare il lavoro sulla valutazione dei risultati (“results based organization”), con un monitoraggio continuo dell’andamento dei progetti. Purtroppo, esclusi i casi evoluti, il rischio è di fermarsi solo all’effetto ‘moda’, anche per i limiti nella cultura manageriale delle imprese nel nostro Paese». Il 47% delle aziende che ha attivo lo Smart Working lo limita infatti alla possibilità di lavorare da casa, da altre sedi o in spazi esterni come co-working o business center. Come è superficiale l’approccio di quel 5% che si è limitato a riprogettare gli uffici, per esempio togliendo la scrivania personale, mentre il restante 47% combina questi due aspetti. Anche la popolazione coinvolta è ancora limitata: circa il 10% nei progetti pilota, con percentuali che arrivano al 38% in

progetti in espansione o a regime. Inoltre il modello di remote working più frequente è di 4 giorni al mese (43%), seguito da 8 giorni al mese (22%) e solo nei casi più maturi (quel 9% complessivo delle grandi aziende) non viene posto alcun limite e comunque solo nell’11% dei casi. GLI OSTACOLI PRINCIPALI ALL’ADOZIONE «C’è ancora molto da fare per rendere lo Smart Working un’occasione di cambiamento profondo della cultura organizzativa. Occorre pensare a modalità di lavoro innovative anche per la maggioranza dei lavoratori esclusi da questi progetti, soprattutto nelle PMI e nelle pubbliche amministrazioni dove, nonostante gli apprezzabili sforzi a livello normativo, la diffusione è tutt’altro che incoraggiante. Le azioni di sistema portano a sperare in un cambio di passo per il prossimo anno, in cui lo Smart Working possa rivelarsi un’occasione di rilancio per tanti lavoratori», continua Crespi. Gli ostacoli principali all’adozione di questo modello non solo flessibile, ma soprattutto basato su responsabilizzazione e autonomia, sono, al primo posto, la non applicabilità alla specifica realtà (55% dei casi) e, al secondo posto, la mancanza di interesse e presenza di resistenze da parte dei capi (45%). Questo vale anche per le PMI, mentre la PA mette ancora al secondo posto la mancanza di regolamentazione al suo interno. Per i prossimi tre anni, comunque, le previsioni sono ottimistiche. La gran parte delle organizzazioni con un progetto strutturato di Smart Working prevede di estendere l’accesso a più persone (74%), di sviluppare nuove forme per figure professionali finora escluse (63%) e di diffondere una cultura basata sulla definizione di obiettivi, la responsabilizzazione sui risultati e la valutazione delle performance (63%). Sotto la punta dell’iceberg, infatti, si nascondono moltissime opportunità per l’evoluzione delle nostre organizzazioni e il loro rilancio: aumento di produttività, un nuovo stile di leadership, valorizzazione dei talenti, conciliazione, inclusività e sostenibilità, employer branding. Sviluppo delle competenze digitali, business continuity, result based culture, più opportunità per una leadership femminile, meritocrazia e sostenibilità ambientale.

Molti i vantaggi per i lavoratori: riduzione dei tempi e costi di trasferimento, miglioramento del work-life balance e aumento della motivazione e soddisfazione www.digital4executive.it

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C OV E R S TORY

di

Oltre lo Smart Working: come creare una results driven organization

EMANUELE MADINI

ASSOCIATE PARTNER P4I- PARTNERS4INNOVATION

Il lavoro agile è sinonimo di flessibilità e autonomia nel lavoro, ma in cambio necessita di una maggiore responsabilità sul raggiungimento dei risultati. Un cambiamento di paradigma che, per essere davvero efficace, implica un approccio manageriale diverso e la diffusione di nuove modalità e comportamenti all’interno dell’azienda. Ecco i passi da compiere

Le aziende che oggi risultano più avanti nei percorsi di adozione dello Smart Working hanno compreso che le opportunità di questo cambiamento culturale, basato su principi di flessibilità e autonomia, risiedono nella sperimentazione di una nuova filosofia manageriale, che mette in discussione e cambia i comportamenti organizzativi di Manager e collaboratori, le loro modalità di coordinamento e la misura delle prestazioni lavorative, coniugandole con un maggiore orientamento ai risultati e alla responsabilizzazione delle persone. L’introduzione dello Smart Working richiede infatti ai Manager di passare da una logica di Activity Management - approccio alla gestione delle persone basato sulla definizione e controllo dei task e delle attività lavorativ - a una di Results Management, basata sulla responsabilizzazione dei collaboratori verso obiettivi misurabili e su una maggiore delega e autonomia nell’organizzazione delle proprie attività lavorative. I due approcci si basano su esigenze e stili di management differenti. L’Activity Management è coerente con contesti stabili, in | 12 |

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cui è importante focalizzarsi sul rispetto di standard, sulla definizione e condivisione dei task con le proprie persone in modo da garantire produttività ed efficienza dei processi. Il Manager in questo caso ha un ruolo di comando e controllo per trasferire in modo puntuale ai propri collaboratori le attività lavorative da svolgere e per porre l’attenzione sulle modalità di realizzazione delle stesse. Il Results Management, invece, ben si adatta a contesti più dinamici e meno prevedibili, che richiedono un focus più forte sull’innovazione in termini sia di sviluppo di nuove idee che di risoluzione di problemi. È necessaria una maggior condivisione delle informazioni a tutti i livelli in modo da consentire alle persone di essere più autonome nella attività lavorative. Il ruolo del Manager in questo caso deve essere quello di coach e di supporto alle proprie persone nella valorizzazione dei loro talenti, attraverso approcci più orientati alla delega e alla responsabilizzazione, definendo in modo collaborativo gli obiettivi da raggiungere e i KPI necessari per misurare i risul-


C OV E R S TORY | OLT R E L O S MA RT WO RKIN G : C O ME C RE A RE UN A RE SULT S DRIV E N O RG A N IZ AT ION

i comportamenti e i contributi attesi da ciascuno. Il quarto e ultimo ambito sul quale si fonda la Results Driven Organization è il Continuous Feedback. In contesti fortemente dinamici e competitivi, è necessario tenere le persone costantemente allineate rispetto a obiettivi e comportamenti, discutendo frequentemente il loro contributo rispetto alle priorità assegnate, non con l’obiettivo di giudicare la prestazione ma fornendo consigli su come migliorare, definendo nuove priorità o adeguando quelle già assegnate. In quest’ottica molte sono le aziende che stanno affiancando al tradizionale processo di performance evaluation, approcci e strumenti quali mobile App per il Continuous Feedback tra capo e collaboratore, ma anche tra peers per focalizzare l’attenzione non soltanto sulla valutazione a posteriori della performance lavorativa, ma anche sul continuo miglioramento e sviluppo. Lo Smart Working è un’occasione da non perdere per lavorare sull’evoluzione dei modelli culturali e organizzativi verso il paradigma della Results Driven Organization. L’enfasi sul “lavoro da casa” può essere un buon modo per accelerare questo cambiamento costringendo Manager e collaboratori a ripensare le modalità di relazioni, ma bisogna evitare il rischio di un effetto “moda”, destinato a svanire col tempo o peggio a trasformarsi in disillusione. Dopo il primo periodo di sperimentazione è importante non accontentarsi dei risultati ottenuti, ma cavalcare l’entusiasmo che si creerà in azienda sviluppando successivi momenti di confronto e lavoro sugli stili di leadership e sfruttando questa occasione per ridisegnare anche i modelli e gli strumenti di valutazione e rewarding.

RESULTS DRIVEN ORGANIZATION: IL FRAMEWORK DI RIFERIMENTO Cultura della condivisione Value and Performance Transparency

Continuous Feedback

Orientamento all’individuo

RESULTS DRIVEN MANAGEMENT

Priority Setting

Orientamento ai processi

Accountability

Cultura della misura www.digital4executive.it

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Fonte: P4I-Partners4Innovation

tati ottenuti. Il passaggio a questo paradigma fa sì che si ponga sempre più attenzione e importanza alla realizzazione di una Results Driven Organization, ovvero appunto un insieme di approcci e modelli organizzativi che hanno lo scopo di favorire la diffusione entro l’azienda di modalità di lavoro, stili manageriali e comportamenti orientati a una maggiore autonomia, flessibilità, ma anche responsabilità sui risultati. Per realizzare una Results Driven Organization è importante lavorare su 4 ambiti. Il primo è quello della Value and Performance Transparency, ovvero della condivisione e trasparenza informativa su strategia, valori, obiettivi e performance dell’azienda. In quest’ottica, i Manager devono garantire ai propri collaboratori la trasmissione dei valori aziendali, l’organizzazione di allineamenti periodici sull’andamento del team, la promozione di team building e fiducia reciproca, nonché chiarezza sul contributo che ciascun collaboratore porta al raggiungimento dei risultati. Il secondo concetto è l’Accountability, ovvero la cultura della misura delle performance a livello di team e individuale e della responsabilizzazione sui risultati. Per ogni Manager è importante essere in grado di definire e condividere con le proprie persone una possibile dashboard di indicatori e criteri che possano consentire di valutare e monitorare la produttività e definire azioni migliorative. Questo non significa introdurre un micro-controllo sulle persone, in relazione per esempio a quando lavorano in Smart Working, ma anzi, vuol dire insegnare e condividere con loro i giusti strumenti e approcci affinchè siano loro stesse in grado di misurarsi ed essere maggiormente consapevoli e responsabilizzate sulla scelta delle modalità lavorative. È possibile far riferimento a tre macro-ambiti di KPI che possono essere utilizzati e integrati in modo coerente con la tipologia e le caratteristiche delle attività lavorative svolte dai team: indicatori di Continuous Process, che analizzano le prestazioni delle attività con caratteristiche di standardizzazione e prevedibilità per le quali è possibile individuare un output concreto e oggettivo. Indicatori di Project & Task Execution che analizzano le prestazioni tipiche di attività progettuali e discontinue. E infine indicatori di Interaction Effectiveness, i quali evidenziano benefici e/o criticità sulle relazioni interne al team o con i principali stakeholder di altre funzioni aziendali. Il terzo ambito di lavoro è il Priority Setting. Passando dalla dimensione organizzativa del team a quella individuale, diventa fondamentale non solo formalizzare ma anche tenere costantemente allineate con le esigenze del business le priorità e gli obiettivi del singolo individuo. Di conseguenza è importante chiarire e condividere con le persone quali sono


COV E R S TORY

Valutare le competenze digitali nelle imprese: il modello Digital DNA

di

LAURA CAVALLARO

ASSOCIATE PARTNER P4I- PARTNERS4INNOVATION

Sviluppare e valorizzare il patrimonio di skill digitali interne è fondamentale per prepararsi al futuro e per coinvolgere i dipendenti nei percorsi di crescita e di trasformazione delle organizzazioni. Ecco una mappa di riferimento, suddivisa in quattro macro-aree, pensata come punto di partenza a supporto delle direzioni HR

Il concetto di DNA di un’impresa è una metafora molto utilizzata per descrivere ciò che la rende davvero unica, ovvero la sua strategia e la sua cultura aziendale. Conoscere il DNA di un’impresa significa comprendere fino in fondo quali sono la vision, i valori e gli obiettivi che costituiscono il collante di un’organizzazione e “l’ingrediente segreto” che ne determina le performance. Grazie alla biologia, sappiamo che il DNA si forma alla nascita, è responsabile delle caratteristiche di un organismo e contiene le istruzioni che gli permettono di vivere e riprodursi. Tuttavia lo stesso DNA si esprime in modi diversi in base all’ambiente. Ad esempio, gemelli omozigoti - identici alla vista e con lo stesso patrimonio genetico - hanno impronte digitali differenti e, se cresciuti in contesti separati e diversi, coltivano talenti, intelligenza e creatività in modo differente l’uno dall’altro. Il modo in cui il DNA di un’impresa si esprime è il risultato di un processo di progressivo adattamento al contesto. Le caratteristiche osservabili del DNA sono le competenze distintive che l’impresa stessa | 14 |

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possiede, che si manifestano come veri e propri geni. Costituiscono la “conoscenza innata” dell’impresa e definiscono il modo in cui vengono coordinati i fattori della produzione (risorse umane, finanziarie e, ultime ma non meno importanti, tecnologiche) per costruire un vantaggio competitivo difendibile. SKILL ESPLICITI E SKILL“DORMIENTI” Grazie alle esperienze progettuali maturate lavorando al fianco di alcune delle più importanti aziende italiane, P4I - Partners4Innovation, società di advisory del Gruppo Digital360, ha sviluppato il modello Digital DNA, che fornisce una visione integrata delle competenze digitali e comprende al suo interno sia le competenze tecniche sia le competenze soft connesse al digitale e all’innovazione. Non si tratta di un modello creato ex-novo, ma della sintesi di diversi modelli sviluppati in letteratura nel corso degli ultimi anni da istituzioni ed esperti di settore europei e internazionali, integrati in un approccio unico.


C OV E R S TORY | VAL U TAR E L E C O MP E T E N Z E DIG ITA L I N E L L E IMP RE SE : IL MO DE L L O DIG ITA L DNA

di

MARCO PLANZI

ASSOCIATE PARTNER P4I- PARTNERS4INNOVATION

ratori o magari sviluppate informalmente all’interno del loro lavoro, non si manifestano e rimangono dormienti. Ciascuna impresa può provare a valorizzare le competenze nascoste e inespresse cercando i collaboratori che le posseggono o le hanno sviluppate personalmente. Nel contesto attuale, in cui le competenze digitali sono difficilmente reperibili sul mercato del lavoro e spesso molto costose, questo passaggio diviene spesso diventa indispensabile: significa individuare i collaboratori che le posseggono e metterli in condizione di poterle esercitare nel contesto lavorativo. UNA MAPPA CON 4 “PUNTI CARDINALI”

In ogni impresa, alcune competenze si manifestano in modo esplicito proprio come le caratteristiche genetiche, perché il contesto, i processi, i clienti e il modo di lavorare lo richiedono. Altre competenze, pur presenti tra le attitudini e le passioni dei collabo-

• ICT Skills: Il digitale affonda le sue radici nelle competenze legate all’Information & Communication Technology. Rientrano in quest’area le competenze necessarie ai professionisti ICT per supportare l’organizzazione attraverso processi ICT orientati all’agilità. Il framework di mappatura delle competenze di dettaglio è l’eCompetence Framework (eCF), sviluppato dalla Commissione Europea e utilizzato dall’Agenzia per l’Italia Digitale (AgID) per la mappatura delle competenze digitali specialistiche. • Digital Soft Skills: Rientrano in quest’area le competenze trasversali di tipo relazionale e comportamentale che consentono alle persone di utilizzare efficacemente i nuovi strumenti digitali. Il framework di mappatura delle competenze di dettaglio consiste nel modello Digital Competence Framework (DIGCOMP), sviluppato dalla Commis-

IL MODELLO DIGITAL DNA

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COVER STORY | VA L U TAR E L E COM PE T E NZ E D I GI TAL I N E L L E IMP RE SE : IL MO DE L L O DIG ITA L DN A

sione Europea, e dal modello delle Digital Soft Skills sviluppato dall’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano. • Job Related Skills: Rientrano in quest’area le competenze tecniche relative a specifici ruoli organizzativi che consentono alle persone di portare avanti il proprio lavoro in modo moderno e attento all’innovazione. Il modello utilizzato prevede cinque aree di competenza legate al ruolo che riprendono i grandi trend digitali: Social, Mobile, Cloud, Big Data. • Innovation Skills: Rientra in quest’area una combinazione di competenze cognitive, comportamentali e funzionali che permettono alle persone di diventare innovative nel proprio lavoro attraverso un comportamento intraprenditoriale. Il framework di mappatura delle competenze di dettaglio utilizza una rielaborazione del modello Entrepreneurship

Competence (EntreComp) sviluppato dalla Commissione Europea, e il modello Collective Genious descritto in dettaglio dalla Harvard Business Review. OGNI ORGANIZZAZIONE È DIVERSA L’interpretazione di questo schema di riferimento non può essere rigida, proprio per la natura sfuggente e dinamica del concetto di digitale. Diventa quindi importante declinare il modello e disegnare il Digital DNA di un’impresa, enfatizzando o sfumando quelle aree di competenza meno coerenti con gli obiettivi strategici e con il lavoro dei propri collaboratori. Si pensi ad esempio alla Virtual Communication, che sottende la capacità di produrre contenuti digitali. È evidente che la declinazione di questa specifica competenza assume significati diversi a seconda del ruolo aziendale per cui la si mappa.

Digital “Soft” Skills: non se ne può più fare a meno Sebbene ogni lavoro e professione, inquadrato all’interno del proprio ambito di attività, sia caratterizzato da un patrimonio di competenze specifico, alcune di tali competenze possono essere considerate di base e trasversali alle organizzazioni. Uno degli ambiti considerati dal modello Digital DNA sono le Digital Soft Skills, ovvero le competenze trasversali tipiche del digitale. Appartengono a quest’area le competenze di tipo relazionale e comportamentale che consentono alle persone di utilizzare efficacemente i nuovi strumenti digitali. Il framework di mappatura delle competenze di dettaglio comprende una rielaborazione del modello Digital Competence Framework (DIGCOMP), sviluppato dalla Commissione Europea, e il modello delle Digital Soft Skills sviluppato dall’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano. Ecco una classificazione e descrizione puntuale delle Digital Soft Skills. Knowledge networking: è la capacità di identificare, salvare, organizzare, dare valore e condividere informazioni disponibili online sui social network e nelle comunità virtuali. Competenze • Navigare, ricercare e filtrare dati, informazioni e contenuti digitali • Valutare dati, informazioni e contenuti digitali • Sviluppare contenuti digitali • Integrare e rielaborare contenuti digitali • Gestire dati, informazioni e contenuti digitali | 16 |

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• Condividere con le tecnologie digitali Virtual communication: è la capacità di comunicare efficacemente, coordinare i progetti e gestire la propria identità digitale in ambienti digitali. Competenze • Interagire con le tecnologie digitali • Collaborare attraverso le tecnologie digitali • Gestire l’identità digitale • Strutturare contenuti digitali in modo visuale Digital Awareness: significa essere in grado di comprendere l’uso corretto degli strumenti digitali con la dovuta attenzione all’equilibrio tra vita professionale e salute personale. Competenze • Proteggere i dispositivi • Proteggere i dati personali e la privacy • Tutelare la salute e il benessere • Netiquette Self empowerment: significa possedere le conoscenze necessarie e padroneggiare gli strumenti digitali per risolvere i problemi; essere in grado di risolvere problemi complessi attraverso un utilizzo consapevole degli strumenti digitali. Competenze • Risolvere problemi tecnici • Identificare i bisogni e le risposte tecnologiche • Identificare i gap di competenza digitale • Essere aperto


PRODUTTIVITÀ, EFFICIENZA E RISPARMIO SUI COSTI: LE AZIENDE CHIEDONO, LA STAMPA GESTITA RISPONDE. Sempre più aziende nel mondo stanno adottando soluzioni di MPS (Managed Print Services)

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COVER STORY

BCG: nelle aziende italiane la parità di genere è lontana. 4 azioni per favorirla Boston Consulting Group e Valore D evidenziano un’Italia arretrata nella valorizzazione delle donne nelle posizioni di top management. Tra le iniziative concrete suggerite ci sono lo sviluppo di talenti nei ruoli dirigenziali più tecnici e il focus sui percorsi di carriera femminili

L’Istat certifica che in Italia la presenza femminile nel mondo del lavoro è cresciuta negli ultimi 20 anni dal 39% al 48%. La sensibilità sul tema “gender gap” è in aumento, anche per la Legge 120/2011 - “quote rosa” obbligatorie nei CDA e organi di controllo delle aziende - che ha dato un’importante spinta verso la parità di genere: secondo Consob, nei CDA la percentuale di donne è salita al 31,6%, contro il 7,4% del 2011. PIÙ FUNZIONI DI STAFF CHE DI LINEA, PIÙ SERVIZI E FINANZA CHE INDUSTRIA Guardando però al mondo aziendale privato italiano, solo il 24% dei manager in posizioni di vertice è donna, a fronte di una media europea del 29%. È la principale conclusione di “Women at the Top”, indagine di Boston Consulting Group (BCG) e Valore D basata su interviste a 2500 persone, in gran parte donne “over 40” in posizioni di leadership o manageriali, oltre a 500 manager uomini tra cui i principali direttori delle risorse umane di aziende italiane e multinazionali con sedi in Italia. La fotografia che emerge dall’indagine non è confortante. Oltre al dato dei CEO citato, anche le analisi trasversali mostrano forti discrepanze. Esaminando i settori, i servizi finanziari sono quelli a maggior presenza femminile (51%), mentre energia e produzione di beni industriali hanno un tasso di donne molto sotto la media (21%). Analogamente, nelle aziende a proprietà italiana le donne sono il 38%, mentre nelle multinazionali sfiorano la parità. All’interno dell’azienda, in Italia le donne sono impiegate più in

Nelle aziende a proprietà italiana le donne sono il 38%, mentre sfiorano la parità nelle multinazionali. Ma al vertice sono molte meno

funzioni di staff e supporto (contabilità, amministrazione e controllo, risorse umane, comunicazione) che in funzioni di linea (45% contro 38%), divario ancora più ampio nel caso delle nuove professioni digitali. Dallo studio emerge come le donne in Italia abbiano in media una prima penalizzazione rispetto agli uomini già all’entrata nel mondo del lavoro, legata al percorso di studi e alle competenze di base (minori studi tecnici, focalizzazione sulle aree di staff). In seguito, nonostante il numero crescente di iniziative per contrastare il gender gap, la crescita in azienda è ulteriormente penalizzata da una cultura aziendale che non sostiene abbastanza la parità di genere. In tale scenario, per spingere la leadership femminile servono azioni concrete delle aziende. Il report ne suggerisce quattro. 1) Sviluppare la “pipeline” di talenti femminili per i ruoli manageriali più richiesti in azienda, in particolare quelli tecnici (percorsi di formazione fin dalle scuole medie, adattamento del recruiting, supporto allo sviluppo di competenze). 2) Pianificare il percorso di carriera delle donne (valutazione sistematica di profili femminili per posizioni di manager, supporto al rientro dalla maternità, ecc.) 3) Cambiare la cultura aziendale a partire dalle aree work-life balance/flessibilità e welfare aziendale, oltre a percorso di carriera. 4) Misurare e valorizzare i risultati raggiunti, con indici che mostrano la percentuale di presenza delle donne nelle varie funzioni e livelli manageriali, i progressi di carriera delle donne, i loro livelli di competenze rispetto alla media, ecc. www.digital4executive.it

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SPECIALE “HR”

Sicurezza e flessibilità, lo Smartphone evolve per lo Smart Working

Lavoro sempre più mobile in Italia, organizzabile e gestibile anche fuori ufficio per chi opera sul territorio, per chi è spesso in missione dai clienti e per chi svolge compiti che, grazie alle tecnologie digitali oggi disponibili, consentono di lavorare ovunque ci si trovi, mantenendo la connessione con l’azienda. Ora lo permette anche una norma, la Legge 81/2017, che definisce il Lavoro Agile come “modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa”. Al di là della legge, sono le organizzazioni che si stanno gradualmente spostando da un paradigma di controllo a uno legato agli obiettivi da raggiungere e alla collaborazione, facilitata dalle tecnologie digitali. Aumentano così i cosiddetti “Smart Worker” che, dotati di dispositivi mobili connessi ai server e database aziendali, possono lavorare anche in autonomia per orario e luogo di lavoro. In Italia ce ne sono 305mila, secondo le stime dell’ultima indagine dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano. In crescita del 14% rispetto al 2016 (erano 250mila solo un anno fa) e del 60% rispetto al 2013, oggi rappresentano l’8% del totale dei lavoratori. E una minima parte inizia a interessare anche la pubblica amministrazione, per ora il 17% degli Smart Worker stimati, quota che crescerà nei prossimi anni gra-

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FUNZIONI DI PRODUTTIVITÀ PERSONALE SIMILI A QUELLE DEI DESKTOP, E CHIARA SEPARAZIONE TRA AREA PRIVATA E AREA AZIENDALE SULLO STESSO DISPOSITIVO, PROTETTE ENTRAMBE CON SISTEMI DI SICUREZZA DI LIVELLO ENTERPRISE: SAMSUNG SPIEGA LA SUA VISIONE DEI MOBILE DEVICE PER IL BUSINESS, CONCRETIZZATA NEL NUOVO GALAXY NOTE8

