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. Osservatori Polimi: I nuovi percorsi di innovazione . Umberto Bertelè I Big del digitale volano in Borsa: nuova bolla? . Andrea Rangone E-skills, il ritardo dell’Italia . Michael Porter Smart manufacturing, le 10 scelte strategiche . Esperienze di digital transformation Agos, Bayer, BNL, E.ON, Pelliconi, Zambon .
Il punto di riferimento
per l’aggiornamento Executive sull’Innovazione Digitale Gli Osservatori Digital Innovation della School of Management del Politecnico di Milano sono una fonte unica di informazioni, dati e conoscenza sui temi chiave dell’Innovazione Digitale.
I Percorsi di Aggiornamento Executive
Workshop e Webinar tenuti da analisti ed esperti degli Osservatori Digital Innovation
permettono di stare al passo con i trend di innovazione e con le nuove teconologie digitali per essere sempre competitivi Startup & Innovation (2018) La galassia delle startup continua a crescere, attirando attenzioni imprenditoriali importanti. Questo percorso è fatto per conoscere gli strumenti, i modelli e le normative per lo sviluppo di nuove iniziative digitali. Il percorso è organizzato in 6 Webinar con l'obiettivo di supportare i professionisti che si occupano concretamente di startup e innovazione e desiderano accrescere le proprie conoscenze.
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Le opportunità della Blockchain e dei Distributed Ledger per il business (2018) Bitcoin e altre criptovalute hanno destato l’interesse degli studiosi e, più in generale, del mondo business sulla tecnologia Blockchain e Distributed Ledger. Il percorso è organizzato in 4 Webinar con l'obiettivo di fare ordine e chiarezza sulla tecnologia Blockchain e Distributed Ledger e comprenderne le reali opportunità per i vari settori di business.
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EDITORIALE
La morte può arrivare via Internet
di
UMBERTO BERTELÈ PRESIDENTE ADVISORY BOARD DIGITAL4EXECUTIVE
@umbertobertele
La morte può arrivare via Internet. Mi era già successo con un caricabatterie per auto: lo avevo acquistato presso una delle catene più note, funzionava benissimo, ma dopo un aggiornamento il mio smartphone annunciò che era (diventato) “incompatibile”. Evidentemente chi produceva quel caricabatterie non aveva corrisposto il “dovuto” al produttore dello smartphone (non farò nomi), e la risposta era stata drastica: penalizzando non solo le vendite future di quella marca, ma anche gli “incolpevoli” possessori - come me - di caricabatterie acquistati nel passato. Più di recente il caso Apple, apparso sui giornali di tutto il mondo, e forse (se i sospetti della nostra magistratura si rivelassero corretti) un simile caso Samsung. Apple, senza preavviso alcuno sui contenuti di un aggiornamento, ha “rallentato” il funzionamento degli iPhone di qualche anno fa: per motivi di funzionalità secondo la società, per incentivare la vendita dei nuovi modelli secondo molti commentatori. Se questa tesi fosse vera ci troveremmo di fronte a una rilettura innovativa e molto più efficace della tradizionale “obsolescenza programmata”: per la possibilità di inviare al momento più opportuno il messaggio di morte, con esecuzione immediata, invece che essere costretti a decidere in largo anticipo l’orizzonte di vita approssimativo del prodotto, con una forte incertezza sulla data precisa del decesso. Sono due episodi che ci devono far riflettere, perché il meccanismo degli “aggiornamenti automatici” via Internet si sta diffondendo a macchia d’olio, con il passaggio al modello cloud. Esso è ovviamente utilizzato per aggiornare i sistemi operativi dei PC e renderli impermeabili ai nuovi attacchi informatici, ma più generale tende a essere presente ovunque ci sia un software da manutenere e (se possibile) da migliorare. È il caso quest’ultimo reso famoso da Tesla, che vende le sue auto elettriche insieme con la promessa di migliorarne continuamente il funzionamento – nel futuro - attraverso la messa a disposizione via Internet di software sempre più sofisticati. Siamo in presenza, in altre parole, di uno strumento che può essere straordinariamente utile, ma che può anche essere utilizzato per scopi “impropri”. Alla stregua di quello che molte banche fanno da sempre, aggiustando i bilanci a fine anno scaricando silenziosamente costi - anch’essi “impropri” - sui clienti. Alla stregua di quello che potrebbe accadere in futuro ai possessori di auto, piuttosto che di elettrodomestici, quando diventerà generale il check-up via Internet del buon funzionamento dei diversi componenti e l’avviso immediato ai clienti delle necessità di intervento: le case automobilistiche e i produttori di elettrodomestici potrebbero, come visto per le banche, segnalare guasti inesistenti per gonfiare i fatturati dei loro centri di assistenza e le vendite di ricambi. In sintesi, occorre favorire al massimo la diffusione di questi meccanismi innovativi di aggiornamento e di check-up continuo, per i notevoli vantaggi che essi possono dare. Ma occorre nel contempo, essendo questi servizi - senza precedenti nella storia - una parte integrante dei prodotti, che vengano evidenziate nei contratti di vendita (così come avviene per la tradizionale definizione delle garanzie) le regole di correttezza e di trasparenza che i produttori si impegnano a seguire. È opportuna una definizione legislativa (almeno a livello UE) delle “regole del gioco”, con le connesse sanzioni; ma forse ancora più importante è il controllo “dal basso”, che sarebbe sicuramente favorito - nel nostro Paese - da una maggiore diffusione delle associazioni di consumatori.
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COVER STORY
Veloci, incrociati, aperti: i percorsi di innovazione nell’era della disruption
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Il digitale è un gioco di squadra: entrano in campo le Line of Business
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Agos, come agire da startup per innovare
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Pelliconi: dai tappi alla realtà aumentata
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E.ON: l’innovazione è più agile se è partecipativa
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BNL, l’innovazione è cloud: condivisa ma monitorata
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Le imprese digital volano in Borsa. È in arrivo una nuova bolla?
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Alessandra Luksch e Stefano Mainetti, Politecnico di Milano
Gabriella Scapicchio, Responsabile Innovation Lab, Agos Matteo Mingardi, Innovation Manager, Pelliconi Daniela Leotta, Innovation & Marketing Director, E.ON Gianandrea Bertello, Responsabile Marketing, Divisione Corporate BNL Gruppo BNP Paribas Umberto Bertelè, Professore emerito di Strategia, Politecnico di Milano MANAGEMENT
Porter: con la realtà aumentata colmeremo il gap tra mondo reale e mondo digitale
26
Persone, innovazione e competenze: gli ingredienti per il successo
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Automazione e lavoro, Italia a rischio “digitalizzazione lenta”: decisivi formazione e imprenditorialità
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Michael E. Porter, Bishop William Lawrence University Professor, Harvard Business School Nerio Alessandri, Presidente Technogym; Fabrizio Di Amato, Presidente Gruppo Maire Tecnimont; Donato Iacovone, Managing Partner EY Mediterraneo
DIGITAL TRANSFORMATION
Hr -Tre imprese italiane su 4 non trovano laureati con gli skill digitali che cercano
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Hr - Zambon, tutto il personale a “scuola di digitale”
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Hr - I Direttori HR italiani e le sfide della Digital Innovation
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Manufactoring - Digital Blue Collar e Operaio 4.0: il lavoratore manuale nell’era digitale
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Marketing - Marketing Manager Omnichannel, un direttore d’orchestra a fianco dell’AD
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Supply Chain - Bayer Italia “vede” in real time consegne e costi di trasporto
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Finance - Quattro Chief Finance italiani definiscono il CFO “future-ready”
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Andrea Rangone, Ceo Digital360
Simonetta Bocca, Head of Global HR, Open Organization & Digital Strategy, Zambon
Laura Cavallaro e Marco Planzi, P4i - Partners4Innovation
Giuliano Noci, Ordinario di Strategia e Marketing, Politecnico di Milano Michele Palumbo, Head of Supply Chain Management, Bayer Italia
REPORTAGE
Procure-to-Pay, i benefici del digitale tra Big Data, Supply Chain e compliance
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PMI e innovazione digitale: correre sul treno della ripresa economica
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NORMATIVE
Il regolamento UE sul trattamento dati e la pubblicità online di Google e Facebook Gabriele Tori, Legal Consultant, P4I-Partners4innovation
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RUBRICA | RICERCHE E STUDI
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RUBRICA | NOMINE
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C OV E R S TORY di
ANNALISA CASALI
ALESSANDRA LUKSCH
Veloci, incrociati, aperti: i percorsi di innovazione nell’era della disruption
DIRETTORE DELL’OSSERVATORIO DIGITAL TRANSFORMATION ACADEMY E STARTUP INTELLIGENCE, POLITECNICO DI MILANO
L’innovazione incrementale, quella tradizionale che migliora la qualità o l’usabilità dei prodotti, lascia spazio anche in Italia a modelli più adatti al nuovo scenario: agili, collaborativi, aperti al mondo esterno e alle startup, in grado di portare risultati concreti nel breve periodo. E per accelerare la digital transformation si cerca di stimolare la creatività e lo spirito imprenditoriale dei dipendenti
L’innovazione, specie quella digitale, assume un ruolo sempre più centrale nelle strategie delle aziende italiane. Si tratta, perlopiù, di un’innovazione incrementale, che si propone di migliorare o trovare nuovi casi d’uso per prodotti o servizi tradizionali. Ma sono numerose le grandi aziende che negli ultimi anni hanno spalancato le porte a una modernizzazione più dirompente, discontinua e “di frontiera”. «L’innovazione, al giorno d’oggi, è spesso guidata dall’invenzione scientifica e tecnologica – commenta Stefano Mainetti, CEO di PoliHub e Responsabile Scientifico dell’Osservatorio Digital Transformation Academy e Startup Intelligence del Politecnico di Milano –. I cicli di sviluppo dei nuovi prodotti si accorciano e le organizzazioni si sono rese conto che i tradizionali modelli di governance dei progetti sono anacronistici rispetto alla rapidità con cui si muove il mercato. Il risultato è un’innovazione più agile, collaborativa e aperta | 6 |
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all’esterno. La direzione ICT, che in passato era un silo, oggi è un hub, il centro nevralgico su cui convergono e da cui si dipanano gli sforzi innovativi delle LOB (Line of Business) e dei partner esterni, ormai sempre più coinvolti nei processi di rinnovamento». A conferma di questo trend arrivano i risultati della ricerca dell’Osservatorio Digital Transformation Academy e Startup Intelligence del Politecnico di Milano, che fotografa l’interesse crescente delle realtà nostrane verso l’Open Innovation e il ricorso a fonti di innovazione finora poco utilizzate come startup, centri di ricerca, università, clienti e aziende non concorrenti. «In Italia, quasi un’azienda su 4 fa Open Innovation – commenta Alessandra Luksch, Direttore dell’Osservatorio –. Il 38% delle imprese collabora con le startup e il 7% lo fa da più di 3 anni. Per il 37% delle aziende le partnership riguardano l’area della ricerca e sviluppo, mentre per il 19%
C OV E R S TORY | V E L OCI , APE R T I , IN C RO C IAT I: I P E RC O RSI DI IN N OVA Z IO N E N E L L’ E RA DE L L A DISRUP TION
STEFANO MAINETTI CEO DI POLIHUB, RESPONSABILE SCIENTIFICO OSSERVATORIO DIGITAL TRANSFORMATION ACADEMY E STARTUP INTELLIGENCE, POLITECNICO DI MILANO
quella commerciale». A cambiare, però, non è solo l’ecosistema degli interlocutori, ma soprattutto la modalità con cui si realizza l’innovazione, veicolata attraverso nuovi modelli operativi e culturali. COME RIMUOVERE GLI OSTACOLI ALL’INNOVAZIONE Cresce e si rafforza la cultura dell’innovazione e parallelamente aumenta la necessità di rivedere l’organizzazione in termini di ruoli, competenze e processi. L’obiettivo è migliorare la capacità di assorbire conoscenza dall’esterno, “scovare” opportunità e talenti e aumentare il coinvolgimento del top management. Gestire l’innovazione non è facile. La principale sfida organizzativa è legata al coordinamento e alla corretta gestione dei processi che coinvolgono più LOB. Il 39% delle aziende interpellate nell’ambito dell’Osservatorio lamenta, infatti, la difficoltà di definire strutture, ruoli e meccanismi di coordinamen-
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COVER STORY | VE L OCI , APE R T I , I NCR OCI AT I : I PE R CO RSI DI IN N OVA Z IO N E N E L L’ E RA DE L L A DISRUP T IO N
La direzione ICT, che in passato era un silo, oggi è un hub, il centro nevralgico su cui convergono e da cui si dipanano gli sforzi innovativi delle Line of Business e dei partner esterni, sempre più coinvolti nei processi di rinnovamento to tra diverse direzioni. A frenare i processi di modernizzazione in azienda è, poi, soprattutto la necessità di reperire, valutare e sviluppare le competenze digitali (33%), il bisogno di coin-
volgere i dipendenti nei processi di innovazione (29%) e la difficoltà di definire nuove forme di collaborazione con i fornitori tradizionali (27%). Più di un’azienda su 2 (il 55%) ha già avviato
Budget ICT in crescita: ecco le tecnologie su cui investiranno le aziende nel 2018 Crescono i budget ICT per l’anno appena iniziato, a conferma del maggior peso che la digital transformation si ritaglia all’interno dei processi innovativi delle aziende italiane. È l’Osservatorio Digital Transformation Academy del Politecnico di Milano a confermare un incremento degli stanziamenti in tecnologie informatiche per quasi 4 aziende su 10 (il 36%), con un tasso stimato fra un +1,8% e un +1.9% (l’anno scorso la previsione oscillava tra un +0,5% e un +0,6%). In particolare, il 22% delle aziende prevede un aumento contenuto entro il 10% mentre il 14% addirittura superiore. Il 52% delle imprese lascerà invariate le risorse, mentre soltanto il 12% prevede di ridurre gli stanziamenti ICT nel 2018.
Gli investimenti saranno convogliati soprattutto nelle aree Big Data/Analytics (citata dal 43% degli intervistati), digitalizzazione e dematerializzazione (34%), consolidamento e aggiornamento delle applicazioni (29%), sicurezza e compliance (28%), Industria 4.0 (23%). L’importanza crescente degli investimenti in innovazione digitale è dimostrata dal fatto che in quasi 4 imprese su dieci (il 39%) esiste un budget dedicato a queste tecnologie anche al di fuori della direzione ICT – in prevalenza all’interno delle direzioni Marketing e Business Development. Gli stanziamenti sono inferiori a quelli della Direzione ICT nel 29% dei casi, mentre sono comparabili o superiori nel 10%.
PRIORITÀ DI INVESTIMENT0 PER L’INNOVAZIONE NEL 2018
43%
Business Intelligence, Big Data e Analytics
34%
Digitalizzazione e dematerializzazione
29%
Consolidamento Applicativo, sviluppo e rinnovamento ERP
28%
Information Security, Compliance e Risk Management
23% 21%
Industry 4.0 Sviluppo e rinnovamento CRM
20%
Soluzioni eCommerce
17%
Mobile & Web social Marketing
15%
Data center, Information Management, virtualizzazione
Sistemi Cloud Internet of Things
11%
Smart Working, Mobile Workspace, sistemi di Collaboration
10% 7%
Cognitive Computing, Machine Learning, Artificial Intelligence
1%
Soluzioni Blockchain & distributed ledger 0
Base rispondenti: 264
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Fonte: Politecnico di Milano
12% 11%
Mobile Business
10
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40
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Di fatto non esiste un modello organizzativo dominante per la gestione dell’innovazione, ma si rivela fondamentale la capacità di interiorizzare una nuova cultura di imprenditorialità diffusa e pervasiva, che coinvolga tutti i dipendenti azioni utili a favorire l’attitudine imprenditoriale del proprio staff. Le più praticate sono la formazione (citata nel 40% dei casi), gli innovation lab interni (28%), i contest e gli hackathon (14%), la mentorship di dipendenti (7%) e le startup (4%). Dalla ricerca Polimi emerge, però, come di fatto non esista un modello organizzativo dominante per la gestione dell’innovazione, ma si rivela fondamentale la capacità di interiorizzare una nuova cultura di imprenditorialità diffusa e pervasiva, che coinvolga tutti i dipendenti. CON LA CORPORATE ENTREPRENEURSHIP IL DIPENDENTE DIVENTA IMPRENDITORE I dipendenti, infatti, rappresentano un asset critico per imprimere un’accelerazione ai processi innovativi delle aziende, specie se queste operano in business consolidati. Il loro atteggiamento ostile può compromettere la riuscita di progetti anche ben strutturati. Al contrario, il management che coinvolge e incentiva i dipendenti sovente riesce a “scovare” e far emergere i talenti nascosti: inventori e innovatori che, altrimenti, difficilmente potrebbero dimostrare le proprie capacità, frenati dai processi eccessivamente strutturati e dai ruoli consolidati tipici delle aziende tradizionali. Negli ultimi anni si sta affermando un nuovo
approccio organizzativo e gestionale che mira a coinvolgere il dipendente per trasformarlo in un imprenditore di se stesso, e stimolarlo a rischiare ed esprimere al meglio la propria creatività: la Corporate Entrepreneurship. Questo modello consiste nell’applicare le logiche e i processi tipici delle startup all’interno delle organizzazioni tradizionali, sostituendo con approcci Agile e Lean processi di sviluppo del business altrimenti troppo “ingessati” e anacronistici, che mal si adattano alla velocità degli ambienti competitivi moderni. La Corporate Entrepreneurship promette di favorire il cambio di rotta dei modelli di business tradizionali, spingendo i dipendenti a sperimentare l’ignoto (ed esorcizzando anche il rischio del fallimento), e accelerando il corso di progetti innovativi dirompenti che guardano a nuovi mercati o trasformano completamente l’offerta esistente. «Sviluppare la Corporate Entrepreneurship, ricorrere all’Open Innovation e collaborare con le startup – conclude Alessandra Luksch –: queste sono le prossime sfide che le aziende italiane dovranno affrontare per migliorare la propria attività e favorire lo sviluppo del sistema economico nel suo complesso, facendo leva su un nuovo approccio al lavoro ispirato all’imprenditorialità e all’innovazione».
AZIONI ADOTTATE PER FAVORIRE L’ATTITUDINE IMPRENDITORIALE IN AZIENDA
45%
Nessuna
40%
Formazione
28%
Innovation Lab/Community
14%
Fonte: Politecnico di Milano
Contest e Hackathon interni Supporto a startup con mentorship da parte di propri dipendenti
7%
Supporto a startup avviate da dipendenti
4%
Varie
4%
Base rispondenti: 271
0
10
20
30
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COVER STORY di
MANUELA GIANNI
Il digitale è un gioco di squadra: entrano in campo le Line of Business La digital transformation è diventata pervasiva e trasversale: nascono progetti strategici in ogni funzione aziendale, da Marketing e Vendite all’HR, fino a Procurement e Supply Chain. Cresce la collaborazione interna, perché la revisione dei processi supera la classica visione a silos. È un cambio di passo importante La trasformazione digitale per moltissime imprese italiane è ormai un piano concreto di attività, progetti e iniziative che coinvolgono tutta l’organizzazione. L’innovazione è diventata pervasiva e ha definitivamente travalicato il confine della direzione ICT, diventando una priorità strategica per le Line of Business. È un cambio di passo significativo, che abbiamo avuto modo di riscontrare in modo evidente negli ultimi mesi partecipando a convegni e intervistando manager di tante eccellenze italiane, soprattutto nelle grandi aziende e nelle multinazionali (anche quelle “tascabili”) del made in Italy. Tutti confermano che per restare rilevanti sul mercato non solo serve uno sforzo per rivedere prodotti, processi e modelli di business. Serve anche ripensare il concetto stesso di innovazione. Se fino a pochi anni fa erano soltanto i CIO a guidare i progetti che prevedono l’adozione di nuove tecnologie, oggi sono i manager di Linea – affiancati dalle direzioni ICT – i principali promotori di iniziative di digitalizzazione e ridisegno dei processi che sono chiamati a governare: è così nel Marketing e nelle Vendite, impegnati in progetti omnichannel e per migliorare la customer experience; nelle direzioni HR, chiamate a colmare i gap di competenze digitali o ad adottare nuovi tool di HCM a supporto dei processi; è sempre più vero per i responsabili Procurement e Supply Chain, dove l’uso di piattaforme online B2B garantisce risparmi importanti, trasparenza e velocità. In questi progetti, tutte le divisioni sono spesso coinvolte in modo collaborativo: la revisione profonda dei processi in chiave digitale e la ricerca di soluzioni innovative che diano slancio alle aziende non possono | 10 |
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essere più gestiti nella tradizionale visione a silos, ma richiedono commitment a tutti i livelli apicali. Ma c’è di più. Si è diffusa con forza la consapevolezza che per fronteggiare giovani e agili concorrenti, società nate in questi ultimi anni con un DNA al 100% digitale (una minaccia che spesso arriva da settori anche molto distanti da quello in cui le imprese hanno operato per lungo tempo) serve uno scatto in avanti in termini di cultura, che significa non solo competenze digitali e famigliarità con servizi e tecnologie di nuova generazione, ma anche spirito imprenditoriale, pensiero laterale e creatività. Tante aziende hanno quest’anno avviato iniziative interdisciplinari, spesso guardando al di fuori del proprio perimetro in un’ottica Open Innovation: formazione, Innovation Lab, Contest e Hackathon interni, nuove relazioni con start up. Lo sviluppo di cultura e competenze digitali è inoltre la principale sfida per le Direzioni HR delle imprese. La trasformazione organizzativa va di pari passo con gli investimenti in digitale, che ora disegnano una nuova mappa. Lo conferma una recente survey degli Osservatori Digital Innovation, che ha verificato la presenza di interessanti budget per l’Innovazione Digitale, oltre al budget della Direzione ICT, nel 39% delle imprese intervistate, allocati nelle diverse Line of Business e principalmente nelle Direzioni Marketing, Digital e Business Development. Certo, la strada resta lunga e piena di insidie. L’Italia continua a scontare, a livello di sistema e PA, un ritardo importante rispetto ai paesi più avanzati. Ma il cantiere è aperto e lavora a pieno regime, con il coraggio, l’impegno e la determinazione di tanti innovatori.
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ANNALISA CASALI
GABRIELLA SCAPICCHIO RESPONSABILE INNOVATION LAB AGOS
Agos, come agire da startup per innovare La società del Gruppo Crédit Agricole punta su un Innovation Lab e un incubatore interno di idee per stimolare lo sviluppo di nuovi prodotti e servizi, accelerandone l’industrializzazione. L’uso di metodologie Agile, Design Thinking e Lean Management assicura una verifica rapida delle idee proposte. «Fondamentali la formazione e il sostegno del top management: si può innovare bene anche con pochi mezzi»
«In Agos l’innovazione non è un evento, ma un processo che inizia con un’idea e finisce con un prodotto». È un’innovazione concreta e tangibile, quindi, quella promossa dalla società del gruppo Crédit Agricole che da 30 anni in Italia si occupa di credito al consumo. A chiarirlo è Gabriella Scapicchio, Responsabile Innovation Lab di Agos, un passato nel Marketing e una nuova carriera iniziata meno di due anni fa, a maggio 2016, quando le fu proposta una job rotation allettante ma sfidante: creare e supervisionare il nuovo polo interno dell’innovazione con una dotazione, a regime, di sole 4 risorse. Come nasce in Agos l’idea di creare un polo di innovazione interna? Tutto parte dalla creazione della nuova Direzione Digital Strategy, a gennaio 2016, al cui vertice c’è il Condirettore Generale della società, Vincent Mouveroux, al quale io oggi riporto. In quel frangente è stato deciso di creare una funzione dedicata all’innovazione | 12 |
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di prodotti, processi e servizi, nell’ambito della nostra strategia di medio termine Agos2020. L’Innovation Lab è nato il primo maggio 2016 e il mandato del mio capo era chiaro. Dovevo coinvolgere tutta l’azienda e posizionare l’Innovation Lab, con le sue scarse risorse, al centro delle strategie di Agos. L’idea era creare un abilitatore che fungesse da supporto alle diverse direzioni aziendali perché le LOB stesse fossero in grado di innovare in relativa autonomia il proprio business. Quali sono stati i passaggi salienti del progetto? Il primo passo è stato creare una Innovation Community per ingaggiare gli utenti. I consulenti di Partners4Innovation ci hanno aiutato a stilare il test “Che innovatore sei?” da proporre su base volontaria ai nostri dipendenti e manager. A maggio 2016 abbiamo inviato le e-mail e ci hanno risposto ben 1400 dipendenti, il 70% del totale. Sulla base delle risposte, sono stati selezionati 30 dipendenti (oggi 35, ndr), di diversa estrazione, seniority e competenze, che hanno
COV E R ST O RY | AGOS, COME AGIRE DA STARTUP PER INNOVARE
formato il primo nucleo dell’Innovation Lab. Questi ‘ambasciatori dell’innovazione’ dedicano allo sviluppo di nuove idee il 20% del loro tempo, l’equivalente di un giorno a settimana. Suddivisi in team di 5 persone, si incontrano in modo virtuale su piattaforme di collaborazione come Skype o Hangouts. A ogni gruppo è stato assegnato un tema, individuato da una Call4Brief condotta tra i manager, da sviluppare in modo Agile, rilasciando un prototipo entro 3 o 4 mesi al massimo. Quali metodologie applicate per accelerare i processi innovativi? Dopo i primi mesi abbiamo capito che gli ambasciatori dell’innovazione ragionavano più velocemente dei loro colleghi e trasmettevano i nuovi principi di innovazione anche al resto dell’organizzazione aziendale. Così abbiamo avviato alcuni cicli di formazione, partendo dal management. Le formule sono diverse. Il Lean Innovation Express è una due-giorni in cui si impara a lavorare in team di circa 20 membri, seguendo approcci di Lean Innovation, pensando e agendo come delle startup, quindi partendo non più dall’idea ma dal bisogno del cliente: un cambio di mentalità radicale per una realtà come la nostra. Poi abbiamo sviluppato il concetto del brainstorming, già applicato in azienda ma oggi più pervasivo. Infine abbiamo adottato alcune metodologie consolidate di innovazione come Value Proposition Canvas e Blue Ocean Strategy. Da gennaio 2017 abbiamo ampliato le attività di training creando il nuovo format Innovation Café. Si tratta di una formazione “compressa”, con sessioni di design thinking di 4 ore ciascuna, organizzate nelle principali città della nostra Rete di Vendita sul territorio nazionale. Una sorta di brunch allungato, durante il quale le persone sperimentano le tecnologie di prototipazione e innovazione rapida. I prototipi così ottenuti (mockup, ndr) sono caricati sulla nostra Intranet e seguono un percorso di validazione che può portare a nuovi prodotti e servizi a portafoglio. Finora abbiamo già coinvolto 500 dipendenti e 200 agenti in 25 giornate organizzate in 13 location innovative in altrettante città.
passa da tre step: l’ultimo è l’Innovation Board, un comitato di 7 top manager dell’azienda e un esterno. Quali sono gli elementi chiave del successo dell’Innovation Lab? L’ingrediente principale sono le persone. Il fatto di poter far leva sui nostri colleghi e scoprire, in molti casi, dei talenti nascosti, ci ha molto aiutato. Altro elemento cruciale è stato lo sviluppo di un’intelligenza collettiva, che premia il lavoro del team più che il contributo del singolo, per cui l’idea vincente è arricchita da spunti e suggerimenti di tutto il gruppo e nessuno si sente l’artefice esclusivo del successo di un prototipo. Un aspetto fondamentale dell’Innovation Lab è la sua frugalità. Noi lavoriamo con poche risorse e poco tempo e questo contribuisce a stimolare la creatività. Senza dimenticare che per il successo dell’iniziativa è stato decisivo il sostegno del top management, unito alla collocazione volutamente indipendente e trasversale dell’Innovation Lab nell’organigramma di Agos». Qual è il bilancio di questi primi 18 mesi di attività? Con l’Innovation Lab, e ancor di più con l’Incubation Program, viene stimolato il pensiero imprenditoriale e vengono sollecitati i contributi concreti all’innovazione, tanto che sono state raccolte circa 200 idee tra ottobre 2016 e maggio 2017. Al momento abbiamo 35 prototipi in corso: alcuni stanno per andare in produzione, altri sono in pivotaggio e diventeranno a breve dei pilota. Come Innovation Lab lavoriamo già con una ventina di uffici aziendali e ci occupiamo di innovazione a tutto campo. A gennaio 2017 è stato avviato un progetto strutturato sull’intelligenza artificiale e le sue applicazioni nei nostri processi. Attualmente abbiamo circa 20 Proof-of-Concept che spaziano dai processi interni come lo scoring del credito ai chatbot. I prototipi vengono testati sul mercato aperto o nel Collab Agos, una community in cui i clienti (7500 quelli registrati, ndr), su base volontaria, a fronte di incentivi, si rendono disponibili a testare le versioni Beta dei nostri prodotti e servizi.
«L’Agos Incubation Program, un acceleratore interno dell’innovazione, mutuando le tempistiche degli approcci Agile e Lean, porta dall’idea al prototipo in 12 settimane. In 3 mesi, quindi, riusciamo a capire se un’idea può essere portata avanti o va abbandonata»
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Quali sono state le principali difficoltà riscontrate? Quasi subito abbiamo capito che occorreva un processo strutturato per snellire le procedure burocratiche legate ai processi innovativi. Per questo la scorsa estate è nato l’Agos Incubation Program, un acceleratore interno dell’innovazione che, mutuando le tempistiche tipiche degli approcci Agile e Lean, porta dall’idea al prototipo in 12 settimane. In 3 mesi, quindi, riusciamo a capire se un’idea potrà essere portata avanti oppure dovrà essere abbandonata. I prototipi che superano il processo di validazione, poi, di solito sono sviluppati esternamente, avvalendosi di un ecosistema di startup. Il processo di selezione delle idee
COV E R S TORY di
MANUELA GIANNI
intervista a
MATTEO MINGARDI INNOVATION MANAGER PELLICONI
Pelliconi: dai tappi alla realtà aumentata Trasformazione digitale, espansione internazionale e sviluppo di nuovi business che fanno leva sulle competenze di eccellenza e sulle relazioni con clienti e fornitori. Si muove su queste direttrici la strategia di crescita del gruppo bolognese, multinazionale “tascabile” leader nel settore beverage con circa 600 dipendenti e impianti produttivi in tutto il mondo
Specializzata nella produzione di chiusure in metallo e plastica per il mondo del food&beverage, Pelliconi è un bell’esempio di multinazionale italiana tascabile, con una strategia di crescita ambiziosa che corre su due binari paralleli: l’internazionalizzazione e l’innovazione. Dalla fondazione, avvenuta a Bologna nel 1939 ad oggi, Pelliconi è stata sempre diretta con una visione ben precisa: trasformare una commodity in un bene distintivo che identificasse e distinguesse il suo cliente. Grazie alla visione lungimirante dell’AD Marco Checchi, Pelliconi ha vissuto negli ultimi 10 anni una forte espansione, arrivando ad una capacità produttiva di 30 miliardi di capsule all’anno (vendute a clienti del calibro di Nestlé, Carlsberg, Heineken, AB InBev e molti altri big del settore), un organico che ormai supera i 600 dipendenti e cinque stabilimenti nel mondo (erano 2 nel 2007). Dal 2008, dopo l’apertura in Egitto è stato avviato lo stabilimento negli Stati Uniti, e quello in Cina, per terminare, pochi mesi fa, con | 14 |
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l’acquisizione del pacchetto di maggioranza della Oriental Containers Ltd in India che porterà i dipendenti a 1700 circa e il fatturato da 130 a circa 200 milioni di euro. INNOVAZIONE INTERNA E NUOVE OPPORTUNITÀ DI BUSINESS Nella visione globale del business si inserisce un approccio deciso all’innovazione, considerata una leva determinante per prepararsi al futuro in un mondo che si sta rapidamente trasformando. Così nel 2016, a Bologna viene creato un nuovo Dipartimento Innovazione, collocato, non a caso, a circa 200 metri di distanza dal quartier generale e affidato all’Innovation Manager Matteo Mingardi, che ha portato in azienda la propria esperienza maturata nel mondo della consulenza e dell’automotive. Il mandato di Mingardi è duplice. Da un lato innovare processi, prodotti e materiali, ovvero lavorare come
COVE R ST O RY | PELLICONI: DAI TAPPI ALLA REALTÀ AUMENTATA
Ricerca e Sviluppo interna all’ecosistema della Corporate, valutando tutte le tecnologie disponibili sul mercato e la loro implementazione, in collaborazione con le altre funzioni aziendali. Dall’altro, individuare nuove opportunità e modelli di business, facendo leva sulle competenze e relazioni del Gruppo, fornitori e clienti, alzando lo sguardo oltre i confini del mercato attuale e creando risultati tangibili che hanno impatti immediati sul business. «Il tappo corona, che è il nostro prodotto più noto, ha una storia di successo lunga quasi 100 anni, ma i business cambiano e il digitale sta trasformando i mercati: dobbiamo prepararci a mettere in discussione processi e attività consolidate. Parte del mio mandato è individuare start up e nuovi modelli di business, valutando opportunità per diversificare l’attività». LA PIATTAFORMA DIGITALE DAPP La prima idea è già pronta: con il supporto di una software house specializzata, Pelliconi ha sviluppato una piattaforma digitale (DAPP) che permette di “leggere” con il cellulare un “marker”, che può essere situato sia sulla superficie interna che esterna della chiusura, e abilitare così diversi servizi sfruttando le nuove tecnologie: realtà aumentata in primis, dando la possibilità ai clienti di veicolare ai consumatori qualsiasi tipo di contenuto multimediale (canzoni, filmati, animazioni 3D, giochi), l’analisi dei dati (DAPP Analytics) derivanti dalle attività promozionali e di consumo, la tracciabilità e tanto altro ancora. «Nel 2018 diventeremo una NewCo separata dall’azienda principale - specifica Mingardi - con l’obiettivo di diventare un riferimento per la digital transformation del mondo beverage. Avremo così una nuova identità, che permetterà di proporre ai nostri clienti un prodotto a forte valore aggiunto, spingendo l’evoluzione del tappo che è una commodity». DAPP è stata lanciata a settembre in occasione del Drinktec di Monaco, la più importante
fiera del settore beverage, con un ottimo riscontro. «Esistono una versione end user, che permette di attivare la realtà aumentata, ideale per il consumer engagement attraverso promozioni e giochi e una versione aziendale, ad esempio per la configurazione di macchine, tracking dell’ordine e analisi dei dati. La stiamo proponendo alle direzioni Marketing e Supply Chain. Cina e Africa sono il nostro primo target», specifica il manager. 20 PROGETTI IN CANTIERE Sempre nell’ottica di diversificare l’offerta, il team di Mingardi sta lavorando su altri ambiti sinergici con il core business di Pelliconi. «Abbiamo 20 progetti in cantiere. Ogni 3 mesi presentiamo le iniziative al board. Puntiamo sulle nostre competenze distintive in ambito meccanico, chimico, e nei processi di beverage e siamo molto esposti verso l’esterno, in ottica open innovation: puntiamo a creare partnership, in ambito tecnico e commerciale, con fornitori e clienti. Creare un networking di relazioni durature è fondamentale anche se richiede tempo. Per questo per la Newco sono importantissime competenze di gestione e project management». L’altra anima dell’innovazione, come citato, è quella che guarda all’interno del Gruppo, che significa scouting di metodologie, materiali e tecnologie per efficientare il processo, per essere più competitivi. Qualche esempio? «Tecnologie al plasma per migliorare l’ancoraggio delle vernici, nuovi inchiostri food approved che permettono di eliminare forni, nuove plastiche per la guarnizione, la parte che sigilla e garantisce le performance di tenuta del tappo: è molto importante, basti pensare che deve resistere a 10 bar di pressione. E stiamo abbracciando l’Industria 4.0: in una produzione così energivora e su questi volumi si possono fare ottimizzazioni importanti», conclude il manager.
Pelliconi, che produce 30 miliardi di capsule l’anno, ha sviluppato una piattaforma digitale (DAPP) che permette di “leggere” con il cellulare un “marker”, che può essere situato sia sulla superficie interna che esterna della chiusura, e abilitare così diversi servizi sfruttando nuove tecnologie come la realtà aumentata www.digital4executive.it
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DANIELA LEOTTA INNOVATION & MARKETING DIRECTOR E.ON
E.ON: l’innovazione è più agile se è partecipativa Il riposizionamento che proietta la società al centro della trasformazione “smart” del settore energetico coincide con una rifocalizzazione su innovazione e sperimentazione caldeggiata dal nuovo CEO Péter Ilyes in Italia. Per questo è nata la divisione Innovation & Marketing, guidata da Daniela Leotta, che promuove la filosofia Lean Startup per stimolare tutto il personale a contribuire al cambiamento, ciascuno con i propri ritmi
E.ON è tra le maggiori utility al mondo a capitale privato. La multinazionale tedesca - 43mila dipendenti, 38 miliardi di euro di fatturato - negli ultimi anni ha affrontato una fase di profondo rinnovamento, passando da un business prevalentemente tradizionale a uno più sostenibile e interconnesso. Il processo si è esteso anche all’Italia, sotto l’occhio attento del nuovo CEO e CFO di E.ON Italia, Péter Ilyes, che come ci racconta Daniela Leotta, Innovation & Marketing Director di E.ON, ha avviato una profonda riorganizzazione interna. «Le funzioni operations, vendite e customer care sono state separate dal marketing ed è stata creata una Direzione Innovation & Marketing, di cui ho la responsabilità, con l’obiettivo di focalizzarsi sull’innovazione di lungo periodo». L’innovazione in E.ON ha un’anima tripartita: «C’è l’innovazione incrementale, che permea tutte le funzioni, orientata a migliorare la qualità o l’attrattività delle nostre proposte. Poi c’è la sperimentazione, cioè la ricerca di nuove modalità di interazione con il cliente e di nuovi servizi. Infine c’è | 16 |
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la scalabilità, cioè la traduzione dell’idea innovativa in business vero e proprio». In azienda sono state individuate diverse persone chiave, chiamate a partecipare a veri e propri “cantieri”, cioè assegnate per un periodo di tempo definito al rinnovamento di determinate proposte commerciali. «La nostra funzione ha il compito di raccogliere la voce del cliente, interpretarla e tradurla in nuovi prodotti e servizi facendo da apripista, assumendosi i rischi della sperimentazione e focalizzandosi in particolare sulla spinta digitale», commenta Leotta. CORPORATE ENTREPRENEURSHIP PER STIMOLARE LA CREATIVITÀ Ma in dettaglio come viene stimolata l’innovazione? Fondamentale è la promozione di una Corporate Entrepreneurship che mira a diffondere in E.ON la cultura e il modo di agire snello e agile tipico delle startup. «Ciò significa anche promuovere la cultura del fallimento, che è accettato e considerato come stimolo per rivedere le
COVE R ST O RY | E.ON: L’INNOVAZIONE È PIÙ AGILE SE È PARTECIPATIVA
ipotesi di partenza e trovare nuove possibilità». Il lavoro dei team in questi mesi si è concentrato sull’ampliamento dell’offerta, e in particolare sugli sviluppi per energia solare, digitale ed e-mobility (mobilità elettrica). «La contaminazione interna delle idee è sostenuta a livello di gruppo e la funzione Innovation è volutamente flessibile al momento». È stato definito un core team di 4 persone dedicato all’innovazione sperimentale, il cui compito è sviluppare approcci e metodologie per guidare e supportare il lavoro di innovazione delle LOB (linee di business). A queste persone si affiancano di volta in volta esponenti delle LOB su cui impattano i singoli progetti. L’innovazione incrementale è invece supportata dal team, ma condotta dalle singole LOB per i prodotti e i servizi di loro pertinenza.
a tutta la popolazione lavorativa di E.ON, di cui la maggior parte ha già ricevuto una prima “infarinatura” sui metodi di sviluppo Agile e di Design Thinking. Le persone chiave per i progetti di innovazione hanno invece ricevuto un training più puntuale, oltre alla formazione “on the job” svolta dalle figure esterne – startup e fornitori – che affiancano il personale interno coinvolto
DESIGN THINKING E LEAN STARTUP PER SVELTIRE L’APPLICAZIONE DELLE IDEE Diversi gli strumenti di generazione delle idee adottati. Si va dalle sessioni di brainstorming e Design Thinking alle collaborazioni con startup e atenei come Politecnico di Milano e Università di Padova. Ma un ampio spazio è dedicato ai momenti di “envisioning”, in cui l’azienda si confronta con clienti e Millennials. «Ritengo però che la migliore spinta per l’innovazione sia essere riusciti a creare gruppi con competenze diverse, che possono incontrarsi e confrontarsi anche per un breve periodo su un tema specifico per poi lavorare in relativa libertà alla generazione di nuove idee, in un’ottica di Lean Startup. C’è spesso l’idea di esternalizzare i nuovi business. Noi, invece, ci stiamo impegnando a far sì che le nuove idee nascano, si diffondano, crescano e trovino applicazione entro l’organizzazione». Se le nuove idee sono molto vicine alle richieste dei clienti si fanno dei test sul campo. In caso contrario si passa per una prototipazione rapida, con team snelli di 2-3 persone e tempi di riscontro al massimo di 3 mesi. NON TUTTI SONO DIGITAL CHAMPION, MA TUTTI POSSONO DARE UN CONTRIBUTO Fondamentali, in questo percorso, sono state le attività di “immersione nell’innovazione”, in cui il personale di E.ON incontra e si misura con fondatori di startup o innovation champion di altre aziende. «La formula dell’Innovation Battle sta dando ottimi riscontri – commenta Leotta –. Un ospite esterno che si occupa di innovazione si confronta con una ventina di nostri colleghi, che hanno la possibilità di fargli le domande che vogliono. Si tratta di incontri mirati non solo al business o al mondo digital, ma anche al personale delle funzioni di staff, che vuole capire meglio gli impatti dell’innovazione sul proprio quotidiano». Alcune iniziative di contaminazione e training sono rivolte
nei progetti. Anche newsletter e Intranet aziendale sono veicoli di formazione sull’innovazione con contenuti specifici, occasioni di incontro tra esponenti di LOB diverse che lavorano su progetti simili o al contatto diretto con i clienti. Leotta parla con entusiasmo dei progressi fatti, anche se il percorso non è sempre stato in discesa. «Non tutti si sentono innovatori, all’inizio c’è stata una certa resistenza al cambiamento. L’innovazione va calata, compresa e metabolizzata dall’organizzazione e ciò si ottiene solo generando un senso di sicurezza, rimuovendo gli ostacoli al cambiamento e facendo crescere la consapevolezza che tutti abbiamo un ruolo in questo nuovo mondo. Non tutti sono digital champion, ma tutti possono dare un contributo». Cruciale, quindi, il change management e l’accompagnamento culturale che promuove la sperimentazione e non punisce il fallimento. Il bilancio del 2017 è di diversi prodotti già a portafoglio o pronti a essere lanciati sul mercato, 3 prototipi in fase avanzata e una decina di iniziative avviate alla prototipazione. «L’obiettivo del 2018 – conclude Leotta – è lavorare sempre più con queste metodologie, sia su progetti di innovazione incrementale sia per lanciare nuovi prodotti».
«C’è spesso l’idea di esternalizzare i nuovi business. Noi, invece, ci stiamo impegnando a far sì che le nuove idee nascano, si diffondano, crescano e trovino applicazione dentro l’organizzazione»
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GIANANDREA BERTELLO RESPONSABILE MARKETING DIVISIONE CORPORATE BNL GRUPPO BNP PARIBAS
BNL, l’innovazione è cloud: condivisa ma monitorata Un budget di 3 miliardi in tre anni per gli investimenti tecnologici supporta una strategia generale di generazione di idee sia all’interno che open, orchestrata da una società di business intelligence del gruppo «che scansiona tutti gli spunti di modernizzazione nei settori in cui operiamo, dal finance al real estate alla mobilità», spiega Gianandrea Bertello, Responsabile Marketing Divisione Corporate di BNL Gruppo BNP Paribas
Un’attenzione all’innovazione manifestata in tempi non sospetti, quella di BNL, banca italiana del gruppo internazionale BNP Paribas, la più importante banca dell’Eurozona. Prima che l’uragano fintech si abbattesse sul settore, infatti, lo slogan di BNL era già «La banca per un mondo che cambia», a testimoniare l’impegno a voler guidare l’evoluzione del comparto, più che subirla. «Già nel 2013 – ci spiega Gianandrea Bertello, Responsabile Marketing Divisione Corporate di BNL Gruppo BNP Paribas – abbiamo creato Hello Bank, il primo esempio italiano di banca 100% digitale, con un portale unico a livello pan-europeo. Più di recente, lo scorso settembre, siamo stati i primi in Italia a ospitare sui nostri server una transazione Blockchain, realizzata dalla casa editrice modenese Panini verso una consociata tedesca». L’innovazione generata internamente all’organizzazione (inbound) è sempre stata percepita come un elemento di valore in BNL. «Quel che è | 18 |
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cambiato, negli ultimi tempi, è che stiamo abbracciando anche l’Open Innovation», spiega il manager. L’azienda organizza e gestisce diversi hackathon sia a livello di gruppo che di singole country, per selezionare le startup in grado di supportare i progetti di modernizzazione. Partecipa, poi, attivamente ad alcuni incubatori tecnologici, come l’italiano Magic Wand o il francese Station F, un polo di aggregazione che promuove l’ammodernamento in vari settori, dal banking al beauty. Il tutto nell’ambito di una strategia corporate battezzata “We Are Innovation”. «Al nostro interno, sono fondamentali le attività di scouting sui nuovi filoni di innovazione, che conduciamo attraverso un sistema di Business Intelligence globale gestito da una società del Gruppo BNP Paribas chiamata L’Atelier, una sorta di “sentinella” che scansiona e rileva tutti i possibili spunti di modernizzazione che hanno ricadute sui settori nei quali operiamo, dal finance al real estate alla mobilità
COV E R ST O RY | BNL, L’INNOVAZIONE È CLOUD: CONDIVISA MA MONITORATA
(attraverso Arval, società del Gruppo BNP Paribas – ndr)». Le direttive strategiche dell’innovazione sono quelle previste dal piano industriale “2020”, che prevede investimenti in tecnologia di tutto rispetto: circa 3 miliardi di euro spalmati sul triennio. L’INNOVAZIONE È BIMODALE «Ci sono in genere due modelli attraverso cui gestire l’innovazione nelle aziende – prosegue Bertello –. Il primo prevede di concentrare tutti gli sforzi all’interno di una funzione che riporta direttamente al top management, che contempli sia personale tecnico che uomini “di business”. I vantaggi sono il forte focus sull’innovazione e le sinergie che si creano a livello di competenze. Il limite è che si può generare uno scollamento tra le richieste del mercato e la risposta dell’azienda, perché bisogna essere sicuri che il mercato sia pronto a recepire le innovazioni». Per favorire ciò è nato il secondo approccio, e cioè calare l’innovazione nel quotidiano, all’interno delle direzioni e delle linee di business, per ancorarla da subito alle esigenze del mercato». Anche questo modello, però, pone delle sfide, spiega Bertello. «Chi si occupa di “fare business” sovente è impegnato a ottimizzare il “presente”, non avendo la libertà mentale per sviluppare intuizioni tipiche dell’innovatore, adottando il pensiero laterale, fuori dagli schemi, per cui i progetti finiscono per essere incrementali. L’altra sfida è mettere a fattor
comune esperienze e competenze legate all’innovazione». In BNP Paribas convivono entrambi gli approcci, spiega il manager, che puntualizza come al momento in Italia la scelta privilegiata sia quella di un’innovazione condivisa, non accorpata, ma attentamente monitorata. I vari step dei progetti innovativi più strategici, quelli previsti dal piano industriale, vengono riesaminati periodicamente, dai comitati del top management di BNL e BNP Paribas. CONDIVIDERE DI PIÙ PER INNOVARE MEGLIO Diverse le metodologie in uso per stimolare lo sviluppo delle nuove idee e accorciare i tempi dei processi innovativi. Agile e Design Thinking sono impiegati su larga scala, come anche strumenti che misurino la soddisfazione del mercato rispetto a un’innovazione introdotta. E a chi gli chiede quale sia la ricetta per un’innovazione di successo, Bertello risponde che «il network ha un valore immenso. L’innovazione è poco gerarchica e burocratica… è molto cloud. Le organizzazioni troppo spesso hanno paura di perdere il controllo sull’innovazione e finiscono per renderla un patrimonio esclusivo di poche persone. Il mio consiglio, invece, è di fare rete, sia all’interno delle aziende che all’esterno, alimentando la condivisione delle competenze, perché solo così si generano idee e si ottimizzano le iniziative».
Gli step dei progetti innovativi più strategici, previsti dal piano industriale, sono riesaminati periodicamente, dai comitati del top management di BNL e BNP Paribas
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Le imprese digital volano in Borsa È in arrivo una nuova bolla?
UMBERTO BERTELÈ
PROFESSORE EMERITO DI STRATEGIA POLITECNICO DI MILANO
Gli indici generali dei mercati finanziari sono in continuo aumento, trascinati soprattutto dalla impressionante crescita del valore, negli ultimi 4 anni, di un numero limitato di grandi imprese digitali: Apple, Google, Amazon, Facebook, Microsoft e le cinesi Alibaba e Tencent. Che ora devono però fronteggiare le reazioni generate da questo successo, sia da parte dei consumatori che del legislatore. L’analisi di Umberto Bertelè
Siamo a rischio di scoppio di una nuova “bolla”, dopo la “Internet bubble” dell’inizio di questo secolo? La crescita ininterrotta degli indici generali di Borsa, ben al di là di quella dell’economia globale, ha spiegazioni razionali? È la tecnologia il motore principale di questa crescita, e se sì le aspettative dei mercati finanziari hanno un fondamento? Domande legittime cui è difficile dare risposte nette, soprattutto alla prima. Cercherò però di fornire un quadro - spero chiaro - sui diversi punti. LE POLITICHE MONETARIE ESPANSIVE FAVORISCONO LA MOLTIPLICAZIONE DEI CAPITALI A CACCIA DI RENDIMENTI Il rialzo continuo delle Borse è sicuramente legato alle politiche monetarie espansive delle banche centrali delle aree più ricche e alla crescita del debito pubblico (favorita dai bassissimi | 20 |
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tassi di interesse) nelle aree più povere. Sono enormi i capitali alla ricerca di rendimenti, con una preferenza (purtroppo) per gli investimenti finanziari rispetto a quelli reali. Un cambiamento brusco e radicale di queste politiche potrebbe avere un impatto pesante, sia sulle economie soprattutto su quelle più indebitate - sia sulle Borse: è quello che accadde con il tentativo di rientro dalle politiche monetarie espansive postbolla Internet e post-Twin Towers, ed è per questo che sia la FED-Federal Reserve statunitense sia la BCE-Banca Centrale Europea si stanno muovendo con i piedi di piombo. GLI UTILI NETTI DELLE IMPRESE SI MANTENGONO SU LIVELLI STORICAMENTE ELEVATI Nell’eterna lotta fra capitale e lavoro, è il capitale che sembra prevalere in questa fase sto-
COV E R ST O RY | L E IMP RE SE DIG ITA L VO L A N O IN B O R SA
rica. Continuano a essere mediamente elevati gli utili netti delle imprese, favoriti dai livelli di disoccupazione ancora alti in molti Paesi e dalla possibilità per le imprese stesse - sfruttando la globalizzazione - di scegliere le localizzazioni più convenienti dal punto di vista sia dei costi di produzione (lavoro, energia ecc.) sia degli oneri fiscali. Gli utili netti correnti elevati “giustificano” livelli elevati delle capitalizzazioni, purchè: (a) le prospettive si mantengano buone; (b) i multipli, rispetto all’utile netto (P/E) piuttosto che all’ebtida, non raggiungano livelli eccessivi, quali quelli che portarono allo scoppio della “bolla Internet”. In altre parole, è fisiologica una discesa anche brusca delle capitalizzazioni in presenza di segnali (percepiti) di peggioramento delle prospettive; è viceversa premonitrice di possibili formazioni di bolle una crescita elevata dei valori, se trainata dagli afflussi di capitali freschi sul mercato, ma non accompagnata da segnali credibili di miglioramenti prospettici. I MERCATI FINANZIARI MANTENGONO UN SIGNIFICATIVO GRADO DI SELETTIVITÀ È vero che gli indici generali di Borsa sono in continuo aumento, ma il quadro si presenta mol-
to più articolato quando si entra nel dettaglio. Sono le imprese cosiddette tecnologiche (il riferimento implicito è alle tecnologie ICT dell’informazione e della comunicazione), soprattutto quelle più propriamente digitali legate a Internet, che trascinano gli indici generali. Ma anche al loro interno si riscontrano differenze forti. I mercati finanziari sono cioè, anche in questa fase espansiva delle capitalizzazioni, notevolmente selettivi, pronti a fare grosse scommesse sulle startup a priori più promettenti, ma anche a far crollare le quotazioni al manifestarsi di segnali di segno contrario: Uber, tuttora non quotata, ha raccolto in questi anni da finanziatori privati (fondi di venture capital, fondi sovrani ecc.) ben 12,9 miliardi di dollari di capitali di rischio; LinkedIn, viceversa felicemente quotatasi, ha visto il suo titolo quasi dimezzarsi in un giorno al profilarsi di una crescita sensibilmente inferiore alle aspettative, e a seguito di questo “si è venduta” a Microsoft; la stessa Apple, numero uno al mondo con quasi 900 miliardi di capitalizzazione, ha visto il suo valore precipitare di 250 miliardi di dollari in pochi mesi – in ben due occasioni – all’emergere di dubbi (poi svaniti) sulla tenuta del suo principale prodotto, l’iPhone. Per mostrare come il mercato sia selet-
Unicorni e decacorni Le scommesse sul digitale non passano solo attraverso la Borsa. È cresciuto moltissimo il numero di imprese che sulle orme di Facebook e Alibaba preferiscono crescere con finanziamenti privati (erogati da fondi di venture capital, fondi sovrani ecc.) prima della quotazione in Borsa (IPO). Sono 169, in larga prevalenza digitali, i cosiddetti “unicorni”: le imprese cioè non ancora quotate (non raramente per la paura di incorrere in insuccessi), e valutate almeno un miliardo di $ in occasione dell’ultimo round di finanziamenti. E sono 14 i “decacorni”, le imprese cioè valutate almeno 10 miliardi. Uber, l’impresa che ha avuto la valutazione più alta – 68 miliardi – nel luglio 2016 (valutazione scesa però recentemente a 48 miliardi per una serie di problemi che hanno costretto alle dimissioni il suo capo storico), ha raccolto complessivamente 12,9
miliardi. Didi Chuxing, il clone cinese di Uber che ha costretto quest’ultima a uscire dalla Cina, è stata valutata “solo” 56 miliardi, ma ne ha ricevuti 19,2. Airbnb, valutata 31 miliardi, ne ha raccolti 3,3. Cifre importanti, se poste in relazione ai risultati degli IPO: i 19,2 miliardi di Didi Chuxing rappresentano oltre i tre quarti dei 25 raccolti da Alibaba (record storico) nel 2014 in sede di quotazione. L’entità dei finanziamenti evidenzia un punto importante: le imprese digitali non sono (come spesso si sostiene) finanziariamente leggere. Nel 2016 gli investimenti in R&S dei cinque principali investitori digitali statunitensi – Amazon, AlphabetGoogle, Intel, Microsoft e Apple – sono ammontati a 65 miliardi di $. E a ben 44 sono ammontati nel 2017 quelli in infrastrutture produttive di Samsung, top capital spender mondiale fra le quotate.
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COVER STORY | LE I M PR E S E D I GI TAL VOL ANO I N B ORSA
tivo, ho fatto un piccolo esercizio. Ho ripreso i dati di capitalizzazione delle principali imprese, ICT e non, estesamente riportati in una mia cover TABELLA 1 - LE TOP IMPRESE MONDIALI PER CAPITALIZZAZIONE (MLD$): CONFRONTO 2014-2018
È IMPRESSIONANTE LA CRESCITA DEL VALORE DELLE TOP 7 DIGITALI
MARKET CAP MARKET CAP VARIAZIONE VARIAZIONE (%) GENN. 2018 SETT. 2014 APPLE
895,2
609,5
+ 285,7
+ 46,9 %
ALPHABET
771,6
401,3
+ 370,3
+ 92,3 %
MICROSOFT
681,0
384,6
+ 296,4
+ 77,1 %
AMAZON
600,6
150,2
+ 450,4
+ 299,9 %
547,1
200,2
+ 346,9
+ 173,3 %
TENCENT
533,2
148,4
+ 384,8
+ 259,3 %
ALIBABA
487,5
231,4
+ 256,1
+ 110,7 %
TOTALE TOP DIGITALI
4.516,2
2.125,6
+ 2.390,6
+ 112,5 %
BERKSHIRE H.
500,8
348,2
+ 152,6
+ 43,8 %
JOHNSON & J.
381,2
302,8
+ 78,4
+ 25,9 %
JPMORGAN CH.
376,5
230,6
+ 145,9
+ 63,3 %
EXXON MOBIL
369,2
412,0
- 42,8
- 10,4 %
WELLS FARGO
369,2
277,9
+ 30,3
+ 10,9 %
NOVARTIS
369,2
253,1
- 26,7
- 10,5 %
ROCHE
219,2
256,8
- 37,6
- 14,6 %
GE
162,7
263,0
- 100,3
- 38,1 %
2.544,2
2.344,4
+ 199,8
+ 8,5%
TOTALE TOP NON DIGITALI
Note: (1) La lista delle imprese comprende le 15 facenti parte delle top 10 nel settembre 2014 e/o nel gennaio 2018: 7 “digitali” e 8 “non digitali”. Se si volesse invece riportare nella prima colonna (gennaio 2018) le top 15 effettive, bisognerebbe inserire nelle ultime quattro posizioni: ICBC (347,6), Wells Fargo (308,2), Samsung (301,0) e Walmart (298,8). (2) È opportuno ricordare che il confronto riportato in questa tabella riguarda solo le imprese quotate. È opportuno ricordare anche che le differenze - nelle capitalizzazioni riferite a periodi diversi - possono risentire di fattori non strettamente legati alle performance: distribuzioni di dividendi ordinari e straordinari, restituzioni di capitale (buyback), aumenti di capitale a pagamento, acquisizioni o fusioni effettuate almeno in parte con scambi azionari, split-up con quotazioni separate, variazioni nei tassi di cambio. Legenda dei colori: valore superiore almeno di 100 mld o almeno del 50% valore negativo
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story sul numero 19 del settembre 2014 di questa rivista (“ICT, è la Borsa che detta le strategie di molte imprese”) e li ho posti a confronto con i dati (attuali) del gennaio 2018.