ANTONIO LA ROSA Head of B2B Samsung Electronics Italia

zie alla direttiva della riforma Madia, che punta a coinvolgere almeno il 10% dei dipendenti di ciascun ente pubblico entro tre anni. Per ora il 31% degli Smart Worker dichiara di lavorare in un’organizzazione che ha progetti strutturati di Lavoro Agile, negli altri casi questo non è formalizzato ma consentito, oppure godono di forme di flessibilità legate al proprio ruolo. Più mobili degli altri, trascorrono mediamente solo il 67% del tempo lavorativo in azienda, rispetto all’86% della media degli altri lavoratori. Sono sempre meno legati a una singola postazione quando sono in sede, e quando lavorano fuori possono trovarsi da clienti o fornitori (16%), a casa (10%) o in luoghi terzi come gli spazi di coworking (7%). Oltre a essere più abili con i dispositivi, gli Smart Worker dimostrano una maggiore padronanza delle digital soft skill, cioè competenze di tipo relazionale e comportamentale che consentono di utilizzare efficacemente i nuovi strumenti digitali per migliorare la produttività e la qualità del lavoro, come la gestione di team di lavoro virtuali. In questo contesto di rapida evoluzione, un ruolo fondamentale è giocato dalle tecnologie abilitanti,


SPECIALE “HR”

Gli smart worker in Italia sono ormai oltre 300mila: passano in media solo il 67% del tempo lavorativo in azienda, ma anche quando ci sono, sono sempre meno legati a una singola postazione

tra cui device come il Samsung Galaxy Note8 che, annunciato di recente, si propone come supporto all’efficienza e produttività dei lavoratori in mobilità, con funzionalità di estensione dello smartphone a desktop. L’interfaccia Android è stata ridisegnata e ottimizzata per l’utilizzo con mouse e tastiera e consente l’utilizzo in multitasking di finestre, menu contestuali e pagine web. La collaborazione strategica con Microsoft e Adobe rende compatibile la soluzione Samsung DeX con Microsoft Office e le app mobile Adobe, dando per la prima volta la possibilità di accedere a funzionalità simili a quelle delle versioni desktop. Inoltre, per i professionisti che hanno necessità di utilizzare applicazioni presenti unicamente in ambiente Windows, Samsung DeX permette l’accesso in maniera remota e sicura a desktop virtuali tramite soluzioni di partner come Citrix, VMware e Amazon Web Services. «Quando abbiamo sviluppato Samsung DeX, abbiamo pensato al professionista che viaggia mol-

to, per offrirgli una esperienza comoda e flessibile come fosse al computer», commenta Antonio La Rosa, Head of B2B Samsung Electronics Italia . Inoltre il nuovo Galaxy Note8 offre una chiara separazione tra dati aziendali e dati personali grazie a Samsung Knox Workspace, garantendo al tempo stesso sicurezza e flessibilità. L’ambiente aziendale, per esempio, mantiene la stessa interfaccia d’uso di quello personale, per semplificare l’adozione e l’operatività. Supportato dalle principali soluzioni di Mobile Device Management (MDM), il device ha interfaccia compatibile con tutte le applicazioni presenti su Google Play Store. È pensato per differenti settori professionali, e offre anche la funzionalità di riconoscimento tramite scansione dell’iride, che può essere utile in situazioni - tipiche per esempio di settori come sanità, edilizia opubblica sicurezza - in cui si deve poter sbloccare il telefono senza dover passare il dito sullo schermo o eseguire la scansione dell’impronta digitale.

gestire da remoto in Cloud tutti gli smartphone aziendali Far convergere applicazioni e fonti dati su un unico dispositivo e, al tempo stesso, avere la massima sicurezza delle informazioni sono tra le principali sfide del lavoro in mobilità. L’obiettivo è aiutare a lavorare in modo più efficiente e produttivo manager viaggiatori, tecnici e impiegati Smart Worker senza correre rischi. La cybersecurity è al centro delle politiche aziendali in diversi contesti di business, sia in termini di sviluppo di software che di cultura, ma ancora troppo spesso non c’è il livello di attenzione sufficiente per assicurarsi la riservatezza dei dati. Da numerose ricerche risulta che si tende ancora ad accedere a dati aziendali da dispositivi personali o ad inviare informazioni riservate da device e account personali, non soggetti ai livelli di protezione dei sistemi di sicurezza aziendali. La piattaforma Samsung Knox, che si declina sulla gamma di smartphone Galaxy, compreso il nuovo Samsung Galaxy Note8, risolve all’origine questo rischio, perché gestisce separatamente area privata e area aziendale sullo stesso dispositivo, proteggendole entrambe con i sistemi di sicurezza più avanzati. La soluzione Knox Workspace garantisce ai dipendenti una gestione dei dati in sicurezza e alle aziende strumenti di gestione da remoto in cloud, personalizzabili in base alle esigenze aziendali, per esempio di configurazione di un elevato numero di dispositivi e di distribuzione di applicazioni, aggiornamenti e contenuti in maniera massiva, con il controllo da remoto con il portale di amministrazione di Knox Premium. Il sistema di sicurezza è certificato Common Criteria e, anche in caso di furto e smarrimento, Galaxy Note8 offre un’ampia scelta di opzioni di autenticazione biometrica, tra cui la scansione dell’iride e delle impronte digitali, sempre ai fini della protezione dei dati. WWW.S AMS U N G .C OM/ I T/ B U S I N E S S /

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SPECIALE “HR”

Welfare aziendale, serve un approccio integrato

La normativa relativa al welfare introdotta con la legge di stabilità del 2016 (e ampliata quest’anno) ha aperto un nuovo ventaglio di vantaggi che riguardano sia le aziende sia i loro dipendenti. Come ormai noto, sono previsti risparmi fiscali per le imprese che erogano premi di produzione sotto forma di beni e servizi mirati a migliorare la qualità della vita e il benessere dei lavoratori stessi e dei loro familiari: dalla previdenza complementare agli abbonamenti ai mezzi pubblici, dai contributi per gli interessi sui mutui a quelli per l’istruzione e le attività ricreative dei figli, fino ai ticket o i buoni benzina. Che l’opportunità vada colta è fuori di dubbio: l’impresa gode di un risparmio contributivo e il lavoratore può sfruttare appieno il valore del premio in beni e servizi. Ma quale sia la strada migliore da seguire e cosa conviene davvero fare, nel concreto, lo è molto meno: di fatto, in questo momento fra le imprese italiane c’è ancora grande incertezza, come spiega Andrea Plebani di Intelco, società specializzata nelle soluzioni per l’HR Management che fornisce sia supporto consulenziale sia tecnologico, avendo sviluppato un software specifico per la gestione e l’amministrazione. «Si sente molto parlare di welfare, soprattutto da due punti di vista: quello normativo e quello degli operatori specializzati nel settore. Quello che però riscontriamo, incontrando gli HR manager, è

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LA NUOVA NORMATIVA RAPPRESENTA UNA GRANDE OPPORTUNITÀ PER LE AZIENDE E PER I LORO DIPENDENTI. MA PER COGLIERNE TUTTI I VANTAGGI SERVE UNA VISIONE A 360 GRADI E UN’INTEGRAZIONE CON I SISTEMI INFORMATIVI DI GESTIONE DEL PAYROLL. ECCO ALCUNI UTILI CONSIGLI PER I DIRETTORI HR

ANDREA PLEBANI Amministratore unico di Intelco

che finora si è completamente sottovalutato un aspetto importantissimo, ovvero l’integrazione con il sistema di amministrazione e gestione del personale, sia per quanto riguarda la gestione del payroll sia per gli aspetti quelli contabili. La gestione del welfare non può essere scollegata dal sistema HR, ma deve avere un riscontro diretto e immediato nel cedolino del dipendente, e poi nelle dichiarazioni annuali. Il bene o servizio scelto, inoltre, deve essere gestito in costo e contabilità. Se vengono trascurati questi aspetti, la complessità è destinata a crescere nel tempo, con l’aumentare del numero di persone che usufruiscono del welfare in azienda, fino ad arrivare a un punto critico». Secondo Intelco, le evidenze dimostrano che la scelta di gestire il welfare attraverso un portale o un servizio ad hoc gestito esternamente non può essere efficiente se non esiste un collegamento diretto con il software di payroll, attraverso un’interfaccia più o meno sofisticata. La gestione ottimale del welfare implica infatti il monitoraggio di molteplici variabili e l’integrazione


SPECIALE “HR”

«Il welfare deve avere riscontri immediati in cedolini e dichiarazioni annuali. Il bene/servizio scelto va gestito in costo e contabilità. Se si trascurano questi punti, la complessità può solo aumentare»

con il sistema di payroll evita ai responsabili HR il rischio di un disallineamento. Ad esempio, le credenziali di accesso possono essere le stesse già in uso ai dipendenti per l’accesso ai sistemi, semplificandone la gestione; il turnover delle persone deve essere gestito in real time, con un costante aggiornamento di chi entra in azienda e di chi la lascia; il monitoraggio dei plafond va assicurato, per non rischiare di superarli (e quindi di scoprire a fine anno che c’è un impatto fiscale non previsto). E poi, i benefit non riguardano solo i dipendenti ma anche i loro familiari, dei quali si devono conoscere i dati anagrafici. Tante complessità, dunque, che vanno anticipate. «Il punto di partenza per noi è sempre consulenziale, perché ogni realtà ha esigenze specifiche: supportiamo le aziende nella scelta della migliore modalità di attivazione del welfare, con l’obiettivo di massimizzare l’adesione da parte dei dipendenti e al contempo di permettere alle aziende scelte

consapevoli rispetto alle aree di attivazione, perché diversi sono gli impatti contributivi e fiscali di ogni area. Grazie al nostro team normativo/legale, siamo a fianco degli HR manager anche nella stipula dell’accordo di secondo livello, quando è necessario per destinare al welfare i premi. E la nostra competenza tecnica li aiuta nella scelta degli strumenti tecnologici e nello sviluppo delle integrazioni necessarie con il sistema di HRM». In un momento di grande trasformazione per le direzioni HR, la delega di un aspetto specifico come quello del welfare a un esperto permette così di focalizzare energie e risorse sugli aspetti più strategici del people management, come la gestione e il recruiting dei talenti, lo sviluppo di nuove competenze, le nuove forme di engagement. Per vincere le nuove sfide dell’era digitale, sono infatti le persone il vero fattore critico di successo, e il ruolo del direttore HR è quello di valorizzarle e fidelizzarle.

chi è intelco Intelco da oltre 30 anni sviluppa soluzioni HR innovative, ponendosi come partner di digitalizzazione in grado di gestire efficacemente i flussi e i processi organizzativi in contesti di elevata complessità, allineandosi alla normativa nazionale e alle policy aziendali. Con oltre 90 clienti e un’ampia esperienza maturata in aziende medio/grandi in diversi settori, Intelco si propone come un partner per l’HR innovation, grazie a competenze tipiche di un’azienda tecnologica con sistema software proprietario integrato applicato al mondo delle risorse umane. L’offerta di servizi spazia dal rilevamento presenze al controllo accessi, dal payroll al travel management, dalla gestione per centri di costo/ commesse/turni alla piattaforma condivisa con il dipendente, all’integrazione del welfare nel sistema di HR Management. La filosofia operativa valorizza al massimo la condivisione e la personalizzazione dei sistemi, e l’attenzione costante al cliente unita alla volontà di integrazione a monte e a valle hanno portato negli anni a sviluppare importanti partnership di prodotto e di processo: MyTI, per l’innovazione tecnologica software; Hitachi System CBT, per le infrastrutture e il repository dei dati; Dormakaba, per le soluzioni di controllo accessi (tornelli, rilevatori, varchi…); Studio Zaglio Orizio ed associati, dipartimento di diritto del lavoro. Efficienza, razionalizzazione, recupero costi, time&cost saving: grazie ad una visione strategica di partnership con il cliente, l’approccio Intelco porta a risultati certi, tangibili e misurabili.

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SPECIALE “HR”

PRES Formazione: Soft skills e Business English? Competenze strategiche per i professionisti dell’ICT

Rivoluzione digitale e globalizzazione. Sono queste le due grandi opportunità che le imprese hanno oggi per spingere il business oltre le frontiere dei tradizionali scenari competitivi. Ma spesso, per mancanza di strumenti e conoscenze, queste opportunità si trasformano in vincoli, addirittura in ostacoli. Come affrontare il rapido evolversi delle tecnologie, non solo dal punto di vista tecnico ma anche culturale? Il primo pensiero va naturalmente alla formazione continua. Ma in un’epoca in cui flessibilità, mobilità e on demand sono le nuove parole d’ordine, come cambia l’offerta formativa? Ce ne parla Cinzia Galofaro, Education Manager di PRES, system integrator e centro di formazione ufficiale Cisco, Oracle, Microsoft e IBM. Come sono cambiate le esigenze delle aziende? Il mondo manageriale si sta adeguando all’evoluzione digitale, prerogativa che prima apparteneva solo alle professionalità più tecniche. Questo non accade solo nei settori che stanno sfruttando appieno la tecnologia per sviluppare il proprio business, come il Finance, le Telecomunicazioni o il Retail. La digitalizzazione impatta tutti i settori. Cambiano inoltre i tempi della formazione: le organizzazioni richiedono sempre più spesso modalità di erogazione blended, ovvero che sappiano coniugare l’esperienza d’aula con attività formati-

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LA NUOVA OFFERTA FORMATIVA INCLUDE CORSI MANAGERIALI, COMPORTAMENTALI E LINGUISTICI. INTERVISTA A CINZIA GALOFARO, EDUCATION MANAGER DI PRES FORMAZIONE

CINZIA GALOFARO Education Manager di PRES Formazione

ve da remoto: classi virtuali, e-learning, microlearning, gaming o anche video-pillole condivise su dispositivi mobili. Ma la vera novità è che ci vengono richieste sempre più classi dedicate alla comunicazione, al problem solving e alla leadership, che sono materie trasversali a tutti i settori e a tutte le funzioni aziendali. Ecco perché accanto ai corsi Soft Skills e Business English on demand, ovvero costruiti su misura per ciascuna azienda, offriamo anche sessioni di formazione a calendario, ovvero pubbliche e interaziendali. Con le nuove tecnologie evolve anche la modalità di erogazione dei corsi? Assolutamente sì. Non si può più parlare di lezione frontale, un modello ormai superato, ma di un rapporto bidirezionale e interattivo tra docente e discente. I corsi comportamentali e di Business English ad esempio hanno un netto taglio pratico. Il coinvolgimento e la partecipazione attiva del discente ne sono il cuore pulsante. Anche i corsi tecnici, che


SPECIALE “HR”

«Abbiamo effettuato importanti investimenti tecnologici per predisporre le aule con infrastrutture d’avanguardia, che assicurino la miglior user experience, anche da remoto»

utilizzano i laboratori ufficiali dei vendor, si trasformano. Sono accessibili anche da remoto, attraverso le virtual classroom. Si può seguire lo stesso corso in aula, a Milano, Torino o Roma, oppure dal proprio ufficio o da casa, interagendo in tempo reale con il docente e con gli altri discenti.

Non si tratta solo di definire e consolidare le conoscenze linguistiche in contesti specifici, ma soprattutto di potenziare le competenze e i comportamenti necessari ad affrontare con successo uno scenario in cui globalizzazione e nuove tecnologie sono all’ordine del giorno.

Questo implica un grosso sforzo di trasformazione anche da parte vostra...

Quali sono i vostri corsi Soft Skills più richiesti?

Abbiamo effettuato importanti investimenti tecnologici per predisporre le aule con infrastrutture d’avanguardia, che assicurino la miglior user experience, anche da remoto. I docenti hanno dovuto sviluppare un nuovo approccio alla classe: ovviamente una cosa è avere di fronte a sé una platea fisica, con la quale è possibile interagire anche nei momenti di pausa e relax, altra cosa è gestire una classe con partecipanti connessi da remoto. Non si tratta infatti di e-learning, che è una modalità di erogazione monodirezionale e asincrona. La virtual classroom prevede l’ascolto e l’interazione con tutti i partecipanti, con uno sforzo di attenzione e visione da parte del docente completamente diverso. Quali sono i vostri corsi di Business English più richiesti? I nostri best-seller sono English Public Speaking, English for Meetings e Presentations Skills, essenziali per imparare a progettare, preparare ed esporre presentazioni aziendali destinate a un pubblico internazionale. Riscuotono molto interesse anche temi quali Social English, Negotiating, Reports, a cui si aggiungono corsi più specifici, focalizzati per esempio sulle attività di Marketing, Sales e Legal. C’è poi una parte molto innovativa dell’offerta, quella composta dai corsi comportamentali, sempre in inglese, come ad esempio Team Building.

Le aree più richieste sono quella della comunicazione (campo che spazia dai corsi di Public Speaking a quelli sui Feedback efficaci) e del cambiamento (come i percorsi formativi di Change Management e Change Agent). Notevole interesse riscuotono inoltre nuove aree, quali Gestione e superamento delle Resistenze, Intelligenza emotiva, Pensiero strategico e sistemico e Psicologia degli errori. Perché cresce la domanda di corsi di Soft Skills? Sempre più aziende ci chiedono di accompagnarle attraverso percorsi formativi Soft Skills, oltre che attraverso i corsi dei principali Vendor ICT, perché le competenze tecniche sono fondamentali, ma non sufficienti per raggiungere l’eccellenza. I corsi Soft Skills sono complementari a quelli tecnici, perché sono dei veri e propri potenziatori di performance, sia individuale che di team.

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DIGITAL TRANSFORMATION - HR di

GAIA FIERTLER

ALESSANDRO CAMILLERI DIRETTORE SVILUPPO, FORMAZIONE E ORGANIZZAZIONE GRUPPO HERA

Hera, le persone al centro della digital transformation Personalizzare l’innovazione tecnologica, fino al singolo dipendente. È l’obiettivo che guida la Digital People Strategy della multiutility italiana, con diverse iniziative fra cui un assessment delle competenze digitali, un nuovo programma di formazione (anche in eLearning) e lo Smart Working. Ne parliamo con Alessandro Camilleri, Direttore Sviluppo, Formazione e Organizzazione Gruppo Hera

La digitalizzazione è un capitolo strategico del piano industriale del Gruppo Hera, una delle principali multiutility italiane operanti nel settore ambientale, idrico ed energetico. Nato nel 2002 dall’aggregazione di 11 aziende municipalizzate dell’Emilia-Romagna con tradizione centenaria, prima esperienza nazionale di questo tipo, il Gruppo ha continuato a crescere inglobando altre realtà operanti nelle Marche e nel Nord-est. Quotato dal 2003, impiega 9mila dipendenti e serve oltre 4 milioni di cittadini. Nel 2016 ha avuto ricavi per 4,5 miliardi di euro, 220 milioni di utile netto e 366 milioni di investimenti. In un contesto complesso di erogazione di servizi tra mercato regolamentato e mercato libero, la digitalizzazione è un asset strategico per l’azienda e per l’HR stesso per intercettare nuove opportunità di business, cogliere e rispondere tempestivamente ai bisogni sempre crescenti e personalizzati dei cittadini, avere le competenze adeguate per rispondere | 26 |

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alle sfide del mercato e, di conseguenza, migliorare efficienza e produttività e offerta di servizi. HR VALUE PROPOSITION, I DUE PILASTRI «La nostra HR value proposition si basa su due principi - esordisce Alessandro Camilleri, Direttore Sviluppo, Formazione e Organizzazione Gruppo Hera -. Il primo è che gli investimenti nelle nuove tecnologie sono necessari ma non sufficienti, perché sono le persone a portare il maggior valore e quindi ogni strumento va pensato, usato e fatto evolvere in base al contesto specifico, non solo di settore ma anche di cultura aziendale, e declinato pensando all’uso che ne faranno le singole persone. Il secondo è che proprio, considerata la nostra identità aziendale, per noi è essenziale la ricerca di un equilibrio dinamico tra il saper fare distintivo dei nostri mestieri tradizionali e quegli elementi di innovazione senz’altro da adottare, ma da adattare


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e personalizzare fino al singolo operatore». Questa ricerca di equilibrio non è una novità per Hera che, proprio per consolidare e trasferire le migliori pratiche aziendali, negli anni ha creato una decina di comunità di procedure per famiglie professionali, traducendo in quaderni di mestiere le migliori modalità di lavoro emerse dal confronto fra gli operatori stessi. Quaderni che però oggi godono di continui aggiornamenti, confronti e interazione tra colleghi grazie alla modalità Wiki che tra l’altro, ampiamente utilizzata, avvicina geograficamente e culturalmente dipendenti provenienti da realtà aziendali diverse. WELFARE AZIENDALE TUTTO GESTITO SU PIATTAFORMA DIGITALE È invece nativamente digitale, accompagnato da accurata informazione e formazione su tutta la popolazione aziendale, il progetto di welfare aziendale avviato da Hera nel 2016, costruito sull’ascolto attento dei bisogni dei singoli, delle diverse fasce d’età, di genere, di ciclo lavorativo, con un ampio portafoglio di servizi e convenzioni disponibile su una piattaforma digitale utilizzata dalla quasi totalità dei dipendenti. «L’introduzione di questo sistema di welfare ci ha preparato a un ulteriore passo avanti, quello di misurare il livello di consapevolezza e la propensione al digitale della nostra organizzazione, perché dietro ogni strumento ci sono persone da considerare, ascoltare e valorizzare - racconta Camilleri -. Come HR quest’anno abbiamo capito che era giunto il momento di misurare a che punto fossimo rispetto ai temi del digitale, per allinearci in modo efficace alla pianificazione strategica del Gruppo, con un piano di people strategy che accompagni le nostre persone nella trasformazione in corso».

dimensioni di competenze digitali: Digital, Data Analytics, Smart Working e ICT. «Il modello ci ha convinto perché elaborato da esperti del Politecnico di Milano su base scientifica, distillando le migliori pratiche di assessment, assicurandoci un adeguato livello di scientificità e, al tempo stesso, essendo abbastanza flessibile per poterlo declinare sui nostri obiettivi e persone. Per esempio, di tutte le competenze contemplate dal modello europeo di competenze digitali di riferimento, abbiamo selezionato le 4 o 5 per ogni dimensione, rilevanti per il nostro contesto organizzativo. Al tempo stesso la survey procedeva per livelli progressivi di approfondimento a seconda delle risposte fornite dai dipendenti. La scelta si è rivelata più che opportuna, con il 60% di adesioni che, se escludiamo i 2.000 operatori senza dotazione di pc (che avevano la complicazione di doversi recare alla postazione mobile per rispondere), sale al 75%, che per noi è un risultato straordinario.

UNA SURVEY SULLE COMPETENZE ICT, DIGITAL, ANALYTICS E SMART WORKING

«L’adesione alla survey sulle competenze digitali è stata del 60%, ma escludendo i 2000 operatori non dotati di pc (che avevano la complicazione di dover andare a una postazione mobile per rispondere), sale al 75%: è un risultato straordinario»

Il progetto di analisi del livello di digitalizzazione interno è partito a giugno 2017 con una survey, ”Her@futura”, realizzata in collaborazione con la società di advisory P4I-Partners4Innovation, somministrata in forma digitale alle 9000 persone del Gruppo, anche grazie a postazioni mobili per i 2000 operatori privi di computer o device aziendali. Dopo un’accurata ricerca sul mercato, Hera ha scelto una soluzione di assessment che si basa sul modello Digital DNA, che va a esplorare quattro www.digital4executive.it

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DIGITAL TRANSFORMATION - HR | HERA, LE PERSONE AL CENTRO DELLA DIGITAL TRANSFORMATION

«A sorpresa sono emersi dei champion nell’ICT e nei Data Analytics che si occupano di tutt’altro. Potranno avere ruoli di facilitatori tra le direzioni di staff e di business e il dipartimento ICT, che a volte fanno fatica a parlare lo stesso linguaggio»

In pratica già questo è un risultato di interesse, curiosità e apertura alla digital transformation». Al livello di consapevolezza misurato sul digital, analytics, smart working e ICT, sono stati associati anche quattro profili cognitivi, a loro volta associati a personaggi famosi della nuova era digitale: il pragmatico, l’osservatore, lo sperimentatore e il creativo. Sui risultati ottenuti, sia per dimensione sia per profilo cognitivo, l’azienda ha pianificato una serie di azioni strutturate in base alla direzione che vuole incoraggiare, ai suoi obiettivi e alla sua identità aziendale. GLI ESPERTI “NASCOSTI” DI ANALISI DEI DATI «La grande sorpresa - prosegue Camilleri - è che sono emersi dei champion nell’ICT e nei Data Analytics che non ci saremmo aspettati, perché si tratta di colleghi che si occupano di tutt’altro. A questo punto loro potranno avere ruoli di facilita-

tori tra le direzioni di staff e di business e il dipartimento ICT che, talvolta, fanno fatica a parlare lo stesso linguaggio. Puntiamo molto sul loro coinvolgimento e sull’orgoglio di poter mettere a disposizione dell’organizzazione una loro competenza “nascosta”». A loro volta gli appassionati di Data Analytics sono stati inseriti nella nuova community dedicata a questa funzione e parteciperanno, insieme agli esperti, ai prossimi incontri con l’Università di Bologna, con cui il Gruppo Hera ha avviato un percorso per realizzare progetti di ricerca applicata sull’innovazione e la digitalizzazione, partendo dalla propria esperienza di telecontrollo delle reti e degli impianti di gestione del gas e dell’energia elettrica. «Con l’attività che svolgiamo raccogliamo già ora enormi quantità di dati, che diventeranno sempre più strategici in funzione di come sapremo trattarli con gli Analytics, ancora una volta secondo modelli coerenti con i nostri obiettivi».

Smart Working ai blocchi di partenza La dimensione su cui la restituzione dell’indagine di assessment sulle competenze digital è stata più soddisfacente, con una larga maggioranza che ha superato la soglia minima, è stata quella dello smart working. La popolazione di Hera è già sufficientemente “agile” con un buon rapporto capo-collaboratore, abbastanza maturo da poter andare verso la responsabilità nel rapporto di lavoro; con una buona propensione al lavoro senza vincoli spazio-temporali e con attività compatibili. «Premesso che il remote working è solo un aspetto dello Smart Working che contempla un nuovo concetto di organizzazione del lavoro basato sul circolo virtuoso di fiducia responsabilità - risultati verso cui noi tendiamo, i risultati incoraggianti della survey ci hanno fatto partire subito con un progetto pilota che, in caso contrario, avremmo realizzato più lentamente con

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una maggiore preparazione “culturale” allo Smart Working». Il progetto pilota ha coinvolto 373 persone di alcune società del Gruppo, nelle aree commerciale, ICT e qualità, sicurezza, ambiente. Partito a ottobre, si concluderà ad aprile, e comprende un giorno alla settimana di remote working. Verrà tarato in corso d’opera per poterlo estendere poi a tutta la popolazione aziendale. Sul fronte digital, l’HR ha predisposto un piano di iniziative per portare tutti a un livello minimo di consapevolezza digitale (fase Foundations), con pillole formative che saranno erogate online sulla piattaforma digitale di e-learning già attiva nel Gruppo. Queste pillole andranno più in profondità per chi ha funzioni manageriali e dovrà sviluppare di più le digital soft skill e si stanno impostando sessioni applicative anche in presenza diretta, sia per contenuti teorici che pratici per manager e ICT.



IN TERVISTA di

GIOVANNI IOZZIA

ANTONIO MARCEGAGLIA

Marcegaglia verso l’impresa 4.0 «Una rivoluzione culturale»

CHAIRMAN AND CEO GRUPPO MARCEGAGLIA

Non solo tecnologie e piattaforme. Per il CEO del Gruppo siderurgico italiano, la vera essenza della trasformazione digitale nel manufacturing è la capacità di interpretare i dati: «Stiamo lavorando molto sulle competenze soft di tutti coloro che sono più coinvolti nel business, e che devono recepire la cultura dell’innovazione come un elemento strutturale»

Dall’automazione industriale all’Industria 4.0 fino alla trasformazione digitale. Il percorso della manifattura italiana è cominciato da tempo e adesso prevede una tappa forse più impegnativa di tutte le altre. «La vera rivoluzione digitale, la vera innovazione, parte da un elemento fondamentale che è culturale», dice Antonio Marcegaglia, Chairman and Chief Executive Officer del gruppo che porta il suo nome e che rappresenta un’eccellenza dell’industria pesante italiana: una multinazionale dell’acciaio attiva in tutto il mondo con 6500 dipendenti e 39 stabilimenti, che per evidenti ragioni di competitività non può fermarsi, ha avviato importanti processi di innovazione interna (vedere box) ma sta adesso lavorando su quella che lo stesso Marcegaglia definisce la vera essenza della rivoluzione digitale: la “cultura dei dati”. Che cosa significa trasformazione digitale per un’azienda come Marcegaglia, che produce manu| 30 |

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fatti in acciaio e carbonio? La trasformazione digitale, l’innovazione, la rivoluzione - se vogliamo chiamarla così - anche per un settore di base che è quello metalsiderurgico, non è un tema scontato, e ha cominciato ad avere molta presa solo negli ultimi anni, per cambiamenti nel contesto esterno all’azienda nelle modalità di consumo e nell’utilizzo dei materiali, con impatti rilevanti sulla catena del valore. Per noi questo ha comportato un’accelerazione su più livelli. Quali sono i principali? Sono due. Al primo livello c’è l’ottimizzazione degli asset fisici e l’innovazione dei processi e la loro integrazione con una serie di iniziative di robotizzazione nella logistica, nella produzione, nell’interazione con i dati rilevanti tra le varie funzioni. Poi c’è un secondo livello che allarga i confini dell’azienda nella filiera produttiva e anche oltre, nel rapporto con le università, con i centri di ricerca


INTERVISTA | MARCEGAGLIA VERSO L’IMPRESA 4.0 «UNA RIVOLUZIONE CULTURALE»

«Vogliamo arrivare ad avere una lettura intelligente di dati rilevanti invece di una proliferazione di dati poco significativi. Credo che l’essenza della rivoluzione digitale nell’industria sia lo sfruttamento intelligente dei dati per creare valore»

e in generale con il mondo che ci circonda. Non c’è però soltanto l’intervento sulla fabbrica, e sull’ecosistema. Cos’altro serve per accelerare il processo di trasformazione digitale in un settore di base come il vostro? I primi livelli di innovazione che abbiamo visto non sono sufficienti. E forse non sono neanche i più rilevanti. Noi stiamo lavorando molto sulle competenze soft, non solo sulle tecnologie, non solo sulle piattaforme. Ed è un lavoro rivolto non solo agli addetti allo sviluppo tecnologico, ma ancora di più al top management, ai responsabili commerciali, a tutti coloro che sono più coinvolti nel business e che devono recepire e metabolizzare la cultura dell’innovazione come un elemento strutturale.

Qual è l’obiettivo di questo lavoro culturale? Vogliamo arrivare ad avere una lettura intelligente di dati rilevanti, piuttosto che una proliferazione esuberante di dati non così significativi. Questo perché credo che l’essenza della rivoluzione digitale, nell’industria, sia in definitiva lo sfruttamento intelligente dei dati per creare valore, e questo presuppone una grande attinenza al business. Quindi l’essenza della trasformazione digitale è culturale? Si, la vera rivoluzione digitale, la vera innovazione parte da un elemento fondamentale che è culturale. Che vale per le imprese, gli imprenditori in primis, per tutta la classe dirigente e per tutti gli stakeholders di una società e di un Paese che vuole proiettarsi nel futuro.

Il percorso verso la Connected Factory passa da Ravenna e Casalmaggiore Nell’ambito di un grande piano di automazione industriale da 250 milioni di euro, il gruppo Marcegaglia ha recentemente ampliato gli stabilimenti di Ravenna e Casalmaggiore, installando linee di produzione dotate di sistemi automatizzati per tutte le operazioni di movimentazione di materie prime, spostamento e stoccaggio dei prodotti lungo le varie fasi di lavorazione. L’impianto di Ravenna, dedicato al trattamento dei coils (gigantesche bobine di acciaio), ha adottato una flotta di AGV (Automated Guided Vehicle), navette totalmente automatiche che trasportano appunto i coils tra gli impianti dove vengono lavorati e i punti di carico per la spedizione finale. Nello stabilimento di Casalmaggiore, dove dai coils vengono prodotte tubature di diversi diametri e dimensioni, è stato allestito un sistema di carriponte per lo stoccaggio dei pacchi di tubi raccolti dagli impianti di produzione e movimentati sino all’area di caricamento sugli automezzi per il trasporto. Il tutto con un processo completamente automatizzato. «L’obiettivo è trasformare Marcegaglia in una Connected Factory tramite l’adozione di una rete unificata per l’azienda e gli stabilimenti a supporto della reingegnerizzazione dei processi in ottica Internet of Things e lungo una Supply Chain totalmente informatizzata», spiega Livio Bonatti, Network Infrastructure Manager, Headquarters Marcegaglia. I benefici rilevati da Marcegaglia sono di 4 tipi: abbattimento dei rischi di errore umano, maggior visibilità sul funzionamento degli impianti, ottimizzazione di produzione e gestione del magazzino prodotti finiti, miglioramento della sicurezza fisica per il personale e di quella IT per impianti e dispositivi connessi.

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MANAGEMENT - WORLD OF BUSINESS IDEAS di

in collaborazione con

PATRIZIA LICATA

RACHEL BOTSMAN RICERCATRICE, SCRITTRICE, ESPERTA DI TRUST E SHARING ECONOMY

Rachel Botsman: la sharing economy è solo l’inizio, il futuro è la fiducia distribuita I criteri classici di costruzione e gestione della fiducia – nei brand, nei leader politici e non, nelle istituzioni – stanno crollando. Nuovi meccanismi abilitati dal digitale ci portano a fidarci di persone, aziende e idee sconosciute, vedi Airbnb, Tinder o Bitcoin. È un passaggio epocale, da “institutional trust” a “distributed trust”, basata su enormi reti di persone, organizzazioni e macchine intelligenti

Il cambiamento indotto dalla sharing economy nel modo di fare business e nelle relazioni sociali è appena all’inizio: prepariamoci a un’era che ridefinisce in termini completamente nuovi che cosa sono una banca, un giornale, un brand di consumo o un partito politico, perché la tecnologia digitale ha innescato uno spostamento epocale nel concetto di fiducia, di “trust”, e nella percezione di chi, o che cosa, possa essere ritenuto affidabile. Questa la visione che Rachel Botsman, esperta mondiale di collaborazione e sharing economy, porterà all’edizione 2017 del World Business Forum di Milano. Botsman studia da sempre il potere della collaborazione e della fiducia, e le modalità con cui questi fenomeni, guidati dalla tecnologia, cambieranno il nostro modo di vivere, lavorare e consumare: ha creato alla Saïd School of Business dell’Università di Oxford il primo corso MBA sul trust (che lei stessa tiene) e ha anticipato il successo di piattaforme come Uber e Airbnb prima che divenissero colossi della sharing economy. | 32 |

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«La fiducia è la forza che ci spinge verso il nuovo, l’anello di collegamento tra il noto e l’ignoto - sostiene Botsman -: è una disponibilità a credere in qualcuno o qualcosa che non conosciamo, esattamente come abbiamo fatto la prima volta che abbiamo messo su Internet i dati della nostra carta di credito». La definizione e l’analisi del sentimento di “trust” è il perno su cui ruota la riflessione della Botsman e su cui si innestano i concetti, complementari, di “collaboration” e “sharing” che stanno ridisegnando interi settori dell’economia. Come ha scritto nel suo libro ‘What’s Mine is Yours’ (HarperCollins, 2010), Botsman ritiene che trust, sharing e business siano interconnessi, perché la fiducia è il linguaggio sociale di scambio che lubrifica gli ingranaggi delle imprese e delle attività economiche. In questo volume l’esperta ha fornito una definizione della teoria del “consumo collaborativo” che la rivista americana Time ha inserito tra le dieci idee che cambieranno il mondo.


MANAGEMENT- WORL D OF B US I NE S S I D E A S | RACHEL BOTSMAN: LA SHARING ECONOMY È SOLO L’INIZIO, IL FUTURO È LA FIDUCIA DISTRIBUITA

A Milano, nell’intervento “Le nuove regole della fiducia nell’era digitale”, Botsman sottolineerà la velocità con cui le start-up della sharing economy (Airbnb, Uber, Lending Club e tante altre) stanno trasformando i loro settori. E spiegherà quali sono le forze che permettono di stabilire, mantenere ma anche distruggere la fiducia dei consumatori, decretando il successo o il fallimento di un modello di business a seconda della capacità di un’organizzazione di cavalcare o no il “trust shift” in corso, ovvero lo spostamento della fiducia del pubblico verso attori che non fanno parte del sistema economico e sociale tradizionale. Botsman definisce questo passaggio epocale anche come “trust leap”, evidenziando il “salto” che compiamo quando ci fidiamo di persone, brand o sistemi che ci propongono di agire in modo diverso dall’usuale, riscrivendo le regole di ogni relazione, economica e personale. LA CAUSA DEL “TRUST SHIFT” NON SONO GLI SCANDALI: È LA TECNOLOGIA Botsman ha ulteriormente approfondito questi concetti nel suo nuovo libro, Who Can You Trust? (Penguin Portfolio, 2017), in uscita proprio in questi giorni, in cui scardina definitivamente i vecchi parametri che hanno definito la fiducia per spiegare come oggi il trust si indirizzi verso nuovi attori entrati sul mercato. Ciò non accade solo per effetto dei recenti scandali (crack di banche, corruzione in imprese, governi o istituzioni ecclesiastiche che hanno tradito la fiducia della pubblica opinione), ma perché i vecchi player non sono adatti all’era del digitale e della collaboration: a innescare il trust 2.0, oggi leva di un numero crescente di attività economiche, non basta l’autorità accreditata dall’alto; serve un processo top-down in cui le persone sono protagoniste in prima persona del trust e controllano più da vicino, grazie agli strumenti digitali, chi è il destinatario della fiducia: Botsman lo ha definito “trust distribuito”. E parla anche di “trust stack” per indicare che il cambiamento è graduale, una scala che si sale un gradino alla volta; ma è anche un processo inarrestabile (nonostante le proteste dei tassisti, Uber totalizza 5 milioni di corse al giorno) e che ha il potenziale di migliorare il sistema produttivo, facendo emergere imprese e idee di business ad alto contenuto innovativo e più in linea con la domanda del mercato. BLABLACAR È IL PERFETTO ESEMPIO BlaBlaCar è un esempio perfetto: la start-up dei passaggi in auto fra privati che vogliono condividere le spese e avere compagnia su lunghi tragitti

è riuscita a costruire un tale sentimento di fiducia nel suo pubblico da invalidare la classica raccomandazione dei genitori ai figli: “Non salire in macchina con uno sconosciuto”. Oggi BlaBlaCar trasporta 4 milioni di persone al mese, più dell’Eurostar, perché nella società del trust distribuito il nome e la foto di chi offre il passaggio e il voto degli utenti sono quel che basta per farci sentire al sicuro. La tecnologia resta il cuore dell’economia collaborativa, basata su piattaforme digitali che mettono insieme gli utenti, accessibili da app mobili, i cui servizi si pagano in modalità elettronica e che sono connesse a un sistema social di scambio di commenti e rating che ci permette di conoscere e valutare chi c’è dall’altra parte. Ma la vera trasformazione è la nuova forma di fiducia tra persone e brand che la tecnologia abilita e il cui impatto si allarga dalla sfera economica a quella sociale e culturale, con un potenziale beneficio “sistemico”, perché, distribuendo la fiducia, ciascuno di noi diventa più responsabile, «come quando in un alloggio Airbnb ci prendiamo cura di lasciare tutto in ordine», spiega Botsman, o come quando controlliamo il rating degli autisti di Uber. La diffusione della tecnologia Blockchain, poi, accelererà questo trend e modificherà il modo di concepire il trust nel mondo. Per questo, ammonisce Botsman, «è inutile cercare di ‘combattere’ il trend e illusorio pensare di tornare indietro: il cambiamento invece va capito, gestito e abbracciato perché può creare sistemi più trasparenti, affidabili e inclusivi».

Chi è Rachel Botsman Rachel Botsman è diventata famosa soprattutto per il libro “What’s Mine is Yours” (2010, HarperCollins) - uno dei primi a sistematizzare temi come la sharing economy abilitata dal digitale e la “collaborative consumption” - e per una serie di “TED Talks” che hanno totalizzato finora oltre 3,5 milioni di visualizzazioni. Con questi e con articoli (tra l’altro su New York Times, Harvard Business Review, The Economist, Wired), interventi e interviste, in questi anni è diventata una delle principali studiose del concetto di “trust” – la fiducia di cittadini e consumatori in imprese, organizzazioni ed enti statali - e delle sue radicali trasformazioni negli ultimi anni. Trasformazioni che stanno rivoluzionando i classici concetti di banca, comunicazione, politica, consumismo, «e persino il modo in cui alleviamo i nostri figli», come spiega in dettaglio nel nuovo libro “Who Can You Trust?” (Penguin Portfolio), in uscita proprio in questi giorni. Botsman è laureata a Oxford, dove dirige il corso MBA sui temi del Trust alla Said School of Business, e vive tra Londra e Sydney. www.digital4executive.it

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Il punto di riferimento

per l’aggiornamento Executive sull’Innovazione Digitale Gli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano sono una fonte unica di informazioni, dati e conoscenza sui temi chiave dell’Innovazione Digitale. Attraverso una piattaforma multimediale e interattiva, WWW.OSSERVATORI.NET, è possibile accedere al know-how e agli eventi sui temi chiave dell’Innovazione Digitale per essere costantemente aggiornati in qualsiasi luogo e con qualsiasi dispositivo. Gli Osservatori elaborano strategie e modelli per molteplici ambiti B2c, B2b e PA: finance, customer experience, export, gioco online, risorse umane, sanità, beni e attività culturali, retail, turismo, media, banking, food, sport, manufacturing, supply chain finance, ...

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ADVERTORIAL

Da TIM, un API Store per accompagnare le aziende verso l’Open Innovation

CON IL NUOVO PORTALE, LA PIATTAFORMA TIM OPEN PER SVILUPPATORI E STARTUP SI ARRICCHISCE DI IMPORTANTI STRUMENTI. CUSTOMER PROFILE, SERVIZI PER L’IOT, SMS, LOCALIZZAZIONE, MODALITÀ DI PAGAMENTO E AUTENTICAZIONE UTENTE SONO SOLO ALCUNI DEI MICROSERVIZI DISPONIBILI

FRANCESCO PAGLIARI Responsabile Platform & Marketplace di TIM

Nata con l’obiettivo di diventare un punto di riferimento per startup e sviluppatori italiani, TIM OPEN è la piattaforma per configurare la propria applicazione cloud e renderla subito disponibile alle imprese nazionali tramite i canali distributivi TIM (TIM Digital Store - digitalstore.tim.it - e agenti di vendita). TIM OPEN offre i principali strumenti per lo sviluppo software: dalle risorse infrastrutturali ad alta qualità, erogate attraverso i Data Center nazionali di TIM, alle funzionalità di gestione ordini, promozione e fatturazione, fino al nuovo TIM OPEN API Store. Le API (Application Programming Interface) sono l’interfaccia che permette l’interazione con programmi o parti di essi altrimenti inaccessibili, semplificando il dialogo tra le applicazioni. Nel mondo business le API sono una componente strategica della digital transformation, con cui le aziende possono applicare i concetti di open innovation. Il portale offre un’ampia proposta commerciale di API: customer profile, servizi per l’Internet of Things, SMS, localizzazione, modalità di pagamento, autenticazione utente, solo per citarne alcune. Così TIM risponde anche al mercato strategico e in continua crescita di chi sviluppa software. «Con il nuovo portale, TIM “apre” le proprie interfacce per renderle fruibili sempre di più dalle applicazioni che ci accompagnano nella vita digitale di tutti i giorni. In questo scenario gli sviluppatori potranno realizzare nuove soluzioni e proporle alle aziende facendo leva su questi “microservices”»,

dichiara Francesco Pagliari, Responsabile Platform & Marketplace di TIM. «Un esempio è la gestione delle “identità trusted” dei clienti, che potrà rendere più sicure le transazioni, l’invio di informazioni riservate e tanto altro ancora. Inoltre il TIM OPEN API Store ha anche l’obiettivo di aggregare servizi di altri partner, proponendosi come one-stop-shop per il mercato italiano delle API». Per valorizzare questa proposta, il 4-5 novembre 2017 si svolgerà a Milano il TIM OPEN Hackathon che coinvolgerà fino a 100 sviluppatori italiani divisi in team. Sono previsti due campi di sviluppo: bancario, assicurativo e legale; e media, entertainment e gaming. Le migliori idee saranno selezionate da una giuria di manager ed esperti IT che valuteranno sulla base di criteri quali innovazione, grado di realizzabilità, design, esperienza d’uso e modello di business. I tre migliori progetti saranno premiati con buoni acquisto da 5000, 2500 e 1500 euro. Inoltre, il team che presenterà la payment experience più innovativa riceverà dal partner CartaSi un premio speciale: un weekend a Stoccolma per due persone e l’uso gratuito per un anno del servizio XPay, per un valore totale di 2000 euro (regolamento dell’iniziativa su https://treehack.it/timopenhackathon/).

P ER U LT ER I O R I I N F O RMA ZIONI...

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DIGITAL TRANSFORMATION - MARKETING

PHILIP KOTLER

Philip Kotler spiega il nuovo marketing: «L'unica via per la crescita»

AUTORE, DOCENTE DI MARKETING

Il più noto esperto mondiale, in Italia in occasione del Forum che porta il suo nome, ha tenuto una lezione sul futuro del marketing, sostenendo che «la formula per la crescita dell'economia e del business è data da “Innovazione + Marketing”», e che le 4P (Product, Price, Place, Promotion) sono soppiantate dalle 5C: Customers, Company, Collaborators, Competitors, Context. E ha descritto il CMO di oggi: orientato ai dati e a una maggior collaborazione con il CFO

Arrivato in Italia per partecipare all’ormai consueto appuntamento annuale con il Philip Kotler Marketing Forum (PKMF), Philip Kotler, il guru riconosciuto a livello mondiale come il padre del marketing moderno, ha tenuto incollato il pubblico con oltre due ore di lezione e riflessioni sul futuro del marketing. Un futuro che vede il marketing elemento imprescindibile della formula che, insieme all’innovazione, rappresenta l’unica via possibile per la crescita del business, soprattutto nell’era digitale della new economy. RIPENSARE IL MARKETING IN OTTICA LEAN A precedere l’intervento di Kotler è stato il Professor Luca Pellegrini, Docente Ordinario di Marketing presso la IULM – Libera Università di Lingue e Scienze della Comunicazione, il quale, ammettendo ironicamente di sentirsi «come un prete di paese che deve accogliere il Papa», ha detto di Kotler: | 36 |

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«Non è solo uno dei grandi nomi del marketing, è lo studioso che più ha contribuito a fare del marketing una disciplina e che da molti decenni la ripensa e ripropone con lucidità». La centralità assunta oggi dal consumatore, in un ambiente molto competitivo, ha spinto il marketing a essergli sempre più vicino, per mantenere un rapporto di empatia in grado di generare risposte coerenti ai suoi nuovi bisogni, ha proseguito Pellegrini. «Il tema del PKMF di quest’anno [R-evolution marketing, approccio manageriale che mira alla riduzione e al recupero degli sprechi nei processi aziendali – ndr] è ancora una volta la dimostrazione di quanto Kotler sia attento al cambiamento e a come tradurlo in comportamenti aziendali. Il tema del lean marketing risponde infatti alla necessità di garantire la sostenibilità dei processi di produzione, ma forse ancora di più a una richiesta di trasparenza, di autenticità e di schiettezza che nasce dal rapporto sempre più di-


DIGITAL TRANSFORMATION - MARKETING | PHILIP KOTLER SPIEGA IL NUOVO MARKETING: «L'UNICA VIA PER LA CRESCITA»

«Per creare valore oggi il CMO dovrebbe lavorare a stretto contatto con il CFO, cosa che in realtà accade molto raramente. Non basta il “check” nel processo di definizione del prezzo»

retto tra le imprese e le persone attraverso la rete e i social media». MARKETING + INNOVAZIONE, LA FORMULA PER LA CRESCITA Dando quindi una piccola anticipazione dei temi che Kotler ha poi approfondito a lungo nel corso del suo intervento, Pellegrini ha introdotto il guru mondiale che ha esordito in modo molto diretto parlando di economia e business: «Il capitalismo sta distruggendo la democrazia e l’economia: gli stipendi bassi non sono una risposta a produttività e marginalità basse, perché per “far girare” l’economia serve denaro “in mano” ai consumatori che possono così spendere», ha tuonato Kotler. «L’economia non riflette la realtà, lo fa il marketing. Il business cresce attraverso il valore e il marketing è quella componente che aiuta ad esprimerlo nell’economia», è la lezione di Kotler sul palco di Milano. «Per esprimere la crescita del business (e dell’economia) c’è una formula: innovazione +

marketing». Una formula dove l’innovazione, ha spiegato Kotler, deve essere considerata come disciplina della creatività (ossia va controllata e guidata) e rappresentare «la capacità di creare qualcosa che abbia un valore per qualcun altro». E il marketing dev'essere calato in un contesto aziendale dove si possa modellare una organizzazione basata sul cosiddetto CCDV: create, communicate, deliver, value. «Soprattutto sul fronte “value” - è la considerazione di Kotler durante la sessione di domande moderata da Alberto Mattiacci, Professore di Economia e Gestione delle imprese dell'Università La Sapienza e Presidente della Società Italiana Marketing - oggi il CMO dovrebbe lavorare a stretto contatto con il CFO, cosa che in realtà accade molto raramente». La relazione tra CMO e CFO, spesso si riduce ad un mero “check” nel processo di definizione del prezzo di un prodotto o di un servizio che l’azienda dovrebbe immettere sul mercato, pilastro del modello di marketing basato sulle 4P (Product, Price, Place, Promotion). Modello che però lo stesso

Chi è Philip Kotler Philip Kotler (Chicago, 27 maggio 1931) è un'autorità mondiale del marketing e uno dei massimi esperti a livello internazionale di marketing strategico. È stato indicato tra i quattro guru del management di tutti i tempi dal Financial Times, con Jack Welch, Bill Gates e Peter Drucker, e acclamato come il maggior esperto al mondo nelle strategie di marketing dal Management Centre Europe. L’Economist ha definito le sue teorie sul management come le più influenti sul modo di fare business delle aziende degli ultimi quaranta anni. Kotler ha dato un contributo fondamentale alla genesi e alla strutturazione del marketing come disciplina scientifica, orientando la formazione di studenti e manager in tutto il mondo. È autore di oltre sessanta libri, tra cui l'opera miliare

"Marketing Management" (prima edizione nel 1967), riconosciuta come il più autorevole testo di marketing, il più diffuso a livello mondiale nelle università e nelle business school. Ha pubblicato più di 150 articoli sulle principali riviste accademiche, molti dei quali premiati per la loro valenza scientifica. Considerato anche pioniere del marketing sociale, Philip Kotler ha contribuito in modo rilevante alla strutturazione del marketing come disciplina scientifica, orientando la formazione di moltissimi studenti e manager in tutto il mondo. Attualmente è professore alla J.L.Kellog Graduate School of Management della Northwestern University e lavora come consulente per le più importanti società del mondo, tra cui IBM, Michelin, Bank of America, Merck, General Electric, Honeywell e Motorola.