Nel primo confronto (Tabella 1 qui a fianco) ho centrato l’attenzione sulle imprese (ICT e non) al top della classifica mondiale per capitalizzazione, specificamente nelle prime 10 posizioni nel settembre 2014 e nel gennaio 2018: 15 se messe insieme, 7 ICT - digitali in senso stretto - e 8 non ICT, di cui solo 5 presenti in ambedue i periodi (Apple, Alphabet-Google, Microsoft, Berkshire Hathaway e Johnson & Johnson). Il divario nella crescita delle capitalizzazioni, seppur con tutti i limiti (evidenziati in nota) di tale confronto, è impressionante: - nel settembre 2014 le capitalizzazioni complessive delle 7 digitali e delle 8 non ICT erano quasi uguali; - nel gennaio 2018, a soli 40 mesi di distanza, le prime risultano nel complesso più che raddoppiate - 2.400 miliardi di dollari circa di incremento in termini assoluti (una cifra superiore al PIL italiano) - mentre le seconde presentano una crescita inferiore al 10 per cento; - Amazon è l’impresa con la crescita più elevata: il suo valore si quadruplica, passando da 150 a 600 miliardi di dollari; - General Electric è l’impresa con la perdita di valore più forte, oltre 100 miliardi in termini assoluti. MOLTO PIÙ VARIEGATO È IL QUADRO DELLE ALTRE TOP ICT Nel secondo confronto ho preso invece in considerazione solo le imprese ICT, partendo dalle 26 che nel settembre 2014 avevano una capitalizzazione superiore a 60 miliardi di dollari. Ho escluso le top 7 digitali già viste in precedenza, ho escluso HP ed eBay perché nel frattempo oggetto di scissioni, ho escluso EMC perché nel frattempo acquisita da Dell e ho analizzato (Tab. 2) i dati delle 16 rimanenti: - solo 10 hanno visto un aumento della loro capitalizzazione, mentre per le restanti 6 si è avuta una caduta; - Samsung è l’impresa che ha avuto l’incremento di valore più elevato: 107 miliardi di dolla-
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Il possibile inasprirsi della regolamentazione rappresenta una minaccia per le grandi imprese digitali, che tenteranno di contrastarla: si prospetta un futuro roseo per gli studi legali più accreditati e per i migliori lobbisti
UNA NUOVA BOLLA? Tornando alla domanda iniziale, dobbiamo aspettarci lo scoppio di una nuova “bolla”? Le considerazioni precedenti mi sembra evidenzino come lo scatto verso l’alto degli indici generali di Borsa sia dovuto in larga misura alla crescita del valore di un numero limitato di grandi imprese digitali (le top 7 in primo luogo). Su cosa ha scommesso e continua a scommettere il mercato? Sulla formazione di un numero ristretto di situazioni fortemente oligopolistiche, ritenendole destinate a perdurare o addirittura a rafforzarsi nel tempo. È un’ipotesi ragionevole? Lo sarebbe se si ipotizza un’evoluzione naturale dei mercati: con l’unico rischio, ma un po’ remoto nel tempo, dell’emergere di nuove tecnologie disruptive e di nuovi attori che le “cavalchino”. I dubbi sono però molto maggiori se si guarda ai profondi cambiamenti - nelle nostre abitudini e stili di vita, negli assetti economico-finanziari e in quelli socio-politici - che la crescita delle grandi imprese digitali sta generando e alle reazioni che essa sta suscitando. Il rischio è che esse vengano sempre più viste con antipatia, per il fastidio che l’eccesso di
successo provoca ma anche per l’ingordigia che traspare da diversi loro comportamenti (dall’elusione fiscale all’”uccisione” degli smartphone via
TABELLA 2 - CAPITALIZZAZIONE DELLE ALTRE GRANDI IMPRESE MONDIALI DELL’ICT: UN QUADRO MOLTO PIÙ VARIEGATO MARKET CAP MARKET CAP SETT. 2014 GENN. 2018
VARIAZIONI
VARIAZIONI %
SAMSUNG
301,0
194,0
+ 107
+ 55,2 %
AT&T
226,5
182,3
+ 44,2
+ 24,2 %
VERIZON
211,6
206,0
+ 5,6
+ 2,7 %
ORACLE
206,6
185,1
+ 21,5
+ 11,6 %
CHINA MOBILE
203,3
249,0
- 45,7
- 18,4 %
INTEL
202,4
174,1
+ 28,3
+ 16,3 %
CISCO
202,0
128,6
+ 73,4
+ 57,1 %
COMCAST
198,4
147,0
+ 51,4
+ 35,0 %
IBM
151,0
193,3
- 42,3
- 21,9 %
SAP
136,1
94,6
+ 41,5
+ 43,9 %
QUALCOMM
96,4
128,1
- 31,7
- 24,7 %
NTT DOCOMO
96,0
76,5
+ 20,5
+ 25,5 %
DEUTSCHE TELEKOM
84,4
70,4
+ 14
+ 19,9%
VODAFONE
83,3
88,3
- 5,0
- 5,7% %
AMERICA MOVIL 59,7
90,0
- 30,3
- 33,7 %
52,4
71,1
-18,7
-26,3 %
TELEFONICA
Note: (1) La tabella è finalizzata a comprendere le variazioni delle capitalizzazioni delle 16 imprese che facevano parte delle top 26 ICT del settembre 2014, oltre alle 7 che appaiono nella tabella 1. Essa non comprende i dati di HP (69,1 miliardi di $ di capitalizzazione all’epoca) , eBay (65,4) e EMC (60,3), perché le prime due sono state oggetto di scissioni e la terza è stata acquisita da Dell.(2) Sulla significatività del confronto vedi nota 2 della tabella 1. Legenda dei colori: valore superiore almeno di 50 mld o almeno del 50% valore negativo
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Fonte: FT, Yahoo! Finance (dati Samsung)
ri, oltre il 50 per cento in più in 40 mesi, seguita da Cisco (che ha recuperato un po’ degli antichi splendori) e da Comcast; - China Mobile, IBM, Qualcomm e America Movil sono le imprese che, per ragioni diverse, hanno perso di più. IBM ad esempio ha perso, con l’avvento del cloud, alcune delle sue storiche rendite di posizione; Qualcomm, che era riuscita addirittura per breve tempo a superare la capitalizzazione di Intel, è entrata in conflitto sui prezzi con alcuni grandi clienti (Apple in particolare); il valore di America Movil, l’impresa telecom controllata da Carlos Slim (per diversi anni il terzo uomo più ricco del mondo dopo Bill Gates e Warren Buffett), è rimasto circa immutato in moneta messicana ma non in dollari.
COVER STORY | LE I M PR E S E D I GI TAL VOL ANO I N B ORSA
Le scissioni possono creare valore: i casi HP ed eBay In un mondo a lungo dominato dagli M&A – fusioni e acquisizioni – sono cresciute le scissioni, cioè gli spezzettamenti delle imprese in unità più coerenti dal punto di vista del portafoglio di business, per ragioni economiche (maggiore focalizzazione) ma talora ancor più per ragioni finanziarie (uso più favorevole dei multipli). General Electric – l’impresa conglomerale per eccellenza – sembra voglia spezzarsi in tre. In tre pezzi (presto forse 4) Marchionne ha diviso la Fiat, con una notevole crescita della capitalizzazione totale, non solo per rendere possibile la fusione con Chrysler, ma anche per valorizzare la componente Ferrari: ora valutata in Borsa con i multipli tipici del lusso, invece che con quelli dell’auto di massa. E alcuni fondi vorrebbero spingere Volkswagen a fare altrettanto, ad esempio quotando separatamente sia Porsche sia Audi.
Nel mondo ICT due sono stati i casi importanti, ambedue di successo: la spaccatura in quattro, in più tempi, di HP (prima divisa in HP e HPE-Hewlett-Packard Enterprise, e poi quest’ultima ancora in DXC e Micro Focus); lo scorporo di PayPal da eBay, che l’aveva acquisita nel 2002, nella convinzione degli azionisti che un sistema di pagamento indipendente avesse più chance di successo. Il valore della vecchia HP nel settembre 2014, prima della scissione, era sceso per varie ragioni a poco meno di 70 miliardi di $. Mentre la somma dei valori delle 4 società in cui è stata scomposta supera nel gennaio 2018 quota 100. La vecchia eBay valeva 65 miliardi circa. La nuova ne vale 40, ma nel frattempo PayPal ha raggiunto quota 90, superando un “mostro sacro” come American Express ed allineandosi ad altri due “mostri sacri” come Morgan Stanley e Goldman Sachs.
Internet), che cresca l’ostilità nei loro confronti da parte di chi si sente minacciato dalla loro crescita e/o dall’aumento del loro potere, che la politica (come già in parte avviene soprattutto nell’UE) cerchi di farsi interprete di questi sentimenti con misure della natura più diversa: alcune correttamente volte a evitare privilegi ingiustificati, come nell’ambito fiscale, piuttosto che comportamenti scorretti nei riguardi dei consumatori o intrusioni eccessive nella nostra privacy; altre volte viceversa alla mera ricerca del consenso, assecondando talora le istanze più oscurantiste di parte della società. Il possi-
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bile inasprirsi della regolamentazione e/o delle modalità con cui essa viene applicata (ad esempio nell’ambito antitrust) rappresenta cioè, a mio avviso, la maggiore minaccia alla crescita o anche solo al mantenimento degli attuali livelli di capitalizzazione. Ed è evidente che le grandi imprese digitali useranno tutti i loro mezzi, come peraltro già stanno facendo, per contrastare tali tendenze. Previsioni sull’esito finale? Preferisco non farne, ma di una cosa sono sicuro: si prospetta un futuro roseo per gli studi legali più accreditati e per i migliori lobbisti.
MANAGEMENT - WORLD OF BUSINESS IDEAS di in collaborazione con
DANIELE LAZZARIN
MICHAEL E. PORTER BISHOP WILLIAM LAWRENCE UNIVERSITY PROFESSOR HARVARD BUSINESS SCHOOL
Porter: con la realtà aumentata colmeremo il gap tra mondo reale e mondo digitale Le tecnologie progrediscono a grandi passi, ma l’uomo rimane lo stesso, con i suoi limiti e le sue caratteristiche uniche. Come possiamo sfruttare la crescente gamma di opportunità che l’era digitale ci propone, man mano che evolve? Soltanto con interfacce uomomacchina di nuova generazione. Così l’economista americano ha spiegato gli ultimi sviluppi dei suoi studi al recente World Business Forum di Milano Nel 1979 il trentaduenne Michael E. Porter, professore associato ad Harvard, pubblicava sulla Harvard Business Review l’articolo “How Competitive Forces Shape Strategy”, iniziando così un percorso che l’ha portato a definire modelli come le Cinque Forze Competitive e la Catena del Valore, rendendolo uno dei principali esperti mondiali di management strategico. Negli ultimi anni Porter si è concentrato sugli impatti degli “smart connected product” - cioè dell’Internet of Things - sulle strategie delle imprese e sui meccanismi competitivi dei vari settori, e su quella che lui ritiene la prossima fase di innovazione nella digital transformation: le interfacce tra uomo e macchine. Di questi recenti sviluppi, l’economista americano ha parlato al recente World Business Forum di Milano. «Le tecnologie informatiche e digitali hanno rivoluzionato prima i processi delle imprese, e poi i prodotti che queste imprese fabbricano e/o vendono. I prodotti ora integrano processori e sensori, e questo cambia radicamente lo scenario competitivo». Per spiegare come, Porter è salito sul palco del WOBI con | 26 |
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una racchetta da tennis in mano (vedi foto). «All’apparenza questa sembra una normale racchetta, ma in realtà è un prodotto smart, ha sensori connessi alle corde che misurano forza, direzione, spin, e un chip nel manico con del software che elabora queste misure ed è connesso in Bluetooth con lo smartphone di chi la usa, e attraverso questo a internet e al cloud». ORA ANCHE UNA RACCHETTA DA TENNIS HA UNA GEMELLA DIGITALE Nel cloud c’è un server con un database dei dati di ogni racchetta, un’application platform, un motore di regole e analitico, e un “digital twin”, una gemella digitale di ogni racchetta a cui vengono attribuiti tutti i dati provenienti da quella “vera”, che vengono analizzati, misurando le performance agonistiche dell’utente e suggerendo strategie di gioco. «Se poi si ha un buon sistema CRM tutto ciò si può integrare con altri dati dell’utente, ottenendo infiniti tipi di output. Per esempio collegando i dati di prestazione con
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sterà, e quindi ottimizzare anche la manutenzione. La quarta è l’automazione: il prodotto, al verificarsi di certe condizioni, fa delle cose da solo, molte di più che in passato. «Un esempio di cui si parla molto è la self driving car, anche se ci vorrà ancora qualche anno, perché è uno sviluppo molto complesso con tantissime variabili da gestire». Oltre a queste quattro, poi, abbiamo le opportunità che nascono dal connettere tra loro prodotti connessi. «Per esempio l’agricoltura sta vivendo una vera rivoluzione, che nasce dall’orchestrazione delle varie componenti. John Deere, il produttore di macchine agricole, fa una complessa macchina da raccolto che coordina il movimento dei trattori e quello dei veicoli per la semina nei campi, con l’uomo nella sola veste di supervisore. Insomma non vediamo più macchine isolate, ma sempre più sistemi di macchine e sistemi di sistemi. Questo vale anche per altri campi, pensiamo per esempio alle smart city». COSA FA UNA SELF DRIVING CAR DAVANTI A UN ALLIGATORE?
i dati meteo attraverso il GPS il sistema può dedurre quanto la qualità del tennis dell’utente sia legata al grado di umidità o alla temperatura in campo». In generale i prodotti smart, sottolinea Porter, cambiano le regole della competizione e della creazione di valore aprendo 4 aree d’opportunità prima inesistenti. Una è il monitoraggio post vendita. «Prima il produttore perdeva di vista il prodotto durante la sua vita utile. Ora può sapere quando è acceso o spento, quanto e come viene usato, le sue condizioni – se a un certo punto inizia a surriscaldarsi, ad avere prestazioni degradate». La seconda è il controllo sul comportamento dei prodotti da remoto, attraverso digital user interface. La terza è l’ottimizzazione delle performance del prodotto. «Prendiamo le pale di un mulino: oggi posso modificare inclinazione e apertura nanosecondo per nanosecondo, in funzione di direzione e forza del vento, per massimizzare la produzione di energia». Non solo: dalle variazioni di alcuni parametri – temperature, performance, ecc. – si può prevedere in anticipo che un componente si gua-
In questo scenario, le imprese manifatturiere devono affrontare molte sfide strategiche assolutamente inedite. Porter ne ha individuate 10 (vedi BOX). «Un esempio molto significativo di scelte dirompenti su diversi di questi punti è Tesla: non ha concessionari, molte delle riparazioni delle sue vetture elettriche possono essere fatte da remoto, così come molti dei servizi. Via software si possono correggere le funzioni della macchina e aggiungerne di nuove, senza bisogno di restyling e nuovi modelli ogni 3 anni». Il cambiamento radicale dei prodotti ha impatti dirompenti su tutte le funzioni aziendali. «Prendiamo solo lo sviluppo di nuovi prodotti. Oggi devo progettare il prodotto in modo che sia migliorabile e riparabile da remoto, utilizzabile con nuove interfacce, per esempio di realtà aumentata, modificabile e personalizzabile via software, cioè a basso costo, completabile con servizi via internet, ottimizzato per il product sharing e per nuovi modelli di business, interoperabile con altri prodotti e intere piattaforme». Anche i servizi a corredo cambiano. «Come ho detto, per la prima volta il produttore deve presidiare sistematicamente la fase post-vendita, aiutare il cliente a tirare fuori il massimo dal prodotto quando è già nelle sue mani. E questo rivoluziona anche www.digital4executive.it
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«Gli smart glasses di oggi non sono efficienti: la strada da percorrere è lunga. Ma quando lo saranno, probabilmente ci accorgeremo che smartphone e tablet saranno diventati inutili»
il marketing, perché ho un’interazione diretta con il cliente mai sperimentata prima». Un altro aspetto fondamentale è il controllo del “diluvio” di dati generati dai prodotti connessi. «È un tema enorme e non posso soffermarmi, comunque in azienda non è più sostenibile il modello per cui ogni funzione aziendale si gestisce i suoi dati: ci deve essere una “unified data organization” in azienda dove concentrare capacità e specialisti di data analysis, i data scientist, che collaborino con le varie funzioni». Secondo Porter però il problema più grande oggi è come noi esseri umani, con tutti i nostri limiti, possiamo sfruttare tutte le opportunità della digital transformation. «Molti di voi, come me, saranno rimasti
Le 10 scelte strategiche per le imprese manifatturiere Secondo Michael Porter, l’integrazione di intelligenza e sensori nei loro prodotti mette le imprese manifatturiere di fronte a dieci scelte strategiche senza precedenti: 1) Quali e quante nuove funzionalità del prodotto supportare con chip e sensori? 2) Quali funzioni inserire nel prodotto fisico, e quali in cloud? 3) Piattaforma e ambiente software aperto (tipo Android) o chiuso (tipo Apple iOS)? 4) Quali tecnologie di prodotto presidiare direttamente e quali esternalizzare? 5) Quali tipologie di dati raccogliere? 6) A chi appartengono i dati rilevati con i sensori? Come gestirne ownership, accesso e sicurezza? 7) Come gestire vendita e distribuzione? Conviene disintermediare? 8) È il caso di cambiare addirittura il modello di business? Per esempio vendendo ore di funzionamento, e cioè servizi, invece di prodotti? 9) È il caso di vendere qualche tipo di dati a parti esterne? 10) È il caso di espandere l’ambito d’azione, cioè creare un sistema di prodotti, integrando diversi prodotti propri, o addirittura un sistema di sistemi, tramite una piattaforma digitale che integra anche prodotti di terzi? | 28 |
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disorientati di fronte a tutte le funzioni smart di una automobile di oggi: come avere una visione unica di tutte queste scelte e configurazioni? Come padroneggiarle?». Un problema condiviso, dall’altra parte della barricata, dal costruttore dell’automobile. Ed è un problema di interfaccia uomo-macchina, ovvero di HMI, Human-Machine Interface. «Qualcuno pensa che sforzarsi tanto sulle HMI non è necessario perché presto tutto sarà automatizzato, e l’intelligenza artificiale presto renderà obsolete le decisioni umane. Non sono d’accordo». Gli umani, sottolinea Porter, hanno capacità uniche e non sostituibili. Sanno adattarsi a ogni situazione istante per istante. «Cosa fa una self driving car se un alligatore gli salta davanti in mezzo alla strada? Le macchine sono disegnate per compiti routinari, anche la loro flessibilità è comunque programmata: non hanno idee, immaginazione, intuizione, creatività». LE INFORMAZIONI DIGITALI CI ARRIVANO SU SCHERMI PIATTI, MA LA REALTÀ È 3D Secondo Porter quindi combinando le capacità delle macchine e quelle umane, si può generare molto più valore di quello che ciascuna delle due componenti può creare da sola. Uomini e macchine devono continuare a interagire. «Il punto è capire qual è la forma di interfaccia che può massimizzare questa creazione di valore: è la domanda del momento, in questa fase storica della trasformazione digitale». L’uomo interagisce con l’ambiente attraverso i suoi cinque sensi: un sistema molto potente, che ci fornisce moltissimi tipi diversi di informazioni. Rispetto alle informazioni di business digitali, però, gusto, odorato e tatto non sono strumenti molto efficienti di accesso: sono lenti, limitati e molto focalizzati. L’udito è più efficiente, ma richiede comunque un passaggio interno di elaborazione: non può essere il veicolo primario in una HMI, ma solo un arricchimento. Il nostro senso nettamente più potente in termini di assimilazione di informazioni è la vista, con cui leggiamo testi scritti e immagini. «L’80-90% delle informazioni che acquisiamo proviene dalla vista, ma le informazioni digitali ci
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arrivano attraverso interfacce poco efficienti: gli schermi di pc, smartphone, tablet, che sono schermi piatti, a due dimensioni. Mentre il mondo reale, in cui dobbiamo usare queste informazioni, è 3D. E questo gap, questa discrepanza, limita in modo decisivo la nostra capacità di beneficiare della trasformazione digitale», sottolinea Porter. SE PENSATE CHE IL NAVIGATORE DELL’AUTO SIA IL PROGRESSO… Una tipica dimostrazione è il navigatore GPS dell’automobile. «Nella mia macchina ho uno schermo digitale con le mappe e il percorso da seguire, e una voce femminile che me lo spiega: devo guardare lo schermo, ascoltare, ma anche manovrare sterzo e cambio, e guardare cosa succede nel mondo reale, al di là del parabrezza. Lo schermo è un’immagine in 2D, non è il mondo reale: se c’è il semaforo rosso devo fermarmi, se ci sono due vie molto vicine devo capire in quale svoltare, eccetera. Il rischio di distrarsi è alto, e in macchina questo è molto pericoloso. Non è certo una situazione ottimale di acquisizione di informazioni». A quali alternative possiamo pensare? La più immediata è un’applicazione di realtà aumentata sugli occhiali da vista. «Indosso gli occhiali quando guido, quando studio, quando cucino, quando faccio una riparazione, e in tutti questi compiti la realtà aumentata mi può aiutare. Gli smart glasses disponibili oggi però non sono efficienti per molte ragioni: sono costosi, pesanti, complicati. La strada da fare è lunga. Ma quando avremo smart glasses efficaci ed economici probabilmente tablet e smartphone saranno ormai oggetti inutili, e riceveremo infor-
mazioni solo attraverso dei wearable». Insomma la realtà aumentata, o Augmented Reality, o AR, richiede una nuova generazione di device, di criteri di programmazione e sviluppo del software, e di tecnologie. Però risolve finalmente il gap tra interfacce 2D e realtà 3D, perché sovrappone informazioni digitali agli oggetti reali, e quindi le inserisce esattamente nel contesto in cui le dobbiamo usare, moltiplicando in questo modo la nostra capacità di assorbirle e di agire in tale contesto. REALTÀ AUMENTATA, LA “GREAT EQUALIZER” «Il grande salto di qualità che l’AR ci permetterà è legato a quattro caratteristiche: visualizzazione, istruzione/guida, interazione, simulazione (vedi box in questa pagina, ndr). L’AR ci permette di “vedere dentro” le cose e gli oggetti, è una tecnologia perfetta per insegnarci le cose, mostrandoci come farle, ci permette di interagire con i prodotti in modo naturale, con gesti e comandi vocali, e simula ambienti e prodotti quando problemi di distanza, tempo o dimensioni non permettono di agire direttamente sugli oggetti reali». Insomma, conclude Porter, riassumendo in una sola frase, l’AR amplifica le capacità degli smart product, e sarà la great equalizer, la “parificatrice” tra uomo e macchina. «Aiuterà l’uomo a colmare il gap tra mondo digitale e mondo fisico, e amplificherà le sue capacità permettendogli di capitalizzare totalmente i benefici della trasformazione digitale, assimilando informazioni e utilizzando macchine fisiche e intelligenza artificiale senza la lunga, sofisticata e costosa formazione scientifica e tecnica che fino a oggi è stata necessaria».
Le 4 caratteristiche chiave della realtà aumentata 1) Visualizzazione. L’AR permette una “visione a raggi X” che rivela situazioni e funzionamenti interni altrimenti difficili o impossibili da rilevare. Porter ha fatto l’esempio di AccuVein, la cui tecnologia permette a medici e infermieri di “vedere” il tracciato di vene e arterie direttamente sul corpo del paziente. 2) Instruzione e Guida. L’AR sta rivoluzionando i concetti di formazione, istruzione e coaching abbattendone costi e complessità, perché può supportare guide visuali in tempo reale, sul posto e passo per passo, insegnando per esempio come funziona una macchina, come si ripara, come si monta un componente. «In Boeing un team di apprendisti grazie all’AR ha montato una sezione d’ala con 30 componenti in un tempo del 35% minore di un altro
team del tutto simile equipaggiato con disegni 2D e documentazione tradizionale». 3) Interazione. L’AR consente di superare non solo le interfacce fisiche come tasti, leve, manopole, ma anche quelle digitali di generazioni precedenti, come schermi embedded e mobile app. Infatti l’AR sovrappone al prodotto fisico un pannello di controllo virtuale con cui interagire attraverso comandi vocali, gesti o addirittura semplicemente guardando in una certa direzione. 4) Simulazione. Integrata con la realtà virtuale, che riproduce in digitale ambienti reali, l’AR può consentire di simulare l’interazione in ambienti a distanza remota, passati o futuri, troppo piccoli o troppo grandi, o troppo pericolosi. www.digital4executive.it
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MANAGEMENT
Persone, innovazione e competenze: gli ingredienti per il successo I CEO di tre aziende di eccellenza - Nerio Alessandri di Technogym, Fabrizio Di Amato di Maire Tecnimont, e Donato Iacovone di EY - a confronto sulle strategie per attirare talenti, formarli e motivarli: un passaggio cruciale per la trasformazione dei processi e della gestione richiesta dalla quarta rivoluzione industriale
Il successo delle aziende passa dal benessere di chi ci lavora. Facile a dirsi, meno facile mettere in campo le azioni in grado di toccare le giuste corde nelle persone. In pochi anni e con il dilagare delle tecnologie digitali tutto è cambiato: le modalità di comunicazione, le relazioni fra i team, le leve per motivare, l’efficacia degli incentivi economici. La sfida è aperta e non riguarda più solo la direzione HR, ma tutti i C-level: avere una chiara “people strategy” è diventato imprescindibile per attirare e trattenere i talenti, e avere dipendenti motivati e con le giuste competenze. Ne hanno parlato di recente, al World Business Forum di Milano, i CEO di tre aziende di eccellenza italiane, in un dibattito moderato da Mariano Corso, docente di organizzazione e leadership alla School of Management del Politecnico di Milano. Sul palco due imprenditori, entrambi insigniti del titolo di Cavaliere del Lavoro - Nerio Alessandri, Fondatore e Presidente di Technogym e Fabrizio | 30 |
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Di Amato, Presidente di Gruppo Maire Tecnimont - e un manager di lungo corso, Donato Iacovone, Managing Partner di EY Mediterraneo (Italia, Spagna e Portogallo), con formazione internazionale, autore di numerosi libri e articoli economici, docente alla Luiss e alla Bocconi. Corso ha ricordato come, di fronte alla quarta rivoluzione industriale, destinata ad avere un impatto profondo in tempi rapidissimi, le imprese devono costruire piani di sviluppo delle risorse e dei profili professionali che permettano di cogliere al meglio le opportunità e gestire le sfide della Digital Transformation. Questo significa lavorare sulle competenze ma soprattutto promuovere un approccio continuo al cambiamento, alla digitalizzazione e all’innovazione. «Ma le persone per mettersi in gioco devono sentirsi bene e non avere paura del cambiamento», ha sottolineato il docente. «Serve una trasformazione che è soprattutto culturale».
MANAGE M E NT | PE R S ONE , I NNOVAZ I ONE E C O MP E T E N Z E : G L I IN G RE DIE N T I P E R IL SUC C E SSO N E L L’ E RA DIG ITA LE
continua verso nuovi obiettivi. «Amate quello che fate, fate errori, il talento si può allenare», ama ripetere. I suoi collaboratori condividono un sogno: «Obiettivo e ossessione della nostra organizzazione è far stare bene le persone, farle vivere meglio. Abbiamo coniato noi nel ‘92 il termine “wellness” (benessere), come evoluzione della concezione di matrice americana del fitness (che si riferisce più alla forma fisica). Vogliamo che le persone che lavorano con noi si sentano parte integrante di questo progetto e siano stimolate a contribuire alla realizzazione del nostro sogno: diventare l’azienda più innovativa al mondo nel wellness e nella riabilitazione mantenendo i nostri i “valori”, che sono etica, trasparenza, accountability». Per Alessandri, creare cultura aziendale unica è responsabilità dei leader. «È compito dei manager tirare fuori la passione nei giovani, perché la passione alimenta la voglia di raggiungere nuovi risultati, di costruire: i manager devono diventare builder». MAIRE TECNIMONT, IL MADE IN ITALY È ANCHE INDUSTRIALE
TECHNOGYM: IL SOGNO DEL BENESSERE Passione ed entusiasmo sono i pilastri di Technogym, azienda fondata da Nerio Alessandri nel 1983, a soli 22 anni, nel garage di casa, come nella migliore tradizione delle startup della Silicon Valley. È qui che Alessandri ha progettato le prime attrezzature per la palestra, frutto del suo amore per lo sport, della formazione da progettista e della passione per il design. Oggi l’azienda di Cesena è leader mondiale nei prodotti tecnologici e servizi per il wellness, il fitness e lo sport, con 550 milioni di euro di fatturato: i suoi attrezzi si trovano in 80mila centri e 200mila abitazioni, è stata 6 volte fornitore ufficiale dei Giochi Olimpici, impiega 2000 collaboratori in 14 filiali ed esporta il 90% della propria produzione in oltre 100 paesi. Per Alessandri, l’innovazione deve essere un circolo continuo (se un prodotto funziona è già vecchio, dice), e lo spirito quello di una startup, con una tensione
ll made in Italy industriale si conosce poco ma c’è. Un esempio è Marie Tecnimont, altra eccellenza tutta italiana: è tra i principali contractor di impiantistica e ingegneria per oil & gas e petrolchimico su scala globale, opera con 50 società in 40 paesi e ha un fatturato di circa 2,5 miliardi di euro. Tra i tanti progetti realizzati c’è il più grande impianto di trattamento gas di Abu Dhabi, e un altro
Nerio Alessandri, Fondatore e Presidente di Technogym
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MANAGEMENT | PE R S ONE , I NNOVAZ I ONE E COM PE T E N Z E : G L I IN G RE DIE N T I P E R IL SUC C E SSO N E L L’ E RA DIG ITA L E Da sinistra: Fabrizio Di Amato, Presidente del CDA di Maire Tecnimont, e Donato Iacovone, EY Mediterranean Region Managing Partner
enorme ne nascerà in Russia. La sua storia ha radici lontane: nasce dall’integrazione della ex-Montedison (divenuta Tecnimont negli anni 70) con Fiat Engineering, cui fa seguito un lungo percorso di crescita interna e acquisizioni a livello nazionale e internazionale. Fabrizio Di Amato è l’artefice del consolidamento e della quotazione in Borsa del gruppo nel 2007. È imprenditore dall’età di 19 anni ed è anche Vice Presidente di Assolombarda. «Prima di me c’era qualcuno che ha inventato il Moplen: nasciamo da lì», ha detto Di Amato, ricordando Giulio Natta, Nobel italiano padre del polipropilene (la plastica), commercializzato, con enorme successo, negli anni 60 con diversi nomi tra cui appunto Moplen. L’operazione di integrazione di Maire Tecnimont si è concretizzata negli ultimi anni in una completa revisione dei processi, che ha posto le persone e la qualità del lavoro al centro. «Abbiamo introdotto l’azionariato diffuso per i nostri dipendenti a tutti i livelli, dal manager alla segretaria: così si sentono parte del sistema e sono più stimolati a lavorare bene. Non era mai successo in una società di ingegneria», ha detto Di Amato. «Quest’anno abbiamo introdotto lo smart working per 400 persone, ripensando gli spazi». La mancanza di competenze sulle nuove tecnologie è, secondo Di Amato, uno dei più grossi nodi da sciogliere: «È difficile riuscire a trovare le persone e le competenze per l’industria 4.0. Ma non solo tecnologiche: l’ingegno e la scienza devono essere al servizio delle esigenze
«È compito dei manager tirare fuori la passione nei giovani, perché la passione alimenta la voglia di raggiungere nuovi risultati, di costruire: i manager devono diventare builder». Nerio Alessandri, Technogym | 32 |
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di business per risolvere problemi complessi. Per formare questo tipo di figure abbiamo avviato un percorso di collaborazione con l’università. Dare fiducia ai giovani è un obbligo e un dovere». EY: IL VERO PROBLEMA È IL “MOTIVATIONAL DIVIDE” Anche per EY le competenze digitali sono al centro della scena. La società, uno dei leader mondiali nei servizi professionali di revisione contabile e consulenza manageriale, soprattutto per la digital transformation, assume in Italia circa 1500 persone ogni anno, e pone particolare attenzione ai tempi dell’inclusione, della formazione e della valorizzazione personale. «Nei giovani, più che l’esperienza, cerchiamo le potenzialità, la curiosità e il fatto che abbiano ben chiaro in testa qual è il loro percorso di crescita», spiega il CEO Donato Iacovone, convinto che l’Italia sconti un ritardo nel sistema educativo: «Le competenze più difficili da trovare sono quelle che uniscono conoscenze di tecnologie innovative e business: serve capire il business e quali tecnologie occorre sviluppare. Il ruolo della formazione è fondamentale: per trovare talenti EY collabora anche con le Università». Ma il vero problema in azienda, sottolinea Iacovone, è il “motivation divide”, non più il digital divide: «Serve uno sforzo per creare engagement. Le persone vanno motivate e coinvolte di più: solo così si genera valore per il business e si può riguadagnare competitività».