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DIGITAL TRANSFORMATION - MARKETING | PHILIP KOTLER SPIEGA IL NUOVO MARKETING: «L'UNICA VIA PER LA CRESCITA»

«Serve collezionare, correlare e analizzare grandissime moli di dati in real-time e avviare così strategie di marketing automation che tengano conto del contesto, delle abitudini, delle preferenze, delle conversazioni degli utenti»

Kotler ha definito obsoleto. «Molte persone pensano che il marketing sia lo strumento di supporto delle vendite, attraverso advertising e promozione», ha spiegato Kotler. «In realtà, il marketing permette di identificare i target e il mercato ed è quella disciplina che attraverso l’analisi e il planning permette di “dare vita” al CCDV, cioè crea, comunica e rende disponibile ad una community un valore superiore. Il marketing aiuta l’azienda (non solo le vendite!) a scoprire nuove opportunità di mercato e di business, nonché a identificare i bisogni ed i desideri insoddisfatti di una determinata clientela». DALLE QUATTRO "P" ALLE CINQUE "C" Una visione che mette quindi definitivamente in cantina il vecchio modello delle 4P per lasciare spazio alle nuove teorie che vedono il marketing basarsi sui pilastri delle 5C: Customers, Company, Collaborators, Competitors, Context. «Le aziende devono capire che nella digital era,

nella new economy, anche il marketing deve evolvere partendo dal riconoscere che oggi qualunque tipo di comunicazione, ricerca, acquisto, condivisione passa attraverso uno smartphone», sono le considerazioni finali di Kotler, sollecitato da Mattiacci. «Le persone sono connesse a livello globale e possono essere influenzate in molti modi differenti, non più solo attraverso l’advertising». Per le aziende significa poter accedere a una miriade di dati nuovi di cui un singolo utente lascia traccia attraverso differenti touchpoint (acquisti con carta di credito, richiesta di informazioni, ricerca sui motori di ricerca online, chat con help desk, conversazioni sui social media, ecc.). «È il momento degli Analytics 2.0 – dice Kotler – grazie ai quali poter collezionare, correlare, analizzare ed avere informazioni da grandissime moli di dati in real-time e avviare così strategie di marketing automation che tengano conto del contesto, delle abitudini, delle preferenze, delle conversazioni degli utenti».

I pilastri del "lean marketing" Nella visione di Kotler, il lean marketing si concretizza con l’utilizzo corretto delle tecnologie che permettono di ottimizzare gli sforzi delle attività di marketing massimizzandone i risultati. In particolare concentrando gli sforzi sui nuovi pilastri del marketing: • Mobility: oggi i consumatori prendono decisioni e compiono azioni attraverso un unico oggetto, lo smartphone; • Dati: non ci si può più limitare ai dati delle vendite, anche se analizzati in tempo reale; i dati a disposizione per prendere decisioni più accurate vanno cercati su tutti i canali che permettono a un brand di comunicare, relazionarsi, interagire e ingaggiare un utente; • Social network e community: sono i tasselli

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fondamentali per la comprensione dei desideri e delle aspettative dei clienti nonché per la loro fidelizzazione; • Contenuti: l’advertising puro da solo non basta più, serve creare un senso di appartenenza negli utenti attraverso storie ed esperienze inclusive, emozionanti, capaci di attrarre e trattenere a sé un utente nonché mantenere elevata la reputazione del brand; • Marketing automation: la componente tecnologica che meglio esprime il valore del lean marketing e la sua efficacia, strettamente connessa ai dati, senza i quali rimarrebbe un mero strumento e non una strategia di azione; • Qualità del servizio: da sempre al centro delle strategie di marketing, con il consumatore al centro diventa elemento differenziante del business.


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OSSERVATORIO di

LAURA ZANOTTI

Consumatori italiani multicanale, per oltre 20 milioni l’intero processo d’acquisto è online Raddoppia l’incidenza di chi compra sul web almeno una volta la settimana, ma resta un 40% di over 14 che non si connette a Internet. Gli shopper italiani sono sempre più frammentati rispetto a stili d’acquisto e consumo dei media. I più sofisticati (Everywhere Shopper) sono 6,3 milioni: integrano perfettamente online e offline. I dati 2017 dell’Osservatorio Multicanalità di Nielsen, Politecnico di Milano e Zenith Italy

6 italiani su 10 sopra i 14 anni sono consumatori multicanale: 31,7 milioni di persone, in altre parole, accedono alla rete per fare shopping. Cercano informazioni, confrontano prezzi, leggono recensioni, fino a procedere all’acquisto vero e proprio. Da quale dispositivo? Il 70% si connette tutti i giorni o quasi da smartphone (+7% rispetto al 2016), il 55% da pc (-4%), e il 18% da tablet (-2%). Nell’edizione 2017 l’Osservatorio Multicanalità, a cura di Nielsen, Politecnico di Milano e Zenith Italy, distingue i consumatori multicanale tra InfoShopper (11,1 milioni, il 21% degli italiani con oltre 14 anni) che accedono al web soprattutto per informarsi prima dell’acquisto, ed eShopper (20,6 milioni, il 39% degli italiani oltre 14 anni), che utilizzano la rete in tutte le fasi del processo d’acquisto. Su internet gli Infoshopper cercano informazioni su prodotti/servizi (64%), confrontano prezzi (66%) e individuano i punti vendita (47%). Ma non usano, se non in modo molto limitato, il web per l’acquisto. Perché? L’80% non si fida a comprare pro| 40 |

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dotti che deve pagare in anticipo o che non ha potuto vedere/toccare concretamente (78%), o per cui non ha potuto confrontarsi con il venditore (69%). Gli eShopper, invece, non solo accedono al web per raccogliere informazioni (91%), confrontare prezzi (93%) e cercare i negozi (68%): l’87% acquista sul web e usufruisce della consegna a casa, il 62% va a vedere il prodotto in negozio (showrooming) e poi lo compra su internet, il 38% sceglie i prodotti online ma li ritira in negozio. CANALI SOCIAL SEMPRE PIÙ UTILIZZATI PER I CONTATTI POST-VENDITA In questo cluster la parte più sofisticata è quella degli “Everywhere Shopper”, in crescita del 14%: sono 6,3 milioni di consumatori che usano i touchpoint online e offline in logica continua, in qualsiasi luogo e momento (seamless, anywhere e anytime) con forte propensione “relazionale/social” in tutte


OSSERVATOR I O | CONSUMATORI ITALIANI MULTICANALE, PER OLTRE 20 MILIONI L’INTERO PROCESSO D’ACQUISTO È ONLINE

le fasi di relazione con la marca. Quanto all’uso dei canali digitali per contatti o supporto post vendita, il 60% si serve di internet, il 50% usa le e-mail, il 38% il numero verde gratuito, e il 31% le pagine dell’azienda sui social network. Quest’ultimo è il canale più in crescita (+13%), mentre cala del 17% il numero di chi non ne usa nessuno. Nel 2017 è rimasto sostanzialmente stabile il numero di utenti che fanno acquisti online, ma è raddoppiata la percentuale di chi, una volta alla settimana o più spesso, ha fatto acquisti online negli ultimi 12 mesi (14%, rispetto al 7% del 2016).

GIULIANO NOCI ORDINARIO DI STRATEGIA E MARKETING AL POLITECNICO DI MILANO

UN ESHOPPER SU 2 CONDIVIDE ONLINE LA SODDISFAZIONE VERSO IL BRAND Un’altra tendenza da notare, spiega Christian Centonze, Business Solution Manager di Nielsen, è l’uso di Internet come strumento di relazione/condivisione con i pari e le aziende. «Il 54% degli eShopper sul web condivide feedback e riscontri e recensisce i prodotti acquistati: quando sono soddisfatti tendono a condividere il loro livello di soddisfazione (50%) e altrettanto fanno gli utenti insoddisfatti (51%)». Propensione molto meno evidente negli infoShopper: solo il 23% usa Internet anche per condividere feedback e riscontri e per recensire i prodotti, e solo il 33% condivide la propria soddisfazione/insoddisfazione sull’acquisto di un prodotto o servizio. LA TV RIMANE ANCORA CENTRALE NELLA “DIETA MEDIALE” La Ricerca 2017 ha anche confrontato la fruizione di internet con quella della TV. Anche se con differenze in termini di copertura, rispetto ai media digitali la TV è il media più utilizzato da tutti i gruppi di consumatori: nel mese di maggio 2017 è stata vista

ogni giorno (reach media giornaliera) dal 75,9% di chi non usa internet, dal, 73,5% degli InfoShopper e dal 71,8% degli eShopper. Questa prevalenza del mezzo televisivo si conferma anche confrontando la reach della TV Generalista con quella del mezzo digital (pc, tablet, smartphone). I dati confermano come la fruizione di nuove piattaforme televisive (come Free to Air e Pay), in aggiunta all’utilizzo sempre più diffuso del digital, abbia determinato una frammentazione della fruizione mediale che, pur non traducendosi in un abbandono del mezzo televisivo sta portando comunque a una dispersione dell’audience tra le diverse tipologie di canali. Nell’era dell’attention economy la battaglia non è più conquistare il cliente ma attirarlo attraverso nuove chiavi di personalizzazione. Sono chiamati in causa il precision marketing e le agenzie di comuni-

Noci: la sfida per i retailer? Una vista integrata del customer journey Il punto di partenza per costruire una strategia multicanale è studiare i nuovi comportamenti dei clienti e analizzare il ruolo dei diversi touch point. Lo spiega Giuliano Noci, Ordinario di Strategia e Marketing al Politecnico di Milano: «Sembra scontato, ma è fondamentale». I comportamenti di acquisto sono sempre più frammentati. Quasi il 60% della popolazione italiana è multicanale, ovvero utilizza sia canali digitali che fisici, con l’eCommerce che continua a crescere e diventa sempre più un’abitudine. Ma i nuovi canali online non soppiantano il punto vendita, anzi: sarebbe un errore

focalizzarsi solo sul digitale. Alle aziende è richiesto di scoprire e interpretare questi nuovi percorsi, e di costruire esperienze consistenti: è la customer experience che i clienti si aspettano oggi. Un passo non banale: sono ancora pochi i retailer riescono a gestire e utilizzare efficacemente le informazioni che arrivano dai diversi touch point. «Un’attenta conoscenza del customer journey è il primo passo. Per progettare è fondamentale costruire una vista integrata cercando di capire che ruolo può giocare ogni singolo punto di contatto: la mail, il banner, l’interazione con il call center. I Big Data vengono dopo».

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O SSERVATORI O | CONSUMATORI ITALIANI MULTICANALE, PER OLTRE 20 MILIONI L’INTERO PROCESSO D’ACQUISTO È ONLINE

Se l’attenzione degli shopper è iperframmentata su più punti di contatto, che riducono i tempi di attenzione, la risposta è la personalizzazione, che, statisticamente, riesce ad aumentare di 50 volte il tasso di conversione cazione che, grazie a sofisticati strumenti di analisi e a una modellazione strutturale che lavora su particolari criteri di segmentazione e di aggregazione, diventano i partner strategici dei brand. «Non dimentichiamoci che il 94% degli shopper preferisce ancora fare la spesa in negozio - ha ricordato Luca Cavalli, CEO di Zenith Italy - e che esiste ancora un 40% di italiani che non si connette al web. Detto questo è indubbio come la sfida delle aziende oggi si articoli su tre dimensioni: i consumatori, l’innovazione e la tecnologia». DATA DRIVEN MARKETING: IL RUOLO DELL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE Se l’attenzione degli shopper è iperframmentata su più punti di contatto, che riducono a loro volta i tempi di attenzione, la risposta è la personalizzazione che, statisticamente, riesce ad aumentare di 50 volte il tasso di conversione, ha sottolineato Cavalli. «Al punto che, da qui ai prossimi tre anni, il 50% delle aziende ne farà il principale oggetto di investimento. È qui che si gioca il ruolo di partner di

un’azienda di comunicazione. La pubblicità infatti ha raggiunto lo stato di una scienza, perché lavora su metodi testati e corretti, ricavati dall’analisi di tutta una serie di meccanismi causa/effetto che oggi permettono di formulare leggi che consentono di spiegare (e di capire) non solo i tipi di consumatore ma anche i suoi criteri di scelta». Il marketing recupera così la sua funzione fondamentale attraverso nuovi livelli di comprensione e azione. «Stiamo entrando nella nuova era dell’advertising: le previsioni dicono nel 2020 il 40% della pubblicità sarà supportata dall’Intelligenza Artificiale». L’evoluzione della brand experience si traduce così in un nuovo marketing mix costituito da contenuti, punti vendita e mass media che aiutano le marche a costruire un rapporto sempre più intimo e personale con i clienti. Il connubio rete/punti vendita è fondamentale. Se oggi il 60% dei brand non riesce a prevedere i consumatori e il 50% afferma che l’uso della tecnologia sia ancora un problema, da qui al 2020 gli investimenti in digital transformation del marketing cresceranno del 77%, movimentando qualcosa come 2,6 miliardi di euro.

Uso internet per raccogliere informazioni

72% 96%

Uso internet per comparare prezzi

62% 94%

Uso internet per recensire/dare dei feedback, dei riscontri

Uso internet per ricevere supporto post-vendita

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23% 54%

19%

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60%

Percentuale di intervistati che ha risposto “spesso” o “talvolta”

Fonte: Osservatorio multicanalità (Nielsen, Politecnico di Milano, Zenith)

L’USO DI INTERNET NELLE VARIE FASI DELLO SHOPPING


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MANAGEMENT di

ANNALISA CASALI

Il futuro del CMO? Collaborare con i C-level e guadagnare un ruolo strategico Il Chief Marketing Officer è, tra i top manager, quello che forse più di tutti ha visto il proprio lavoro cambiare per effetto della digital transformation. Ora che analytics, insight e Big Data indirizzano la progettazione dei prodotti e le strategie promozionali e pubblicitarie, il suo ruolo deve assolutamente evolvere. Ma come? Una indagine di Harvard Business Review approfondisce lo scenario

App mobile, social media, Big Data, eCommerce… chi ha iniziato a occuparsi di marketing un decennio fa mai si sarebbe sognato di doversi destreggiare tra tutte queste tecnologie. I CMO avevano ben altri argomenti di cui occuparsi, presi com’erano da una quotidianità fatta di rapporti con le agenzie creative e aggiustamenti in corso d’opera sulle componenti strategiche di un marketing dimensionato sulle “4P”. Tra i diversi Clevel (CEO, CFO, CHRO, CIO, CTO, CSO…) il CMO è quello che forse più di tutti ha visto rivoluzionare completamente il proprio lavoro quotidiano per effetto della digital transformation. A lui è affidato l’arduo compito di portabandiera dell’immagine dell’azienda nel suo complesso, dei suoi brand e dei suoi canali di comunicazione. Questo si riflette inevitabilmente su compiti e responsabilità dei Chief Marketing Officer che sono, negli ultimi anni, definitivamente cambiati… e non si torna indietro. Ma cosa fa esattamente un moderno CMO? In una ricerca condotta di recente dalla Harvard Bu| 44 |

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siness Review (HBR) su un campione di 300 recruiter, CEO e CMO, integrata con l’analisi di 170 job description di profili di CMO e oltre 500 profili Linkedin di CMO di grandi aziende, emerge un’ampia varietà di responsabilità. La maggior parte (oltre il 90%) degli interpellati ha in carico le strategie di marketing e la relativa implementazione, mentre oltre l’80% definisce le strategie di singoli brand e le metriche relative ai mercati/clienti di riferimento. C’è, però, una pletora di compiti e responsabilità diverse sulle quali il CMO è chiamato quotidianamente a misurarsi: dalle strategie di prezzo alla gestione delle vendite, dalle PR all’e-commerce e molto altro ancora. SOLO IL 6% DEI CMO È LAUREATO IN MARKETING. MA IL 44% HA UN MASTER Alcuni hanno un ruolo strategico, nel senso che prendono decisioni sul posizionamento dell’azienda rispetto a un certo mercato, che poi riverbera-


DIGITAL TRANSFORMATION | IL FUTURO DEL CMO? COLLABORARE CON I C-LEVEL PER GUADAGNARE UN RUOLO STRATEGICO

BIG DATA E PRECISION MARKETING È, quindi, un CMO multisfaccettato quello che richiedono le organizzazioni oggi, capace di far crescere il brand e, più in generale, il business dell’azienda trovando i giusti canali di collaborazione con le altre LOB. Un business che, dalle grandi multinazionali del food fino alle medie aziende che si occupano di servizi, è monitorato sempre più spesso in tempo reale. Si riducono drasticamente i tempi delle campagne pubblicitarie e promozionali, perché se un prodotto vende bene lo si capisce in fretta, molto più in fretta di quanto non accadeva anche solo 5 anni fa. Analytics, Big Data e insight sono gli “strumenti” che permettono di segmentare e targettizzare in modo puntuale. È, questo, il punto di partenza di quel “precision marketing” sempre più spesso implementato in azienda e che si allontana (parecchio!) dallo “spray and pray” (letteralmente: spruzza e prega) che in passato rendeva il reparto marketing uno dei più “spreconi” dell’organigramma aziendale. Un marketing più accurato è, in definitiva, un marketing più parco nello spendere e la capacità di

il manager con il più alto turnover Da una recente ricerca della società di consulenza Korn Ferry, condotta su un campione di un migliaio di aziende americane, emerge come il CMO sia il manager a più alto tasso di turnover tra i C-level, con una permanenza media in azienda di 4,1 anni contro gli 8 del CEO, i 5,1 del CFO, i 5 del CHRO e i 4,3 del CIO (si veda tabella). Come si può spiegare questa situazione? Quando un nuovo CMO entra in azienda, spesso attua una serie di interventi “di rottura” rispetto al passato (e al suo predecessore), il che si può tradurre a seconda dei casi in un nuovo posizionamento di prodotto, un nuovo packaging, nuove strategie di distribuzione o uno stravolgimento delle campagne pubblicitarie. Tutto questo ha dei costi (spesso altissimi!) per l’azienda che lo ha ingaggiato. In un’epoca in cui gli insight sul cliente indirizzano in modo sostanziale lo sviluppo dei prodotti, le promozioni e le campagne pubblicitarie, il CMO deve per forza riguadagnare un ruolo più strategico, suggeriscono gli esperti di Korn Ferry. In altre parole, un Chief Marketing Officer coinvolto direttamente nelle strategie d’impresa sarà sicuramente meno incline a lasciare l’organizzazione per cercare nuove opportunità.

segmentare e profilare in modo puntuale permette di intervenire su tutta la gamma di emozioni, sensazioni e predisposizioni d’animo che forma il “customer journey”. Un viaggio esperienziale che richiede al moderno CMO di padroneggiare la tecnologia – e le analitiche in particolare –, saper interpretare e comprendere i fenomeni che la tecnologia “fotografa” e utilizzare i (tantissimi) dati che mette a disposizione per ottimizzare la customer experience, facendo leva sui canali di contatto in tempo reale – leggasi social media ed eCommerce.

PERMANENZA IN AZIENDA DEI C-LEVEL CMO CHRO

ANNI DI PERMANENZA PER SETTORE DI ATTIVITA’

CEO

CFO

CIO

CONSUMER

8.0

5.1

4.5

3.6

4.9

ENERGY

6.1

5.0

4.5

4.6

5.3

FINANCIAL SERVICES

9.7

5.5

4.1

5.1

5.1

INDUSTRIALS

6.7

4.9

4.0

4.1

4.6

LIFE SCIENCES

9.4

6.0

4.1

3.1

5.1

PROFESSIONAL SERVICES

9.2

5.0

4.5

4.1

5.1

TECHNOLOGY

7.9

4.9

4.4

4.3

5.2

MEDIA

8.0

5.1

4.3

4.1

5.0

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Fonte: Korn Ferry (2017)

no nella progettazione dei prodotti, dei servizi e dell’esperienza d’acquisto. Nell’indagine HBR, il 31% dei CMO appartiene a questo profilo. Generalmente si tratta di responsabili marketing che operano in aziende multimarca rivolte al mercato consumer, o fornitori di servizi B2B. Altri CMO, invece, hanno un ruolo più circoscritto – si occupano in prevalenza dell’area “marcom”, marketing communications – con l’obiettivo di aumentare le vendite di prodotti e servizi. Secondo lo studio, circa il 46% dei CMO interpellati appartiene a questa categoria, che abbonda nelle realtà nelle quali le funzioni “non marketing” sono centrali per il successo del business (es. le aziende tecnologiche). La terza tipologia di professionisti identificata dallo studio è un ibrido delle due precedenti, con un ruolo fortemente orientato alla propulsione dell’innovazione in azienda attraverso il marketing. Il 23% dei CMO appartiene a questa categoria, diffusa soprattutto tra le aziende monomarca rivolte al segmento consumer. Un elemento sorprendente che emerge dalla ricerca poi è che il CMO nella maggior parte dei casi non è “marketing-nativo”: solo il 6% degli intervistati, infatti, ha una laurea in materia (il 44% dei CMO ha, però, un master in management, un MBA), ma sulla sedia del responsabile marketing siedono figure dal background davvero variegato e con lauree che spaziano da ingegneria, economia e matematica a filosofia, scienze politiche e psicologia.