ADVERTORIAL
Finanza, sanità, trasporti, manufacturing: le sfide dell’intelligenza artificiale
L’Intelligenza Artificiale (IA) si sta evolvendo rapidamente; oggi disponiamo di sistemi di machine learning progettati per rispondere a nuovi stimoli, senza dover essere esplicitamente programmati, perché sono in grado di apprendere dai numerosi esempi forniti dalle interpretazioni dell’uomo. «Sembra ormai assodato che l’IA impatterà in modo trasversale ogni settore e azienda, contrariamente a quanto si pensava fino a poco tempo fa, quando si reputava ad esempio che nel settore industriale sarebbero stati interessati solo i ruoli prettamente manuali o che richiedono minori competenze», afferma Bruno Sirletti, Presidente e AD di Fujitsu. Partendo dal fatto che uno dei punti di forza dell’IA è la capacità di elaborazione di grandi volumi di compiti standard, le istituzioni finanziarie, ad esempio, la stanno già utilizzando per costruire modelli sul potenziale andamento dei mercati azionari, così come stanno estendendo le sue potenzialità alle piattaforme di analisi. In questo settore, Fujitsu ha sviluppato diversi progetti, tra cui il prototipo di una soluzione per analizzare le firme dei clienti della banca e individuare eventuali falsari; una soluzione per il riconoscimento facciale nei bancomat, per la sicurezza delle operazioni e personalizzare i servizi; un sistema in grado di capire, dalla voce, se un cliente si trova in uno stato di coercizione, per prevenire transazioni effettuate sotto minaccia. Nella Sanità, data la mole di dati clinici generati ogni giorno, l’IA trova importanti applicazioni. Fujitsu ha sviluppato HIKARI, un’API (Application Programming Interface) che supporta le decisioni dei medici grazie a un’accurata valutazione dei rischi per i singoli pazienti, frutto di una stretta collaborazione con medici esperti e clinici del San Carlos Clinical Hospital di Madrid.
L’APPLICAZIONE DI QUESTA TECNOLOGIA RIGUARDERÀ, IN MODO TRASVERSALE, OGNI SETTORE E AZIENDA. CONSAPEVOLE DELLE POTENZIALITÀ, FUJITSU STA PORTANDO AVANTI DIVERSI PROGETTI, IN PARTICOLARE IN AMBITO FINANZIARIO E SANITARIO
BRUNO SIRLETTI Presidente e Amministratore Delegato Fujitsu
Anche nel mondo dei trasporti l’IA trova spazio: al di là delle sperimentazioni sui veicoli con guida autonoma, le società di logistica sono state tra le prime a utilizzare questa tecnologia per ottimizzare i percorsi di consegna in tempo reale, evitando i ritardi dovuti al traffico. Infine, in ambito manufacturing, l’IA consente alle macchine di eseguire i compiti più monotoni come la ricerca di difetti nella produzione del prodotto; in questo caso, non solo il deep learning migliora il livello di precisione, ma riduce anche il tempo di analisi dei risultati. Il prossimo passo sarà la manutenzione predittiva, per identificare la probabilità di incidente di un macchinario sul campo. Man mano che le tecnologie sottostanti migliorano, i sistemi di AI crescono: nei prossimi anni assisteremo a sempre più numerose innovazioni che amplieranno e potenzieranno le sue applicazioni. Ma i vantaggi di questa tecnologia non riguardano solo il business. «L’intelligenza artificiale, infatti, può avere effetti positivi anche sulla soddisfazione e motivazione dei dipendenti, aiutando l’uomo a svincolarsi gradualmente da attività lunghe e ripetitive, per concentrarsi su quelle creative e di valore. Per questo, è importante che le aziende comincino a pensare come l’intelligenza artificiale possa supportare, non sostituire, la forza lavoro, individuando al più presto le misure da mettere in atto per salvaguardare gli interessi a lungo termine dei dipendenti», conclude Sirletti.
P ER U LT ER I O R I I N F O R MA ZIONI...
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MANAGEMENT di
DANIELE LAZZARIN
Automazione e lavoro, Italia a rischio “digitalizzazione lenta”: decisivi formazione e imprenditorialità Milioni di posti tradizionali andranno persi e milioni, basati su skill innovativi, ne nasceranno. Il saldo nel lungo termine sarà positivo, ma non nel futuro prossimo. Per il nostro Paese il quadro è difficile, però con segnali positivi da imprese e politica. Se n’è parlato in un convegno con protagonisti come Umberto Bertelè, Federico Butera, Carlo Bonomi (Assolombarda) e Giovanni Castellucci (Autostrade)
Industria 4.0, intelligenza artificiale, robot, botnet sono parole che leggiamo ormai quotidianamente: le tecnologie digitali che stanno provocando la quarta rivoluzione industriale avranno impatti sull’occupazione e sulla distribuzione della ricchezza molto più forti e veloci di quelle precedenti. Tra 10 o 20 anni il saldo di posti di lavoro sarà probabilmente positivo, ma intanto un gran numero di posti “tradizionali” sarà perduto, e un gran numero di posti nuovi - lavori che pochi anni fa addirittura non esistevano – dovranno essere occupati. La prima priorità quindi è dotare il sistema Paese, le imprese e le singole persone di efficaci strumenti di formazione di competenze. Strumenti diversi da quelli attuali, che sembrano inadeguati a rispondere alla domanda delle nuove professioni trasformate o create dal digitale, e a riconvertire il maggior numero possibile dei lavoratori che perderanno posti “tradizionali”. Questi i temi del primo evento del ciclo “Digital Innovation Talks” degli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano, introdotto da Carlo Bono| 34 |
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mi, Presidente di Assolombarda, e incentrato su un’analisi di Umberto Bertelè, Chairman degli Osservatori e professore emerito di Strategia del Politecnico di Milano. Analisi poi commentata in una tavola rotonda con Massimo Bonini (Camera del Lavoro di Milano), Federico Butera (Università Bicocca Milano), Giovanni Castellucci (AD di Atlantia e Autostrade per l’Italia), Emilio Bartezzaghi (Politecnico di Milano), e Andrea Rangone, AD di Digital360. IN ITALIA 10,5 MILIONI DI POSTI NUOVI E 8 MILIONI DI POSTI PERSI «La digitalizzazione polarizzerà i posti di lavoro: aumenterà la domanda di skill di livello alto e molto basso, e ridurrà nettamente quella di skill intermedi – ha detto Bonomi aprendo i lavori -. Secondo nostre stime (“Lombardia 4.0. Competenze e lavori per il futuro”) Industria 4.0 genererà 2,5 milioni di posti di lavoro in più, ma come saldo tra 10,5 milioni di posti nuovi e 8 milioni persi. Su questo occorrono profonde
MANAGEMENT | AUTOMAZIONE E LAVORO, IL RISCHIO “DIGITALIZZAZIONE LENTA”
«L’impresa non è un’istituzione benefica, ma il suo ruolo sociale è fondamentale. Deve creare valore, ma in modo sostenibile nel tempo, rispettando regole e sensibilità sociali, e investendo nel reskilling delle risorse umane»
riflessioni perché l’impresa è un elemento fondamentale di coesione sociale, e d’altra parte l’Italia è la seconda manifattura europea, e dobbiamo fare in modo che lo rimanga». L’impatto dell’automazione sui posti di lavoro è un problema che si è già posto diverse volte in passato, ma stavolta l’aspetto inedito è che sono moltissimi i tipi di lavoro potenzialmente interessati, ha sottolineato Bertelè, che ha iniziato il suo intervento citando due analisi. Una, di Frey e Osborne (Oxford University), dice che il 47% dei lavori rientra nella categoria “ad alto rischio”, cioè destinati a essere automatizzati nei prossimi 10-20 anni. La seconda, di McKinsey, ha studiato 800 professioni in 19 settori (quelle svolte dall’80% della forza lavoro mondiale), appurando che quelle completamente automatizzabili sono solo il 5%, ma nel 60% dei casi è automatizzabile almeno il 30% delle attività, cioè circa la metà del totale delle ore lavorate. «Queste stime considerano solo le tecnologie digitali che già ci sono, operative o in fase di sviluppo. Il fatto è che l’automazione ha un doppio effetto: migliora performance, qualità dei prodotti e produttività, e riduce i posti e quindi il costo del lavoro». Nonostante da anni la produttività stagnante sia il maggiore problema delle economie occidentali, quindi, l’aumento di produttività che la digitalizzazione comporta fa paura. «È lo stesso meccanismo creato dal prezzo del petrolio basso, o dall’inflazione bassissima: al mondo economico non piacciono gli sbalzi forti, perché lo costringono a cambiare profondamente». TRA DISOCCUPAZIONE “DA TECNOLOGIA” E DA “NON-COMPETITIVITÀ” Un conto quindi – sottolinea Bertelè - è l’impatto positivo nel lungo periodo, non solo in termini di saldo di posti di lavoro («la digitalizzazione per esempio può rendere conveniente riportare in Italia attività delocalizzate»). Un conto invece è lo scenario più probabile nel breve-medio: contrazione in assoluto dei posti di lavoro - in particolare di quelli tipici della classe media - e divaricazione nelle remunerazioni, con conseguente crisi degli equilibri sociali e politici, che obbliga la collettività a ripensare tali equilibri e crea una forte percezione
di pericolo. Per l’Italia, che vede nascere e crescere poche imprese digitali, il problema potrebbe essere più grave rispetto a Paesi come Stati Uniti e Cina. Anche perché la tempistica è decisiva. «Se il processo di digitalizzazione è lento, è più facile per un territorio assorbire gli impatti negativi sull’occupazione, ma d’altra parte per le sue imprese sale il rischio di perdere competitività: per evitare la disoccupazione “causata” dalla tecnologia si rischia la disoccupazione da “non-competitività”». Insomma la situazione dell’Italia non è rosea, osserva Bertelè, però ci sono segnali positivi: nelle
imprese sta fortemente aumentando la consapevolezza della rilevanza del digitale, e il mondo politico ha capito la necessità di interventi per rafforzare le infrastrutture digitali, e per incentivare gli investimenti in innovazione e la crescita di startup hi-tech. «L’impresa non è un’istituzione benefica, ma il suo ruolo sociale è fondamentale. Deve creare valore ma in modo sostenibile nel tempo, rispettando regole e sensibilità sociali, e investendo nell’upskilling reskilling delle risorse umane. L’innovazione digitale crea forti squilibri nelle risorse umane, valorizzando alcuni skill e deprezzandone altri: occorre intervenire sullo squilibrio riconvertendo il numero maggiore possibile di persone». Quanto allo Stato, oltre a promuovere l’innova-
I protagonisti del convegno “Digitalizzazione. Opportunità o minaccia per l’occupazione e la distribuzione del reddito?”
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MANAGEMENT | AUTOMAZIONE E LAVORO, IL RISCHIO “DIGITALIZZAZIONE LENTA”
Bertelè: «Oltre agli immediati risvolti umani e sociali, la riconversione dei lavoratori ha una decisiva valenza economica, perchè restituisce loro capacità di spesa»
zione, ha un ruolo cruciale in questa riqualificazione e ricollocazione delle competenze, prevedendo anche ammortizzatori sociali se gli squilibri sono troppo forti: «Oltre agli immediati risvolti umani e sociali, la riconversione dei lavoratori ha una decisiva valenza economica – ha concluso Bertelè -. Il capitalismo è sopravvissuto finora perché è sempre stato capace di redistribuire almeno in parte la ricchezza che genera: non solo queste persone devono vivere, ma devono anche spendere per far girare l’economia».
di valore, rapporti con i clienti, modello di business, e anche l’organizzazione - ha detto Emilio Bartezzaghi, che al Politecnico di Milano insegna proprio Sistemi Organizzativi -. Stiamo studiando casi di imprese con modelli Lean evoluti che hanno tassi di sviluppo tecnologico più alti della media: un’altra conferma del forte legame tra innovazione tecnica e organizzativa».
BUTERA: «LE STRUTTURE BUROCRATICHE E I MANSIONARI SI DISINTEGRANO»
Secondo Giovanni Castellucci, chi entra in azienda va esposto subito ai problemi: deve poter dare subito il suo contributo, e questo si ottiene solo “appiattendo” l’organizzazione: «In Telepass per esempio non c’è l’ufficio organizzazione del personale: una decisione volontaria di destrutturazione, in modo da favorire al massimo il lavoro a progetto». L’AD di Atlantia e Società Autostrade è convinto: «L’ipercompetizione soprattutto a livello di medie imprese non potrà non trasferirsi alle università e ai giovani. Siamo ormai in una situazione “the winner takes it all”, l’imprenditorialità oggi premia di più che in passato, scomparirà tutta una fascia di ruoli intermedi, meno persone di prima lavoreranno, e lavoreranno molto di più». Sull’imprenditorialità come risposta almeno parziale al problema occupazione è d’accordo anche Andrea Rangone: «L’elemento critico è la capacità del sistema Italia di favorire la nascita di nuove imprese. Nelle tre precedenti rivoluzioni industriali buona parte dell’occupazione è nata nelle nuove imprese. Ogni anno negli USA 1,5 milioni di posti di lavoro sono creati da aziende nate da meno di 12 mesi, e il 95% dei posti da aziende con meno di 5 anni di vita (dati Kauffman Foundation, ndr). Insomma in Italia occorre iniziare a parlare di cultura imprenditoriale fin dalle scuole primarie, e la politica industriale deve prevedere un insieme organico di misure per favorire la nascita di imprese. Gli studenti devono pensare che fare impresa è il modo migliore di crearsi un posto di lavoro».
Si pone grande attenzione allo sviluppo delle tecnologie “disruptive”, non altrettanta ai nuovi sistemi organizzativi necessari per sfruttarle al massimo, ha detto poi nella tavola rotonda il sociologo Federico Butera: «Un esempio è il gruppo Bonfiglioli, che sta cercando di creare una “impresa rete”: questi nuovi sistemi bisogna progettarli, le competenze di progettazione di nuove strutture organizzative, sistemi produttivi e così via saranno cruciali». Le tecnologie digitali disintermediano e creano connessioni senza precedenti, continua Butera: «Le organizzazioni burocratiche e i mansionari si disintegrano, e nascono strutture molecolari basate su team con competenze fortemente flessibili. Gli strumenti per orientamento, ricollocazione, formazione continua che attualmente usano imprese e università sono inadeguati: ne occorrono altri». Occorre quindi un ripensamento imponente, di cui l’impresa, ha aggiunto Massimo Bonini, non può occuparsi da sola: «In una fase in cui il paese, la società e il mondo del lavoro rischiano di essere travolti dai cambiamenti, tutti i soggetti devono essere coinvolti: in particolare nella trasformazione dei luoghi di lavoro i lavoratori devono essere protagonisti, adeguando le competenze con un apprendimento permanente». «L’impresa deve inserire i progetti 4.0 in un disegno strategico che comprende tutto: creazione | 36 |
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L’IMPRENDITORIALITÀ OGGI PREMIA PIÙ CHE IN PASSATO
PERCORSO EXECUTIVE IN
GESTIONE DELLA DIGITAL INNOVATION Direzione: Mariano Corso e Raffaello Balocco
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DIGITAL TRANSFORMATION - HR di
Tre imprese italiane su 4 non trovano laureati con gli skill digitali che cercano: il parere degli HR Manager
DANIELE LAZZARIN
ANDREA RANGONE CEO DIGITAL360
Il gap di preparazione degli studenti si sta riducendo ma rimane, soprattutto sulle esperienze concrete. Oltre 2000 i corsi universitari italiani su tecnologie e imprenditorialità, mentre le imprese sono molto interessate a skill di Big Data Analytics, Digital Marketing, Industria 4.0, comprensione dei clienti e problem solving. Ma non investono abbastanza in formazione. I risultati di una ricerca di University2Business
«Il gap di competenze digitali degli studenti universitari si sta riducendo: negli ultimi due anni è raddoppiata - dal 6% al 12% - la percentuale di coloro che hanno sviluppato progetti digitali concreti e che possiedono un’alta conoscenza teorica, ed è calata sensibilmente la quota di coloro senza competenze teoriche e concrete, passata dal 67% al 54%. Ma non basta: una fetta ancora troppo grande degli universitari è ancora inconsapevole di quanto il digitale stia trasformando la cultura aziendale, i processi e i modelli di business, e ha una scarsa conoscenza teorica e un’ancora più lacunosa competenza pratica. Gli atenei stanno aggiornando la loro offerta formativa, ma anche le imprese, che scontano difficoltà nel reclutamento di profili adeguati, devono fare la loro parte, aumentando gli investimenti in piani di formazione che mettano al centro competenze digitali e imprenditoriali». Così Andrea Rangone, CEO di Digital360, sin| 38 |
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tetizza i risultati della ricerca “Il futuro è oggi: sei pronto?” condotta da University2Business, società appunto del Gruppo Digital360, in collaborazione con Enel Foundation. La ricerca ha coinvolto un campione di 2161 studenti, statisticamente significativo dell’intera popolazione degli universitari italiani, per approfondirne la preparazione sull’innovazione digitale e sull’imprenditorialità, ha analizzato l’offerta formativa sul tema delle principali Università italiane, e approfondito il parere di 251 HR manager delle principali imprese del Paese su competenze digitali e mindset imprenditoriale dei talenti del futuro. SOLO IL 38% DELLE IMPRESE INVESTE NELLO SVILUPPO DI COMPETENZE DIGITALI Scendendo in dettaglio proprio sul punto di vista delle imprese, oltre 2 su 3 considerano le competenze imprenditoriali e digitali requisiti
DIGITAL TRANSFORMATION - HR | TRE IMPRESE ITALIANE SU 4 NON TROVANO LAUREATI CON GLI SKILL DIGITALI CHE CERCANO
Quando si tratta di inserire un neolaureato in azienda, per il 53,4% delle aziende le competenze digitali sono molto importanti, addirittura fondamentali per il 19%
molto importanti per assumere, ma ben il 76% fatica a trovare laureati digitalmente preparati. Allo stesso tempo, però, sono ancora le poche le imprese che investono nello sviluppo di competenze digitali (38%) e imprenditoriali (28%) dei propri dipendenti. Quando si tratta di inserire un neolaureato in azienda, per un’impresa su due le competenze digitali sono molto importanti (53,4%), addirittura fondamentali per il 19%. E secondo gli HR manager, le principali aree di innovazione su cui investire nel prossimo futuro sono Big Data Analytics, Digital Marketing, Industria 4.0 (34,7%), Social Media (25,1%) e Cloud Computing (24,7%). Ma trovare personale preparato è difficile per uno su due (51%), molto difficile per uno su quattro (24,7%). Anche le competenze imprenditoriali sono molto apprezzate: importanti per il 55,4% delle imprese e fondamentali per l’8%. Le aziende hanno alte aspettative anche sulle competenze digitali e imprenditoriali dei dipendenti, soprattutto la capacità di adattare comportamenti e modalità di lavoro alle nuove tecnologie (Digital Change, 52,2%), la capacità di cogliere i bisogni nascosti dei clienti attraverso gli strumenti digitali (Customer Centricity, 34,7%) e l’attitudine al problem solving tramite l’uso del digitale (33,1%). Alla richiesta di competenze digitali e imprenditoriali, però, non corrisponde un’adeguata offerta di formazione da parte delle imprese. Soltanto un HR Manager su 4 ha effettuato una verifica delle competenze presenti in azienda, appena il 38% un piano formativo sul digitale e solo il 28% azioni per migliorare le capacità imprenditoriale del personale. Fra le imprese che hanno impostato piani formativi, il 37,5% ha avviato una ricerca di Digital Champions interni all’azienda che si facciano promotori di una cultura dell’innovazione, il 36,7% ha lanciato campagne di comunicazione e sensibilizzazione interna, il 25,9% ha offerto workshop sull’innovazione digitale, il 17,8% ha organizzato hackathon aziendali, il 17,1% ha promosso contest aperti ai dipendenti, il 14,3% ha
predisposto percorsi formativi strutturati, mentre il resto ha offerto corsi di formazione spot (8,8%) e formazione online (8,4%). Quanto alle altre parti dell’indagine, ne emerge che in media solo il 30% degli studenti universitari italiani conosce la definizione corretta di strumenti dell’innovazione digitale applicati al business come “mobile advertising”, “cloud”, “fatturazione elettronica” o “big data” (erano il 25% due anni fa), mentre ben il 60% non ha mai sentito nominare innovazioni digitali più di frontiera, come blockchain, Internet of Things o Industria 4.0. COMPETENZE DIGITALI: DALLA TEORIA ALLA PRATICA Solo il 21,5% (contro il 18,6% del 2015) ha un’esperienza concreta nella gestione di progetti digitali: il 38% ha già venduto online, il 26,9% gestisce una pagina Facebook, l’11,4% ha un canale YouTube e il 9,8% un proprio sito o blog. È in deciso miglioramento la competenza nello sviluppo software, la cui importanza è compresa ormai da 4 studenti su 10 con un’incidenza trasversale tra le facoltà: il 16% sa già sviluppare (contro il 10% di due anni fa) e il 29% sta ancora imparando (il 20% nel 2015). Il 27% ha avuto almeno un’idea di business, ma non sa cosa fare concretamente per avviarla, e la maggior parte tende ad avere un’idea ancora conservativa dell’impatto delle tecnologie digitali nel mondo del lavoro: solo il 19% degli studenti crede, infatti, che il digitale favorisca lo sviluppo di modelli di business innovativi e discontinui rispetto al passato. Quanto all’offerta, sono complessivamente 2140 gli insegnamenti delle università italiane con temi digitali e imprenditoriali: i corsi “digitali” sono particolarmente diffusi nelle facoltà informatiche e scarsi in quelle scientifiche, i corsi “imprenditoriali” sono ben presenti nelle facoltà economiche, ma tuttora rari in quelle scientifiche e informatiche. www.digital4executive.it
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I prossimi Convegni
Gli Osservatori Digital Innovation della School of Management del Politecnico di Milano organizzano ogni anno oltre 30 convegni pubblici di presentazione dei risultati delle ricerche, con testimonianze del Top Management di importanti imprese nazionali e internazionali. Per offrire una fotografia accurata e continuamente aggiornata sugli impatti che le tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) hanno in Italia su imprese, pubbliche amministrazioni, filiere, mercati. Le ricerche affrontano i più importanti temi dell’Innovazione Digitale per elaborare strategie e modelli per molteplici ambiti B2c, B2b, PA, Professinisti e Startup: finance, customer experience, export, gioco online, risorse umane, sanità, beni e attività culturali, retail, turismo, media, banking, food, sport, manufacturing, supply chain finance, logistica.
di presentazioni dei risultati delle Ricerche degli Osservatori Ambiti di innovazione nella logistica: esperienze a confronto Osservatorio Contract Logistics ”Gino Marchet”
La logistica si presenta come un settore in continua evoluzione: con essa stanno cambiando e si stanno evolvendo i modelli distributivi e i servizi legati al paradigma dell’omnicanalità, la gestione dell’ultimo miglio, le logiche di gestione ed approvvigionamento dei punti vendita, il miglioramento continuo nelle relazioni di fornitura e sub-fornitura, le innovazioni tecnologiche in ambito trasporti e magazzino con focus sulla sostenibilità economica ed ambientale. L’obiettivo del convegno è quello di illustrare casi di “innovazione” riguardanti le tematiche trattate dall’Osservatorio Contract Logistics in questi 7 anni di ricerca, con un focus specifico nei confronti dei seguenti temi: servizi a valore aggiunto (ad es. factory logistics, lean, assemblaggio e lavorazione prodotto, advanced packaging, …); innovazioni nella relazione tra committente e fornitore di servizi logistici; innovazioni di tipo tecnologico; innovazioni di processo; best practice in specifici settori.
Convegno di presentazione dei risultati della Ricerca 2017 Osservatorio Information Security & Privacy
L’avvento del nuovo Regolamento europeo sulla Protezione dei Dati Personali (GDPR) ha letteralmente sconvolto il mercato digitale nel corso dell’ultimo anno. L’attenzione alle modalità con cui raccogliere ed utilizzare i dati dei clienti, e la scelta delle tecnologie da mettere in campo per garantirne la sicurezza, sono sempre più un punto nodale nel percorso di introduzione di nuovi progetti di innovazione digitale. Accanto a ciò, la crescente minaccia derivante da attacchi sempre più sofisticati ha smosso l’interesse del mercato delle soluzioni tecnologiche legate alla sicurezza dei dati, che riscuotono sempre maggior successo. Durante il convegno verranno presentati i risultati della Ricerca 2017 e interverranno i Responsabili dell'Information Security (CISO), della Sicurezza (CSO), dei Sistemi Informativi (CIO) e del Risk Management di aziende della domanda, i referenti delle principali aziende dell'offerta in ambito Information Security ed esperti di settore con approfondimenti tecnici e normativi.
Supply Chain Finance: il credito di filiera verso nuove prospettive Osservatorio Supply Chain Finance
Con il termine Supply Chain Finance si identifica un mix di modelli, soluzioni e servizi finalizzati all’ottimizzazione delle prestazioni finanziarie – e, in particolare, al controllo del Capitale Circolante – sfruttando la conoscenza approfondita delle relazioni di Supply Chain. L’obiettivo dell’Osservatorio è generare e condividere conoscenza sul Supply Chain Finance, contribuendo alla diffusione di queste soluzioni nel mercato italiano a beneficio di tutti gli attori, stimolando il confronto e il dialogo attraverso la formazione di una community di C-level. La Ricerca 2017-2018 si è articolata sui seguenti quattro principali filoni: il mercato del Supply Chain Finance; il ruolo dei nuovi attori; la valutazione del merito creditizio; la creazione di un modello di scelta. Accanto a questi filoni centrali, sono stati affrontati anche quattro macro-temi trasversali: vertical settoriale sulla PA; applicazione PMI; gestione a livello internazionale; tecnologia per il SCF. La Ricerca è stata condotta in stretta collaborazione con Partner, Sponsor e Advisory Board, elemento distintivo di questo specifico Osservatorio.
30.01.2018 (9:30-13:00) CNH Industrial Village Strada di Settimo, 223 10156 Torino, TO)
06.02.2018 (9:00-13:00) Aula Magna Carassa-Dadda Politecnico di Milano Campus Bovisa Edificio BL28 Via Lambruschini, 4 20156 Milano
15.03.2018 (9:00-13:30) Aula Magna Carassa-Dadda Politecnico di Milano Campus Bovisa Edificio BL28 Via Lambruschini, 4 20156 Milano
Scopri tutti i prossimi convegni e rivedi quelli passati su: www.osservatori.net/it_it/convegni
ADVERTORIAL
Retail, è tempo di digitalizzare la turnazione delle persone
I paradigmi di business post-crisi hanno indotto anche il mondo del retail a ricercare nuovi modelli organizzativi, avvalendosi del supporto delle tecnologie di ultima generazione. La gestione delle risorse umane tout court nell’ambito delle catene di punti vendita è caratterizzata oggi da una complessità, che ha impatti significativi sia dal punto di vista dell’amministrazione che da quello della gestione. «Trovare risorse motivate e/o qualificate è spesso complesso», sottolinea Giacomo Favagrossa, Direttore Commerciale di Intelco Italia Informatica. «Ma non si tratta solo di questo. La complessità risente anche degli alti costi che oggi ha la formazione, dell’elevato turn-over, della difficoltà di riuscire a registrare e sistematizzare i dati relativi alle presenze e assenze. Inoltre la contrattualistica e la normativa ancora risultano essere poco adeguate alle reali esigenze di business». Queste sono solo alcune delle sfide che quotidianamente incontra una azienda del settore retail. Intelco offre oggi soluzioni per gestire proprio alcune di queste complessità: l’organizzazione del lavoro con la turnazione e i work-flow autorizzativi, con vincoli tecnici sulle skill di ciascuna risorsa che fa parte delle squadre operative e sulle dashboard di analisi rispetto al budget di costo e di venduto. «Con il supporto delle nuove tecnologie software, proponiamo ai nostri clienti del mondo retail varie versioni di sistemi che supportano la “gestione turni”, soluzioni nativamente integrate con la rilevazione presenze e la business analytics. L’obiettivo è duplice: offrire all’organizzazione aziendale uno strumento utile, condiviso e aperto a ulteriori collegamenti in ambito
INTELCO SUPPORTA LE GRANDI AZIENDE CON SOLUZIONI, NATIVAMENTE INTEGRATE CON LA RILEVAZIONE PRESENZE E LA BUSINESS ANALYTICS, CHE CONSENTONO DI GESTIRE I TURNI E I WORK-FLOW AUTORIZZATIVI
GIACOMO FAVAGROSSA Direttore Commerciale Intelco Italia Informatica
IoT, ad esempio, nonchè progettare i nuovi flussi e aiutare il personale operativo nei negozi», sottolinea Favagrossa. Il pianificatore aziendale ha la possibilità di visualizzare sulla piattaforma software, fruibile anche da mobile, proposte di turni che offrono viste sui costi e sui vincoli tecnici, e di operare e modificare la pianificazione nella certezza che, una volta terminata la progettazione, sia l’iter autorizzativo che la successiva chiusura a rilevazione siano integrate e condivise, in tempo reale. Grazie al Cloud la piattaforma può ovviamente comunicare a tutti i livelli con altri sistemi (oltre che con i gestionali, ad esempio, con i software per il conteggio degli ingressi e la rilevazione dei comportamenti della clientela nel punto vendita) e la base dati relazionale ottenuta potrà essere storicizzata e fruita per ulteriori analisi. A giocare un ruolo strategico c’è anche l’intelligenza artificiale: «Basti pensare a sistemi esperti applicati alle piattaforme per l’organizzazione del personale, che possono offrire prospettive impensabili fino a pochissimi anni fa. Questa è la sfida che Intelco ha intrapreso per il retail, progetti d’innovazione digitale per una piattaforma HR non standard, d’eccellenza, per offrire sempre un vero “valore” aggiunto che possa fare la differenza», conclude Favagrossa.
P ER U LT ER I O R I I N F O R MA ZIONI...
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DIGITAL TRANSFORMATION - HR di
MANUELA GIANNI
Zambon, tutto il personale a “scuola di digitale” Un progetto di trasformazione guidato da HR che prevede diverse iniziative, tra cui un checkup per capire il livello di “digital readiness” e la capacità di “lateral thinking” di ciascuno dei 2800 dipendenti ed esperienze di apprendimento immersive. L’obiettivo è diffondere la “cultura digitale” a tutti i livelli dell’azienda, spiega Simonetta Bocca, Head of Global HR, Open Organization & Digital Strategy
L’attenzione alle persone è nel DNA di Zambon sin dalla sua fondazione, 110 anni fa, così come la volontà di innovare e di reagire rapidamente ai cambiamenti. È ancorandosi a questi valori che l’azienda è cresciuta diventando nel tempo un’eccellenza italiana nel mondo. Attiva nel settore farmaceutico e della chimica, non solo in Europa, ma anche in America e Asia, con un fatturato di consolidato di circa 670 milioni di Euro. Oggi Zambon si sta preparando ad entrare nell’era digitale, puntando ancora una volta sulle persone. «In questa era così complessa, le persone di qualità e di esperienza diventano ancora più essenziali - ha affermato di recente Elena Zambon, Presidente dell’azienda -. Abbiamo una grande attenzione allo sviluppo dei talenti interni, affinchè siano loro stessi artefici del cambiamento che vogliamo realizzare in una logica partecipativa e di coinvolgimento». Una visione che si traduce in un modello di impresa aperta che punta a cogliere tutti i vantaggi delle nuove tecnologie. E che ha portato, già lo scorso anno, ad una riorganizzazio| 42 |
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ne aziendale mirata proprio a spingere sull’acceleratore della digitalizzazione del lavoro, avviando un nuovo piano strategico e diverse iniziative all’avanguardia nel mondo pharma. Ce le ha raccontate Simonetta Bocca, HR Director di Zambon da un anno. Come è cambiata la strategia HR di Zambon per adattarsi al nuovo contesto digitale in cui stiamo vivendo? L’anno scorso Zambon ha fatto la scelta di mettere sotto lo stesso cappello la People Strategy e la Digital Transformation, che vengono considerate strettamente collegate fra di loro, enabler una dell’altra. L’obiettivo della riorganizzazione è quello di essere più focalizzati e rapidi nell’ottenere i risultati. Tutti parlano oggi di Digital Transformation, ma sono poche le aziende che fanno davvero qualcosa che riguarda l’ambiente di lavoro delle persone e la trasformazione interna. Il primo obiettivo che ci siamo dati è quello di diffondere in Zambon la cultura del digitale e dell’in-
DIGITAL TRANSFORMATION - HR | ZAMBON, TUTTO IL PERSONALE A “SCUOLA” DI DIGITALE
novazione. Vogliamo creare un linguaggio comune, dare a tutti, dai nostri operai ai top manager, in tutti i Paesi dove siamo presenti, le competenze per fare innovazione e affrontare le sfide globali. Da dove siete partiti? Volevamo innanzitutto capire quanto la nostra organizzazione, così complessa e ampia, fosse pronta per affrontare la digital transformation. Abbiamo effettuato perciò un “digital check up” su tutta la popolazione, un assessment attraverso un game online con l’obiettivo di capire sia il livello di readiness digitale, intesa come la capacità di trarre valore dalle tecnologie digitali, sia l’attitudine al “lateral thinking”, ovvero la capacità di scaricare a terra l’innovazione e di “risolvere” problemi in modi creativi. Il progetto, realizzato in collaborazione con p4I-Partners4innovation, nel primo pilota ha coinvolto 1.000 persone, nelle sedi di Italia, Svizzera, Spagna e Portogallo ed è proseguito negli altri paesi Zambon. A fine febbraio 2018 tutti i nostri dipendenti avranno avuto l’opportunità di effettuare il Digital Check up. Che risultati avete ottenuto con il digital checkup? È stato un incredibile successo: abbiamo avuto una redemption altissima, del 95% medio con punte del 99%: segno che abbiamo un tessuto di collaboratori disposto all’innovazione, che ha voglia di “fare”. Del resto oggi tutti utilizziamo il digitale nelle nostre vite personali, anche i blue collar, che in Zambon sono tutti specializzati e diplomati e sono risultati molto prepararti. Ed è stato anche divertente: il checkup era strutturato come un gioco e alla fine restituiva un profilo associato a un personaggio: il saggio, il coraggioso, il pragmatico e il visionario o un “innovatore” come Steve Jobs, Jeff Bezos. I risultati hanno spesso sorpreso. Da qui ora stanno nascendo due grandi progetti: una Digital School e un nuovo digital workplace.
do sono entrati i pc nel mondo del lavoro: sembrava impossibile che li usassero tutti, ora è normale. In parallelo partiranno anche percorsi specifici per ruolo ricoperto, dando priorità alle figure per cui il digital è fondamentale per le attività lavorative, come il marketing e i sales. Cos’è invece il digital workplace? Uno degli obiettivi di Zambon è essere un’azienda aperta e flessibile, quindi servono nuovi strumenti per lavorare in modo più “open”. Stiamo creando una nuova Intranet più moderna, dinamica, una piattaforma collaborativa che permette la condivisione di documenti e informazioni. Svilupperemo nuove applicazioni per facilitare il collegamento fra persone che operano in location lontane e parlano lingue diverse. Sono soluzioni che servono anche ad avvicinare all’azienda le persone che operano sul territorio - e nel farmaceutico sono tantissime - per facilitare la loro vita professionale e farle sentire davvero parte dell’organizzazione. L’idea è distribuire le informazioni in tempo reale, ad esempio la documentazione per gli informatori, perché possano fruirne quando sono davanti al medico. Questi nuovi strumenti di collaborazione sono la base per implementare lo smart working, ovvero per permettere ai collaboratori di lavorare ovunque. Non abbiamo ancora un’iniziativa strutturata di smart working, ma ci stiamo lavorando e ci arriveremo. Quando prevede di introdurre lo smart working? È un obiettivo per i prossimi anni. Nelle filiali estere in realtà è già molto diffuso, perché si tratta di filiali commerciali e il personale come dicevo già opera sul territorio. Lo smart working richiede un grande sforzo per misurare il risultato e non la presenza: bisogna ancora superare qualche reticenza dei manager. SIMONETTA BOCCA HEAD OF GLOBAL HR, OPEN ORGANIZATION & DIGITAL STRATEGY, ZAMBON
Come si immagina questa scuola digital di Zambon? Sarà concepita come un percorso di apprendimento immersivo e partecipato, con diversi livelli di ingresso, diversi programmi e prove basate su meccanismi di gamification. Per coinvolgere le persone useremo la metafora dell’allenamento sportivo poiché le competenze digitali cambiano con una tale rapidità che l’unica possibilità per essere sempre al passo con i tempi è proprio un allenamento continuo. Saranno coinvolti docenti esterni e 7 partner a livello internazionale oltre a docenti interni e persone con particolari competenze specifiche. E chi dalla survey è risultato avere più alte competenze diventerà un ambassador del progetto, un mentore per i colleghi. L’obiettivo è dare a tutti le competenze su cui costruire il futuro di Zambon: Il passaggio che stiamo vivendo è paragonabile a quanwww.digital4executive.it
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DIGITAL TRANSFORMATION - HR di
MANUELA GIANNI e GAIA FIERTLER
I Direttori HR italiani e le sfide della digital innovation Dallo smart working all’analisi dei dati, dalle app di valutazione delle performance ai progetti per coinvolgere i millennials, dalle piattaforme a supporto dei processi alle professioni del futuro: sono alcuni temi su cui si sono confrontati 10 responsabili delle risorse umane di importanti aziende italiane in una tavola rotonda all’HR Forum di Milano. Tanti e differenti i cantieri di innovazione aperti, ma il “lato umano” resta sempre l’aspetto più importante
I direttori del personale di alcune importanti aziende italiane si sono confrontati sui trend HR e sulle sfide poste alle direzioni Risorse Umane dall’avanzata dell’innovazione digitale in una tavola rotonda dal titolo “L’evoluzione della funzione HR nelle organizzazioni del futuro”, organizzata da Data Management HRM in occasione dell’HR Forum 2017. Le tecnologie, di fatto, sono già entrate nel business di tutti i giorni. Ma come impattano, nello specifico, software di intelligenza artificiale, robotizzazione, big data, analytics, cloud e mobile sulle risorse umane e sulla loro gestione? Cosa fanno gli HR manager per mettersi al passo, supportare la trasformazione digitale e facilitare le persone ad accettare il cambiamento di parametri e modalità di lavoro, a coglierne le opportunità senza troppa paura? Ne è emerso un quadro con molte sfaccettature, che impegna gli HR manager su molteplici fronti, con tanti cantieri di innovazione aperti. Sono principalmente due i livelli di intervento evidenziati nel corso | 44 |
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della tavola rotonda. Il primo è su un piano culturale, di accompagnamento al cambiamento, e orientato a individuare le competenze per il nuovo contesto digitale, ma valorizzando il “lato umano”. L’altro punta sugli strumenti operativi digitali a supporto di una gestione più innovativa dei processi HR e degli strumenti per lo sviluppo delle risorse umane stesse, in una visione della funzione HR più vicina alle esigenze del business. FAVORIRE LA CONTAMINAZIONE, COINVOLGERE I NATIVI DIGITALI Reale Mutua Assicurazioni, per esempio, ha messo in piedi una piattaforma collaborativa proprio per agevolare le persone a lavorare insieme e favorire la “contaminazione” superando la struttura gerarchica e i silos funzionali, che rallentano lo scambio di informazioni e di best practice e limitano le occasioni di innovazione. Accompagnata anche da incontri for-
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no cambiando: per esempio, in prospettiva avremo bisogno figure professionali simili al data scientist che sappiano interpretare il dato anche in modo predittivo. Puntiamo ad accelerare il cambiamento verso una cultura manageriale più social, che permetta anche ai più giovani di esprimersi: se non sono stimolati spesso tendono a omologarsi al sistema, limitando il loro contributo nel diffondere le competenze sull’utilizzo di strumenti digitali», racconta Marcello Bugari, responsabile Academy e Comunicazione interna - Direzione Risorse Reale Mutua Assicurazioni. Si interroga sulle figure professionali che verranno anche Matteo Melchiorri, Human Capital Officer di Fastweb. Quali competenze ricercare? Quali nuovi ruoli serviranno in futuro per sostenere la strategia dell’operatore? Decisioni difficili per l’HR che vive un momento di forte discontinuità. «La sfida principale, però, è rimettere al centro la persona, e non il processo. La tecnologia in questo senso è un grande abilitatore: la nostra piattaforma HRM raccoglie i dati integrati di ciascuno. Quest’anno per la selezione dei neo-laureati abbiamo introdotto un tool on-line, in grado di restituire ai giovani candidati feedback di orientamento, che li aiutino a posizionarsi meglio in azienda, aumentando la loro employability e quindi la retention». LE DIREZIONI HR FACILITATRICI DEL CAMBIAMENTO CULTURALE mativi sul valore della cultura collaborativa, la piattaforma diventa così un ambiente per far emergere le persone con le competenze in linea con nuove modalità di lavoro. «Il nostro è un settore che sarà molto impattato dalla trasformazione digitale. I ruoli stan-
Anche in Air Liquide, che opera nel settore dei gas industriali e medicali, la digitalizzazione è realtà, tanto che la società già utilizza soluzioni applicative interamente in cloud che sostengono modi di
Da sinistra: Marcello Bugari, responsabile Academy e Comunicazione interna - Direzione Risorse Reale Mutua Assicurazioni, e Lara Carrese, Group HR & Organization Director, Prelios
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Da sinistra: Alessandra Scotti, HR Director - Process Automation South Europe Hub Schneider Electric, Paolo Minotti, Head of Field HR Siemens, e Matteo Melchiorri, Human Capital Officer di Fastweb
lavorare collaborativi. Ed è lì che interviene l’HR: «Il nostro ruolo è di facilitare il cambiamento, essere un supporto per la trasformazione digitale per i nostri mille dipendenti. In particolare con gli strumenti digitali a disposizione, come piattaforme per il performance management e valutazioni più frequenti, possiamo concentrarci sul potenziamento delle soft skill dei dipendenti, relazionali e comportamentali, che servono per affrontare mercati sempre più difficili. Ma c’è ancora diffidenza. Il cambiamento culturale deve partire proprio da noi se vogliamo diffonderlo nell’organizzazione», commenta Davide De Vita, Human Resources Director Air Liquide Italia. In Avio Aero, il business di GE che opera nella progettazione e produzione di sistemi aeronautici, l’HR sta invece accompagnando il passaggio da una cultura di management orientata al controllo a una cultura basata sull’empowerment delle persone. «Stiamo sperimentando nuovi sistemi digitali di supporto ai processi HR, che agevoleranno il nostro lavoro. In questo modo, essendo alleggeriti nella gestione ordinaria, potremo destinare più energie a progetti in grado di offrire maggior valore aggiunto,
sempre più focalizzati sullo sviluppo delle persone», sostiene Barbara Preti, HR director Avio Aero. Ha sottolineato l’importanza dei valori sottostanti l’uso delle tecnologie anche Alessandra Scotti, HR Director - Process Automation - South Europe Hub Schneider Electric. «È consolidato l’utilizzo di piattaforme per i processi di performance management, rewarding, sviluppo e formazione. Le tecnologie inoltre ci stanno aiutando a favorire l’inclusione, che è un concetto più forte del solo diversity management. Per esempio abbiamo sperimentato progetti di lavoro coinvolgendo dei Millennial e apprezzato un uso diverso della tecnologia per la collaborazione; utilizziamo anche un’app di recognition con cui i colleghi, a tutti i livelli in campo internazionale, si congratulano reciprocamente per un lavoro ben fatto e ben gestito con un riconoscimento secondo i valori aziendali; usiamo anche altre social platform amplificando la condivisione e la diffusione del sapere aziendale. L’uso di questi strumenti ormai ha preso piede anche fra i senior». VERSO L’ORGANIZZAZIONE ORIENTATA AI RISULTATI E LO SMART WORKING Che rispetto all’avanzare delle tecnologie la direzione HR sia chiamata a giocare un ruolo attivo e interpretativo del contesto è molto chiaro a tutti. Il lavoro sta cambiando, e serve agevolare nuovi modelli. «Le organizzazioni sono diventate fluide e destrutturate, con gruppi di lavoro che si creano e si sciolgono in base alle esigenze del business, e lo Smart Working ne è una conseguenza - sottolinea Paolo Minotti, Head of Field HR Siemens -. La trasformazione certo riguarda anche noi HR ed è nostro compito trovare gli strumenti di lavoro coerenti e promuovere e favorire lo sviluppo delle competenze». A questo proposito sta valutando l’introduzione di soluzioni in cloud di performance management e feedback continui, al posto della valutazione tradizionale, anche Prelios, dove a gennaio parte un pri-
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DIGITAL TRANSFORMATION - HR | I DIRETTORI HR ITALIANI E LE SFIDE DELLA DIGITAL INNOVATION Da sinistra: Davide De Vita, Human Resources Director Air Liquide Italia; Marzia Giulia Borganti, direttore Risorse Umane e Organizzazione Humanitas Research Hospital, e Maurizio Bodano, HR director di Richemont Italia
mo progetto pilota sullo Smart Working, preparato da un forte investimento culturale: «Siamo tutti in aula da settembre, con 26 moduli da tre giornate ciascuno, perché se la tecnologia è di certo un fattore abilitante per il successo di un modello di lavoro smart, il cambiamento culturale è condizione necessaria e indispensabile: sappiamo quanto una employee experience di qualità possa fare la differenza sui conti dell’azienda», commenta Lara Carrese, Group HR & Organization Director Prelios. ANALISI DEI DATI, MA CON LA SENSIBILITÀ UMANA La potenza dei computer oggi si esplica in particolare nella capacità di interpretare grandi quantità di dati e autoapprendere: un ambito che sta aprendo un mondo di nuove opportunità, anche in ambito HR. In Humanitas, che è non solo un importante ospedale ad alta specializzazione, ma anche un centro di ricerca e un’università, l’Intelligenza Artificiale è realtà: l’attività medico-ospedaliera sia quella didattica sono già supportate da sistemi intelligenti, tra cui Watson di IBM come tutor degli studenti (che attingendo alle cartelle cliniche, processa 200 milioni di pagine strutturate). «Le tecnologie facilitano la vita e ci rendono più attrattivi verso i giovani. In questo contesto, la funzione HR si deve focalizzare sulle competenze soft e la loro evoluzione», suggerisce Marzia Giulia Borganti, direttore Risorse Umane e Organizzazione Humanitas Research Hospital, sottolineando l’importanza dei processi di on boarding e di performance management in Humanitas. Sull’analisi dei dati si basano oggi molte decisioni. Ma quando si parla di gestione delle Risorse Umane serve molta attenzione. Maurizio Bodano, HR director di Richemont Italia, società cui fanno capo noti brand del lusso come Cartier e Monblanc, avverte in generale sulla necessità di una interpretazione intelligente dei dati, alla luce dei singoli contesti: «Abbiamo un’ampia disponibilità di dati,
che vengono restituiti dai sistemi, ma vanno interpretati correttamente in base al business e alla cultura di riferimento: presi astrattamente i numeri possono non dire niente o anche sviare da una lettura oggettiva della realtà». Interessante infine anche la testimonianza di Laborest Italia, azienda italiana del settore nella nutraceutica appartenente al gruppo spagnolo Uriach, in crescita del 30% negli ultimi due anni. «Sono stato chiamato a traghettare l’azienda dell’analogico al digitale - racconta Nicola Lavarino, direttore Risorse Umane di Laborest Italia -. Abbiamo in poco tempo sistemato i processi interni e quindi stiamo implementando il gestionale di gruppo anche in Italia. Altro esempio è che i nostri 170 agenti dell’informazione presenti sul territorio non girano con folder di carta ma presentano i prodotti, i numeri, video e immagini sui tablet. Non sono mancate le resistenze al cambiamento, ma le abbiamo superate, scoprendo i vantaggi del nuovo modo di lavorare e creando una cultura allineata con la casa madre. Conto di accelerare ulteriormente: abbiamo il vantaggio di essere agili e con tanta voglia di continuare a crescere».
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I dati delle due tabelle si riferiscono a instant poll realizzate tra i partecipanti alla tavola rotonda
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DIGITAL TRANSFORMATION - MANUFACTURING
Digital Blue Collar e Operaio 4.0: il lavoratore manuale nell’era digitale La trasformazione dell’economia e della società sta creando due tipi ben distinti di operatori: i primi sono gli addetti di fabbrica che padroneggiano le tecnologie Industria 4.0, i secondi sono nati con le piattaforme digitali, dall’autista di Uber al corriere di Deliveroo. Le loro competenze sono spiegate nel modello Digital DNA: l’analisi di Laura Cavallaro e Marco Planzi di P4I-Partners4Innovation
Quali sono le competenze digitali oggi necessarie ai cosiddetti colletti blu? Il tema è di grande interesse, perché una larga parte dell’economia dei paesi sviluppati, il 24% nell’Unione Europea e il 20% negli Stati Uniti, dipende da settori industriali. Settori che, almeno in Europa, sono costituiti per larga parte da piccole e medie imprese. Fin dalla stessa espressione “colletto blu” emerge la grandezza della sfida. Nata nel 1940, si riferisce al colore delle tute indossate dagli operai, scelto perché nasconde meglio le macchie dovute al lavoro in fabbrica. Nel tempo, l’espressione colletto blu è diventata simbolo del lavoro manuale degli operai, contrapposto al lavoro intellettuale d’ufficio dei “colletti bianchi”, che possono permettersi di vestire camicie bianche senza rischiare di sporcarsi. OPERAI E MANUTENTORI 4.0 Da una parte esiste una classe di operai che, in continuità con il passato, fa ancora in gran parte | 48 |
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attività manuale, anche se la tecnologia digitale in questo settore - definibile come Industria 4.0 - ha cambiato profondamente il loro lavoro. Sono diventati nei fatti veri e propri operai 4.0. Nel mondo sviluppato, la maggioranza degli operai è oggi coinvolta in produzioni ad alto contenuto tecnologico, sia di prodotto che di processo, o nella produzione di oggetti che richiedono frequenti modifiche e aggiornamenti. Si tratta di beni deperibili, complessi o ingombranti, la cui produzione difficilmente può essere esternalizzata verso paesi a basso costo: alimenti e prodotti congelati, mobili su misura, apparecchiature elettroniche e medicali ad alto contenuto tecnologico, produzioni di nicchia e di alta qualità di beni intermedi, produzione e distribuzione di energia elettrica, acqua e gas. Gli operai moderni sono molto più coinvolti in processi di produzione flessibili i cui output si adattano a una grandissima varietà di esigenze dei consumatori e del mercato. Una city-car economica come la nuova Fiat 500 prevede fino a 550 mila
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varianti tra colori, abbinamenti ed equipaggiamenti, mentre l’acciaieria americana Gary Industries oggi produce più di 700 tipi di acciai speciali, più della metà dei quali non esisteva 10 anni fa. Gli impianti e le tecniche di produzione diventano più complessi grazie alle tecnologie industria 4.0 e i lavori più semplici, quelli da catena di montaggio fordiana, diventano “delegabili” a macchinari e robot il cui funzionamento viene monitorato da un basso numero di operai-supervisori attraverso le informazioni raccolte da sensori connessi. Analoghe considerazioni valgono anche per la forza lavoro sul campo. I manutentori moderni si occupano di tenere in funzionamento asset intelligenti, parte di vere e proprie smart city o smart factory. Una parte sempre più significativa del loro lavoro sta nella capacità di usare nuove tecnologie per comunicare con i colleghi e gestire asset complessi distribuiti sul territorio. Tecnologie come la realtà aumentata, che richiede alta dimestichezza per essere padroneggiata anche in situazioni di lavoro potenzialmente pericolose, ma guida le attività passo dopo passo minimizzando la possibilità di errore, e anche riducendo l’importanza di competenze tecniche di manutenzione di dettaglio, grazie al supporto visivo e di contenuti interattivi contestualizzati come istruzioni e checklist. I COLLETTI BLU DIGITALI Esiste poi una nuova classe di operai – veri e propri digital blue collar – che non hanno legame con la fabbrica tradizionale e la cui nascita si deve a internet e a piattaforme digitali che abilitano nuove forme di lavoro. Piattaforme come Mechanical Turk di Amazon o Upwork, su cui le persone possono rispondere ad annunci di lavoro fatti da remoto. Nel caso di Mechanical Turk, si tratta di lavori altamente ripetitivi con compensi misurati in termini di centesimi di dollaro. Su Upwork, i lavori offerti possono richiedere competenze da white collar, ma in un contesto di competizione globale. Può quindi accadere che uno sviluppatore web indiano competa con un rumeno o un cinese, in una vera guerra di prezzi. Parallelamente a ciò, piattaforme come Airbnb, Uber, TaskRabbit, MyLittleJob, Postmates, Globo, Deliveroo creano nuovi lavori fortemente legati al territorio come l’host (il padrone di casa), l’autista, il personal shopper, il tuttofare, il postino o il corriere in bicicletta. Lavori tipicamente da blue collar ma interamente abilitati dal digitale, e privi delle caratteristiche di sicurezza e tutela dei diritti del lavoratore che nelle società industrializzate sono maturate in decenni di storia sindacale. Per le imprese dell’industria diventa importante quindi map-
LAURA CAVALLARO ASSOCIATE PARTNER P4I- PARTNERS4INNOVATION
pare il Digital DNA dei propri operai, per ottenere una mappa dell’attitudine individuale rispetto alle competenze digitali di rilievo per l’impresa, capire quali competenze è possibile sviluppare internamente e quali invece vanno inserite dall’esterno. A seconda dei piani di investimento, della maturità dell’impresa rispetto alla trasformazione digitale, e del settore, il Digital DNA può enfatizzare alcune aree di competenza penalizzandone altre. Alcune delle competenze mappabili nel modello però sono probabilmente importanti per qualsiasi industria. I “GENI DIGITALI” INDISPENSABILI PER L’OPERAIO 4.0 Il termine Industria 4.0 nasce in Germania nel 2011 ed esprime la visione secondo cui le imprese industriali e manifatturiere aumenteranno la propria competitività grazie alla maggiore interconnessione delle proprie risorse (impianti, persone, informazioMARCO PLANZI ASSOCIATE PARTNER P4I- PARTNERS4INNOVATION
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ni) distribuite lungo tutta la catena del valore, dalla Fabbrica e le Operations, fino alla Progettazione del prodotto-servizio, con impatti sulla Supply Chain. La spina dorsale dell’interconnessione è rappresentata dall’integrazione IT-OT (Information Technology – Operational Technology) che deve consentire una gestione e un utilizzo evoluto dei dati. A tal riguardo, il modello Digital DNA, sviluppato da P4I offre una mappatura delle competenze digitali che possono essere mappate sia in funzione degli obiettivi professionali dell’individuo sia degli obiettivi strategici dell’impresa. La declinazione del Digital DNA dell’operaio 4.0 si rifà alla Ricerca “ Jobs & Skills 4.0: quale evoluzione per professioni, competenze e formazione?” pubblicata dagli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano. OPERAI E DIGITAL BLUE COLLAR: DINAMICHE EVOLUTIVE DIFFERENTI Emerge un quadro divergente per le competenze degli operai. Da un lato, il colore del colletto dell’operaio 4.0 è metaforicamente meno blu poiché diventano importanti competenze digitali “soft” di
gestione, collaborazione e miglioramento continuo. L’evoluzione progressiva del Digital DNA degli operai 4.0 è una sfida decisiva per l’industria avanzata nelle economie dei paesi sviluppati, sia per ragioni di equilibrio sociale sia per interesse geopolitico. Dall’altro lato, la “divisa” dei digital blue collar è sempre più blu, con un Digital DNA molto focalizzato sul completamento delle proprie attività secondo le procedure e sulla soddisfazione del cliente. Anche affrontare le implicazioni sociali della nascita di questo tipo di lavori è una sfida complessa. È una componente dell’economia preziosa proprio perché è in forte sviluppo, nonostante permangano dubbi sulla loro sostenibilità e sulla scarsa sicurezza sociale che offrono. Va riconosciuto che molte delle piattaforme digitali offrono davvero un buon servizio e hanno modelli di business ingegnosi, con risparmi indubbi - economici e di tempi - per i clienti. Sui media si parla addirittura di “capitalismo delle piattaforme”, una vera trasformazione nel modo in cui beni e servizi vengono prodotti. Tuttavia, rimane poco chiaro come molte di queste piattaforme possano sopravvivere e generare valore anche al di fuori delle grandi città e delle megalopoli.