INTERVISTA

The Digital Box innova la piattaforma di Mobile Engagement. «Garantisce risultati concreti e misurabili»

ROBERTO CALCULLI CEO DI THE DIGITAL BOX

Pronta la nuova versione di ADA, soluzione per agenzie e digital marketer delle piccole e medie imprese che integra chatbot, video verticali che permettono la call to action, Marketing Automation e SMS acquistabili con un modello in cui il costo non è più in funzione delle visualizzazioni, come in passato, ma in base agli effettivi clic. E per il futuro, l’ambizioso programma di crescita guarda soprattutto all’estero

Coinvolgere e stupire i clienti, misurare l’efficacia delle campagne, creare e mantenere contatti: i nuovi obiettivi dei digital marketer sono chiari. Meno facile è scegliere gli strumenti tecnologici più adatti, a fronte di un’offerta che ha visto moltiplicarsi le proposte di software e servizi. In questo quadro si inserisce ADA, piattaforma di Mobile Marketing sviluppata dall’italiana The Digital Box (www.thedigitalbox. com), nata nel 2013 e in costante crescita in Italia e all’estero: è stata di recente inserita da ScaleIT tra le 15 startup più innovative d’Italia, tanto promettente da essere proposta agli investitori internazionali. Già utilizzata da 10mila clienti, ADA racchiude le più innovative tecnologie di comunicazione ed engagement – dai chatbot al video storytelling alla Marketing Automation – in un’unica piattaforma integrata che promette massima facilità d’uso, investimenti contenuti e legati ai risultati (a misura di agenzia o di PMI) e un focus sulla call to action - cioè sulle conversioni - sia sul canale video sia per i tradizionali SMS. | 46 |

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UNA PIATTAFORMA ALL-IN-ONE «L’innovazione per noi è una missione, e significa soprattutto due cose: integrazione e semplicità», spiega Roberto Calculli, fondatore della società, che ha radici in Puglia, una sede in Toscana, una filiale commerciale a Barcellona che segue il mercato europeo e una base d’appoggio nella Silicon Valley. «Del resto sono gli stessi ingredienti del successo dell’iPhone, che ha integrato in un unico hardware tanti dispositivi diversi - lettore di musica, navigatore, orologio, telefono… - e ha inventato un sistema che li rende semplicissimi per l’utente. Noi facciamo lo stesso con il software: offriamo ai marketer uno strumento facile, utilizzabile senza competenze particolari, che permette loro di concentrarsi sulla parte creativa. E lo facciamo con una tecnologia Made in Italy in grado di competere con player importanti e gruppi consolidati». Secondo Calculli, il proliferare di tecnologie ha portato oggi le agenzie di marketing a


INTERVISTA | THE DIGITAL BOX RINNOVA LA PIATTAFORMA DI MOBILE ENGAGEMENT

«Il proliferare di tecnologie ha portato le agenzie di marketing a dotarsi di sistemi diversi - per l’invio di email, gli SMS, lo sviluppo di landing page, la gestione di campagne mobile - tutti con database diversi e usati da specialisti diversi»

doversi dotare di professionisti diversi, specializzati su altrettanti sistemi: l’invio di email, gli SMS, lo sviluppo di landing page, la gestione delle campagne di Mobile Advertising. «E se uno di loro si ammala o va in vacanza l’azienda si ferma. In più, ciascun sistema utilizza un database diverso. ADA integra tutti questi aspetti con un database unico per tutte le campagne». CHATBOT AVANZATE E STORYTELLING CON IL VIDEO VERTICALE La piattaforma ADA (che prende il nome dalla prima donna informatica della storia, Ada Lovelace) è frutto del lavoro dei 30 programmatori di The Digital Box ed è stata recentemente rilasciata in una nuova versione, con molte evoluzioni. Una è la chatbot (un sistema di chat automatiche che utilizzano l’intelligenza artificiale per rispondere, previo apprendimento, ai clienti che chiedono assistenza), per Facebook o per il sito web, già pronta in otto lingue, che consente l’invio in automatico di immagini, e la possibilità dell’intervento umano: permette cioè a chi supervisiona il flusso delle chat di intervenire manualmente nella singola conversazione, senza bloccare tutte le altre. Il focus è anche qui è sulla call to action: la chatbot è in grado di proporre in automatico domande per ingaggiare l’utente (per esempio “sei interessato a una promozione personalizzata”?) e in caso affermativo chiede riferimenti personali (nome, mail…), oltre al consenso privacy, e poi archivia i dati automaticamente nel database di ADA. ADA permette inoltre di creare un catalogo sfogliabile su smartphone, per un efficace storytelling dei brand, attraverso immagini e video in formato verticale. «È il primo video che converte senza do-

verne aspettare la fine», sottolinea Calculli. Infatti, il video prevede un’icona da cliccare, che può essere personalizzata con la call to action. LA NUOVA VITA DELL’SMS: IL PAY PER CLIC E IL TRACCIAMENTO Un’altra novità proposta da The Digital Box è l’SMS Advertising, rivisitato secondo i nuovi canoni imposti da Google e Facebook: all’investitore pubblicitario viene proposto il pagamento per clic, ovvero si paga solo se c’è la conversione da parte del cliente. «Ci prendiamo noi il rischio della campagna - spiega l’imprenditore –. Il costo non è più in base alle visualizzazioni, come in passato, ma in base agli effettivi clic». Si tratta infatti di SMS che contengono un link tracciato con i cookie, proprio come avviene per la pubblicità sul web. «La Marketing Automation è presente su tutti i canali – specifica Calculli – per gestire in automatico invii massivi. Non solo è possibile sapere quante persone hanno aperto l’SMS o la mail, ma anche da chi sono stati aperti». GLI OBIETTIVI PER IL 2018 Con questa nuova release di ADA, The Digital Box punta a fare un salto in avanti sia di fatturato (l’obiettivo è chiudere a 7 milioni di euro, contro i 3 del 2016) sia di personale, soprattutto per potenziare la sede di Barcellona. Già oggi il 25% del fatturato viene dall’estero (Spagna, Francia e Brasile). A finanziare la crescita ci sono anche i fondi raccolti attraverso un’operazione di Equity Crowdfounding di grande successo sulla piattaforma Mamacrowd: in sole tre ore è stata raggiunta la soglia di 300mila euro, con una raccolta finale che ha sfiorato i 900mila euro.

La chatbot è in grado di proporre in automatico domande per ingaggiare l’utente, come per esempio: «Sei interessato a una promozione personalizzata?» www.digital4executive.it

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DIGITAL TRANSFORMATION - MARKETING di

ANNALISA CASALI

L’Oréal spinge sulla tech beauty con App, IoT, realtà virtuale, wearable e Big Data Il colosso della bellezza investe nello sviluppo di soluzioni digitali e di frontiera, con l’obiettivo di creare un cosmetico personalizzato per ogni cliente. E i prodotti nati in quest’ottica sono già numerosi. A raccontare il concetto di “precision beauty” e le sue più avanzate applicazioni è Guive Balooch, Global Vice President del Technology Incubator di L’Oréal

La cosmesi è sempre più tecnologica. Le clienti sono più informate che in passato, conoscono bene quali sono i principi attivi e le differenti texture delle loro creme anti-age preferite e si confrontano sui blog alla ricerca del miglior fondotinta con effetto “mat”. «Si tratta dei cosiddetti dynamic consumer – spiega Guive Balooch, Global Vice President del Technology Incubator di L’Oréal –, che pretendono di essere considerati individui singoli, non una categoria o un cluster, e che amano le personalizzazioni». Impensabile soddisfare queste esigenze con un approccio di marketing tradizionale. Ma la tecnologia, oggi, permette di farlo in tanti modi diversi. «Già 4 anni fa abbiamo iniziato a interrogarci sul ruolo che i Big Data e gli analytics avrebbero avuto sul mondo della bellezza e abbiamo coniato il concetto di connected beauty. La creazione dell’incubatore tecnologico è venuta, quindi, naturale. L’idea è di creare un team per capire come sfruttare i dati per portare valore aggiunto, nuovi servizi e un nuovo concetto di bellezza ai clienti finali, che si realizzi attraverso una | 48 |

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connessione emotiva con il brand e i suoi prodotti». App, eCommerce, realtà virtuale e aumentata, IoT e wearable sono tutte tecnologie su cui L’Oréal investe: sono circa 1600 i “digital expert” ingaggiati in tutto il mondo, cui si affianca una formazione specifica su questi temi che, negli ultimi mesi, ha riguardato circa 14mila dipendenti. LA PRECISION BEAUTY DIVENTA REALTÀ: LO SCANNER FACCIALE DI LANCÔME LTP In futuro, ogni donna o uomo che acquista un prodotto L’Oréal dovrà ricevere un prodotto personalizzato. Il concetto di connected beauty evolve, quindi, verso la “precision beauty” per rispondere alle richieste dei clienti, che vogliono un prodotto esclusivo, con una composizione unica pensata per soddisfare le loro esigenze e adattarsi alle caratteristiche specifiche della loro pelle o dei loro capelli. Una strada, quella verso la bellezza “di precisione”, che è già tracciata. È appena arrivato in Italia, disponibile inizialmente


DIGITAL TRANSFORMATION - MARKETING | L’ORÉAL SPINGE SULLA TECH BEAUTY CON APP, IOT, REALTÀ VIRTUALE, WEARABLE E BIG DATA

GUIVE BALOOCH

in una quarantina di profumerie e beauty corner, Lancôme LTP (Le Teint Particulier). Con uno scanner del viso in dotazione al punto vendita si acquisiscono informazioni precise sul tono e la tipologia di pelle - mista, grassa, secca - e, nel giro di 5 minuti, un miscelatore confeziona il fondotinta personalizzato, tarato sulle caratteristiche dell’incarnato. Alla base di questa “rivoluzione” ci sono, ovviamente, i Big Data: un algoritmo di “shade matching”, permette di creare il tono perfetto dell’emulsione, per un incarnato levigato, uniforme e senza discromie.

GLOBAL VICE PRESIDENT L’ORÉAL’S TECHNOLOGY INCUBATOR

IL SIMULATORE DI TRUCCO VIRTUALE L’Oréal ha anche iniziato a considerare App e realtà virtuale come nuove modalità attraverso cui i clienti consumano i suoi prodotti. È già disponibile in una sessantina di paesi (oltre 20 milioni di download!) l’App mobile Makeup Genius. Creato 4 anni fa, il simulatore di trucco virtuale permette di provare i prodotti L’Oréal in tempo reale, con una resa immediata degli effetti del make-up. Si scatta una foto del proprio viso e, in pochi secondi, si osservano gli effetti dell’applicazione di un ombretto o di una particolare nuance di fondotinta sulla propria immagine. Rivolta a un’audience globale, l’App è multietnica - 5 etnie e diverse decine di toni di pelle selezionabili -. La tecnologia di riconoscimento facciale integra un “virtual cosmetics engine”, un motore di rendering che simula gli effetti “di contrasto” del make-up sull’incarnato. CON KÉRASTASE HAIR COACH LA SPAZZOLA È SMART «C’è un collegamento sempre più stretto tra tecnologie digitali e bellezza, una tendenza che aumenterà in futuro – conferma Balooch –. Tra pochi mesi sarà in vendita, al prezzo di circa 200 dollari, Kérastase Hair Coach, la prima spazzola connessa in commercio». Si tratta di un sistema integrato di monitoraggio delle routine di bellezza e degli effetti che queste hanno sulla salute dei capelli. Grazie alla connettività Wi-Fi/Bluetooth, a una rete di sensori, a un software “intelligente” e all’abbinamento con l’App mobile, la spazzola monitora le condizioni del capello, e anche gli effetti delle condizioni atmosferiche e delle abitudini quotidiane (quanto spesso si usa il phon o la piastra…) sulla sua salute attuale e futura. STOP ALLE SCOTTATURE CON MY UV PATCH WEARABLE E APP Anche i wearable contribuiranno a modificare il modo in cui i clienti consumano i prodotti di bellezza. L’Oréal ha già messo in commercio in una sessantina

di nazioni My UV Patch, un cerotto venduto in abbinamento ai prodotti solari a marchio La Roche-Posay al costo extra di 25 euro. Il cerotto contiene sostanze fotosensibili (che reagiscono se esposte ai raggi UV) e fornisce informazioni personalizzate, aiutando chi lo indossa a esporsi al sole in modo corretto per evitare scottature attraverso un’App che suggerisce se è il momento di spalmarsi la protezione o se, invece, è il caso di non esporsi al sole. Per ora i dati provenienti dai “cerotti intelligenti” sono rilevati in modo anonimo, ma hanno già permesso di ottimizzare la supply chain e, soprattutto, di indirizzare la ricerca che lavora allo sviluppo delle creme solari del futuro.

Lo scienziato che rende tech la cosmesi Guive Balooch è uno scienziato impegnato nell’introduzione di tecnologia all’avanguardia nel settore della bellezza. In qualità di Global Vice President dell’incubatore tecnologico di L’Oréal, con sede a Clark in New Jersey (USA), ha accompagnato L’Oréal nella sua evoluzione da tradizionale azienda della bellezza a vero e proprio Tech Player, portando esperienze di bellezza digitali a consumatori di tutto il mondo. Dirige anche il laboratorio California Research Center con sede a San Francisco. Pensato come una startup interna, il team di Balooch collabora con imprenditori, istituti universitari ed esperti nei più svariati ambiti. Californiano di nascita, Balooch ha conseguito un B.A in Biologia Molecolare e Cellulare presso l’Università della California a Berkeley e un Ph.D. in Biomateriali presso l’Università della California a San Francisco. Dopo aver completato un progetto di ricerca post-dottorato in biomeccanica cellulare presso l’Università di Stanford, è diventato ricercatore di ruolo nel settore farmaceutico studiando nuovi anticorpi per patologie delle ossa. www.digital4executive.it

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DIGITAL TRANSFORMATION - SUPPLY CHAIN di

Da Industria 4.0 a Impresa 4.0: il Piano Calenda continua nel 2018, focus sugli skill

DANIELE LAZZARIN

CARLO CALENDA MINISTRO DELLO SVILUPPO ECONOMICO

Il bilancio del Ministro dell’Innovazione dopo un anno: investimenti in beni strumentali saliti del 9%, ordini in macchinari del 10% (meglio della Germania), bene anche la spesa in ricerca e innovazione. Ma il Venture Capital delude e i Competence Center sono ancora al palo. In vista un credito di imposta per la Formazione 4.0. «Sulle competenze deve agire lo Stato, solo così potremo dire di aver fatto dopo tanti anni un piano di politica industriale moderno» A un anno dalla presentazione del Piano Nazionale Industria 4.0 il bilancio è in gran parte positivo, e gli incentivi fiscali continueranno nel 2018, «anche se, in funzione delle risorse, vanno riconsiderati gli ambiti di applicazione e la misura», ha detto il Ministro Carlo Calenda, promotore principale dell’iniziativa. «D’ora in poi parleremo di Impresa 4.0 e non più di Industria 4.0, l’impegno si allarga dalla sola manifattura a comprendere anche il mondo dei servizi». Inoltre il focus sarà ampliato alle competenze digitali, «dove siamo rimasti indietro»: scuola, istituti tecnici professionali, università, formazione, lavoro. In effetti nel primo anno il Piano è stato mirato molto più a far ripartire gli investimenti in beni strumentali che a incentivare quelli in asset "intangibili” come le competenze. In quest’ottica è interessante una nuova misura prevista nel 2018, il “Credito di imposta su Formazione 4.0”, rivolto a imprese che effettueranno una spesa incrementale (superiore alla media degli ultimi 3 anni) in formazione per il personale focalizzata su almeno una tecnologia Industria 4.0, ossia - specifica il Ministero | 50 |

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- vendite e marketing, informatica, tecniche e tecnologie di produzione. «ORDINI DI MACCHINARI, 10 PUNTI DI CRESCITA IN PIÙ DELLA GERMANIA» «Nel primo anno gli effetti di iper e superammortamento e Nuova Sabatini sono stati positivi e in linea con gli obiettivi. Nel gennaio-giugno 2017 rispetto al 2016 gli ordini interni (investimenti fissi lordi) sono cresciuti del 9%, con andamenti molto diversi - apparecchiature elettriche ed elettroniche +10,7%, macchinari in generale +11,6%, macchinari per le produzioni ceramiche addirittura +60% -. Nei primi 8 mesi del 2017 le aspettative sugli ordinativi sono ai massimi dal 2010, e rispetto alla Germania vantiamo 10 punti di crescita in più sui macchinari». A questi dati si affianca l’aumento del 25% degli investimenti in tecnologie digitali che abilitano Industria 4.0. stimato dall’Osservatorio Industria 4.0 del Politecnico di Milano. Veniamo alla spesa in ricerca, sviluppo e innovazio-


DI GI TA L TR A NS F OR M ATI ON - S UP P LY C HA IN | DA INDUSTRIA 4.0 A IMPRESA 4.0: IL PIANO CALENDA CONTINUA NEL 2018

ne (RS&I), incentivata nel Piano con misure come credito di imposta RS&I e Patent Box. «Abbiamo sondato un campione di 68mila imprese, 24mila investono in RS&I, 11.300 hanno aumentato queste spese, in media del 10-15%, e l’80% definisce utili o molto utili gli incentivi». Deludente invece il Venture Capital, che nel Piano era incoraggiato con incentivi agli investimenti in capitale di rischio, cessione delle perdite delle startup, equity crowdfunding: «Negli investimenti early stage la crescita del 2% è troppo bassa, c’è una distanza siderale con il resto d’Europa. La CE ha autorizzato l'aumento degli incentivi su investimenti in equity di startup, ma definanzieremo le misure che non hanno funzionato». Calenda ha poi parlato di ulteriori 3,5 miliardi di investimenti pubblici per la banda ultralarga, dell’aumento dell’8,9% del finanziamento al Fondo di garanzia, e dei Contratti di Sviluppo, con agevolazioni per 1,9 miliardi e 53mila posti di lavoro salvati o creati. COMPETENZE DIGITALI ITALIANE, SOLO IL 29% È DI ALTO LIVELLO «Un anno fa solo il 10% delle imprese conosceva il concetto di Industria 4.0, oggi solo il 10% non lo conosce: il lavoro delle associazioni ha funzionato, sono stati aperti i PID (punti di impresa digitale) i Digital Hub, ci siamo spesi tanto sul territorio per spiegare alle imprese. I Competence Center invece non sono ancora partiti, ma i bandi in Italia sono lentissimi, potremo farlo solo a fine 2017. Sarà un lavoro difficile, l'esempio di riferimento è la rete Fraunhofer in Germania». Ma l’area più critica rimasta è la formazione di competenze digitali: «Qui deve agire direttamente lo Stato, promuovere “Lavoro 4.0” e “Competenze 4.0”. Solo così potremo dire di aver fatto in Italia dopo tanti anni un piano di politica industriale moderno». A proposito di competenze, solo il 29% di quelle di-

gitali nella forza lavoro italiana sono di alto livello, ha detto la Ministra Valeria Fedeli citando dati Eurostat, contro il 39% della Germania o il 50% del Regno Unito. «Molte sono le misure allo studio, una è il cambiamento dell’organizzazione degli ITS (Istituti Tecnici Statali), i cui iscritti in specializzazioni Industria 4.0 sono troppo pochi, circa 7600: in Germania sono 760mila, in Francia 530mila». In estrema sintesi, le azioni per “formazione 4.0” per ora sono: apprendistato duale per chi studia; “Garanzia Giovani” e “Crescere in Digitale” per i NEET (giovani che non studiano nè lavorano); formazione continua, politiche attive del lavoro, incentivi in formazione Industria 4.0 per chi lavora. TAISCH (OSSERVATORIO INDUSTRIA 4.0): IL GIUSTO COMPLETAMENTO «Le misure annunciate dal Governo su Industria 4.0 sono molto positive: dopo i buoni risultati del primo anno, vanno nella direzione richiesta dal sistema economico-industriale per offrire nuove opportunità di investimento. E con azioni per le competenze 4.0 si allarga il campo del Piano, che è preso a modello da altri Paesi europei», commenta Marco Taisch, coresponsabile scientifico Osservatorio Industria 4.0 (Politecnico di Milano). «In particolare è importante l’intenzione di rinnovare i bonus di iper e superammortamento, che hanno grande successo tra le imprese, anche se alcune non hanno potuto beneficiarne appieno perché il Piano è stato varato quando i budget 2017 erano già fissati». Quanto alle competenze, «l’Osservatorio Industria 4.0 ha individuato oltre 100 skill tecniche necessarie per la quarta rivoluzione industriale. Oltre a macchinari di ultima generazione, in fabbrica occorre personale qualificato capace di usarli. Perciò sono ottime notizie l’annunciata riforma degli ITS, e il credito di imposta sulla formazione».

Piano Industria 4.0: i risultati in sintesi Aumento ordini mercato interno beni strumentali (fino all'11,6%). Aspettative su ordini ai massimi livelli dal 2010 Ricerca&Sviluppo: quasi metà delle imprese hanno aumentato la spesa, in media del 10-15% (indagine campionari) Crescita contenuta investimenti early stage nel primo semestre (+2%), definite azioni correttive Banda Ultralarga: stanziati interventi pubblici di 3,5 mld € per infrastrutture e incentivi per famiglie e imprese Fondo di Garanzia: +8,9% importo finanziato nei primi 8 mesi del 2017 Contratti di Sviluppo: concesse agevolazioni per 1,9 Mld € e creati/salvaguardati oltre 53.000 posti di lavoro Ritardi nella costutizione dei Competence Center: attesa apertura bando entro fine 2017 www.digital4executive.it

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DIGITAL TRANSFORMATION - FINANCE di

DANIELE LAZZARIN

intervista a

DONATO PASTORE

RESPONSABILE PROCEDURE E SISTEMI DI GRUPPO, DIR. CENTR. AMMINISTRAZIONE BILANCIO E FISCALE FERROVIE DELLO STATO

Il Gruppo FS prova il Planning in Cloud: «Un progetto pilota per “fare esperienza”» Una media società del gruppo (fatturato 80 milioni) ha adottato un software-as-a-service in area Finance per gestire il processo di pianificazione e controllo, con integrazioni verso i sistemi centrali di FS. «Oltre ai classici benefici del Cloud c’è anche l’opportunità di fare test a costi bassissimi. Ma attenzione alla disponibilità di banda larga e alla gestione delle interfacce se c’è necessità di comunicazione tra sedi diverse»

Il Cloud Computing, e in particolare le applicazioni software-as-a-service per la funzione Finance, offre potenziali benefici di cui si parla ormai da anni, tra cui l’eliminazione degli investimenti iniziali, la flessibilità d’accesso alle capacità hardware e software, il continuo aggiornamento. Ma per un grande gruppo, molto strutturato e composto da decine di società, una grande opportunità del Cloud è anche il poter fare liberamente test, progetti pilota e proof-of-concept su singole sue parti con costi e rischi bassissimi. Questa la “morale” del caso di una società da 80 milioni di fatturato del Gruppo Ferrovie dello Stato che ha adottato una soluzione appunto in Cloud per il processo di pianificazione e controllo finanziario. Caso raccontato all’evento “Smart Finance in the Cloud” presso KPMG a Milano da Donato Pastore, responsabile Procedure e Sistemi di Gruppo della Direzione Centrale Amministrazione Bilancio e Fiscale di Ferrovie dello Stato Italiane. | 52 |

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Il Gruppo FS, ha spiegato Pastore, conta più di 100 società – di cui la maggior parte con base in Italia - in quattro aree: Trasporto (66% dei ricavi), Infrastruttura (25%), Servizi Immobiliari e altri servizi di supporto (il restante 9%). Nel 2016 ha realizzato ricavi per circa 9 miliardi di euro, con Ebitda di 2,3 miliardi, Ebit di circa 900 milioni e un Risultato netto di quasi 800 milioni. Il personale del Gruppo è di circa 69.000 unità, di cui poco più di 700 manager, dopo un percorso di forte risanamento e rilancio - nel 2009 i dipendenti erano 87mila - avviato dal 2007 durante il quale, tra l’altro, sono partiti i servizi di trasporto (e gestione della rete) ad Alta Velocità. SISTEMI INFORMATIVI, TRA AUTONOMIA E CENTRALIZZAZIONE: IL MODELLO “GAIA” Nell’ambito Finance, continua Pastore, questo percorso di rilancio ha visto tra l’altro l’in-


DIGITAL TRANSFORMATION - FINANCE | IL GRUPPO FS PROVA IL PLANNING IN CLOUD

troduzione volontaria del “Dirigente preposto” alla redazione dei documenti contabili (2007), il passaggio ai principi contabili IAS/IFRS (2010), le prime emissioni di prestiti obbligazionari quotati sui mercati UE (2013), soprattutto per finanziare l’acquisto dei treni ETR 1000, e nel 2015 i primi passi, su indicazione dell’azionista Ministero dell’Economia, di un percorso di avvicinamento a una possibile quotazione in Borsa. «Intanto, nei sistemi informativi dell’area amministrazione-controllo-finanza, il Gruppo ha adottato il modello “gestione amministrativa integrata” (Gaia), che prevede a livello capogruppo la gestione centralizzata delle regole e anagrafiche principali (piano dei conti, clienti e fornitori, ecc), tramite un sistema SAP di gruppo, e a livello societario una certa autonomia nella parametrizzazione dei moduli di business sui sistemi SAP societari». In pratica ciascuna società ha un suo sistema SAP, e a livello centrale c’è un SAP Solution Manager che distribuisce programmi e customizing, e un SAP MDM (Master Data Management) che appunto unifica le anagrafiche. A un livello superiore c’è poi Oracle Financial Management (HFM) per il consolidamento civilistico e gestionale e il budgeting, e sopra ancora SAP Disclosure Management per redarre la relazione finanziaria. Il tutto gestito in outsourcing da Almaviva, in quello che Pastore definisce una sorta di “cloud privato”, visto che buona parte dell’infrastruttura non è di proprietà del Gruppo FS. Scendendo in dettaglio sull’area pianificazione e controllo, qui il quadro è meno strutturato perché il Gruppo FS ha definito un modello dimensionale univoco a livello di Capogruppo (per esempio processo e funzione), mentre a livello societario è concessa autonomia sia sulla scelta del modello (che comunque deve garantire l’alimentazione dei dati economico-finanziari al modello di gruppo), sia sulla scelta dell’applicativo a supporto. UN PROGETTO DURATO 3 MESI, PER UN’APPLICAZIONE CON 15 UTENTI «In tale scenario, nel 2016 una società medio piccola del Gruppo (con fatturato come accennato di circa 80 milioni, ndr) ha implementato Oracle Planning in Cloud per gestire appunto il processo di pianificazione e controllo, e cioè: budget economico, area commerciale (definizione dei ricavi per cliente con relativa alimentazione dell’applicazione di Conto Economico), area costo lavoro (con relativa alimentazione dell’applicazione di

Conto Economico), area costruzioni (pianificazione delle commesse), reporting, e interfacce. È previsto infatti un flusso dati da SAP verso Planning per i dati di consuntivo e da Planning verso Oracle HFM della Capogruppo per il consolidamento dei dati di budget e forecast». Il progetto, continua Pastore, è durato circa 3 mesi e l’applicazione ha circa 15 utenti. «Come punti di attenzione segnalerei la necessità di una certa disponibilità di banda larga, specialmente per manutenzione applicativa e trasferimenti di grandi volumi di dati, che in Italia non si può dare per scontata, soprattutto in alcune zone. E poi la gestione delle interfacce, più complessa di un’installazione totalmente interna appunto perché la comunicazione avviene tra luoghi fisici e soggetti diversi. Inoltre occorre valutare molto attentamente la reale necessità di customizzazioni». I vantaggi riscontrati invece sono quelli classici del software-as-a-service: «Riduzione dei tempi di sviluppo (non c’è una fase di progettazione di ambienti e installazione del software), grande velocità di implementazione, continuo aggiornamento del sistema senza l’impegno di strutture IT interne, capacità di elaborazione – e relativa flessibilità e scalabilità - che, se sviluppata all’interno, avrebbe richiesto costosi investimenti in infrastrutture e personale». IL VERO RISCHIO DEL PUBLIC CLOUD Inoltre, come anticipato, un notevole beneficio, per un Gruppo come FS, «è l’opportunità di “fare palestra” con progetti pilota a costi bassissimi. Un’altra società del gruppo, in Francia, ha per esempio appena implementato Oracle Cloud ERP. È difficile però pensare di estendere questo approccio anche alle società più grandi del Gruppo che hanno tantissime personalizzazioni nei loro sistemi». Quanto alla sicurezza, conclude Pastore, il rischio del Public Cloud non riguarda tanto i luoghi dove risiedono i server e le policy di protezione dei Cloud provider («chi lavora con i data center per mestiere sicuramente lo fa meglio delle singole aziende») ma il fatto che la probabilità di un attacco hacker è più forte verso i grandi data center dei Cloud provider che verso singole aziende. «Se per esempio attaccano uno di questi data center con l’obiettivo si rubare informazioni di carte di credito, come “effetto collaterale” possono violare anche i server dove è gestita la posta elettronica di un’azienda». www.digital4executive.it

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Essere in grado di supportare attivamente il business nei processi di decision-making. È stata questa la leva che ha spinto KPMG Finance a introdurre un sistema di Enterprise Performance Management che permettesse di integrare reporting, analisi, pianificazione, budgeting e forecasting. KPMG opera come network mondiale di aziende indipendenti che offrono servizi professionali nel campo della revisione contabile, nei servizi fiscali e di consulenza, lavorando a stretto contatto con i clienti per aiutarli a mitigare i rischi e a cogliere le opportunità.

Aumento della globalizzazione, nuove normative sui dati, tecnologie “disruptive” e modelli alternativi di business stanno trasformando le condizioni di mercato sia per KPMG che per i suoi clienti. Tali sviluppi hanno avuto impatto su quanto richiesto alla funzione Finance interna di KPMG. La soluzione di EPM doveva essere di facile utilizzo per gli utenti, così da potersi inserire nella loro quotidianità lavorativa, senza dover dipendere dall’IT per gestire le richieste aggiuntive. Inoltre avrebbe dovuto permettere di trattare in modo adeguato sia i dati finanziari, sia quelli non finanziari, provenienti dall’ERP o da qualsiasi altra fonte. La società ha scelto come partner tecnologico Board, che unifica BI e EPM in una singola piatta-

LA SOCIETÅ HA ADOTTATO IL SISTEMA DI ENTERPRISE PERFORMANCE MANAGEMENT DI BOARD. OBIETTIVO: ACCEDERE TEMPESTIVAMENTE AI DATI FINANZIARI E NON, PROVENIENTI DALL’ERP O DA QUALSIASI ALTRA FONTE

forma, come riconosciuto dalla presenza nei Magic Quadrant di Gartner sia per le piattaforme di Business Intelligence, che per le soluzioni di Corporate Performance Management. Questo approccio allin-one permette alle organizzazioni di supportare i vari processi di performance management con un’unica soluzione integrata. È grazie a questi punti di forza che diverse aziende del network KPMG a livello mondiale stanno collaborando con successo in progetti implementati con Board.

L’utente finale può, infatti, accedere facilmente ai dati finanziari e analizzarli nel dettaglio in modo molto più rapido e flessibile rispetto a prima, attraverso le opzioni che consentono di vederli sotto diverse angolazioni e di effettuarne il drill down fino a livello del singolo conto. Utilizzando questa soluzione per raccogliere i dati, prepararli, effettuare analisi e distribuire report, KPMG ha ottimizzato i suoi processi di closing mensile e di reporting. A darne evidenza, per esempio, c’è un episodio accaduto appena prima del Go-Live ufficiale di Board, quando Jonathan Meijer, Business Controller presso KPMG Advisory, si stava preparando per un meeting direzionale. Mettendo insieme i dati richiesti, ha potuto predisporre i report pertinenti rapidamente, così da avere più tempo per l’analisi e per proporre una visione significativa durante il meeting. «Le analisi finanziarie possono essere condotte dal vivo in modo dinamico di fronte al pubblico. Partendo da rappresentazioni di alto livello, effettuare il drill down per mettere in evidenza i dettagli risulta molto facile. Ciò si traduce in sessioni finanziarie interattive, caratterizzate da una comprensione immediata e reciproca dei trend e dei punti focali», ha raccontato Meijer.

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INTERVISTA

DAVIDE VILLA DIRETTORE MARKETING BUSINESS WIND TRE

Wind Tre Business: «Un partner per la trasformazione digitale delle PMI italiane» Un nuovo brand, una rete vendita capillare, partnership di primo piano e un’offerta di servizi che va ben oltre la connettività: dopo la fusione fra i due operatori, la focalizzazione sul mercato business è aumentata, ci spiega Davide Villa, da poco nominato Direttore Marketing Business di Wind Tre, guidata da Jeffrey Hedberg. Ecco la nuova strategia verso le piccole e medie imprese italiane

Ci sono le piccole e medie aziende italiane al centro della strategia della “nuova” Wind Tre Business, il brand unico rivolto alle imprese e alla Pubblica Amministrazione nato dopo la fusione dei due operatori, che si presenta oggi con un nuovo logo, una rete vendita più capillare e un’offerta di servizi in evoluzione. «La focalizzazione verso il mercato business è aumentata», conferma Davide Villa, da poco nominato Direttore Marketing Business di Wind Tre, all’interno della Direzione di Paolo Nanni. «Nel B2B c’è un grande potenziale di crescita e puntiamo a coglierlo». Come? Rafforzando le infrastrutture, innovando e ampliando i servizi applicativi e stringendo partnership di alto livello. Ma operando in continuità con il passato e valorizzando al massimo tutte le iniziative già avviate. Per le aziende è sempre più strategico avviare percorsi di innovazione digitale. Come si posiziona il nuovo brand Wind Tre Business in questo scenario? | 56 |

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Siamo al fianco delle PMI, le piccole e medie imprese italiane, nei percorsi di trasformazione digitale e non solo. La strategia si basa sui valori che hanno sempre contraddistinto Wind e Tre, rafforzandoli. Primo fra tutti è l’ascolto del cliente, che deve essere al centro dell’attenzione, in un rapporto basato sulla fiducia reciproca. Oggi le PMI cercano un partner flessibile, disponibile a venire incontro alle loro specifiche esigenze con proposte customizzate, ed è quello che intendiamo fare attraverso i nostri agenti e consulenti. Ci proponiamo con un’offerta semplice e trasparente, che rinnoviamo costantemente, una gamma di soluzioni business personalizzabili in grado di aiutare le aziende a digitalizzare e ‘mobilizzare’ i processi: soluzioni di Smart Working, Sales Force Automation, Collaboration, videocomunicazione, CRM e servizi Cloud. È di quest’estate il lancio dell’innovativa soluzione ‘Gigashare’, che consente di condividere il traffico mobile tra diverse SIM. In parallelo c’è un continuo


INTERVISTA | WIND TRE BUSINESS: «UN PARTNER PER LA TRASFORMAZIONE DIGITALE DELLE PMI»

miglioramento anche del livello di servizio e continui investimenti nello sviluppo delle reti. Inoltre contribuiamo alla crescita della cultura digitale delle PMI attraverso incontri, convegni e attività di comunicazione, per aiutarle a coglierne tutti i vantaggi. Cresce la domanda di applicazioni avanzate, ma i servizi di connettività rimangono, comunque, strumenti fondamentali per abilitare le imprese e i cittadini alla digitalizzazione. Quali sono i piani di Wind Tre? La connettività da sola non è sufficiente, ma resta la base su cui si fondano i nostri servizi. Significa rete mobile e fissa, ovvero fibra a disposizione delle aziende sul territorio in modo sempre più capillare, e Data Center, fondamentali per i servizi in Cloud. Ci stiamo muovendo attraverso importanti partnership, che accelerano l’innovazione. Stiamo procedendo con l’integrazione delle nostre reti in un’infrastruttura ad alta tecnologia pronta per l’upgrade al 5G, grazie alla collaborazione con ZTE. Per la prima volta il MISE e tutta l’Industry stanno lavorando insieme, per sviluppare ‘use case’ congiuntamente. 5G non significa solo velocità oltre il gigabit, ma anche grande numerosità di oggetti connessi per chilometro quadrato, a supporto dell’Internet of Things, e latenza ridottissima, per abilitare applicazioni real time, come ad esempio guidare una macchina o effettuare un intervento chirurgico da remoto. Sul fisso è attiva la partnership con Open Fiber per lo sviluppo dei servizi di connettività in banda ultra larga nella modalità FTTH e abbiamo appena esteso l’accordo a ulteriori 258 città italiane, per un totale di 271. Parliamo di circa 10 milioni di unità immobiliari, tra case e aziende, che potranno avere velocità fino a 1 Gigabit al secondo. Come avviene lo sviluppo di nuovi servizi business? Come già accennato, lo sviluppo dei nostri servizi si basa molto sull’ascolto dei clienti, che sono la nostra prima fonte di ispirazione. Anche qui per accelerare l’innovazione puntiamo su partnership di altissimo livello. Ad esempio con SUPERNAP Italia, specializzata nella gestione di data center ad elevate prestazioni (tier IV), per la fornitura di servizi ICT di ultima generazione in uno dei più avanzati Data Center in Europa, e con Cisco Jasper, la piattaforma IoT per la gestione degli oggetti smart, che abilita il machine to machine, come le reti di contatori intelligenti, le cosiddette “smart grid”. Resta importante poi la partnership che abbiamo da tempo con Microsoft per la nostra offerta di Smart Working basata su Office 365. Lo Smart Working è uno dei servizi su cui puntiamo di più: significa non solo accesso in mobilità alle applicazioni, ma anche sicurezza: la soluzione ‘Mobilty Pack’ consente, ad esempio, di

abilitare un doppio profilo, aziendale e personale. Le grandi aziende per innovare interagiscono sempre di più con il mondo delle Università, i centri di ricerca e le startup, attraverso modelli di Open Innovation. Come Wind Tre avete già sviluppato dei progetti in questa direzione? Certamente, abbiamo numerose iniziative in atto. Insieme ad altre grandi imprese italiane partecipiamo a Open Italy, iniziativa del Consorzio Elis che vuole promuovere l’innovazione come motore di sviluppo del Paese supportando le startup innovative. Come Wind Tre gestiamo poi Business Factor, una delle più grandi business community in Italia: raccoglie oltre 37mila imprenditori e innovatori, più di 5mila tra idee e startup iscritte, circa 300 video tutorial formativi. L’obiettivo è quello di aiutare le piccole e medie imprese a innovare il proprio modello di business e orientare i giovani nel mondo delle nuove professioni, dando anche loro l’opportunità di esporre le proprie idee. Abbiamo, inoltre, arricchito di nuovi contenuti la piattaforma online “Digital Corner”, che propone percorsi formativi per approfondire le principali tematiche della Digital Transformation. È un progetto innovativo con cui vogliamo supportare la crescita delle imprese italiane attraverso la diffusione della tecnologia e lo sviluppo delle digital skill. Molto importanti sono anche i percorsi di Open Innovation che valorizzano le competenze interne. È stata avviata la terza edizione di Wind Tre Factory: team interfunzionali di giovani che lavorano su progetti di innovazione all’interno dell’azienda. È un melting pot che valorizza la freschezza dei giovani, premia i talenti e l’imprenditorialità, lavorando su temi come la convergenza, l’IoT e la relazione con il cliente. Oltre a questo, sul fronte delle Università, collaboriamo con la Luiss e il Politecnico di Milano. La digitalizzazione si esprime anche con strumenti che rivoluzionano l’engagement e la relazione con il cliente. State cambiando anche la modalità di gestione del customer journey? In questi mesi abbiamo rinnovato il sito, lanciato nuovi canali social su Facebook e Twitter (@ windtrebiz) per interagire live con i clienti, e una nuova App Wind Tre Business. Stiamo quindi rafforzando i canali digitali, ma senza trascurare quelli tradizionali, in particolare il call center, perché sappiamo che molti preferiscono gestire le relazioni a voce. C’è poi la nostra forza vendita capillare, diretta e indiretta, nata dall’unione delle due reti commerciali B2B: sono molto più che venditori, veri consulenti a fianco dei clienti in ogni fase del ‘customer journey’. www.digital4executive.it

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INTERVISTA

PIER LUIGI ZAFFAGNINI

La digital transformation? Passa prima di tutto dalla gestione documentale

CEO TOP CONSULT

L’abbinamento tra gestione documentale e dematerializzazione dei processi aziendali funziona davvero solo se si eliminano tutte le frizioni analogiche, a partire dalla firma. Ma occorre anche una esperienza d’uso intuitiva, che permetta ai collaboratori di superare le pratiche e le abitudini che ostacolano il raggiungimento della piena efficienza

Spesso si dice che sono i dettagli ciò che fa davvero la differenza. Nei processi di digital transformation che stanno affrontando le aziende si potrebbe dire lo stesso, precisando che i dettagli, quando si tratta di dematerializzazione e piattaforme per la gestione documentale, sono i touch point. Ovvero tutti i punti di contatto tra gli ERP e gli utenti. I quali, pur essendo pronti a interfacciarsi con il business attraverso gli stessi strumenti che utilizzano nella vita privata (social media e chat in primis), il più delle volte devono ancora avere a che fare con esperienze d’uso che dal punto di vista dell’ICT risalgono a un’era geologica fa. Ma i veri colli di bottiglia, parlando di touch point, sono quelli che interrompono il flusso di processi che dovrebbero ormai essere intesi come integrati anche quando avvengono oltre i confini dell’azienda: nell’emissione e nel ricevimento di fatture, ordini e bolle, come nel recepimento di contratti di fornitura o di assunzione. «Ogni processo aziendale inizia con | 58 |

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l’arrivo di un documento e termina con la creazione di un documento», dice Pier Luigi Zaffagnini, CEO di Top Consult, la società specializzata nelle soluzioni di gestione documentale che da trent’anni propone al mercato un approccio basato sull’integrazione totale fra informazioni e linee di business, database e archivi, dematerializzazione e raggiungimento dell’efficienza. L’ultimo binomio in particolare può però funzionare solo se tutti gli anelli della catena, e specialmente quelli alle estremità, sono stati digitalizzati. «Cosa che spesso non accade anche nelle imprese più evolute», continua Zaffagnini. «Trattandosi il più delle volte di documenti formali (come un contratto, un ordine), c’è bisogno di una firma. E la firma continua a essere uno dei passaggi che avviene ancora nel modo tradizionale, ovvero con carta e penna. Ma non ha senso, perché vuol dire vanificare tutta la gestione digitale del resto del workflow, creando inefficienza in termini di costi e tempi».


INTERVISTA | LA DIGITAL TRANSFORMATION? PASSA PRIMA DI TUTTO DALLA GESTIONE DOCUMENTALE

Le logiche di collaboration, che ricalcano piattaforme ed esperienze d’uso dei social media, permettono non solo di semplificare e accelerare la condivisione e l’archiviazione dei documenti, ma garantiscono anche una maggior sicurezza

LA FIRMA ELETTRONICA, UNO STRUMENTO STRATEGICO La soluzione è naturalmente la firma elettronica, nei formati elettronica avanzata-grafometrica e qualificata-digitale, ed è a portata di mano. «Quello che separa molte aziende dal raggiungimento della massima efficienza lungo il percorso della digital transformation è l’approccio culturale», spiega il numero uno di Top Consult. «Manca la consapevolezza che l’abbinamento tra gestione documentale e dematerializzazione dei processi funziona davvero solo se si eliminano tutte le frizioni analogiche, a partire dalla firma. Ciò è tanto più vero se consideriamo che ormai la maggior parte delle organizzazioni è chiamata a competere e a identificare partner nello scenario internazionale, e che l’introduzione della normativa europea eIDAS (electronic Identification Authentication and Signature) ha aperto nuove prospettive rispetto all’utilizzo di questi strumenti nei rapporti fiduciari tra aziende di Paesi diversi». La disciplina eIDAS di fatto equipara il valore legale delle firme elettroniche apposte nei vari mercati dell’Unione, creando uno standard certificato, omogeneizzando il sigillo di garanzia che rappresentano e agevolando l’adozione di meccanismi seamless per il riconoscimento e l’archiviazione dei documenti digitali. «È questa la reale opportunità da cogliere: si può creare un flusso di lavoro continuo dagli uffici dei partner oltreconfine fino al terminale del nostro magazzino senza mai dover toccare carta e penna», afferma Zaffagnini, che aggiunge: «La normativa eIDAS non va sottovalutata: è un incentivo perfetto per completare il processo di digitalizzazione, alla stregua della possibilità di usare la fatturazione elettronica in formato XML tra soggetti privati». IL CONTRIBUTO DI UNA USER EXPERIENCE SEMPLIFICATA L’altro facilitatore dei processi di dematerializzazione è la user experience. Perché i collaboratori

continuano a usare carta e penna? Per convenzione, per semplicità, soprattutto per abitudine. Nel momento in cui si riesce a sostituire questo approccio con una pratica ancora più intuitiva, l’aderenza tra il piano operativo e quello digitale è totale. Non a caso l’altro pilastro della filosofia di Zaffagnini è costituito dalle logiche di collaboration, che ricalcando le piattaforme e le esperienze d’uso dei social media permettono non solo una semplificazione e una velocizzazione della condivisione e dell’archiviazione dei documenti, ma anche una maggiore sicurezza per tutta l’organizzazione: ancora una volta, si parla di touch point. «Non è solo questione di efficienza. Le mail sono sempre più spesso il veicolo con cui gli hacker si fanno strada nei sistemi aziendali. L’accesso a un network dedicato, invece, garantisce che solo chi ha le giuste credenziali possa accedere a documenti, archivi e funzioni. È ciò che permette di fare TopMedia Social NED, che unendo un’architettura enterprise scalabile a un’interfaccia intuitiva e a meccanismi collaborativi introduce un modo di lavorare nuovo e allo stesso tempo familiare per l’utente finale». Anche se le parole dominanti hanno tutte carattere positivo (semplificazione, intuitività, efficienza) è chiaro che per molte imprese non si tratta di un passaggio semplice e immediato. «Occorre un partner che sostenga l’azienda e le sue risorse nel percorso di avvicinamento e adozione di queste soluzioni», chiosa Zaffagnini, alludendo naturalmente ai servizi di consulenza offerti da Top Consult. «Non è solo questione di trasformazioni organizzative. Non vanno sottovalutati nemmeno gli aspetti legali, avendo a che fare con una normativa in continua evoluzione». Basti pensare all’introduzione, a maggio 2018, del GDPR (General Data Protection Regulation), che cambierà per sempre il modo in cui le aziende dovranno trattare e proteggere i dati dei propri clienti europei. Un’altra grande sfida che, se colta con intelligenza e con l’impiego degli strumenti documentali, rappresenterà un’altra grande opportunità. www.digital4executive.it

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INTERVISTA

DXC Technology rafforza la leadership nei servizi IT. Greco: «L’Italia mercato importantissimo» Il numero uno italiano del colosso nato dalla fusione fra HPE e CSC, operativo nel nostro Paese da aprile, fa il punto della strategia: «Potremo mettere al servizio dei clienti nuove capacità di investimento, innovazione e trasformazione»

LORENZO GRECO COVERAGE E SALES OFFERING LEADER PER L’ITALIA DXC TECHNOLOGY

Guidare la trasformazione digitale, ovvero far evolvere i modelli di business grazie all’utilizzo delle tecnologie più appropriate, con un’offerta di servizi digitali a 360 gradi . È la missione e l’ambizione di DXC Technology, colosso globale dei servizi IT nato dalla fusione tra CSC e il ramo Enterprise Services di Hewlett Packard Enterprise (HPE), una delle operazioni più significative effettuate negli ultimi anni nel mondo ICT, che ha debuttato ufficialmente il 3 aprile scorso con la quotazione a New York. Il nuovo brand è operativo da aprile anche in Italia, dove ha annunciato di recente la nomina al vertice di Lorenzo Greco, Coverage e Sales Offering Leader per l’Italia. L’obiettivo del manager italiano, che in precedenza ricopriva la carica di Sales Leader di Enterprise Services all’interno di Hewlett Packard Enterprise, è quello di rafforzare la posizione di leadership dell’azienda nel nostro Paese, a fianco dei clienti nel settore pubblico e privato.«L’Italia è un mercato importantissimo per DXC Technology - ha sottolineato Greco -. Stiamo capitalizzando l’incredibile esperienza delle due aziende con rinnovato slancio per affrontare le nuove sfide del mercato, continuando a garantire il massimo livello di servizio per le attività in corso. Potremo mettere al servizio dei nostri clienti nuove capacità di investimento, innovazione e trasformazione». «Abbiamo appena lanciato sul mercato un piano di assunzione per 100 figure professionali di cui almeno il 50% neo-laureati in ingegneria ed in altre materie scientifiche – continua Lorenzo Greco –. La sfida della digital transformation si vincerà grazie alle competen-

ze ed alla capacità di sfruttare al meglio le nuove tecnologie. È per questo che vogliamo garantirci di avere con noi i migliori talenti del mercato del lavoro». UN COLOSSO GLOBALE DXC Technology è una delle più grandi società di servizi IT del mondo: ha 170.000 dipendenti e oltre 6.000 clienti, presenza in più di 70 Paesi, e un fatturato annuo superiore a 25 miliardi di dollari. Sia CSC sia HPE ES hanno oltre mezzo secolo di storia al fianco delle più grandi imprese pubbliche e private. DXC Technology è un società di servizi tecnologicamente indipendente ed ha fatto della collaborazione con i principali brand tecnologici un punto fondamentale della sua strategia. Il DXC Partner Network è composto da più di 250 partners a livello globale e da 14 alleati strategici, tra cui vale la pena citare AWS, Microsoft, ServiceNow e SAP. Con 37 centri di produzione a livello globale (Strategic Delivery Center), garantisce una capacità di risposta e un modello di delivery dei servizi tra i più performanti al mondo. DXC Technology opera in tutti i settori industriali e la sua offerta si compone di nove linee di servizio: Consulting, Cloud & Workload Platforms, Workplace & Mobility, Application Services, Enterprise & Cloud Apps, Business Process Services, Big Data & Analytics, Security e Industry Solutions. La società investe in modo particolare in 3 settori in cui propone soluzioni innovative proprietarie: Insurance, Travel and Transportation, Life Sciences & Healthcare. www.digital4executive.it

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IL FUTURO È NELLA #UMAN ECONOMY

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MILANO 16 NOVEMBRE 2017 | PALAZZO LOMBARDIA

l Forum delle Risorse Umane è il principale appuntamento italiano annuale dell’HR Management. Un contesto esclusivo per incontrarsi, confrontarsi, formarsi, attrarre talenti e allo stesso tempo dialogare con la comunità politica, economica, scientifica e sociale del Paese. L’unico evento del settore a partecipazione gratuita, ove si incontrano in modo innovativo

aziende, istituzioni, PA, business school, associazioni di categoria, sindacati. Talk show, appuntamenti di Business Matching, benchmarking group, recruiting, opportunities, interviste, workshop tematici si alterneranno a momenti di business networking tra HR director, top manager e professionisti del settore.