Il modello Digital dna Grazie alle esperienze progettuali maturate lavorando al fianco di alcune delle più importanti aziende italiane, P4I - Partners4Innovation, società di advisory del Gruppo Digital360, ha sviluppato il modello Digital DNA, che fornisce una visione integrata delle competenze digitali e comprende al suo interno sia le competenze tecniche sia le competenze soft connesse al digitale e all’innovazione. Non si tratta di un modello creato exnovo, ma della sintesi di diversi modelli sviluppati in letteratura nel corso degli ultimi anni da istituzioni ed esperti di settore europei e internazionali, integrati in un approccio unico. L’interpretazione di questo schema di
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riferimento non può essere rigida proprio per la natura sfuggente e dinamica del concetto di digitale. Diventa quindi importante declinare il modello e disegnare il Digital DNA di un’impresa, enfatizzando o sfumando quelle aree di competenza meno coerenti con gli obiettivi strategici e con il lavoro dei propri collaboratori. Nel caso dell’Industria 4.0, le competenze emergenti hanno impatto su tutta la catena del valore di un’impresa manifatturiera. Diventa quindi importante enucleare le competenze legate all’allineamento IT-OT, a Fabbrica e operations, alla progettazione del prodotto-servizio, alla Supply Chain, alla gestione e scienza dei dati.
DIGITAL TRANSFORMATION - MARKETING di
MANUELA GIANNI
Noci, PoliMi: «Marketing Manager Omnichannel, un direttore d’orchestra a fianco dell’AD» Sono finiti i tempi in cui un CMO poteva affidarsi a una sola agenzia e lavorare su una campagna alla volta. Oggi servono una vista integrata su tutti i canali, la gestione di task specializzati e complessi, nuove competenze di automation e analisi dei dati. «La complessità dell’ecosistema richiede una trasformazione anche organizzativa di questa figura, che assume un ruolo strategico»
Molto è cambiato sul fronte del Marketing in questi ultimi anni, spiega Giuliano Noci, Ordinario di Marketing al Politecnico di Milano. Questa funzione infatti sta sempre più elevando il suo ruolo nella catena del valore dell’impresa. Ormai è sempre meno rilevante la dimensione “prodotto”, mentre diventa sempre più qualificante la capacità dell’impresa di costruire un sistema di interazioni virtuose con il mercato. Dove evidentemente il digitale ha un ruolo molto importante. Questo significa che il CMO (Chief Marketing Officer) ha un ruolo sempre meno operativo, ed acquisisce invece una valenza strategica: deve diventare una sorta di super assistente dell’amministratore delegato. Questo perché sta cambiando il contenuto della proposizione di valore. Tale cambiamento, che va in una dimensione esperienziale, porta il marketing ad essere un elemento centrale della proposizione del valore come lo è stato, fino ad oggi, il processo di produzione. IN QUESTA TRASFORMAZIONE DEL MARKETING MANAGER, A CHE PUNTO SIAMO IN ITALIA? Nel caso specifico dell’Italia, secondo Noci, vi sono imprese di piccole dimensioni (larga parte del
GIULIANO NOCI ORDINARIO DI STRATEGIA E MARKETING POLITECNICO DI MILANO
sistema industriale italiano) che in verità stanno affrontando questo tipo di cambiamento, ponendo la dimensione digitale come elemento fondamentale. Quindi il Chief Marketing Officer (o il direttore commerciale) deve cercare di introdurre la dimensione digitale come ulteriore elemento che qualifichi il suo portafoglio di competenze. Evidentemente questo è un primo passaggio e non la soluzione. «Vi sono invece grandi imprese, con cui interagiamo frequentemente, che hanno una prospettiva più evoluta e che hanno quanto meno compreso quanto importante sia, attraverso il CMO, avere una prospettiva di integrazione di tutti i punti di contatto tra marca, impresa e consumatore», prosegue il docente. Questo è un elemento cruciale perché ci sono aziende multi-prodotto che servono lo stesso cliente con diverse offerte, e che non hanno costruito una vista integrata, che invece ormai è indispensabile, come testimonia il caso Amazon. Il colosso di Jeff Bezos infatti ha scardinato i paradigmi competitivi tradizionali, dimostrando che la classica organizzazione per settori merceologici è sempre meno rilevante: quello che fa la differenza è mettere il cliente al centro, e basare tutto sulla sua conoscenza. www.digital4executive.it
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Enterprise Security, è tempo di definire strategie a valore per il business
Secondo i dati rilasciati dal Clusit nel primo semestre del 2017 si sono registrati ben 571 attacchi informatici gravi, quasi il 10% in più rispetto allo stesso semestre dell’anno prima. Una crescita che sembra non arrestarsi e accende nuovamente i riflettori sull’urgenza di pensare all’Enterprise Security come a una strategia globale dell’azienda, non solo come mera scelta tecnologica. Ne abbiamo discusso con Alberto Roseo, General Manager di Lutech e Roberto Pozzi, Regional Director Southern Europe di Check Point Software Technologies.
OGGI AVERE CONSAPEVOLEZZA SU RISCHI E ATTACCHI INFORMATICI È IL PRIMO GRANDE PASSO. QUELLO SUCCESSIVO RIGUARDA L’AUTOTUTELA CHE SI FORMALIZZA CON IL CONCETTO E IL MODUS OPERANDI DELLA SECURITY BY DESIGN, PUNTANDO SUL DUAL-USE, UTILIZZO NORMALE E “ABUSIVO” DEI SISTEMI E DELLE APPLICAZIONI
ALBERTO ROSEO General Manager di Lutech
SERVE UNA MAGGIORE PRESA DI COSCIENZA SU RISCHI E VULNERABILITÀ «Oggi il tema della security non è più demandato ai Network Security Officer ma viene portato al tavolo di discussione dei Ceo», è la prima considerazione di Pozzi. «Tuttavia, gli investimenti da parte delle aziende non sono ancora adeguati ai rischi: il cybercrime oggi è caratterizzato da attacchi mirati il cui obiettivo è rubare dati e denaro». «Tutto l’hype mediatico che c’è oggi sul tema della Security tutto sommato “aiuta” le aziende a prendere maggiore consapevolezza riguardo ai rischi cui sono sottoposte», interviene Roseo. «Molto spesso però gli attacchi vengono percepiti come azioni di organizzazioni criminali internazionali dimenticando che, a volte, le falle nella sicurezza di un’azienda derivano da errori “tragicamente” banali; penso per esempio ad errori di design, di progettazione, di gestione della sicurezza che non possono essere risolti semplicemente identificando la tecnologia adeguata. In questo senso, servirebbe da
P ER U LT ER I O R I I N F O R M A ZIONI...
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ROBERTO POZZI Regional Director Southern Europe di Check Point Software Technologies.
parte delle aziende una maggior presa di coscienza sul fatto che la tecnologia, da sola, non può risolvere i problemi, servono governance, competenze, strategia… ancor di più oggi che la digitalizzazione estende la superficie di attacco e di rischio». Oggi non ha più nemmeno senso parlare di perimetro aziendale, non esiste più, aggiunge ancora Pozzi. «Il mondo sta diventando sempre più complesso e questo vale anche per la cybersecurity, ma c’è ancora molta immaturità sulle azioni di protezione; pensiamo ai device, quasi tutti hanno pensato alla protezione dei Pc e dei laptop ma sono pochissime le aziende che hanno installato
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«Non esiste una roadmap ideale o ipotetica: serve ragionare in un’ottica di prevenzione ricordandosi che dal punto di vista metodologico e tecnologico le declinazioni sono molteplici»
dei sistemi di sicurezza avanzata sugli smartphone dei propri dipendenti… eppure quella dei cellulari è una nuova superficie di attacco molto estesa». SECURITY BY DESIGN: CONSAPEVOLEZZA E AUTOTUTELA I PRIMI PASSI DA COMPIERE Se la consapevolezza sui rischi, come accennato, è il primo grande passo da compiere verso una efficace ed estesa strategia di Enterprise Security, «quello immediatamente successivo riguarda l’autotutela che nella nostra vision si formalizza con il concetto ed il modus operandi della Security by Design», puntualizza Roseo. «Pensare alla sicurezza già nel momento della progettazione di una applicazione o di un servizio digitale significa sollecitare continuamente il ragionamento sul dual-use (utilizzo normale e “abusivo” dei sistemi e delle applicazioni), anche mediante i cosiddetti Pressure Test (simulazioni di attacco) che generano sollecitazioni concrete tali da consentire eventuali interventi, in caso di necessità, prima che si verifichi un cyberattack reale. Tutto questo senza tuttavia rinunciare alla Digital Transformation o, al contrario, rinunciare alla sicurezza per avere funzionalità più avanzate o innovative: la vera sfida è integrare la sicurezza nei sistemi, nelle applicazioni, nei servizi digitali senza precluderne l’usabilità e l’experience da parte degli utenti». Scoprire il “nervo che duole” non è mai semplice, ancor di più quando si tratta di aziende complesse o di grandi dimensioni, è l’opinione di Pozzi. «Innanzitutto deve innescarsi un meccanismo di “trust” tra le parti, l’azienda utente, il partner con cui ha la relazione diretta e il vendor di tecnologia. Il compromesso, poi, rappresenta innegabilmente sempre il bilanciamento ottimale: per essere sicura e protetta un’azienda deve seguire una serie di regole e processi che non si limitano, come dicevamo, all’implementazione delle soluzioni tecnologiche, ma entrano nella sfera personale dei comportamenti e delle abitudini dei dipendenti e dei collaboratori». Se il compromesso e la fiducia sono gli elementi meno tangibili dei quali è però fondamentale tenere conto nello sviluppo di una concreta ed attiva Enter-
prise Security, sia Roseo sia Pozzi concordano sul fatto che «non esiste una roadmap ideale o ipotetica: serve ragionare in un’ottica di prevenzione ma dal punto di vista metodologico e tecnologico le declinazioni sono molteplici, dipende dalla natura dell’azienda, dal modello di business, dalla sua struttura organizzativa, dalla consapevolezza delle persone…». LUTECH E CHECK POINT: INSIEME PER DIVENTARE TRUST ADVISOR DELLE AZIENDE Entrando nel merito della proposta tecnologica (e non solo), Roseo presenta così quella che è oggi la value proposition di Lutech sul fronte della sicurezza: «Il cuore della value proposition di Lutech si basa su alcuni pilastri: Security Engineering “solido” e basato sulla conoscenza e capacità di integrazione delle migliori tecnologie, Cyber Intelligence, Breach Monitoring, Incident Response (sia la preparazione che il test e l’eventuale esecuzione), Pressure Testing». «Va vissuto come un mantra continuo l’approccio alla prevenzione, che è ciò su cui Check Point sta investendo fin dalle sue origini», fa sapere Pozzi. «Bisogna estendere continuamente la capacità e la superficie di difesa; diventando sempre più labili i perimetri (sia delle aziende sia quelli della difesa) ciò su cui va riposta l’attenzione è la fruizione dei dati (e quindi la loro protezione) che grazie al cloud arriva agli utenti “come l’acqua del rubinetto”. Check Point punta, come accennato, sulla prevenzione e per farlo sviluppa una piattaforma in grado di coprire con una profonda granularità tutti gli aspetti dell’Enterprise Security. Sta poi a realtà come Lutech riuscire a farne cogliere il valore alle aziende, proponendosi prima di tutto come Trust Advisor». «Affrontare la sicurezza dall’origine della Digital Transformation è il nostro modo per esprimere il valore dell’advisory», gli fa eco Roseo. «In quest’ottica aggiungo che la vicinanza con l’R&D israeliano di Check Point, di conseguenza la comprensione profonda della tecnologia, ci permettono di trasferire quella fiducia nella tecnologia che assicurano alle aziende trasparenza, il giusto dimensionamento, il supporto decisionale migliore nelle scelte architetturali e funzionali».
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NORMATIVE
di
Il regolamento UE sul trattamento dati e la pubblicità online di Google e Facebook
GABRIELE TORI
LEGAL CONSULTANT P4I-PARTNERS4INNOVATION
Per tutti gli operatori di Internet Advertising, e in particolare per i due “pesi massimi” del settore, si preparano grandi cambiamenti con l’entrata in vigore in Europa del GDPR, che renderà obbligatorio da maggio raccogliere un consenso specifico per l’uso dei dati personali: una dicitura generica come “migliorare l’esperienza degli utenti a scopo di marketing” o “ricerche future” non soddisferà la norma
Con l’applicazione prevista dal 25 maggio 2018 del Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati (noto come “GDPR”, acronimo della denominazione inglese), anche Google, Facebook e altri colossi digitali americani che trattano i dati personali di centinaia di milioni di persone europee dovranno adattarsi per poter utilizzare tali dati in loro possesso per scopi pubblicitari. Si tratta di una sfida ardua poiché, contrariamente a quanto ipotizzato in alcuni commenti in materia, non sarà utilizzabile un unico opt-in “di servizio” per tutto, ma sarà obbligatorio raccogliere un consenso specifico dell’utente. Nè, d’altro canto, Google e Facebook potranno negare l’accesso ai loro servizi a tutti quegli utenti che rifiuteranno di venire profilati. Alcune parti delle loro attività rischiano quindi di essere scosse più di altre. Il Regolamento infatti si applica, come stabilito all’articolo 3 dello stesso, al trattamento dei dati personali effettuato nell’ambito delle attività di un’azienda o organizzazione da parte di un titolare del trattamen| 54 |
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to o di un responsabile del trattamento nell’Unione Europea, indipendentemente dal fatto che il trattamento sia effettuato o meno nell’Unione. La portata del GDPR è quindi globale: se una società con sede extra-UE tratta i dati di un cittadino dell’Unione, essa dovrà rispettare il dettato del GDPR, quando le attività di trattamento riguardano l’offerta di beni o la prestazione di servizi ai suddetti interessati oppure il monitoraggio del loro comportamento (sempre nella misura in cui tale comportamento ha luogo all’interno dell’Unione). Quando si utilizzano Google o Facebook, si sa, si sceglie - più o meno consapevolmente - di divulgare i propri dati. Queste imprese hanno il diritto di trattare questi dati, nel momento in cui vengono accettate le condizioni di utilizzo, per fornire i loro servizi. Tuttavia, l’applicazione del GDPR impedirà loro di utilizzare tali dati personali per qualsiasi ulteriore scopo diverso da quello contrattuale, salvo esplicita autorizzazione dell’utente.
NORM ATI V E | I L R E GOL AM E NT O U E S U L T RAT TA ME N T O DAT I E L A P UB B L IC ITÀ O N L IN E DI G O O G L E E FAC E B OOK
Oltre all’avviso di opt-out, gli utenti dovranno sempre essere informati del loro diritto di opporsi in qualsiasi momento al trattamento dei loro dati
LO SCOPO DELLA RACCOLTA DATI DEVE ESSERE CHIARO Uno dei principi cardine del GDPR è la “limitazione delle finalità”, stabilito alla lettera b), n. 1 dell’articolo 5, in base al quale “i dati personali sono raccolti per finalità determinate, esplicite e legittime, e successivamente trattati in modo non incompatibile con tali finalità; un ulteriore trattamento dei dati personali a fini di archiviazione nel pubblico interesse, di ricerca scientifica o storica o a fini statistici non è […] considerato incompatibile con le finalità iniziali”. Le autorità preposte alla protezione dei dati di tutta Europa hanno chiarito come uno scopo vago o generale, come ad esempio “migliorare l’esperienza degli utenti”, “a scopo di marketing” o “ricerche future”, non soddisferà di norma - senza ulteriori dettagli - i criteri per risultare “specifico”. Un’azienda non potrà raccogliere più dati per uno scopo di quanti non ne abbia bisogno (principio della “minimizzazione dei dati”) e poi chiedere retroattivamente di utilizzarli per scopi aggiuntivi, diversi da quello originario. Sarà pertanto necessario chiedere un ulteriore consenso, o presentare una scelta di opt-out che giungerà quindi in momenti diversi e per cose diverse, al netto della ovvia creazione di diversi livelli di rischio che dovranno essere rilevati. Le compagnie OTT (Over-the-top), di cui appunto Google e Facebook sono gli esempi più noti, sono sempre al centro dell’attenzione delle autorità di tutela della concorrenza e del mercato. È di pochi mesi fa la notizia che vedeva la società di Zuckerberg sanzionata dall’Antitrust UE, con una multa da 110 milioni di euro, per aver fornito informazioni “scorrette o fuorvianti” durante l’indagine correlata all’operazione M&A di Whatsapp e la relativa alla possibilità (inizialmente esclusa dal CEO di Facebook) di collegare gli account delle due piattaforme. I SERVIZI CHE ANDRANNO RIVISTI: DA WHATSAPP A GMAIL Scendendo nel dettaglio dei servizi che saranno coinvolti da questi cambiamenti, è possibile citare, per quanto riguarda Google, tutta la pubblicità personalizzata sui suoi siti più diffusi (quali Google
Search e Youtube); mentre per Facebook verranno coinvolti sia la pubblicità di WhatsApp (in quanto i dati personali degli utenti di WhatsApp vengono trattati per finalità non correlate alla funzionalità dell’app), sia Facebook Audience Network, il servizio che consente agli editori di guadagnare mostrando pubblicità di inserzionisti di Facebook nelle loro app o nei loro siti Web mobile. Tale servizio infatti richiede l’elaborazione dei dati personali degli utenti affinché vengano reindirizzati su altri siti web. Anche Gmail, uno dei servizi email più popolari al mondo, ne sarà colpito. Google ha affermato di estrarre il contenuto e i metadati di ogni messaggio e-mail inviato e ricevuto mediante il servizio Gmail per creare della pubblicità mirata. Ciò non può continuare senza il consenso espresso da ciascun mittente e destinatario. Questa potrebbe essere la vera ragione, o almeno una delle ragioni, che ha spinto Google ad annunciare che smetterà di estrarre tali informazioni dalle email scambiate sul servizio. Ovviamente non si può generalizzare il ragionamento per tutti i servizi. Per alcuni esiste una soluzione più agevole: quella di informare un utente su cosa si desidera fare con i dati personali dello stesso, offrendogli una possibilità di opt-out anticipata. Questo approccio di opt-out ha il vantaggio per l’azienda che l’inerzia di alcuni utenti potrebbe consentire comunque l’utilizzo dei loro dati personali. Il GDPR, infatti, consente l’opt-out quando le finalità per le quali le società intendono utilizzare i dati personali siano “compatibili” con quelle originarie per le quali i dati sono stati condivisi dagli utenti che ne hanno prestato consenso. Questa casistica si applica ad esempio alla NewsFeed di Facebook, alla pubblicità su Instagram (che ricordiamo essere stata acquisita dal colosso dei social network) nonché il “location targeting”, tecnologia di Google Maps che consente di erogare pubblicità agli utenti in base alla vicinanza geografica.Tutto ciò fermo restando che, oltre all’avviso di opt-out, gli utenti dovranno sempre essere informati del loro diritto di opporsi in qualsiasi momento al trattamento dei loro dati. Il conto alla rovescia per l’applicazione del GDPR ormai è alle ultime settimane. Il tempo stringe e non ci resta che vedere come i colossi del mondo digitale si adatteranno al nuovo testo di legge. www.digital4executive.it
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DIGITAL TRANSFORMATION - SUPPLY CHAIN di
Bayer Italia "vede" in real time consegne e costi di trasporto: «Il miglior TMS di tutto il gruppo»
DANIELE LAZZARIN
MICHELE PALUMBO HEAD OF SUPPLY CHAIN MANAGEMENT BAYER ITALIA
Il Transport Management System permette di gestire 20mila clienti e 250/300mila spedizioni l'anno con una sola persona. Inoltre un “track & trace” dei passaggi del processo distributivo, che dialoga con qualunque sistema, aggiorna tutte le parti coinvolte attraverso una piattaforma cloud. «È stato un grande progetto, con una prima fase concentrata sui processi e una seconda sulla collaborazione nella supply chain»
Un sistema che controlla in automatico 24 milioni di euro annui di costi di trasporto e logistici, ampliato con una piattaforma collaborativa che traccia le consegne interagendo con sistemi legacy, magazzini, customer service, operatori logistici, e potenzialmente aperto anche ai clienti. Questo il progetto che Bayer ha realizzato negli scorsi anni in Italia e che Michele Palumbo, Head of Supply Chain Management della filiale italiana della multinazionale tedesca, ha raccontato in un recente workshop presso il quartier generale italiano di Bayer a Milano, organizzato della Digital Transformation Academy della School of Management del Politecnico di Milano. Bayer Italia ha costi annui di warehousing di 10 milioni di euro e costi di trasporto di 14 milioni (10 in Italia e 4 all’estero): «In Italia abbiamo molte sedi, stabilimenti, partner logistici, e sono circa 20mila i nostri clienti (cioè i punti di destinazione da servire, spesso ogni giorno), in ambiti molto diversi: grossisti, farmacie, ospedali, pet shop, mass market e garden center», spiega Palumbo. Di | 56 |
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fronte a questa complessità, nel 2010 la società si è posta il problema di come reingegnerizzare il sistema di gestione del trasporto. «È stato un grande progetto, con una prima fase concentrata sui processi, e una seconda sulla collaborazione nella supply chain». IL 100% DEI COSTI DI TRASPORTO CALCOLATI IN AUTOMATICO All’inizio il problema più urgente è stato la sostituzione del sistema di contract management e soprattutto del sistema di prefatturazione. «L’esigenza era di calcolare in automatico il 100% dei costi dei trasporti (con gestione umana solo delle eccezioni) per comunicare al fornitore del servizio gli importi da fatturare. In questo modo Bayer può evitare costi ed errori legati a immissioni manuali e controlli della correttezza delle fatture ricevute», commenta il manager. Questa prima fase ha richiesto circa sei mesi di lavoro per affrontare la complessità e variabilità
D I GI TA L TR A NS F OR M ATI ON - SU PPLY CHA IN | BAYER ITALIA CONTROLLA IN REAL TIME CONSEGNE E COSTI DI TRASPORTO
del trasporto in Italia, in cui esistono numerosi driver di costo, sistemi tariffari, tipologie di contratto. Il sistema in questo modo riesce a calcolare l’importo dovuto al fornitore logistico attraverso appositi algoritmi che mettono insieme appunto tutti questi elementi. Una volta messo a punto il sistema di prefatturazione, Bayer si è posta il problema successivo e lo ha trasformato in opportunità, spiega Palumbo. «Visto che dovevamo cambiare il sistema, abbiamo pensato di fare un ITS (Integrated transport management system, ndr), andando oltre il concetto di interfaccia. Chiedere infatti ai fornitori dei servizi di trasporto, che sono quasi sempre piccole società, di integrarsi con il sistema ERP di Bayer avrebbe avuto per loro complessità e costi che pochi avrebbero potuto permettersi, per cui abbiamo pensato di ragionare da subito su una piattaforma collaborativa in grado di dialogare nativamente con qualsiasi sistema». All’epoca, osserva Palumbo, si trattava di un approccio fortemente innovativo: mettere in piedi un vero e proprio “track & trace” che fornisse a tutte le parti coinvolte informazioni al momento giusto praticamente in tempo reale. «Il successo di questo processo collaborativo è andato ben oltre le nostre attese: siamo passati dal solo scambio di DdT cartacei, i cui dati dovevano essere inseriti manualmente nei sistemi, a una piattaforma Cloud che traccia le prove di consegna (Proof-of-Delivery) in tempo reale e può raccogliere le informazioni che ci servono da tutti i partner coinvolti e da qualsiasi fonte dati».
In generale il processo è molto più efficiente di quello basato su email: ogni attore è coinvolto, ogni step del processo di consegna del prodotto è tracciato, e potenzialmente il sistema è aperto anche ai clienti. Sebbene al momento i clienti debbano passare dal customer service Bayer per avere informazioni, tecnicamente il sistema può essere reso accessibile anche a loro previa profilazione, precisa Palumbo: «Questo è stato un progetto pilota internazionale, ed è riconosciuto come il miglior TMS nel gruppo Bayer: l’auspicio è che della nostra esperienza possano beneficiare anche altre country».
«Chiedere ai fornitori di servizi di trasporto, quasi sempre piccole società, di integrarsi direttamente con l'ERP di Bayer avrebbe avuto complessità e costi che ben pochi avrebbero potuto permettersi»
UN MODELLO PER L'INTERO SETTORE FARMACEUTICO ITALIANO Questo modello ha convinto anche il Consorzio Dafne, che raccoglie gran parte degli operatori della filiera farmaceutica italiana e che ha realizzato una piattaforma simile, anche se rivolta all’intero settore, e con funzioni in parte diverse da quelle di Bayer. Il concetto su cui si basa il sistema Dafne è quello della digital supply chain collaboration, aperta a operatori di tutti gli stadi della filiera - aziende farmaceutiche, depositari, distributori, vettori - grazie a funzionalità che vanno a beneficio di tutti, per esempio la prenotazione degli slot di carico e scarico di automezzi presso i distributori. Tornando invece al sistema Bayer, l’apertura a sistemi esterni non pregiudica la cybersecurity, sottolinea Palumbo: «Sulla dorsale aziendale entrano solo le informazioni che il sistema è in grado di gestire, ma in Cloud partecipano tutti gli attori del processo distributivo, e sono disponibili tutte le informazioni in tutti i formati, accessibili anche al nostro customer service, che quindi può rispondere a un problema prima che raggiunga la soglia di crisi».
I quattro benefici Bayer Italia ha individuato quattro principali aree di beneficio per il progetto descritto a fianco. Una è l’automazione al 100% del calcolo dei costi di trasporto: «Gestiamo 20mila clienti e circa 250/300mila spedizioni all'anno con una sola persona, se non avessimo questo sistema ce ne vorrebbero sette e avremmo comunque precisione minore», spiega Michele Palumbo, Head of Supply Chain Management. La seconda è che il sistema consente non solo il track & trace delle consegne, ma anche la prenotazione degli slot, il rilevamento delle eccezioni e l’alerting automatico alla persona più indicata. Terzo: il sistema è multicanale e multiazienda, caratteristica cruciale perché il Gruppo Bayer ha molte ragioni sociali che operano in ambiti anche molto diversi. E infine una dashboard di business intelligence consente non solo il controllo delle prestazioni, ma anche la simulazione di possibili riassetti distributivi, per esempio di collocazione o spostamento di centri e magazzini, con relativi impatti in termini di costi.