ADVERTORIAL

Smart Cities: un “Living Lab” per la città di Palermo

Migliorare la qualità della vita e del lavoro nelle città con la digitalizzazione è un obiettivo non più rimandabile. Due sono le priorità d’azione: gestire al meglio processi e attività dell’amministrazione urbana e mettere a disposizione dei cittadini le migliori infrastrutture. Ci sono città che hanno già da tempo avviato con successo percorsi virtuosi, anche in Italia. Secondo Ernst&Young tra le best practice internazionali ci sono Milano, per Expo 2015, New York, Amsterdam, La Coruna. «Sono in arrivo strumenti intelligenti che cambieranno radicalmente il contesto urbano che conosciamo: smart meter di seconda generazione, veicoli a guida autonoma, droni, digital assistant domestici capaci di interpretare il linguaggio naturale, smart medical device, etc. In questo percorso di innovazione urbana, aziende dell’ICT e pubbliche amministrazioni devono confrontarsi e trovare i percorsi più efficaci», dice Luca Ferraris, Head of Strategy, Innovation & Communication di Italtel. «Italtel, le cui competenze sono storicamente più rivolte alle componenti infrastrutturali, oggi si integra con Exprivia, che ha un profondo know-how nella realizzazione di piattaforme software: da quest’unione nasce la capacità di offrire alle pubbliche amministrazioni una soluzione completa nel percorso verso la Smart City». Italtel ha all’attivo diversi progetti nell’ambito degli aspetti più infrastrutturali delle Smart Cities, a partire da Expo Milano 2015. Exprivia ha partecipato alla realizzazione, per il Comune di Bari, del cruscotto di gestione urbana MUSICA (Monitoraggio Urbano attraverso Soluzioni Innovative per Città Agili), basato sulla visione condivisa che una Smart City non possa prescindere da una piattaforma unificata su cui integrare tutti i servizi verticali della città: Ambiente, Sanità,

SOSTENIBILI, INCLUSIVE, INTELLIGENTI: COSÌ SARANNO LE CITTÀ DIGITALI DEL NOSTRO PROSSIMO FUTURO. MA GIÀ OGGI IL FATTO DI ESSERE SMART AIUTA A COMPETERE NELLA CAPACITÀ DI ATTRARRE INVESTIMENTI E TALENTI

LUCA FERRARIS Head of Strategy, Communication & Innovation di Italtel

monitoraggio delle infrastrutture, gestione energetica, Sicurezza, Mobilità. Uno dei più recenti progetti in cui Italtel è coinvolta è il “Living Lab” di Palermo, un progetto di digitalizzazione di ampio respiro che si colloca nell’ambito del programma Digitaliani siglato da Cisco nel 2016 con la Presidenza del Consiglio dei Ministri. L’iniziativa, che vede Cisco e il Comune protagonisti, è condotta con il supporto tecnologico di Italtel e in stretta collaborazione con la municipalizzata SISPI e l’Università di Palermo. Prevede la realizzazione dell’infrastruttura wi-fi del Percorso Arabo Normanno, “Patrimonio Mondiale dell’Umanità” dell’Unesco dal 2015, che comprende nove beni artistico-monumentali in uno stile esclusivo di Palermo, Cefalù e Monreale. Città multiculturale per geografia e vocazione, Palermo sta anche tracciando la strada per essere a pieno una Smart City. Una seconda componente chiave è la creazione di un Data Center su cui, nella logica open data, startup e piccole imprese locali contribuiscano allo sviluppo digitale del territorio con le proprie applicazioni. Il Data Center vuol essere l’elemento portante della Palermo Smart City dal punto di vista infrastrutturale, delle applicazioni a esso connesse in grado di gestire la parte intelligente della città (WiFi, videosorveglianza, sensoristica) ed estrarre dai dati le informazioni sia a beneficio dell’amministrazione che dei cittadini.

P ER U LT ER I O R I I N F O RM A ZIONI...

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INTERVISTA

EMILIO BASELICE DIRETTORE GENERALE DI INTESA, SOCIETÀ DEL GRUPPO IBM

Intesa: «La trasformazione digitale è all’insegna della semplificazione» Emilio Baselice, DG della società del Gruppo IBM, spiega come accelerare la digitalizzazione in azienda. «Spesso ci si limita alla revisione di una o poche aree reputate particolarmente critiche, mentre servirebbe un’ottica di medio periodo e una revisione “light” di tutti i processi. Ecco perché la spinta deve arrivare dall’integrazione delle competenze IT con quelle delle Linee di Business»

La digital transformation fa bene alle aziende. La tendenza è confermata anche da uno studio recente di Oxford Economics condotto su 3mila executive in 17 Paesi. Le realtà che hanno avviato importanti processi di trasformazione hanno visto crescere sensibilmente la propria quota di mercato (nell’85% dei casi), hanno sperimentato una maggior redditività (80%) e la digital transformation viene indicata tra i 3 fattori più importanti per l’aumento delle vendite, indipendentemente dal settore di riferimento o dalle dimensioni dell’azienda. «C’è consapevolezza sul fatto che la trasformazione digitale non è un percorso possibile ma una strada obbligata – commenta Emilio Baselice, Direttore Generale di Intesa, società del Gruppo IBM –. Oggi il vero problema è, piuttosto, come realizzare la trasformazione digitale a fronte di un’infrastruttura consolidata e di investimenti stratificati sul legacy». Un dilemma importante per i CIO e anche per molti CEO, perché è impossibile affrontare questa rivoluzione senza | 64 |

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le competenze e la vision necessarie. Impensabile fare tutto da soli. «Occorre rivolgersi a partner che abbiano expertise non solo tecnologiche ma di processo e che conoscano anche le normative internazionali, locali e settoriali. Intesa è avvantaggiata dalla profonda comprensione dei processi di filiera, maturata nei 30 anni in cui ha operato nell’universo EDI. Questo non significa che conosciamo i processi verticali di tutti i nostri clienti, però lavorando insieme a loro e acquisendo le loro logiche di processo, siamo in grado di accompagnarli nel percorso di trasformazione, nell’ottica della semplificazione dei processi. Molti fanno teoria sulla digital transformation ma pochi sono in grado di aiutare le organizzazioni a realizzarla end-to-end». SERVE UN APPROCCIO AGILE Gestione digitale dei processi aziendali, fatture elettroniche, archivi a norma ma anche firma digi-


INTERVISTA | INTESA: LA TRASFORMAZIONE DIGITALE È ALL’INSEGNA DELLA SEMPLIFICAZIONE

tale e PEC (Posta Elettronica Certificata). Intesa offre soluzioni che si rivolgono all’universo dei rapporti tra imprese (B2B) ma fornisce anche tecnologie e servizi di backend, utile supporto nella trasformazione digitale dei processi che si rivolgono ai clienti o ai fornitori impegnati, a loro volta, a erogare servizi ai clienti finali (B2B2C). Lo fa, spiega Baselice, «con un approccio volutamente “agile”, attraverso un substrato di workflow facilmente integrabili all’interno dei processi aziendali. Intesa ha un approccio a processo, il cliente si appoggia a noi per essere supportato nella digital transformation contenendo gli investimenti relativi. Accanto a questo, però, offriamo anche la possibilità di utilizzare piccoli componenti tecnologici pre-configurati disponibili in cloud, come uno script o una marcatura temporale, utilizzabili immediatamente». LE TECNOLOGIE DEL FUTURO PROSSIMO: IL CLOUD COME SERVIZIO “ATOMICO” Ci sono alcuni indirizzi tecnologici che, a detta di Baselice, le aziende non possono trascurare nel loro percorso evolutivo attuale. «Le Blockchain, anzitutto, in un’ottica di transazioni decentralizzate, trasparenti, sicure e immutabili; poi il Cloud, inteso non solo come supporto infrastrutturale, ma come cloud di servizio, dove i servizi sono disponibili in modo atomico e fruibili come app. E infine, l’IoT: l’integrazione di informazioni provenienti dal mondo esterno all’interno dei processi; queste tre tecnologie potenzieranno la capacità di analisi dei dati (analytics) e l’intelligenza aumentata, rendendo i processi sempre più precisi e personalizzabili sulla base delle esigenze del cliente. Tuttavia necessitano di processi preventivamente digitalizzati per poter esprimere al massimo il proprio valore». MANCANO (E MANCHERANNO) LE COMPETENZE DIGITALI Un aspetto con il quale bisogna fare i conti, però, è la cronica carenza di risorse formate e competenze digitali, sia all’interno delle organiz-

zazioni clienti che lato vendor. «Manca – spiega Baselice – una conoscenza approfondita delle tecnologie e, soprattutto, una visione a 360 gradi dei processi. Spesso la digital transformation è incentrata sulla revisione di una o poche aree reputate particolarmente critiche, mentre servirebbe adottare un’ottica di medio periodo e una revisione light, leggera, di tutti i processi. Ecco perché la spinta alla trasformazione deve arrivare dall’integrazione delle competenze IT con quelle delle LOB». I SETTORI PIÙ DINAMICI: BANCHE, TELCO, FINANCE, UTILITY. E LOGISTICA Ma quali sono le aziende che, più di altre, si dimostrano “sensibili” alle strategie di revisione in chiave digitale dei propri processi? «Le più attive sono, nella nostra esperienza, quelle che promuovono l’onboarding digitale dei clienti, ovvero banche e società che operano nel finance e poi assicurazioni, telco e utility. La possibilità di acquisire nuovi clienti in modalità digitale costituisce uno dei principali driver della trasformazione; tutti i settori dove c’è un B2C massivo hanno la necessità di contrattualizzare in modalità molto più snella, rapida e nativamente digitale». Anche la logistica sta attraversando un momento d’oro: la digitalizzazione di tutta la documentazione, integrata con gli elementi d’informazione che si generano lungo il tragitto – e che sono facilmente reperibili grazie all’impiego massiccio dei sensori IoT – assicura risparmi consistenti, con casi anche piuttosto eclatanti come la gestione intelligente della catena del freddo. Certo un’accelerazione è data anche da alcune normative settoriali: si pensi, per esempio, alla PSD2, che promuove il concetto di “banca aperta” a tutti gli altri intermediari dei servizi. Altra area “in fermento” è la digitalizzazione del ciclo passivo perché «le organizzazioni hanno la necessità di integrare le fatture nel back office svincolandole dalla carta, con benefici evidenti come la riduzione dei tempi di elaborazione dei dati e l’azzeramento degli errori».

«C’è consapevolezza sul fatto che la digital trasformation non è un percorso possibile ma una strada obbligata. Oggi il vero problema è come realizzarla a fronte di infrastrutture consolidate e investimenti stratificati sul legacy» www.digital4executive.it

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MANAGEMENT di

STEFANO AIELLO

PARTNER, P4I - PARTNERS4INNOVATION e

LUCA FLECCHIA

ASSOCIATE PARTNER P4I - PARTNERS4INNOVATION

Process Mining, processi aziendali al microscopio per andare oltre il classico BPR In grande ascesa la disciplina, supportata da soluzioni digitali ad hoc, che analizza il funzionamento reale dell’organizzazione studiando i “log” dei sistemi informativi. Si crea così una mappa basata su dati oggettivi che permette miglioramenti rapidi, graduali e continui. Ecco gli ambiti di applicazione, i benefici rispetto ai tradizionali metodi di assessment, e le tecnologie a supporto

Analizzare nel minimo dettaglio i processi aziendali per come si svolgono nella realtà quotidiana, con l’obiettivo di mapparli, scoprirne punti di forza e debolezza e scostamenti rispetto ai processi standard codificati per policy, e quindi migliorarli in modo agile senza dover passare per lunghi e costosi progetti di BPR, e rendendoli facilmente misurabili e adattabili ai continui cambiamenti del mercato, delle tecnologie e delle normative. Questa in sintesi la missione del Process Mining, disciplina organizzativa sviluppata negli ultimi dieci anni da due centri di ricerca sul Business Process Management di Brisbane (Australia) ed Eindhoven (Olanda), e basata tecnicamente sull’analisi dei dati di log applicativi dei sistemi informativi che governano i processi aziendali. Anni di ricerca, metodologie consolidate e soluzioni tecnologiche a supporto ne fanno uno strumento innovativo per analizzare e monitorare | 66 |

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i processi, caratterizzato da basso impatto economico, tempi rapidi di analisi e oggettività del risultato. SVELARE LE INFORMAZIONI NASCOSTE TRA I DATI AZIENDALI Il Business Process Reengineering (BPR), l’approccio tradizionale alla revisione del funzionamento delle imprese, nel tempo ha mostrato diversi limiti: eccessiva concentrazione di risorse in interventi una tantum, esecuzione lenta, e alti rischi di “rigetto” delle soluzioni proposte. Spesso gli interventi di BPR hanno infatti fallito proprio nel loro obiettivo primario: radicare nell’organizzazione la gestione per processi. I risultati, anche quando vengono raggiunti, non risultano “ripetibili”: l’azienda non acquisisce la capacità di interpretare le proprie performance attraverso la conoscenza analitica e quantitativa dei processi.


M A NAGE M E NT | PROCESS MINING, PROCESSI AZIENDALI AL MICROSCOPIO PER ANDARE OLTRE IL CLASSICO BPR

Alcune applicazioni di Process Mining hanno consentito di ridurre la durata media dei processi del 70%, aumentando la soddisfazione dei clienti; o di cancellare fino al 40% delle fasi dei processi, comprimendo tempi e costi di gestione

In un contesto dinamico ed estremamente fluido come quello attuale, le imprese e gli enti pubblici non possono più permettersi lunghi progetti con i rischi appena esposti. Per tradurre la Strategia in execution, però, oggi come ieri, occorre conoscere e dominare i processi reali. Processi che in molti casi si discostano da quelli disegnati a tavolino e nel tempo si arricchiscono di elementi e varianti poi difficili da governare. Per rispondere a questa esigenza nasce intorno al 2000 il Business Process Management (BPM), la disciplina della gestione dell’azienda per processi. Nell’ambito del BPM nel tempo si sono sviluppaI dati di log, correttamente filtrati e ripuliti, diventano gli input per la mappatura del processo, ottenuta tramite algoritmi di automated process discovery

te le principali tecniche di modellazione, analisi, improvement, implementazione, monitoraggio e governance dei processi, change management e performance management. In questo quadro la progressiva penetrazione dei sistemi informativi in tutti i settori dell’economia e in tutti i processi produttivi e di supporto, rende disponibili a moltissime aziende grandi volumi di dati nei quali si celano importanti informazioni sul loro funzionamento effettivo. Per scovare e comprendere queste informazioni nascono le tecniche di Process Mining, che come accennato estraggono la conoscenza dei processi dai dati di log di applicazioni aziendali, ne ricavano modelli finalizzati all’analisi delle performance e disegnano, grazie a specifiche piattaforme digitali di business analytics, un quadro preciso dei

Le applicazioni: dalla verifica delle compliance alle acquisizioni • Assessment dell’organizzazione. Un classico esempio è l’ingresso in azienda di un nuovo management, che spesso ha obiettivi sfidanti già nel medio-breve periodo e che, grazie al Process Mining, in tempi brevi è in grado di comprendere in modo oggettivo il funzionamento dell’azienda e introdurre strumenti di performance management. • Individuazione delle inefficienze. Il Process Mining permette di evidenziare particolari comportamenti critici e individuare le cause di ricicli, colli di bottiglia o tempi di attesa. Combinando l’analisi e misura del processo con i comportamenti dei clienti, si possono guidare cambiamenti per migliorare in modo graduale e continuo la qualità percepita dei processi, con bassi impatti sulle performance. • Supporto ad acquisizioni/fusioni. Il Process Mining è un punto di partenza per guidare le operazioni di riorganizzazione e cambiamento. La capacità di lavorare su processi end-to-end (utilizzando dati provenienti anche da sistemi eterogenei) favorisce una rapida conoscenza crossfunzionale e definizione di programmi di armonizzazione

organizzativa e standardizzazione dei sistemi. • Verifiche di compliance e auditing. Il Process Mining è di grande aiuto per “svelare” come un processo viene eseguito nelle singole attività, evidenziandone la conformità (o non conformità) con procedure e policy definite. • Sviluppo e consolidamento del sistema di Performance Management. Talvolta i KPI in uso non sono i più adeguati per misurare e premiare le performance aziendali, e addirittura possono innescare dinamiche indesiderate. Legando i processi ai risultati, il Process Mining può massimizzare l’efficacia dei Performance Management entrando nel merito dei gap tra risultati attesi e reali. • Continuità dei cambiamenti nel tempo. Spesso le aziende non riescono a sostenere nel tempo i programmi di process improvement. Monitorando i processi “ristrutturati”, il Process Mining può divenire uno strumento manageriale essenziale per capire gli scostamenti indesiderati, radicare i cambiamenti e facilitarne di ulteriori, in un percorso progressivo e continuo.

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MANAGEMENT | PROCESS MINING, PROCESSI AZIENDALI AL MICROSCOPIO PER ANDARE OLTRE IL CLASSICO BPR

Spesso gli interventi di Business Process Reengineering hanno fallito proprio nel loro obiettivo primario: radicare nell’organizzazione la gestione per processi. I risultati, anche se vengono raggiunti, non risultano ripetibili

flussi di execution da analizzare. Nei mercati più avanzati (US, Nord Europa, Australia e Far East) è in rapida crescita il numero di aziende che stanno investendo nel Process Mining, in diversi settori: privato, pubblico, manifatturiero e servizi. Oggi gli algoritmi di Process Mining sono consolidati, operano con notevole efficacia su basi di dati diverse ed eterogenee, e sono supportati da molteplici strumenti software, sia proprietari sia open source. I BENEFICI: EFFICIENZA E OGGETTIVITÀ In generale quindi il Process Mining può essere definito uno strumento di evoluzione della cultura aziendale verso un approccio sistematico alla gestione per processi e al business performance management. E in quest’ottica, pur se abilitato dalle tecnologie informatiche, il suo fattore critico di successo rimane il change management. Alcune applicazioni hanno consentito, per esempio, di recuperare il 30% delle risorse, con guadagni di diversi milioni di dollari; ridurre la

durata media dei processi del 70%, con miglioramento considerevole della soddisfazione dei clienti; cancellare fino al 40% delle fasi (step) dei processi, anche in contesti critici, con conseguente diminuzione della durata e dei costi totali di gestione. Il Process Mining è anche un grande passo avanti rispetto al tradizionale approccio all’assessment dei processi, che si basa su interviste, workshop e osservazioni sul campo. Queste sono tecniche molto efficaci per comprendere cultura e attitudini, ma non sempre efficienti, e capaci di modellare i processi e analizzare le performance in modo sistematico e oggettivo. La realtà non sempre corrisponde alla percezione che emerge dalle interviste: le informazioni raccolte rischiano di essere legate all’intervistato e alle sue esperienze molto più che a precise logiche o motivazioni di business. Il Process Mining supera queste criticità ribaltando l’approccio: a intervistare i process owner e i focal point di processo si va con l’output dell’analisi effettuata sui dati, per chiarire i dubbi e interpretare i fenomeni emersi.

Le tecnologie a supporto Secondo la definizione IEEE, il Process Mining è il ponte che collega il Business Process Management con le altre discipline analitiche non direttamente orientate ai processi, come statistica, data mining, machine learning e business intelligence. Uno dei suoi punti di forza è la trasversalità, preziosa in uno scenario in cui praticamente tutte le aziende hanno parchi applicativi con molte piattaforme e tecnologie diverse. Il suo utilizzo è indipendente da contesto, vendor, piattaforma tecnologica e specifiche. Il Process Mining lavora sui log provenienti dai sistemi informativi aziendali, correttamente filtrati e ripuliti mediante algoritmi di data cleaning. I dati di log, costituiti da un identificativo univoco di istanza di

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processo, dal richiamo all’attività di processo a cui si riferiscono e dal tempo di registrazione (insieme ad altre variabili), diventano i trigger per la mappatura di processo, ottenuta tramite algoritmi di automated process discovery (Heuristics, Fuzzy, Genetic, Multiphase, etc) e un’analisi personalizzata mediante modelli statistici. Attraverso attività di slicing & dicing dei log lungo diverse dimensioni (ad es. tipo cliente, tipo di ticket, livello priorità, …), analisi comparative (anche visuali) supportate da misure statistiche delle differenze, vengono quindi individuati casi ottimali (positive deviance) e peggiori (negative deviance) e fornite in output raccomandazioni sulle azioni da intraprendere.


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Storage, come conciliare affidabilità enterprise e costi da commodity

Stiamo vivendo una stagione di profondo cambiamento. La globalizzazione ha cambiato radicalmente il modo con cui ogni azienda conduce il proprio business. Essere flessibili, aperti al cambiamento, poter operare in real time e in maniera distribuita non è più un’opzione, è una necessità. Quella che va sotto il nome di Digital Transformation non è solo un’evoluzione, è una vera e propria rivoluzione. E come tutte le rivoluzioni porta con sé una quantità importante di innovazione, a ogni livello. Un’efficace strategia di Digital Transformation non può prescindere da una rivisitazione radicale delle infrastrutture tecnologiche delle organizzazioni, che si trovano a gestire in ogni momento grandi quantità di dati. Il modo in cui questi dati vengono gestiti e analizzati può fare la differenza tra un’azienda dinamica e in grado di intercettare (e sfruttare) le tendenze del mercato, e una realtà statica, incapace di reagire tempestivamente agli stimoli in arrivo dall’esterno. Tra successo e insuccesso. Per supportare nel modo migliore le aziende che intendono affrontare questo percorso, gli storage vendor hanno sviluppato una serie di soluzioni innovative, che intendono sfruttare le più recenti evoluzioni della tecnologia per mettere i clienti nella condizione di ottenere il meglio dai loro dati – proteggendoli, gestendoli, e soprattutto avendoli sempre a disposizione a supporto delle proprie attività di business. Come è naturale, ogni soluzione presenta i suoi pro e i suoi contro, mettendo di fatto i responsabili IT di fronte a scelte alternative difficili da conciliare, anche su elementi come costo, capacità, prestazioni ed affidabilità – tutti fondamentali in ottica enterprise. L’approccio scelto da Infinidat si propone di superare

«INFINIDAT PROPONE UN CONCETTO DI STORAGE CHE UNISCE I VANTAGGI DELLE ARCHITETTURE SOFTWARE-DEFINED, ANCHE IN TERMINI DI SCALABILITÀ E SEMPLICITÀ, CON PRESTAZIONI UN TEMPO OTTENIBILI SOLO DA SISTEMI PROPRIETARI»

DONATO CECCOMANCINI Sales Manager Italy di Infinidat

questa problematica, offrendo una piattaforma realmente unica e innovativa, in cui un elemento di scelta non va più a scapito di altri, ugualmente importanti. Quello proposto da Infinidat è un sistema di SoftwareDefined storage, contenuto nei costi ed estremamente scalabile che, avvalendosi di algoritmi di machine learning, è in grado di ottenere prestazioni e affidabilità ai massimi livelli da hardware economico. La stessa IDC indica come la capacità di mantenere standard elevati di resilienza e prestazioni anche a fonte di capacità particolarmente elevate sia fondamentale per superare le sfide che la Digital Transformation porta con sé. Nella realtà, un’affidabilità di livello enterprise a costi di commodity è esattamente quello che i responsabili storage sono chiamati ad offrire. «Infinidat è riuscita a rivoluzionare il concetto stesso di storage enterprise, unendo i vantaggi tipici delle architetture software-defined (costi contenuti, alta scalabilità, semplicità d’uso), con un’affidabilità di livello enterprise, una volta prerogativa di sistemi proprietari costosi e complessi», spiega Donato Ceccomancini, Sales Manager Italy di Infinidat. «Questo ha consentito all’azienda di raggiungere un posizionamento realmente unico sul mercato, con un cost per performance decisamente inferiore a ogni concorrente, livelli di affidabilità costantemente elevati con ogni tipo di workload e costi più contenuti».

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N ORMATIVE

di

GABRIELE FAGGIOLI

(FOTO)

GIURISTA E CEO DI P4I - PARTNERS4INNOVATION e

Data Protection Officer (DPO): quali compiti ha e come sceglierlo

MARCO CATALANO

SENIOR LEGAL CONSULTANT DI P4I - PARTNERS4INNOVATION

Se viene scelta all’interno dell’azienda, la nuova figura, che ha la responsabilità tra le altre cose di sorvegliare l’osservanza del GDPR (il regolamento europeo sulla privacy), va individuata evitando potenziali conflitti di interesse: non deve ricoprire funzioni, o essere a capo di reparti, che sono implicati nel trattamento dei dati personali. Ecco le linee guida dell’Unione Europea

La figura del DPO (Data Protection Officer) o responsabile della protezione dei dati, come ben noto agli addetti ai lavori non è una novità assoluta. Sebbene la direttiva madre sulla privacy (n. 95/46/CE) non prevedesse alcun obbligo di nomina del DPO, tuttavia questa, nel corso degli anni, è divenuta una prassi seguita da alcuni Stati membri dell’Unione. Ciò in quanto avere all’interno dell’impresa una propria figura professionale, con competenze specifiche in materia di data protection, poteva sia facilitare l’osservanza della normativa di riferimento sia aumentare il margine competitivo dell’impresa stessa. A tal proposito il nuovo Regolamento per la Protezione dei Dati Personali n. 2016/679 o GDPR (General Data Protection Regulation), improntato sul principio di responsabilizzazione (accountability), ha definito la portata di tale figura. La quale, da mera scelta affidata alla discrezionalità della singola organizzazione, è stata innalzata a vero e proprio guardiano della privacy, obbligatoria in alcuni casi e volontaria in via residuale. | 72 |

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Pertanto il GDPR pone il DPO al centro del nuovo quadro normativo come uno degli elementi chiave all’interno del sistema di governance dei dati. Potrà sia favorire l’osservanza degli obblighi normativi, sia fungere da interfaccia fra i soggetti coinvolti dai trattamenti di dati personali, quali l’autorità di controllo, gli interessati, o le divisioni operative di un’azienda o di un ente. IL DPO DEV’ESSERE INDIPENDENTE E AUTONOMO: COSA SIGNIFICA In tale contesto sarà dovere del Titolare del Trattamento o del Responsabile individuare il soggetto che - per competenze giuridiche, informatiche, di risk management e di analisi dei processi - sia in grado di svolgere, in modo autonomo e indipendente, i compiti specifici del Data Protection Officer, fra i quali: informare e fornire consulenza al Titolare, al Responsabile nonché ai dipendenti, sorvegliare l’osservanza del GDPR, e cooperare con l’autorità di controllo.


NOR M ATI V E | DATA P RO T E C T IO N O F F IC E R ( DP O ) : Q UA L I C O MP IT I H A E C O ME SC E G L IE RL O

Il GDPR pone il DPO al centro del nuovo quadro normativo come un elemento chiave del sistema di governance dei dati. Può favorire l’osservanza degli obblighi di legge e fare da interfaccia fra i soggetti coinvolti dai trattamenti di dati personali

Le Linee-guida del gruppo di lavoro WP29 (doc. n. WP243 del 5 aprile 2017), forniscono molti chiarimenti circa la nuova figura professionale e, in particolare, in merito al potenziale conflitto di interessi che potrebbe derivare dall’assegnazione della funzione del DPO a un referente interno dell’azienda. Sul punto il Gruppo dei Garanti Europei ha evidenziato come, affinché il DPO possa svolgere le proprie funzioni in modo efficace, sia necessario che questi goda di indipendenza. In tal senso l’art. 38 del GDPR stabilisce alcune garanzie di base per assicurare che il responsabile sia in grado di svolgere l’incarico con sufficiente grado di autonomia. Per esempio non deve ricevere alcuna istruzione per quanto riguarda l’esercizio dei compiti preposti; deve svolgere la propria attività in modo del tutto indipendente; deve poter avere la possibilità di fornire la sua opinione dissenziente direttamente al vertice gerarchico del Titolare o Responsabile del Trattamento (senza però che il potere decisionale del DPO si estenda oltre i compiti attribuiti dall’art. 39 del GDPR); non può essere rimosso o penalizzato dal Titolare o Responsabile del trattamento nell’adempimento dei propri compiti. E infine non deve essere individuato tra soggetti interni all’organizzazione che potrebbero determinare un conflitto d’interesse. In relazione a quest’ultimo aspetto, le Linee Guida sottolineano che, seppure sia permesso al DPO di svolgere allo stesso tempo altre funzioni, l’organizzazione, nell’ottica di assicurare autonomia e indipendenza del DPO, deve assicurare che i compiti e doveri di questo non diano luogo a un conflitto di interessi. Ciò comporta che, di caso in caso (per esempio per posizioni quali amministratore delegato, direttore operativo, direttore finanziario, capo delle risorse umane, etc), debba essere preventivamente accertato che la persona scelta per essere nominata DPO non ricopra funzioni o sia a capo di reparti significativamente implicati nel trattamento dei dati personali. In particolare, quando questa potrebbe concorrere a determinare le finalità e le modalità del trattamento dei dati personali (ad

esempio reparti quali le risorse umane e l’amministrazione del personale, l’ufficio legale, l’IT o anche la direzione marketing). MULTATA UN’AZIENDA TEDESCA CHE HA NOMINATO DPO IL SUO IT MANAGER Un esempio è la decisione del Garante per la Protezione dei Dati Personali bavarese, che ha multato una società a seguito della designazione del proprio IT manager come Data Protection Officer. Infatti, secondo l’Autorità tedesca, qualsiasi dipendente di una società che si occupa di trattare dati personali con regolarità (ad esempio operando nell’ambito del marketing, delle risorse umane o del dipartimento legale) avrebbe un potenziale conflitto di interessi che lo renderebbe inadatto a ricoprire la posizione del DPO, poiché tale ruolo richiede di operare un monitoraggio costante dei trattamenti dei dati personali in modo indipendente e con l’obiettivo di garantire la conformità dell’azienda alle normative statali ed europee. Pertanto una buona prassi è quella di individuare le posizioni che sarebbero incompatibili con la funzione del DPO; adottare, ove possibile, regole interne al fine di evitare, ab origine, i possibili conflitti; prevedere, in modo articolato, i casi di conflitto di interessi; dichiarare che il DPO non abbia un conflitto di interessi per quanto riguarda la sua funzione in modo tale da sensibilizzare maggiormente tale requisito; includere specifiche garanzie nelle regole interne dell’organizzazione, e garantire che il contratto di servizio stipulato per la sua nomina sia sufficientemente preciso e dettagliato per evitare un conflitto di interessi. Tirando le somme: il GDPR consente che il DPO interno possa svolgere altre mansioni all’interno dell’organizzazione, ma i compiti e le funzioni a esso affidate non devono dare adito a un potenziale conflitto di interessi. Pertanto le aziende che dovranno nominare un DPO, qualora intendano affidare l’incarico a un proprio dipendente, non devono scegliere una figura che, a causa delle proprie mansioni aziendali, sia anche coinvolta nei processi di trattamento di dati personali. www.digital4executive.it

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ADVERTORIAL

Cloud e Global Managed Services, le anime della “nuova” Comparex

Nella seconda metà del 2016, l’Executive Group di Comparex, azienda nota per la rivendita di licenze software e per soluzioni di Software Asset Management, ha intrapreso un percorso di profonda revisione della strategia aziendale alla luce dei trend di trasformazione del mercato IT. Ne è scaturita una nuova visione, definita “20/20 Vision” di cui abbiamo voluto approfondire le declinazioni insieme a Roberto Brioschi, Presidente Comparex Italia e Vice President Southern and Southeast Europe Comparex Group. «Negli ultimi anni l’azienda ha finalizzato delle acquisizioni che gli ha permesso, in un lasso di tempo molto breve, di espandersi in tutto il mondo», esordisce Brioschi. «20/20 Vision è un progetto di revisione della direzione strategica che implica una riorganizzazione delle risorse a livello globale, una ridefinizione del core business aziendale e una ri-focalizzazione di tutte le country. Questa vision ha dato vita a “Comparex 4.0”, la strategia del Gruppo che, in quattro anni, guiderà la trasformazione aziendale». Un percorso di trasformazione che, dalle parole stesse del presidente italiano, si fonda su quattro pilastri: efficiente evoluzione del business di rivendita Software & Cloud; sviluppo di un nuovo core business Global Managed Services; servizi professionali a supporto dei core business: Software & Cloud e Global Managed Services; creazione di competenze coperte da proprietà intelllettuale (Own IP). «Il gruppo Comparex, facendo leva sull’esperienza e sulla professionalità matu-

P E R U LT ER I O R I I N F O RM A ZIONI...

WWW.C OMPAR E X .I T

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L’AZIENDA HA AVVIATO UN PERCORSO DI TRASFORMAZIONE STRATEGICA A LIVELLO GLOBALE CHE PREVEDE LO SVILUPPO DI NUOVI SERVIZI PROFESSIONALI PER ACCOMPAGNARE LE AZIENDE NEL PASSAGGIO AL CLOUD. «IN 4 ANNI DIVENTEREMO UNO DEI PIÙ IMPORTANTI PROVIDER DI SERVIZI GESTITI A LIVELLO GLOBALE»

ROBERTO BRIOSCHI Presidente Comparex Italia e Vice President Southern and Southeast Europe Comparex Group

LUCIANO TIENFENTHALER Sales Director Comparex Italia

MIRCO BOTTERO Professional Services Business Development Manager Comparex Italia


ADVERTORIAL

«L’introduzione del Cloud deve essere calata in un contesto culturale nuovo dove processi e modalità operative e collaborative delle persone cambiano»

rata, ha creato un set di Global Managed Services che coprono quattro aree», dettaglia ulteriormente Brioschi. «In particolare, ci si focalizzerà su: gestione degli asset IT; produttività e ottimizzazione; sicurezza; analytics. Nell’arco di quattro anni l’azienda diventerà un fornitore di servizi gestiti a livello globale, così da sostenere e rinforzare l’attuale business legato alle licenze software, che in futuro si sposterà sulla vendita di servizi cloud». GESTIONE E PERSONALIZZAZIONI LOCALI «Il business della vendita e gestione delle licenze software si svolgeva negli anni passati all’interno dei più tradizionali programmi di canale previsti dalle grandi software house, verso una clientela di aziende con almeno 250 postazioni di lavoro», ricorda Luciano Tiefenthaler, Sales Director Comparex Italia. «È un modello che oggi non è più sostenibile sia per i cambi di strategia dei grandi vendor, in particolare di Microsoft che per noi rappresenta il principale partner commerciale, sia per i nuovi paradigmi di fruizione via Cloud del software secondo logiche di pay-per-use». È stato dunque il cambiamento del mercato globale a suggerire la nuova evoluzione di Comparex che, proprio sfruttando le nuove leve del Cloud, ha trovato nei servizi gestiti una nuova opportunità di business. «La nostra proposta si articola attraverso la ricerca continua di soluzioni e servizi globali in linea con il mercato e le nostre aziende clienti - puntualizza Tiefenthaler -, servizi che poi eroghiamo localmente, anche in modo personalizzato modellando soluzioni specifiche in base alle esigenze dei clienti». L’obiettivo finale, fa sapere il direttore commerciale, è diventare un punto di riferimento all’interno di quel settore che analisti come Gartner e Forrester identificano come “Mega cloud

managed services provider”, ossia quelle realtà in grado di farsi carico, per conto delle aziende, della gestione di tutti i servizi cloud diventando l’interlocutore unico anche per tutte le pratiche commerciali e amministrative. «Il Cloud offre innumerevoli opportunità ma non sempre la sua adozione produce i risultati attesi, soprattutto in termini di efficienza di processo», commenta Tiefenthaler. «I managed services che intendiamo proporre vanno invece proprio in questa direzione, ossia fare in modo che le aziende comprendano a fondo il valore di determinate soluzioni cloud (ad esempio Office 365), riuscendo a coglierne a pieno i benefici in termini di efficacia sul business». CONTROLLO SU APPLICAZIONI E ASSET IT Percorsi che, tuttavia, risultano complessi se inseriti in contesti aziendali dove l’IT non è gestito adeguatamente (in cui Comparex offre una risposta diretta attraverso la soluzione Portfolio Management Platform per l’inventario e la gestione sia degli asset software sia di quelli hardware, ndr). «Il primo passo di un qualsiasi percorso di cambiamento, sia anche “solo” l’adozione di un nuovo servizio cloud, deve partire da un adeguato assessment per avere una chiara situazione di partenza e trovare l’ottimale percorso di cambiamento da mettere in atto», interviene Mirco Bottero, Professional Services Business Development Manager Comparex Italia. «Ma il cambiamento non si riduce mai ai soli aspetti tecnologici: l’introduzione del Cloud deve essere calata in un contesto culturale nuovo dove processi e modalità operative e collaborative delle persone cambiano. È proprio con queste finalità di change management che, accanto alla proposta di managed services e all’offerta di soluzioni software e cloud, abbiamo sviluppato servizi professionali che vanno in questa direzione».

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RUBRICA | RICERCHE E STUDI a cura di

PAOLA CAPOFERRO RONCHETTA

GARTNER: ECCO I TREND DIGITALI DA SEGUIRE NEL 2018 Dall’intelligenza artificiale alle chatbot, fino alla self-disruption dei colossi hi-tech, la società di ricerche passa in rassegna le determinanti del futuro dei team tecnologici all’interno delle imprese. Le organizzazioni devono saper evolvere al ritmo della trasformazione digitale, estrarre valore (non solo economico) dalle tecnologie, fare leva su nuove competenze

Quale potrebbe essere l’impatto dell’intelligenza artificiale sul mondo del lavoro, come cambia la percezione della sicurezza dei device con la Internet of Things? Estrarre valore dalla trasformazione digitale significa anche anticipare i trend di utilizzo della tecnologia senza perdere di vista le ricadute sociali e culturali dei cambiamenti. Sono aspetti che la società di ricerche Gartner sottolinea nel tracciare le previsioni sui principali trend tecnologici dei prossimi anni per le organizzazioni IT. In questa specifica industria, per esempio, l’assunzione di figure puramente tecniche (oggi il 42% della forza lavoro nelle organizzazioni IT) subirà un calo del 5%, mentre saranno necessari professionisti dotati anche di competenze di business.

strumenti di AI potranno generare e distribuire automaticamente ogni sorta di contenuti, anche contraffatti: nel 2022 la maggior parte delle persone nelle economie mature accederà più alle fake news che alle notizie accreditate. Ne deriverà non solo una diffusa disinformazione, con possibili impatti sugli equilibri politici mondiali, ma una maggiore sfiducia nel digitale da parte del pubblico. I dispositivi connessi a Internet confermeranno questo duplice atteggiamento verso la tecnologia: il 95% dei device elettronici sarà predisposto per la Internet of Things nel 2020, ma non sempre i vendor incorporeranno i paradigmi della sicurezza by design, con conseguenti possibili richiami di prodotti difettosi.

sitivi a comando vocale (come Amazon Echo e Google Home): in linea con questo trend, i siti di eCommerce che verranno ridisegnati per offrire anche la ricerca o l’interazione vocale vedranno un incremento delle entrate delle vendite online del 30%. Radicali cambiamenti in arrivo anche per il settore delle banche che, entro la fine del 2020, incasserà un miliardo di dollari di valore dall’utilizzo di criptovalute basate sulla tecnologia blockchain. Le banche dovranno imparare a mettere gli asset digitali sullo stesso piano degli strumenti finanziari tradizionali per cavalcare il trend.

IL DOPPIO VOLTO DELL’AI

SPAZIO A CHATBOT E BLOCKCHAIN

L’intelligenza artificiale (AI) è tra le tecnologie game-changer di qui al 2020. L’AI sarà un fattore determinante nel preservare un saldo positivo sul mercato del lavoro: eliminerà 1,8 milioni di posti ma ne creerà 2,3 milioni. In linea generale l’AI migliorerà la produttività e darà spazio a nuovi percorsi di carriera e segmenti industriali. Al tempo stesso gli

A proposito di automazione, nel 2021 oltre la metà delle aziende globali spenderà di più per creare bot e chatbot che per sviluppare applicazioni mobili. L’utilizzo efficiente delle bot è considerato positivo perché in grado di accrescere il coinvolgimento sia dei dipendenti che dei clienti. Gartner prevede anche una forte domanda consumer per i dispo-

Infine, occhio alle strategie dei colossi dell’hitech: per garantirsi la leadership negli anni a venire, aziende come Amazon, Apple, Facebook, Google, Microsoft, Alibaba, Baidu e Tencent potrebbero decidere di trasformare radicalmente il proprio business, mettendo in atto una “self-disruption”: giocheranno d’anticipo sui cambiamenti di tecnologie e trend di consumo e contribuiranno a indirizzare il mercato.

L’intelligenza artificiale sarà un fattore determinante nel preservare un saldo positivo sul mercato del lavoro: eliminerà 1,8 milioni di posti ma ne creerà 2,3 milioni | 76 |

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I BIG DEL DIGITALE FARANNO SCUOLA


RU B |RICA | N O M INE RUBRICA NOMINE

SILVIA CANDIANI AD, MICROSOFT ITALIA Silvia Candiani è stata nominata Amministratore Delegato di Microsoft Italia. Succede a Carlo Purassanta, che guidava la filiale italiana dal febbraio 2013, e che è stato nominato Area Vice President Microsoft Francia. In Microsoft, Silvia Candiani ha guidato negli ultimi tre anni la divisione Consumer e Channel per l’area dell’Europa centrale e dell’est, precedentemente nella filiale italiana aveva ricoperto le cariche di Direttore Marketing & Operations e Direttore Divisione Consumer & Online. Da anni è impegnata nel sostenere la leadership al

femminile nelle imprese italiane e ha contribuito alla creazione di ValoreD, prima associazione di imprese che promuove la diversità, il talento delle donne per la crescita delle aziende e del Paese. Candiani è inoltre membro del Consiglio di Amministrazione di Cofide, Gruppo De Benedetti SpA. Prima di entrare a far parte di Microsoft, ha maturato una lunga esperienza in Vodafone, McKinsey e San Paolo IMI. Ha conseguito una laurea in Economia all’Università Bocconi di Milano e un master in Business Administration presso

l’Insead di Fontainebleau. Sposata con due figli, ama passare il tempo libero viaggiando con la famiglia. È appassionata di sci e di vela.

ORAZIO IACONO AMMINISTRATORE DELEGATO E DIRETTORE GENERALE, TRENITALIA

Cambio al vertice di Trenitalia. Barbara Morgante ha lasciato l’incarico di Amministratore Delegato, e a prenderne il posto è stato Orazio Iacono, che ricopre anche il ruolo di Direttore Generale. L’ex AD Morgante assumerà la responsabilità della Direzione Centrale Governance Partecipazioni Estere del Gruppo FS Italiane, costituita con l’obiettivo di gestire lo sviluppo e la valorizzazione delle attività internazionali del Gruppo. Iacono, modicano di 48 anni, laureato a pieni voti in ingegneria, ha

rivestito in precedenza importanti incarichi in Trenitalia fino a ricoprire, dal 2012 al 2014, il ruolo di Direttore Commerciale Esercizio Rete di RFI e, a seguire, di Direttore della Divisione Passeggeri Regionale. Il nuovo CdA, con l’ingresso di Iacono, conferma l’intenzione del Gruppo FS Italiane di concentrare sempre più gli sforzi per lo sviluppo, la razionalizzazione e l’efficientamento della mobilità integrata nel trasporto pubblico locale (ferro e gomma) in particolare nelle aree metropolitane.

CYRILLE AUGUSTE AMMINISTRATORE DELEGATO, DANONE ITALIA Danone ha comunicato la nomina di Cyrille Auguste come nuovo Amministratore Delegato della filiale tricolore del gruppo alimentare francese. Auguste guiderà quindi le strategie dell’azienda in Italia. Laureato in Economia aziendale alla Neoma Business School, Aguste è entrato in Danone nel 2000 e ha ricoperto ruoli di crescente responsabilità nelle varie divisioni del gruppo, lavorando in diversi mercati in Europa. Dal 2014 ha ricoperto il ruolo di

Vice President Marketing. Tra il 2011 e il 2013 è stato Marketing Vice President in Portogallo, per poi passare nel 2013 alla carica di Country Manager, con l’incarico di guidare la divisione prodotti lattieri freschi. Dal 2008 al 2011 è stato Marketing Director di Danone Nord America e prima ancora, dal 2006 al 2008, Global Brand Marketing di Vitalinea. Nel corso dei cinque anni precedenti ha ricoperto ruoli differenti, passando da Sales District Manager a Senior Brand Manager.

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R UBRI C A | NO MI NE

AMOS GENISH AMMINISTRATORE DELEGATO E DIRETTORE GENERALE, TIM Amos Genish è il nuovo Amministratore Delegato e Direttore Generale di TIM. Il manager israeliano prende il posto ricoperto in precedenza da Flavio Cattaneo. Genish, Classe 1960, arriva da Vivendi, in cui, da inizio 2017 a luglio 2017, ha ricoperto la carica di Chief Convergence Officer. Con questo ruolo ha presidiato la strategia di convergenza tra contenuti, piattaforme e distribuzione del Gruppo. In precedenza, sino alla fine del 2016, Genish è stato Amministratore Delegato di Telefonica Brasil/Vivo, in cui è entrato agli inizi del 2015, quando quest’ultima aveva

acquisito GVT, un operatore di telecomunicazioni e Pay TV innovativo attivo nelle aree più remote, di cui è co-fondatore (ha gestito la raccolta fondi iniziale per avviare le attività e supportare il lancio dei servizi in Cile, Perù e Colombia) ed è stato Amministratore Delegato dal 1999. Dal 1989 Genish è stato in Edunetics ltd, una start-up che sviluppava sistemi curricolari multimediali omnicomprensivi, in particolare per il mercato scolastico USA, prima come CFO (curando la IPO al Nasdaq) e dal 1995 come CEO. Dal 1986 al 1989 ha lavorato in una delle

principali società contabili israeliane (oggi KPMG Israel), dove si è occupato, nello specifico, di audit e contabilità per grandi holding.

fase strategica, con l’obiettivo di migliorare sia la posizione di mercato che la capacità di delivery, per il successo finanziario e la creazione di valore sostenibile nel tempo. Loiola - nato nel 1965, laureato in Ingegneria Elettronica all’Università di Padova, sposato con tre figli – ha iniziato la sua carriera nel 1991, in CSELT (Gruppo Telecom Italia) a Torino, occupandosi di qualità e pianificazione. Nel 1994 è entrato in Nokia per l’avviamento delle attività in Italia e ha contribuito alla nascita di Omnitel Pronto Italia (poi Vodafone), fino a guidare l’organizzazione Customer Service per il Sud Europa. Dal 2000 ha ricoperto ruoli manageriali e nelle vendite di crescente responsabilità, e nel 2004 è stato nominato Area VP per il

Sud Europa e Global VP Telecom Italia per Nokia Networks. Nel 2006 è diventato Capo Global Sales & Marketing per la BU Core Networks, presso la sede di Helsinki di Nokia Networks. Successivamente è stato nominato Capo del Sud Est Europa per NSN (Nokia Siemens Networks). Nel 2010 è approdato in Huawei come VP Europe, per lasciarla nel 2014 in favore di Alcatel-Lucent Italia dove ha ricoperto il ruolo di Presidente e AD, nonché di Senior VP per Sud e Centro Europa. Con l’acquisizione da parte di Nokia di Alcatel Lucent a fine 2015, Loiola è tornato in Nokia come Senior VP di Global Customer Unit e Amministratore Delegato di Nokia in Italia.

ROBERTO LOIOLA CEO, SIRTI

Sirti ha una nuova guida: Roberto Loiola è il nuovo Chief Executive Officer della società. Al termine della prima fase della trasformazione di Sirti, Loiola è stato nominato per condurre il gruppo nella prossima

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Pagani - Passirano (BS)

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