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REPORTAGE di
DANIELE LAZZARIN
Procure-to-Pay, i benefici del digitale tra Big Data, Supply Chain e compliance Il ciclo passivo ha molte fasi che toccano gli attori interni ed esterni, ma tutte concatenate. L’automazione le rende un unico processo, conciliandone le sfaccettature, dalla conformità alle nuove norme, alle opportunità legate ai grandi volumi di dati che genera, fino alla misura delle performance della catena logistica. Se n’è parlato a un workshop di Tesisquare con esperti di P4i-Partners4Innovation e Politecnico di Milano
Il ciclo passivo (Procure-to-Pay o P2P) è storicamente il primo pilastro della digitalizzazione di aziende ed enti pubblici, e ultimamente il tema è tornato di grande attualità con la notizia che anche la fatturazione elettronica tra privati (imprese e professionisti) diverrà obbligatoria in Italia dal primo gennaio 2019. Si profila quindi un’altra scadenza cruciale nel percorso di digitalizzazione del paese, dopo l’obbligo di fatturazione elettronica verso la PA in vigore dal maggio 2015. Proprio il procure-to-pay, nel senso più lato, è stato il tema dell’ultimo workshop del ciclo Digital Performance Lab di Tesisquare, tenutosi recentemente presso Eataly a Milano. «In questi sei eventi tra 2016 e 2017 l’obiettivo era discutere in modo molto concreto gli effetti della digitalizzazione sul business nei suoi vari aspetti - digital factory, multicanalità nel Retail, collaborazione nelle supply chain, GDPR, supply chain finance – con i nostri clienti, gli advisor di P4i e i ricercatori degli | 58 |
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Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano», ha spiegato il CEO di Tesisquare Giuseppe Pacotto. RISPARMI FINO A 80 EURO PER CICLO CON UN P2P TUTTO DIGITALE L’innovazione digitale e quella normativa sono i traini del cambiamento del business oggi, ha detto Paolo Catti, Associate Partner di P4i, aprendo l’evento, e la seconda facilita la prima: «Tutte le imprese recentemente hanno dovuto conformarsi a nuovi obblighi di legge o lo stanno facendo, spesso malvolentieri. Ma questi adempimenti hanno un lato positivo perché costringono a cambiare, a innovare e, se affrontati con coscienza, a investire nelle tecnologie digitali». E con tutta probabilità il trend continuerà, perché il legislatore europeo sta spingendo per il mercato unico comunitario, per esempio in ambito
R E P OR TAGE | PR OCU R E -T O-PAY, I B E N E F IC I DE L DIG ITA L E T RA B IG DATA , SUP P LY C H A IN E C O MP L IA N CE
ca da 4 a 12 euro, e la dematerializzazione dell’intero processo procure-to-pay da 30 a 80 euro a ciclo, con investimenti che si ripagano mediamente in un anno, precisa Catti, citando dati dell’Osservatorio Fatturazione Elettronica ed eCommerce B2B del Politecnico di Milano. «Eppure il numero di imprese in Italia che hanno digitalizzato tutto il P2P è ancora piccolo: solo un 2%, circa 120mila, anche se è un buon segno che il 60% consideri quest’area una priorità in cui investire nei prossimi 3 anni». BIG DATA, VANTAGGI COMPETITIVI ANCHE SE SI COMINCIA OGGI
fiscale, o nel trattamento dei dati personali con il GDPR. «Per questo è decisivo trasformare il cambiamento necessario in un’occasione di crescita, anche se a volte è molto complesso». Per il procure-to-pay nello specifico, continua Catti, il riferimento a cui tendere è la digitalizzazione completa del Ciclo dell’Ordine, coinvolgendo il maggior numero possibile di fornitori. «È un ciclo che ha molte fasi e coinvolge molte business unit, ciascuna con i suoi processi, sistemi e database. Ma queste fasi sono concatenate: il P2P insegna a guardare l’organizzazione in un’ottica per processo, un processo che deve fluire facilmente tra tutte le parti coinvolte, anche esterne, ed essere leggibile da tutti. Per questo occorre supportarlo con soluzioni digitali, ottenendo benefici sia intangibili che molto concreti». Per esempio la conservazione sostitutiva delle fatture attive e passive può generare risparmi per documento da 1 a 3 euro, la fatturazione elettroni-
Oltre ai benefici concreti poi come si diceva il digitale ne origina molti intangibili, tra cui i grandi volumi di dati generati, da cui nasce un mondo di opportunità, come ha spiegato Luca Flecchia, Manager Data Driven Innovation di P4i. «Si parla tantissimo di Big Data, addirittura il Data Scientist è stato definito “il lavoro più trendy del momento”, ma dietro tutto questo parlare c’è qualcosa di molto concreto». Più in dettaglio, quattro concetti si possono considerare acquisiti. Il primo è che i dati sono fonte di vantaggio competitivo. «La prima ondata di progetti Big Data è considerata fallimentare, ma il loro scopo era solo di delimitare precisamente l’ambito d’azione e raccogliere grandi quantità di dati, che poi però vanno analizzati». Da qui il secondo concetto: il valore non sta nel dato ma nell’insight che se ne ricava, con un percorso dal descriptive analytics (capire cosa è accaduto in passato) al predictive (cosa succederà in futuro), al prescriptive (cosa fare per sfruttare o contrastare un certo trend) fino all’automated analytics, che implementa da solo le azioni suggerite dalle analisi. «Secondo l’Osservatorio Big Data del Politecnico di Milano, ormai quasi tutte le imprese in Italia hanno soluzioni descriptive, ma la percentuale di adozione scende drammaticamente per le soluzioni di analytics più avanzate e orientate alle previsioni, e quasi nessuna ha implementato strutturalmente soluzioni di automated analytics». E questo spiega il terzo concetto: le soluzioni digitali sono i principali abilitatori della “Data Driven Company”, l’azienda che basa sui dati e sulla loro analisi la sua strategia competitiva. Infine il quarto punto: muoversi subito in questo campo è ancora www.digital4executive.it
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R EPORTAGE | P ROC U R E - T O- PAY, I BE NE FI CI D E L D I GITA L E T RA B IG DATA , SUP P LY C H A IN E C O MP L IA N C E
Il numero di imprese in Italia che hanno digitalizzato tutto il Procure-to-Pay è ancora basso: sono circa 120mila, il 2% del totale, ma è un buon segno che il 60% consideri quest’area una priorità di investimento nei prossimi 3 anni
fonte di differenziazione. «Tutti dicono di fare progetti Big Data, e pensiamo che gli altri siano avanti, soprattutto all’estero, ma in realtà non è vero: anche iniziare oggi può dare vantaggi competitivi». Flecchia ha citato poi casi di aziende italiane già avanti in questi percorsi, uno di manutenzione predittiva nel settore auto («se la macchina segnala da sola l’alta probabilità di un certo guasto, per il costruttore c’è un immediato vantaggio di immagine e una riduzione dei costi di manutenzione, perché gli interventi non si fanno più a scadenze fisse ma solo quando serve»), e uno nel retail, che ottimizzando i modelli di modelli di forecast con l’aggiunta di dati di mercato, dei concorrenti, demografici e geografici, punta a ridurre gli errori di previsione di parecchi punti percentuali. SUPPLY CHAIN SOTTO CONTROLLO CON UN CRUSCOTTO A 3 LIVELLI Un’area dove in particolare si possono raccogliere grandi volumi di dati e trasformarli in misure di KPI (Key Performance Indicator) con impatto immediato sulle decisioni manageriali è il Supply Chain Management, ha spiegato Federica Ciccullo, che su questi temi lavora come ricercatrice del Politecnico di Milano. «Un Supply Chain Performance Management System (SCPMS) è composto di KPI sull’intero processo (indicatori di filiera), KPI sul singolo processo - come sourcing, delivery, return management - e infine KPI “diagnostici”, per approfondire le cause dei valori insoddisfacenti dei KPI di livello superiore». Questi tre livelli corrispondono alla classificazione gerarchica del modello SCOR dell’associazione americana Apics, che definisce oltre 250 KPI standard, oltre a framework per la mappatura dei processi e best practice manageriali. «I KPI di filiera sono misure di efficacia, cioè di impatto della gestione della supply chain sul cliente esterno: un esempio è la correttezza della consegna, che si articola in completezza, puntualità e documentazione. Ma misurano anche l’efficienza interna nell’uso delle risorse di supply chain, per esempio il rapporto tra costo totale supply chain e | 60 |
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fatturato», spiega Ciccullo. Oltre alla classificazione gerarchica i KPI di SCOR sono poi anche articolati in cinque “performance attributes”: reliability, responsiveness, agility, cost e asset management efficiency. I primi tre sono rivolti al cliente, gli altri due focalizzati sui processi interni. «Nella pratica tutto ciò si traduce nella configurazione di una dashboard, un “cruscotto manageriale” con indicatori di tutti e tre i livelli. Tipici esempi di KPI di filiera sono percentuale di precisione del delivery order, percentuale di stockout, lead time del tratto gestito su ordine, mentre per i KPI di processo a seconda del settore d’attività ci sarà un focus diverso sui vari processi, perché supply chain diverse hanno diversi fattori critici di successo». Le scelte - in funzione dello specifico business - dei “performance attribute” a più alto impatto sui risultati aziendali, e dei KPI diagnostici sono quindi decisivi per l’efficacia del SCPMS. Infine è stato affrontato da Roberto Balbiano, senior business manager di Tesisquare, un aspetto spesso considerato complementare: la digitalizzazione dei processi di indirect procurement. «Sono tanti i ruoli aziendali coinvolti nel processo d’acquisto, dalla raccolta dell’esigenza all’autorizzazione del pagamento, e tante aree - amministrazione, acquisti, marketing, legale e così via – e tutto può essere gestito sfruttando le funzionalità della piattaforma Tesisquare, sia per format di contratti predefiniti sia per ordini spot: le varie attività del processo sono coperte dai moduli della piattaforma (sourcing, procurement e invoice management), integrabili con i sistemi ERP preesistenti». I benefici, sottolinea Balbiano, sono sia tattici sia strategici. «Nel primo caso parliamo di validazione elettronica dell’emissione dell’ordine, e di riduzione delle attività a basso valore aggiunto (come data entry o solleciti), della spesa “maverick”, e dei tempi di gestione degli ordini d’acquisto, nonché di miglioramento nel controllo della spesa e nella gestione di scadenze contrattuali e compliance. Nel secondo caso di miglioramenti nella capacità negoziale, nell’allineamento tra sistemi e organizzazione, grazie alla standardizzazione dei flussi informativi, e nello sviluppo dei fornitori».
ADVERTORIAL
Spazio alle “API”: le Application Programming Interface diventano il motore della Digital & Telco Economy
La digitalizzazione sta avendo un impatto trasversale in tutte le industry, seppure con velocità diverse tra i vari settori. Le API (Application Programming Interface) sono ritenute uno dei fattori chiave della Digital Transformation e possono diventare il motore della Digital & Telco Economy. «Le API, infatti, consentono di ridurre il tempo e i costi necessari per portare nuovi prodotti sul mercato, permettendo ad aziende di ogni dimensione di utilizzare e proporre servizi che sarebbero costosi o complessi da realizzare», spiega Francesco Pagliari, Responsabile Platform & Market Place di TIM. L’API Economy permette anche di sviluppare un ecosistema in cui le aziende rendono disponibili sul mercato i loro sistemi di business o servizi in forma di API a terze parti (sviluppatori, software house, system integrator): si creano così nuove opportunità di business sfruttando gli asset interni. L’utilizzo delle API, inoltre, può facilitare lo sviluppo di sinergie con partner e affiliati e aprire nuove possibilità di remunerazione offrendone i servizi sul mercato. Per comprenderne la portata basti considerare che, secondo alcune stime, tramite API avviene circa il 50% delle collaborazioni B2B e che su di esse si baserà il 60% del mercato IT nel 2020*. Diventa quindi fondamentale avere un’architettura in grado di abilitare transazioni commerciali e sviluppare diverse strategie di commercializzazione per monetizzare il valore delle API. Oltre al classico modello di esposizione free è possibile considerare modelli in cui lo sviluppatore paga per l’utilizzo delle API o in cui viene pagato o anche modelli misti indiretti. «TIM OPEN, oltre ai modelli sopra descritti, offre agli sviluppatori e alle aziende clienti la possibilità di testare gratuitamente le API per un determinato
CON TIM OPEN, LA COMMUNITY DEGLI SVILUPPATORI ITALIANI, L’OPERATORE PROPONE A DEVELOPER E SYSTEM INTEGRATOR UN MARKETPLACE DEDICATO ALLE API PER DARE IMPULSO ALLA DIFFUSIONE DI QUESTE COMPONENTI STRATEGICHE DELLA DIGITAL TRANSFORMATION
FRANCESCO PAGLIARI Responsabile Platform & Market Place di TIM
periodo di tempo prima di procedere alla definizione di un progetto commerciale. Prevede, inoltre, il modello “monetisation” che consente a terze parti di esporre le proprie API sul TIM OPEN API Store, in logica revenue share, incrementando visibilità e canali distributivi. Il cliente può quindi accedere ad una ampia gamma di servizi che rispondono esattamente alle sue necessità di innovazione». Tra i settori che possono beneficiare di questi servizi c’è sicuramente quello bancario, in uno scenario in cui le modalità di banking sono sempre più “mobile” e “open”, anche in vista dell’entrata in vigore della nuova direttiva sui pagamenti. «Le API possono contribuire sul versante della sicurezza: ad esempio consentendo l’attivazione di una serie di meccanismi informativi volti a limitare i fenomeni di frode legati al furto di identità o a valutare meglio i fattori di rischio di una transazione quando il cliente è in mobilità, conoscendone la posizione. Queste funzionalità possono essere integrate nelle app di mobile banking o sui portali online», conclude Pagliari. *Fonte: Forbes, “Welcome-to-the-api-economy - A survey of the API Economy, Cutter Consortium Down of the enterprise economy, Swaminathan Mahalingam Telecom 2020 – Preparing from a very different future”, June 2014.
P ER U LT ER I O R I I N F O RM A ZIONI...
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DIGITAL TRANSFORMATION - FINANCE di
DANIELE LAZZARIN
Quattro Chief Finance italiani definiscono il CFO “future-ready”: «Cruciali le analisi in tempo reale» I punti di vista di Marco Fossataro (Whirlpool), Martino Nogara (Bosch Rexroth), Angelo Della Maggiora (Sofidel) e Claudio Marino (SAP) su come la funzione Finance possa sfruttare le soluzioni digitali per assumere un ruolo più strategico in azienda. «Il salto di qualità arriva quando si possono definire scenari “what if ” sul momento, durante una riunione, senza bisogno di aggiornarla»
La trasformazione digitale può fare del CFO (Chief Financial Officer) il “braccio destro “del CEO, e un cruciale supporto alle decisioni per gli altri top manager. Su questo, come abbiamo scritto spesso, concordano indagini, analisi di mercato e testimonianze degli stessi CFO. Un’ulteriore conferma viene da un dibattito al SAP Forum 2017 di Milano, con quattro Chief Financial italiani come protagonisti: Marco Fossataro, Vice President Finance & CFO EMEA di Whirlpool; Martino Nogara, CFO di Bosch Rexroth; Angelo Della Maggiora, CFO di Sofidel; e Claudio Marino, CFO Emea South di SAP. Il titolo della tavola rotonda - The future of Finance, wanted a Chief Future Officer? - si ispira a una recente indagine di AICPA, l’associazione americana dei professionisti dell’accounting (418mila iscritti in tutto il mondo), secondo cui il 63% degli oltre 350 CFO intervistati sta sperimentando nella sua azienda impatti profondi o dirompenti della trasformazione digitale. E quelli che rispondono meglio a questi im| 62 |
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patti sono i “future-ready CFO”, interessati all’innovazione, disposti ai cambiamenti, e primi sponsor di strumenti digitali capaci di rendere l’azienda e i suoi manager “aware, predictive, adaptive”. La grande sfida per il CFO di oggi è conciliare nel quotidiano le strategie dell’azienda con l’operatività e gli obiettivi a breve, ha spiegato Fossataro di Whirlpool: «Nella pianificazione la prospettiva è completamente cambiata, non solo i piani pluriennali dopo pochi mesi vanno totalmente rivisti, ma non riusciamo più a fare piani neanche a 12 mesi». Oggi al CFO viene chiesto di presidiare i sistemi transazionali e nel contempo di fare il business partner, il tutto proiettato su scala internazionale, con mercati a volte fortemente incerti in chiave economica e/o di driver competitivi. «Insomma il CFO deve giocare su più fronti, da una parte l’integrazione dei sistemi informativi dopo una fusione – nel caso di Whirlpool-Indesit parliamo di 35 sistemi diversi in 35 paesi – dall’altra gli shock economici e finanziari
DIGITAL TRANSFORMATION - FINANCE | QUATTRO CHIEF FINANCE ITALIANI DEFINISCONO IL CFO “FUTURE-READY”: «CRUCIALI LE ANALISI IN TEMPO REALE»
una fase di informatizzazione e standardizzazione di backoffice e sistemi transazionali ha passato responsabilità a competence center sovranazionali, per esempio in area fiscale, civilistica, contabilità generale. «Al Finance locale restano controllo di gestione, monitoraggio delle performance e supporto attivo dei capi di business line. Quindi è stato necessario un gran lavoro di change management: il mio team è cambiato tantissimo rispetto a 10 anni fa». Per il change management molto aiuta la job rotation, anche se a volte è eccessiva, come nelle aziende USA dove gli incarichi cambiano ogni 2 anni, continua Fossataro: «Nel Finance abbiamo creato un “career booklet” che specifica competenze ed esperienze necessarie per un certo ruolo, per esempio quale curriculum serve per candidarsi a CFO della regione Francia». Inoltre è sempre più sentita l’esigenza nel Finance di elementi che abbiano fatto esperienza in altre funzioni, come logistica o marketing. «L’obiettivo condiviso con il CFO di gruppo è andare anche oltre, ricevendo talenti da altri dipartimenti ma anche esportandoli: nelle vendite per esempio una visione del business molto numerica e data driven può essere preziosa». «CON 30 STABILIMENTI L’INTUITO DELL’IMPRENDITORE NON BASTA PIÙ»
come Brexit, dall’altra ancora cogliere quanto la “disruption” tecnologica cambi i rapporti con i partner di filiera: come influirà per esempio la diffusione degli elettrodomestici connessi sull’interazione di Whirlpool con le grandi catene dell’elettronica di consumo? E intanto qualcuno parla di CFO sostituito dalle macchine». «GIUSTO ACCOGLIERE TALENTI DA ALTRE FUNZIONI, MA ANCHE ESPORTARNE» Nelle multinazionali un altro fronte è il rapporto tra filiale e corporation: «Abbiamo un incontro dei CFO europei ogni mese, il CFO di gruppo ci chiede visibilità della catena logistica e continui aggiornamenti della pianificazione: ci chiede sempre meno compliance, nel senso che la dà per scontata, e sempre più simulazione di scenari industriali e strategici», continua Fossataro. Qualche anno fa, ha aggiunto Marino di SAP, in tutte le multinazionali
Se Whirlpool e SAP danno un’idea delle sfide per il CFO di una multinazionale, Sofidel è invece la classica impresa familiare italiana in forte crescita ed espansione all’estero. «Siamo partiti 50 anni fa come realtà locale con contabilità manuale e strategia totalmente affidata alla visione dell’imprenditore», spiega il CFO Angelo Della Maggiora. Oggi la sede centrale a Lucca coordina 19 società in Europa e USA, che producono più di un milione di tonnellate di carta l’anno, dando lavoro a oltre 5500 persone. «Ci consideriamo ancora più una famiglia che una multinazionale, ma quando si passa da uno stabilimento a 30 sparsi in 19 paesi l’intuito dell’imprenditore non basta più: oggi è il digitale che assicura la velocità di reazione al cambiamento che ha sempre caratterizzato Sofidel». Come molte altre imprese che avviano l’espansione internazionale, Sofidel nel 2000 ha adottato un sistema ERP. «Per passare da contabilità manuale a controllo di gestione su scala aziendale occorrevano soprattutto execution, e monitoraggio della sua conformità con la strategia. Gli standard imposti dall’ERP hanno permesso la diffusione delle informazioni in tempo reale, parwww.digital4executive.it
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DIGITAL TRANSFORMATION - FINANCE | QUATTRO CHIEF FINANCE ITALIANI DEFINISCONO IL CFO “FUTURE-READY”: «CRUCIALI LE ANALISI IN TEMPO REALE»
tendo dalla cosa più semplice: il piano dei conti». La digitalizzazione quindi è iniziata proprio dall’area Finance, e gradualmente tutte le funzioni sono state integrate nell’ERP: «Se non si lega la pianificazione strategica a quella operativa e a quella economico finanziaria è impossibile fare correzioni velocemente come serve a noi», osserva Della Maggiora. «ABBIAMO DOVUTO IMPARARE COME PROGETTARE UN DATA MART» Anche in Rexroth, produttore di controlli per impianti del Gruppo Bosch, è stata l’area Finance a innescare un percorso di trasformazione iniziato 4 anni fa. «Oggi abbiamo 72 processi completamente digitali senza più carta – spiega il CFO Martino Nogara - ed è partita un’ulteriore fase, con sviluppo di tool di Business Intelligence, real time e immediati per l’utente, con dati finanziari ma anche di business». Un percorso iniziato dalla fattura, il documento più tipicamente finance, «ma abbiamo dovuto discutere fin da subito con i colleghi: per ridefinire la fattura occorre ridefinire l’ordine, l’anagrafica clienti, insomma questo progetto ha innescato la revisione di
tutti i processi». Anche la fase dei tool di BI è partita dal Finance, dall’analisi dei costi: «Oggi il controller in riunione può navigare i dati fino alla singola fattura, ma ci è capitato anche di discutere di tool di monitoraggio delle quote di mercato e schede macchina dei prodotti». Per l’area Finance, continua Nogara, è stata una vera rivoluzione: «Ha cambiato il nostro ruolo in azienda e le competenze delle persone, abbiamo dovuto investire in formazione, per esempio imparando le competenze base per progettare un data mart, o per disegnare un processo in qualsiasi parte dell’azienda». Le competenze tecniche restano importanti ma lo diventano anche competenze soft, come quelle quelle di modellizzazione del business appena viste o quelle relazionali. Il Finance in pratica è diventato un “mediatore” tra Linee di Business e IT. Una dimostrazione è il premio Assiteca vinto nel 2016 dall’area Finance di Bosch Rexroth nella categoria “Business intelligence, Big Data e Analytics”. «L’obiettivo era supportare la rete di vendita producendo reportistica quotidiana, facilmente navigabile, ritagliata sul singolo. Man mano abbiamo rilevato l’esigenza molto forte di capire al di là di fatturato come siamo presenti su ogni cliente, come possiamo aumentare la presenza e così via: c’era un patrimonio di conoscenza dei venditori che non sfruttavamo e che si poteva far emergere. Ne è uscito un tool che mappa il 100% dei clienti e il valore di tutti i progetti che hanno con noi». «NON POSSIAMO PIÙ IMPIEGARE SETTIMANE PER UN BUSINESS CASE» Marino di SAP ha infine ricapitolato i temi emersi: «Operiamo in un mondo in grande cambiamento, dove il cambiamento a volte è uno shock, quindi il Finance non può più impiegare settimane per un business case sull’entrata in un nuovo mercato. La parola d’ordine è real time, saper definire scenari whatif diversi al momento, durante una riunione, senza bisogno di aggiornarla: gli strumenti digitali oggi lo consentono, il processo decisionale è stato stravolto». Questa capacità di dare informazioni però va supportata con capacità relazionali nuove, occorre saper parlare a diversi interlocutori in azienda e fuori “nella loro lingua”: «Sempre più in SAP alcune figure Finance – di controllo, di pianificazione – partecipano al processo di vendita: non è un supporto amministrativo ma consulenziale. Negli ultimi due anni, tre dei miei CFO sono diventati responsabili vendite, e non a caso: vanno a parlare con i CFO delle aziende clienti, li capiscono, e si fanno capire perfettamente».
«Oggi il CFO deve giocare su più fronti: integrare decine di sistemi informativi per una fusione, gestire shock economici come Brexit, capire l’impatto della digitalizzazione sui rapporti con la filiera», spiega Marco Fossataro (Whirlpool) | 64 |
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Creval, quando gestire i dati è sinonimo di incisività ed efficacia
Il Gruppo bancario Credito Valtellinese è una realtà esistente dal 1908, con una presenza territoriale nel centro-nord Italia e un nucleo di filiali della controllata Credito Siciliano in Sicilia, per un totale di 400 filiali circa e 3800 dipendenti. Tutto questo ne fa oggi il decimo gruppo bancario italiano. Nel 2004 Creval ha introdotto la piattaforma di decision-making BOARD come sistema di reportistica direzionale del Gruppo, estendendo negli anni successivi l’utilizzo della soluzione alle politiche del credito, alla gestione dei soci e del personale. BOARD ha permesso a Creval di valorizzare sempre di più l’enorme quantità di dati che un Gruppo bancario importante e in continua crescita possiede. Come ha sottolineato Mauro Selvetti, Direttore Generale di Credito Valtellinese, «il tema, per il settore bancario, è che la grande mole di informazioni disponibili nei sistemi informativi, che è stata per moltissimo tempo utilizzata solo a fini contabili, costituisce oggi una fonte significativa di informazioni per il mondo, non quello che verrà ma quello già esistente, che poi è quello dei big data, della tecnologia imperante, dove evidentemente l’utilizzo intelligente delle informazioni che la banca ha al proprio interno può diventare un elemento di distinzione e di migliore incisività commerciale». Secondo Gianluca Mazzoni, Responsabile della direzione erogazione e servizio informatico di Creval, «abbiamo lavorato su tutto ciò che è importante per la banca: le performance della rete di vendita, la gestione del credito, l’antiriciclaggio, l’audit. Abbiamo anche dotato le filiali di un sistema che misuri la loro efficacia nell’operatività quotidiana, e quindi evi-
VALORIZZARE INFORMAZIONI E BIG DATA. È QUESTO L’OBIETTIVO PRINCIPALE DEL PROGETTO CHE IL GRUPPO BANCARIO CREDITO VALTELLINESE HA INTRAPRESO CON BOARD
GIANLUCA MAZZONI Responsabile Direzione ICT Creval
denzi i punti di eccellenza e le aree di miglioramento. BOARD ormai è la nostra piattaforma di riferimento. È stato anche sviluppato un cruscotto chiamato “rating operativo”, dedicato alla misurazione dell’efficacia di ciascuna filiale». Con esso, infatti, si possono analizzare i tempi di gestione delle pratiche, oppure l’efficacia delle filiali nell’indirizzare la clientela verso comportamenti “self” (ad esempio l’utilizzo del bancomat e dei servizi online), e molto altro. Il cruscotto di rating operativo, integrato nell’ambiente interattivo di BOARD, permette alla sede centrale di capire se si stanno fornendo gli strumenti adeguati al network di filiali, e – in modo complementare – se la rete sta utilizzando correttamente gli strumenti. «Questo meccanismo – aggiunge Mazzoni – crea dei benchmark e degli score, in modo che le filiali possano vedere come si stanno comportando rispetto alle filiali vicine. Tutto questo ha innescato una “gara” verso il rialzo: a due anni dall’introduzione di questo sistema, il rating medio si è innalzato notevolmente». Viste queste premesse, non sorprende che per il Direttore Generale Mauro Salvetti e il Responsabile ICT Gianluca Mazzoni questo progetto, ormai più che decennale, intrapreso con BOARD, sia tra quelli ritenuti strategici.
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Alte prestazioni e facilità di gestione: il nuovo Digital Workplace di PRES
Per un’organizzazione che cresce e che punta a offrire ai propri clienti un portafoglio di servizi e soluzioni sempre più vasto ed efficace, innovazione vuol dire prima di tutto riuscire a far evolvere architetture e piattaforme IT aprendole al nuovo panorama applicativo, senza intaccare o rallentare le prestazioni, fondamentali per il business. L’obiettivo è integrare hardware e software già installati con gli elementi aggiuntivi del sistema informativo, creando un’infrastruttura senza soluzione di continuità che non implichi ulteriore complessità per gli utenti. E che anzi aiuti a semplificarne la gestione. È questa la sfida affrontata con successo da Sergio Ribba, Innovation Director di PRES, system integrator specialista nella progettazione di servizi e soluzioni ICT a supporto del business. «PRES è un’azienda in evoluzione e in fortissima crescita, con un’espansione che coinvolge molti fronti: da quello commerciale alle aree tecnologiche su cui si struttura l’offerta, passando per il piano dell’occupazione, visto che anno dopo anno assistiamo alla crescita del numero di risorse che entrano a far parte del team», spiega Ribba, che approfondisce nell’intervista le peculiarità di un progetto di rinnovamento in chiave Hyperconvergence, basato su tecnologie Cisco e Citrix, per la creazione di un vero digital workplace.
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CON LE SOLUZIONI IPERCONVERGENTI AUMENTANO L’EFFICIENZA OPERATIVA E LA SEMPLICITÀ DI GESTIONE, GRAZIE ALL’OTTIMIZZAZIONE DELLE PRESTAZIONI E ALLA VERSATILITÀ NELLA FRUIZIONE DI DATI, APPLICAZIONI E SERVIZI
SERGIO RIBBA Innovation Director di PRES
Quali esigenze, sfide o opportunità hanno portato PRES a intraprendere il progetto? Per noi il sistema informativo non è soltanto la piattaforma con cui operiamo per garantire il funzionamento dell’azienda, è anche l’elemento su cui PRES basa le strategie di crescita e l’innovazione tecnologica della propria offerta. L’opportunità di rinnovamento dell’architettura nasce come conseguenza del momento storico: continuiamo a espanderci e quindi dobbiamo porre le basi per farlo in maniera solida e sostenibile. La vostra scelta è ricaduta su Cisco Hyperflex. Perché? L’allestimento del nuovo data center è stato pianificato in funzione delle soluzioni di Hyperconvergence. Il sistema di elaborazione da cui si è partiti aveva già come colonna portante la tecnologia Cisco UCS: un sistema basato sulla serie B di blade server integrati per mezzo di appositi Fabric Interconnect nell’architettura Cisco Unified Computing System, collegato ad apparecchiature
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«La piattaforma consente di generare vantaggio competitivo con l’incremento della sicurezza e il superamento dei limiti generalmente riscontrati dagli utilizzatori»
di storage con apparati Cisco Nexus per realizzare connessioni Fibre Channel over Ethernet (FCoE). Il nuovo sistema di elaborazione aggiunge, grazie all’introduzione di quattro nodi Hyperflex All-Flash e alle connessioni garantite dai Fabric Interconnect, ulteriori risorse di memoria, storage e computing, ad elevate prestazioni, aumentando la capacità elaborativa dell’intero sistema. Questo ci consente di continuare a ospitare le applicazioni già esistenti – e vitali, come SAP – e di introdurre l’infrastruttura per l’erogazione delle applicazioni software. Parliamo in questo caso di un’architettura Citrix dedicata al nostro nuovo workspace digitale.
mentazione che ci ha permesso di salvaguardare gli investimenti precedenti e di stabilire le nuove modalità di fruizione delle applicazioni e dei dati con modalità più semplici, più efficienti, più agili. Da una parte riscontriamo un miglioramento nella conduzione delle attività su cui le persone sono quotidianamente impegnate, dall’altra abbiamo ottenuto il risultato altrettanto apprezzabile di una maggiore efficienza e semplicità nella gestione del sistema stesso da parte dei colleghi impegnati nella sua amministrazione.
Per quali ragioni avete scelto le soluzioni Cisco e Citrix?
Sfruttando le componenti software, Cisco Hyperflex è ad esempio in grado di realizzare una piattaforma scalabile. Integrando in un singolo nodo le tre funzioni elementari dell’elaborazione, ovvero Storage, CPU e Ram, e permettendo a più nodi di operare in maniera aggregata, garantisce facilità e flessibilità di espansione tramite l’addizione di ulteriori nodi. Inoltre impiega proprietà elaborative quali la compressione e la deduplicazione che rendono di più semplice accesso il file system, già strutturato per operare ai massimi livelli di efficienza grazie a specifici algoritmi di trattamento e memorizzazione dei dati. Siamo convinti che l’adozione della nuova piattaforma elaborativa, basata su una soluzione creata per ovviare alle limitazioni degli ambienti operativi tradizionali, costituisca per l’azienda una grande opportunità: possiamo generare vantaggio competitivo attraverso l’agevolazione dell’amministrazione, l’incremento della sicurezza, il superamento dei limiti generalmente riscontrati dagli utilizzatori. Il tutto grazie all’ottimizzazione delle prestazioni e alla duttilità nella fruizione di dati, applicazioni e servizi.
Tra i motivi che possono essere individuati nella determinazione delle scelte basate sulle tecnologie Cisco Hyperflex, Citrix XenApp e XenDesktop, oltre ai già citati criteri di integrazione con la preesistente architettura hardware, ci sono l’attenzione all’erogazione di un servizio di alto livello sotto i profili delle prestazioni e della user experience, senza contare gli aspetti legati alla sicurezza e alla protezione dei dati e delle risorse aziendali. Sono entrambi elementi irrinunciabili per rendere davvero efficiente l’organizzazione e consentire alle persone di svolgere al meglio il loro lavoro. Quali vantaggi si sono ottenuti dal punto di vista dell’ordinaria amministrazione? Grazie all’ammodernamento del sistema di elaborazione basato su Cisco Hyperflex e all’adozione delle architetture Citrix, disponiamo oggi di una piattaforma più gestibile, meglio integrata rispetto al recente passato, frutto di un’imple-
E invece sotto il profilo operativo/tecnico quali sono stati i benefici?
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Il punto di riferimento
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Italtel: il Data Center dell’Università di Pisa è green
Il cuore di ogni azienda è rappresentato dal data center, in cui risiedono tutte le applicazioni, i processi aziendali e le informazioni di rilievo che determinano la competitività di un’azienda. Il modello a cui eravamo abituati sta vivendo una trasformazione; le cause sono molteplici, prime fra tutte l’affermarsi del Cloud e lo sviluppo dell’iperconvergenza. Concorrono poi altri fenomeni come l’automazione delle operation e la consacrazione di tutto ciò che è ‘software defined’. «La digitalizzazione del business richiede infrastrutture flessibili, in grado di scalare rapidamente e supportare servizi innovativi secondo tempi e modalità imposte dal mercato. Ma l’agilità deve accompagnarsi a un’accurata analisi dell’efficienza», commenta Tullia Zanni, Responsabile Marketing Solutions di Italtel. «Progettare oggi un data center significa non solo pensare a come garantire affidabilità e sicurezza ed elevate prestazioni; è indispensabile pensare anche a come raggiungere la massima efficienza sia operativa che energetica». Le esigenze energetiche possono essere significative, se si tiene conto dell’assorbimento delle macchine e delle necessità di condizionamento che impongono gli ambienti che le ospitano. Solo per raffreddare i sistemi, i data center operativi spendono una media di 7 miliardi di dollari all’anno. Di fatto, i Green data center sono un elemento imprescindibile per il buon funzionamento dei sistemi energetici delle imprese ICT e per la tutela dell’ambiente: più del 2% della Co2 emessa su scala mondiale arriva dalle industrie di informatica e telecomunicazione. L’ambiente naturale può aiutare a raggiungere obiettivi green. Non a caso i Paesi scandinavi sono all’avanguardia sul tema e diversi OTT, tra cui
IL DATA CENTER CONTINUA A ESSERE ELEMENTO CHIAVE PER LE STRATEGIE IT DELL’IMPRESA. PERFORMANCE SEMPRE PIÙ ELEVATE DEVONO COMBINARSI CON LOGICHE DI SOSTENIBILITÀ ED EFFICIENZA. UN ESEMPIO ITALIANO È PROPRIO IL PROGETTO REALIZZATO PER LO STORICO ATENEO PISANO
TULLIA ZANNI Responsabile Solutions Marketing di Italtel
Google e Facebook, hanno scelto di localizzare i data center in zone dell’estremo Nord europeo, dove le condizioni climatiche e ambientali permettono di ottenere raffreddamento con consumi energetici più bassi. Se non è possibile ricorrere a scelte ambientali, analisi e progettazioni accurate possono garantire ottimi risultati in termini di contenimento costi e obiettivi green. Anche Italtel si sta muovendo in tale ambito. In Raggruppamento Temporaneo d’Impresa (RTI) con West Systems e Webkorner, ha recentemente realizzato il nuovo Green Data Center dell’Università di Pisa. «I vantaggi per l’Università di Pisa sono molteplici: risparmi economici, ottimizzazione degli spazi e riduzione dell’impatto ambientale», spiega Zanni. Gli impianti sono stati realizzati con tecnologie best-of-breed (rack, condizionamento, gruppi di continuità…) che garantiscono qualità ed efficienza, e portano a un miglioramento del valore pPUE (partial Power Usage Effectiveness) medio annuo, il parametro che indica quanto sia green il Data Center, pari a 1,17, più basso rispetto al requisito di 1,3 richiesto a capitolato. Il Green Data Center è stato realizzato in un’area all’interno del Parco Regionale di Migliarino, San Rossore e Massaciuccoli, collegata all’Ateneo da un anello in fibra ottica che garantisce un elevato livello di connettività e di affidabilità.
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REPORTAGE di
DOMENICO ALIPERTO
Pmi e innovazione digitale: correre sul treno della ripresa economica Innovare è sempre più un’urgenza: per essere competitivi sul mercato è necessario cogliere le opportunità offerte dal digitale e affacciarsi al mondo dei servizi di nuova generazione. Ma come? Con quali tecnologie? E come approfittare degli incentivi governativi per Industria 4.0? Se ne è parlato in un roadshow dedicato alle PMI italiane organizzato da Digital360 e Wind Tre Business
Ora che l’economia del nostro Paese mostra finalmente convincenti segnali di ripresa, è il momento per le aziende italiane di accelerare con l’innovazione, per cogliere le opportunità offerte dal digitale e affacciarsi al mondo dei servizi di nuova generazione. Non è più una sfida, ma un passaggio obbligato, per assicurarsi un ruolo da protagonisti nel futuro. Ma come si affronta in concreto la cosiddetta trasformazione digitale? Se ne è parlato in un roadshow con le PMI italiane, in quattro tappe (Firenze, Napoli, Palermo e Torino), organizzato da Digital360 e Wind Tre Business, che ha messo a confronto attori impegnati a diverso titolo in processi di Digital Transformation e dove sono stati affrontati alcuni fra i temi più interessanti del momento, come le trasformazioni in ambito di Industria 4.0, smart mobility, smart working, smart home, smart city ed e-health. La nuova economia fondata sull’innovazione digitale ha messo in chiaro che la trasformazio| 70 |
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ne, o adattamento che chiamar si voglia, d’ora in avanti sarà una costante e migliorerà il modo di lavorare. «Il cambiamento richiede ripensamenti in grande e non reazioni difensive in piccolo», ha confermato Paolo Catti, Associate Partner, P4IPartners4Innovation, aprendo i lavori del workshop. «Ci troviamo di fronte a una vera ondata, dopo la quale non si tornerà ai vecchi modelli gestionali. La ripresa c’è, ma le imprese che ancora non hanno cominciato a cavalcarla sfruttando le tecnologie digitali hanno di fronte a sé, più che un’urgenza, un’emergenza». IL FOCUS PER LE PMI ITALIANE? SICUREZZA E INFRASTRUTTURE Occorrono gli strumenti e le piattaforme, oltre che le competenze, per l’esecuzione della vision maturata. In questo contesto come si stanno muovendo le aziende italiane? Paolo Catti ha presentato i risultati di un’indagine (condotta su un
REPORTAGE | PMI E INNOVAZIONE DIGITALE: CORRERE SUL TRENO DELLA RIPRESA ECONOMICA
mente sostenuto dagli incentivi dei piani Industry 4.0 e Impresa 4.0. Gli incentivi rappresentano una leva che può rilevarsi strategica, anche perché, come spiega Robert Braga, Commercialista e Presidente dell’Associazione PROdigitale, il legislatore ci crede. «Grazie ai super e agli iper ammortamenti si riesce a recuperare fino al 70% dell’investimento effettuato su nuovi sistemi, purché sia rispettato il requisito dell’interconnessione con la filiera, incluso l’integrazione automatizzata con macchine e fornitori, le interfacce e tutto ciò che ha a che fare con la salute e la tutela dei collaboratori sul posto di lavoro». Braga ha sottolineato in questo ambito che c’è spazio anche per gli investimenti nel software. IL RUOLO DELLE TELCO
panel disomogeneo di 300 organizzazioni fino a 50 milioni di euro di fatturato) che restituisce una fotografia abbastanza nitida dell’allocazione del budget ICT per l’anno 2017. «La voce sicurezza è prioritaria per il 61% delle aziende, seguita dall’infrastruttura, su cui investe il 56%, del campione mentre il rinnovamento del parco applicativo, che costituisce l’ambito dove meglio riesce a esplicarsi l’innovazione, è strategico per il 49% delle organizzazioni». Cosa si può dire provando a proiettare la situazione sul 2018? Lo studio evidenzia un accenno di crescita. E se fino a qualche anno fa nel “top of mind” c’era il rinnovo del parco hardware, a partire dall’introduzione di dispositivi mobili, e l’adozione di ERP e sistemi di CRM, oggi si punta alla dematerializzazione, alle soluzioni di smart working e di digital engagement, supportate da infrastrutture in Cloud che garantiscano sicurezza e disponibilità immediata dei dati, anche in mobilità. Il futuro è all’insegna di Big Data, Artificial Intelligence e IoT, quest’ultimo potenzial-
Proprio perché oggi tutto è connesso, le Telco rappresentano un partner strategico nei processi di Digital Transformation. «Per le piccole e medie imprese, spina dorsale del tessuto produttivo italiano, l’innovazione rappresenta un vero e proprio motore per la crescita e per la competitività sul mercato - ha ribadito Davide Villa, Direttore Marketing Business di Wind Tre -. Diventa quindi fondamentale saper diffondere gli strumenti e le competenze digitali sul territorio, ruolo che Wind Tre Business promuove supportando l’evoluzione tecnologica delle aziende». Wind Tre, nata dall’integrazione fra Wind e 3 Italia, oggi ai vertici del mercato mobile italiano, ha infatti scelto di aumentare l’attenzione verso il mercato B2B, per sostenerne l’elevato potenziale di crescita. Nel corso del roadshow, Francesco Barletta, Head of Innovation and Market Development di Wind Tre, ha ripercorso la rotta che l’azienda ha tracciato per il segmento business, mettendo a disposizione delle imprese una gamma di servizi innovativi e personalizzati, in grado di supportare le aziende nella trasformazione digitale, per semplificare i processi e migliorare la qualità del lavoro. Un esempio è rappresentato dalle soluzioni per lo smart working di Wind Tre Business, come il “Mobility Pack”, che gestisce in modo differenziato il traffico aziendale e personale, garanwww.digital4executive.it
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REPORTAGE | PMI E INNOVAZIONE DIGITALE: CORRERE SUL TRENO DELLA RIPRESA ECONOMICA
Da sinistra: Paolo Catti, Associate Partner, P4I-Partners4Innovation, Davide Villa, Direttore Marketing Business di Wind Tre e Robert Braga, Commercialista e Presidente dell’Associazione PROdigitale
tendo sicurezza dei dati, controllo dei costi, produttività e la migliore user experience anche in mobilità. Oppure l’offerta integrata OfficeShare, che unisce i vantaggi della Fibra fino a 1 Gigabit al secondo con la possibilità per i dipendenti di condividere i dati tra i diversi smartphone o tablet utilizzati in azienda. «Le nostre offerte», ha spiegato il manager, «nascono dall’ascolto dei bisogni del cliente, utilizzano un’infrastruttura ad alta tecnologia e si basano su un ecosistema inclusivo di soluzioni digitali, costruito attraverso partnership di alto livello, non solo con i market leader, ma anche con startup innovative, business school e centri di ricerca universitari, per favorire modelli di Open Innovation e co-innovation». Wind Tre sta, inoltre, sviluppando i servizi di quinta generazione, che potranno accelerare l’adozione dell’Internet of Everything: insieme a Open Fiber, si è infatti aggiudicata l’assegnazione delle frequenze per la sperimentazione 5G
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a L’Aquila e a Prato, nell’ambito della gara indetta dal MISE. Una sperimentazione che vede il coinvolgimento anche di Università, aziende ICT, startup, enti nazionali e imprese locali, con l’obiettivo di costruire soluzioni utili e resilienti in grado di migliorare sensibilmente la qualità e l’esperienza d’uso per aziende e cittadini. «Molto rilevanti sono anche i nostri servizi di Cloud e Data Center di ultima generazione – ha aggiunto Barletta – progettati per rispondere alle crescenti esigenze di flessibilità delle imprese, soprattutto in ambito di gestione dei dati e sicurezza. Il dato nella sua integrità, infatti, rappresenterà sempre di più l’asset primario per le aziende: disponibilità e affidabilità sono sempre più indispensabili». Wind Tre Business ha deciso di investire molto nell’ambito della relazione con il cliente, attraverso una rete capillare di consulenti dedicati sul territorio, professionisti in grado di supportare efficacemente i clienti nella scelta delle soluzioni migliori per le loro attività e di assisterli a 360 gradi durante tutto il customer journey. Parallelamente, sono stati rinnovati i canali digitali del brand, come il sito windtrebusiness.it, l’area web per l’Assistenza e l’app di self care. «La relazione sarà rafforzata anche attraverso touch point più innovativi, senza tralasciare i canali tradizionali», ha assicurato Barletta. Per rendere concreta questa strategia, è molto importante la relazione con il territorio e con gli attori locali. A testimonianza di tale impegno, a Napoli, dove l’azienda di TLC ha una delle proprie sedi, è intervenuto anche Paolo Malato, Responsabile Vendite Area Sud Grandi Clienti di Wind Tre, nonché Vice Presidente della sezione ICT dell’Unione Industriali di Napoli: «Il nostro territorio è ricco di eccellenze in vari settori: ICT, agroalimentare, moda, cantieristica navale, utili-
REPORTAGE | PMI E INNOVAZIONE DIGITALE: CORRERE SUL TRENO DELLA RIPRESA ECONOMICA
ties. E abbiamo due poli universitari, la Federico II e l’Università Partenope, di grande rilievo nel campo della ricerca tecnologica. Wind Tre, così come l’Unione Industriali di Napoli, che ha ospitato questa tappa del roadshow, è impegnata per favorire la diffusione dell’innovazione nel nostro tessuto di PMI e per aiutarle a costruire nuovi modelli di business che garantiscano mag-
giore produttività ed efficacia», ha sottolineato il manager. Ogni tappa del roadshow ha ospitato come testimonial imprenditori e manager che, nel proprio lavoro quotidiano, gestiscono iniziative di trasformazione digitale, sia all’interno della propria attività sia per conto di aziende loro clienti. Ne è emerso un quadro ricco e variegato. In tutto il Paese, da Torino a Palermo, sono tante le iniziative di smart working che prendono vita ogni giorno per rendere le nostre PMI più efficienti e moderne: dematerializzazione della carta, firma elettronica, identità digitale, oltre a soluzioni in cloud che consentono di utilizzare le applicazioni aziendali su smartphone o tablet in piena sicurezza, incrementando sensibilmente la visibilità online e le vendite. Il confronto con i testimonial ha permesso di mettere a fattor comune esperienze concrete e positive attivando nuove sinergie, un passo fondamentale per accelerare le dinamiche di innovazione nel nostro tessuto imprenditoriale.
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RUBRICA | RICERCHE E STUDI a cura di
PAOLA CAPOFERRO RONCHETTA
OMNICHANNEL CUSTOMER EXPERIENCE: SERVE UNA GOVERNANCE ORIZZONTALE SU DATI, INSIGHTS ED EXECUTION L’approccio Omnicanale è ritenuto strategico per il 63% delle aziende italiane ma solo una su dieci è in grado di incrociare molteplici dati sul cliente e garantire un’esperienza integrata e coerente sui diversi punti di contatto. Quasi un quarto dei retailer non ha ancora una vista unica sul cliente e il 40% gestisce in quest’ottica al più due o tre tipologie di informazioni, tendenzialmente quelle più semplici (come anagrafica clienti e storico di acquisto). Le evidenze della ricerca dell’Osservatorio Omnichannel Customer Experience del Politecnico di Milano Il processo di acquisto dei consumatori italiani è oggi caratterizzato da profonde trasformazioni sia nella modalità di relazione con i brand sia nell’utilizzo congiunto dei canali fisici e digitali. «Non esiste più una distinzione tra spazio fisico e spazio online, per il consumatore non c’è più alcuna differenza», sono le parole con le quali Giuliano Noci, Responsabile Scientifico dell’Osservatorio Omnichannel Customer Experience, apre il convegno di presentazione dei risultati del primo anno di ricerca dell’Osservatorio promosso dalla School of Management del Politecnico di Milano. «Siamo di fronte a profondi cambiamenti del comportamento dei consumatori nella loro relazione con la marca, che avviene sempre più secondo una molteplicità di canali, in qualsiasi momento e luogo. Sono ormai 31,7 milioni, pari al 60% della popolazione di età superiore a 14 anni, gli italiani che utilizzano Internet in una o più fasi del processo di acquisto e che si aspettano di vivere esperienze coerenti ed integrate sui vari punti di contatto (punto vendita, sito internet, eCommerce, social network, contact center, pubblicità)». «Questo significa un enorme cambiamento per i Retailer che devono riprogettare i touch point per assicurare una customer experience coerente ed integrata», prosegue Noci. «Ma non solo i Retailer, in genere tutti i brand dovrebbero focalizzare la strategia aziendale verso il cliente/utente con un coordinamento di tutte le attività aziendali in ottica “customer journey”, mediante approccio e governance orizziontali. Soprattutto, la progettazione del customer journey con visione omnichannel dev’essere vista come approccio di business, da mettere
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al centro del piano industriale dell’azienda, non solo al Marketing». LE GESTIONE DELL’OMNICANALITÀ: DATI, INSIGHT, EXECUTION I PILASTRI DELLO SCHEMA DI RIFERIMENTO Per poter garantire un’esperienza omnicanale ai consumatori, occorre adottare una strategia basata sui dati lungo tutto il processo di relazione con il cliente, dalla comunicazione alla vendita e al post-vendita. Lo schema di riferimento vede quindi come primo importante pilastro la raccolta dei dati disponibili in azienda a supporto del processo di relazione con il consumatore: dati che provengono da diversi touchpoint (dal punto vendita al sito Internet/eCommerce, dal call center alla pubblicità, dai canali di direct marketing alle mobile app), dati immagazzinati in svariati sistemi informativi (come Crm o sistemi di cassa) e dati che possono provenire non solo dall’interno, ma anche dall’esterno dell’azienda (ad esempio, acquistati da data provider terzi). La sola raccolta di dati non è però sufficiente senza un’accurata fase di analisi, in cui si vanno a selezionare i dati realmente utili e di valore e a generare insight rilevanti, per massimizzare l’efficacia delle azioni di marketing e vendita. Essa permette, inoltre, di generare cluster di segmenti di clienti e di individuare per ciascuno di essi uno o più customer journey, ossia il percorso che i clienti compiono, attraverso diversi punti di contatto, nel processo d’acquisto (e utilizzo) di un determinato bene o servizio. Infine, questa fase prevede l’analisi dei contenuti fruiti dal
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consumatore (content intelligence) per comprenderne gli interessi e arricchirne così il profilo così da essere più efficaci nelle successive fasi di contatto. Il terzo pilastro dello schema di riferimento è dato dall’execution dato che la creazione di una Customer Experience omnicanale comporta profonde implicazioni a livello organizzativo. La sinergia dei touchpoint in logica “sempless” non può, infatti, che fondersi su una struttura organizzativa fluida e profondamente integrata, in grado di comprendere in modo tempestivo le esigenze del cliente, mettere in campo azioni in tempo reale e, nei casi più virtuosi, cogliere in anticipo le sue necessità. INTEGRAZIONE DEI DATI E VISTA UNICA SUL CLIENTE LE PRINCIPALI DIFFICOLTÀ Dalla Ricerca emerge che la quasi totalità delle aziende raccoglie e immagazzina i dati di anagrafica cliente e informazioni di contatto (98% dei casi analizzati) e di storico di acquisto (86%), tipologie di dati tipicamente raccolte a livello di singolo individuo. Molto diffusa è, comunque, anche la raccolta di dati provenienti da sistemi di analytics su canali proprietari (79%), indagini di mercato e customer satisfaction (76%) e risultati delle campagne pubblicitarie online (74%): questi dati sono invece tendenzialmente gestiti a livello aggregato. «La maggioranza delle realtà (40%), però, si limita al più a incrociare due o tre tipologie di dati, tendenzialmente quelle di anagrafica clienti e storico d’acquisto, mentre poco più di una su tre è in grado di integrare anche dati più
RU B RICA | RIC E RC H E E ST UDI
complessi (come quelli provenienti da analytics, advertising, interazioni one to one). Inoltre quasi un quarto delle realtà non integra ancora alcun dato per crearsi una vista unica sul cliente», secondo quanto ha commentato Marta Valsecchi, Direttore dell’Osservatorio Omnichannel Customer Experience. «Colpisce, inoltre, il fatto che oggi più della metà delle aziende intervistate non abbia ancora un unico CRM che raggruppi tutti i dati sull’anagrafica clienti provenienti dai diversi prodotti/brand/ canali». Oltre un terzo delle aziende rispondenti non traccia né ricostruisce, ad oggi, il customer journey del cliente, il 44% lo fa ma solo sui touchpoint digitali, mentre il 20% è in grado di farlo su tutti i canali (fisici e digitali).
UN AIUTO ARRIVA DALLA MARKETING AUTOMATION A valle della creazione di una vista unica sul cliente e della generazione degli insight vi è la fase in cui i dati vengono “attivati” per generare iniziative di comunicazione, marketing o vendita profilate sulla base del consumatore a cui sono indirizzate (o del suo cluster di appartenenza). Lo scopo è interagire con lo specifico cliente attraverso azioni per lui rilevanti, nel momento più opportuno, nel giusto contesto e attraverso il corretto canale. In quest’ottica, l’automazione dei processi (gestibili attraverso sistemi di Marketing Automation) consente alle aziende di progettare la messa in campo azioni di marketing, comunicazione
e vendita più tempestive e di misurarne rapidamente l’efficacia: tuttavia, anche se l’utilizzo di regole e automazioni è piuttosto frequente a livello di singolo canale di contatto, le aziende italiane sono ancora lontane da un approccio integrato sui vari touchpoint a disposizione. Solo il 16% delle aziende rispondenti alla survey dichiara, infatti, di gestire in maniera integrata tutti o quasi i propri punti di contatto e, inoltre, ben un quarto delle aziende interrogate non pratica alcuna gestione integrata. Anche la personalizzazione del contenuto in funzione dell’utente che accede a un sito/app non è ancora particolarmente diffusa: il 29% delle aziende del campione lo fa, il 43% ci sta lavorando, ma il 28% non l’ha ancora inserita nella tabella di marcia.
Fonte: Politecnico di Milano
LA GESTIONE DELL’OMNICANALITÀ: LA GENERAZIONE DEGLI INSIGHT
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RU B |RICA | N O MINE RUBRICA NOMINE
BENEDETTO LEVI CEO, ILIAD
Iliad ha ufficialmente annunciato la nomina di Benedetto Levi come CEO alla guida della filiale italiana. L’incarico è stato affidato al 29enne Levi, laureato in Ingegneria logistica e della produzione al Politecnico di Torino e con master in Management alla Scuola Superiore di Commercio di Parigi (Escp Europe). Torinese, Benedetto Levi ha vissuto a Londra e Parigi, dove ha fondato una startup specializzata nella vendita di accessori per smartphone. Nel 2015 è diventato Country Manager Italia della startup Captain Train, poi acquisita dal gruppo
indipendente Trainline, che opera a livello mondiale nella vendita on-line di biglietti ferroviari, di cui Levi ha gestito l’ingresso e lo sviluppo in Italia. La scelta di un giovane manager potrebbe essere il segnale di un posizionamento strategico nella fascia d’età dei “giovanissimi” e di una spinta verso modalità operative che puntino più sul canale online che offline. Dalla nota diffusa dall’azienda sulla nomina del CEO si apprende anche che il nome ufficiale scelto per il mercato tricolore è Iliad Italia. È operativo anche il sito
Iliad.it. «Il Gruppo lancerà prossimamente la sua attività di telefonia mobile sul mercato italiano, diventando così il quarto operatore», si legge sulla nota.
Matteo Mascazzini ha sostituito Gregorio Borgo alla guida di Geox, nel ruolo di CEO. Bocconiano, con master alla London Business School, Mascazzini ha un curriculum “fashion”, con incarichi in Gianni Versace Group, Armani e Gucci. Nei 10 anni di esperienza maturati nel gruppo Gucci, in cui è entrato nel 2007, ha ri-
coperto ruoli di responsabilità in Emea, America, Giappone e Hong Kong, e nel retail e consumer management a livello internazionale. In precedenza, dal 2003 al 2007, è stato COO/CFO in America e in Giappone per Giorgio Armani e, dal 1995 al 2002, ha lavorato in Gianni Versace come controller, prima in America e poi a livello di gruppo.
MATTEO MASCAZZINI CEO, GEOX
CRISTIANO VIGANÒ COUNTRY DIRECTOR, INGENICO ITALIA
Cristiano Viganò è il nuovo Country Director di Ingenico Italia, società specializzata nelle soluzioni di pagamento elettronico. Il manager si occuperà di coordinare tutte le attività commerciali e di sviluppo nel Paese, riportando al Managing Director western Europe, Guillaume Pascal. Luciano Cavazzana, Presidente della filiale italiana – si legge in una nota della società – si dedicherà principalmente al suo nuovo incarico internazionale di Evp Emea &
Global Sales, Banks & Acquirers Business Unit di Ingenico Group. In Ingenico dal 2007, Viganò ha ricoperto il ruolo di Finance & HR Director Italia, Chief business operation, Italy & Eastern Europe e, negli ultimi tre anni, ha lavorato a Parigi, dove è stato CFO Europe & Africa e Vice President of finance, banks & acquirers. Viganò, 46 anni, laurea in Economia e master in Diritto commerciale internazio-
nale, ha assunto ruoli di crescente responsabilità in contesti strutturati e internazionali principalmente nel settore ICT.
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R UBRI C A | NO MI NE
CARLO CARLOTTO AMMINISTRATORE DELEGATO, ALPITEL
Dal primo gennaio 2018 Carlo Carlotto è il nuovo Amministratore Delegato di Alpitel, società che sviluppa e realizza reti e impianti di telecomunicazione. Giancarlo Bellino, Presidente della società, ha affidato il ruolo che ha ricoperto fino al 31 dicembre 2017 a Carlotto, da anni Direttore del personale e del settore am-
ministrazione, finanza e controllo. L’avvicendamento ai vertici dell’azienda rientra nel piano di riorganizzazione in corso che ha coinvolto i diversi settori aziendali e che prevede anche un incremento dell’organico. Nel nuovo organigramma figurano due Vice Presidenti esecutivi: Valentina Belli-
no, con funzioni di rappresentanza e con delega per il mercato estero, e Gianni Moretto con deleghe su Marketing & Sales e sviluppo Strategie e Innovazione. Laureato in Scienze Politiche all’Università degli Studi di Torino, in precedenza Carlotto ha ricoperto ruoli di responsabilità in Editel e Primus Capital.
STEFANO BORDEGNONI CHIEF EXECUTIVE OFFICER, INPECO GROUP Stefano Bordegnoni, 52 anni, ingegnere meccanico con ventennale esperienza nel campo automotive e automazione, è il nuovo Chief Executive Officer di Inpeco Group, la realtà multinazionale attiva da oltre 20 anni nel settore della progettazione, sviluppo e produzione di sistemi di automazione per laboratori di analisi cliniche. Con un importante bagaglio di competenze tecniche e manageriali, acquisite in precedenti espe-
rienze professionali, con incarichi di rilievo in aziende che operano in questo settore, inizialmente Bordegnoni ricoprirà ad interim anche l’incarico di Head of Product & Service Development per facilitare il processo di consolidamento e sviluppo della nuova organizzazione e contribuire al miglioramento dei processi nell’area R&D.
SUNG SOO KIM PRESIDENTE E AMMINISTRATORE DELEGATO, LG ELECTRONICS ITALIA E GRECIA
Sung Soo Kim è il nuovo Presidente e Amministratore Delegato della nota azienda di elettronica ed elettrodomestici. Con un’esperienza ventennale nel settore dell’elettronica di consumo e del retail a livello internazionale, e oltre dieci anni di anzianità nel gruppo LG Electronics, Sung
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è una testata di ICT and Strategy S.r.l. Via Copernico, 38 - 20125 Milano Iscrizione presso il R.O.C. Registro degli Operatori di Comunicazione al n. 16446 Testi e disegni: riproduzione vietata.
Soo Kim porterà un solido contributo al business italiano e greco con obiettivi di crescita e di consolidamento del posizionamento nella fascia premium su tutte le categorie di prodotto (Home Appliances, Home Entertainment e Mobile Communication e B2B).
HANNO COLLABORATO
PROGETTO GRAFICO
Domenico Aliperto, Nicoletta Boldrini, Annalisa Casali Gaia Fiertler
Stefano Mandato
PUBBLICITÀ
DIRETTORE RESPONSABILE
Sung Soo Kim ha ricoperto per 3 anni, dal dicembre 2013, il ruolo di Home Entertainment Europe/CIS Sales and Marketing /Vice President. In precedenza, è stato Presidente di LG Electronics nei Paesi Baltici (a partire da novembre 2008) e, da gennaio 2010, in Ucraina.
IMPAGINAZIONE Luca Migliorati
Manuela Gianni (redazione@digital4.biz)
mara.perego@digital4.biz - erika.lovisetto@digital4.biz
REDAZIONE
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STAMPA
Paola Capoferro Ronchetta, Daniele Lazzarin
Illustrazioni di Fabio Margarita
Pagani - Passirano (BS)
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