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. Perego e Taisch, Osservatori PoliMi: la via italiana per lo Smart Manufacturing . Schuermann, BCG: i 4 approcci alla digital transformation . Wozniak: il futuro secondo il co-fondatore di Apple . Canali: il digitale sposa multicanalitĂ e sartorialitĂ . BNL: il progetto Smart Bank trasforma il lavoro
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editoriale
Microsoft-Linkedin, identikit di un matrimonio inatteso
di
umberto bertelè presidente advisory board digital4executive autore di “strategia”
@umbertobertele
Microsoft è la terza società al mondo per capitalizzazione, alle spalle di Apple e Google. Vale 390 miliardi di dollari, il doppio di cinque anni fa (nonostante il calo del quasi 9 per cento negli ultimi 6 mesi) e ben 38 volte il suo utile. Ha cioè un multiplo P/E più da start-up che da società ai vertici della Borsa da almeno 20 anni, elevatissimo se si pensa che Apple ha un multiplo 11. Piace evidentemente alla Borsa, che scommette sulla sua crescita. Piace soprattutto il CEO Satya Nadella (succeduto a Ballmer oltre due anni fa), per lo sforzo che sta facendo di cambiare una cultura d’impresa ancora troppo legata ai prodotti (Windows e Office) di cui Microsoft è stata monopolista per tanti anni e per i successi che sta cogliendo nel cloud computing. LinkedIn è una società molto più giovane. È un social network quasi coevo di Facebook - essendo nata circa un anno prima - che ha sempre avuto però una valutazione molto inferiore rispetto al rapporto fra iscritti: oltre 430 milioni quelli di LinkedIn, un miliardo e 650 milioni quelli di Facebook. Non è infatti mai riuscita a raggiungere la soglia dei 34 miliardi, nemmeno nel momento di massimo fulgore (febbraio 2015), e da allora ha iniziato una discesa che l’ha fatta precipitare in un anno poco sopra ai 13; mentre Facebook a maggio ha quasi toccato quota 350. Rispetto a Facebook è molto più focalizzata - è la più grande rete professionale del mondo - ma non è riuscita sinora a sfruttare adeguatamente la maggiore specializzazione. Ha ricavi pari a 3,2 miliardi, realizzati prevalentemente vendendo le informazioni sugli iscritti e giocando il ruolo di società low cost di head hunting. Occupa quasi 10 mila persone e perde 170 milioni. Data la grandissima notorietà delle due società, è abbastanza naturale che l’annuncio del loro matrimonio abbia destato una marea di commenti: sul costo - 26 miliardi cash - dell’acquisizione, terza di tutti i tempi per rilevanza nell’ambito tech; sul track record negativo delle precedenti acquisizioni (di quella di Nokia in particolare), effettuate però dal precedente CEO; sulla difficoltà di integrare due culture di impresa così diverse, ben chiara a Nadella che ha promesso a LinkedIn (per non perdere le risorse umane più valide) una forte autonomia; sul senso complessivo dell’operazione, e specificamente sui vantaggi conseguibili da Microsoft e/o dal suo CEO. Riporterò alcuni pareri, rappresentativi di posizioni molto diverse. Tra i titoli più critici quello di The Economist: “Microsoft’s purchase of LinkedIn is one of the most expensive tech deals in history. It may not be one of the smartest”. Con una osservazione interessante: l’obiettivo di Nadella di far diventare LinkedIn sempre più il salotto in cui le persone si scambiano informazioni sul proprio lavoro potrebbe infastidire ulteriormente le imprese (che temono le tentazioni per i propri dipendenti) e spingerle - come già accade - a bloccare o limitare l’accesso a LinkedIn. Piuttosto critico anche FT, in uno degli articoli sul tema: “It is a strange move (..) It is not clear how the business fits together with Microsoft; still less how Mr Nadella can use it to drive the group’s future growth”. E soprattutto maligno, perchè avanza il sospetto che l’operazione sia finalizzata ad accrescere il compenso in azioni che Nadella riceverà alla conclusione del suo quinquennio come CEO. Più favorevole invece WSJ, che esprime fiducia per un CEO che sinora ha sbagliato poche mosse: “If Mr. Nadella can re-energize an organization as big and legacy-bound as Microsoft, who is to say he can’t do the same for 13-year-old LinkedIn?”. Il mio punto di vista? Ho molte difficoltà nel comprendere i vantaggi dell’operazione, ma sono molto curioso di vedere come Nadella - sicuramente non sprovveduto - renderà operativa la sua visione. E ne farò, nel bene o nel male, un capitolo della terza edizione di Strategia (ora sto scrivendo la seconda).
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Smart Manufacturing: la via italiana alla quarta rivoluzione industriale
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di Alessandro Perego e Marco Taisch, Politecnico di Milano MANAGEMENTK
Da Apple I alla realtà aumentata
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Steve Wozniak, co-fondatore di Apple
McKinsey, la partnership IT-business è un imperativo Dalle quattro “P” alle tre “V”: come cambia il Marketing nell’era digitale
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Nirmalya Kumar, docente di Marketing, London Business School
BCG: dall’evoluzione naturale alle “cortine di fumo”, ecco i 4 stili della digitalizzazione 22
Just Schuermann, Leader of Marketing, Sales & Pricing Practice, BCG Europe
Normative - Il Privacy Shield verso l’approvazione definitiva Gabriele Faggioli e Chiara Giorgini, p4i-Partners4Innovation
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digital transformationK
PA - Il ministro Padoan: «La PA digitale stimolo per tutta l’economia» HR - Con “Smart Bank” BNL trasforma il modo di lavorare
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Antonio Marino, Direttore Immobiliare, BNL
HR - Come impostare un progetto di Smart Working: le cinque fasi principali
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Emanuele Madini, Associate Partner, P4I - Partners4Innovation
Marketing - I marketer alla sfida dei dati: da “Mad Men” a “Math Men”
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Maria Cristina Farioli, Director of Marketing, Communications and Citizenship, IBM Italia
Procurement - Coni, acquisti e appalti telematici a garanzia della trasparenza totale 38 Gennaro Ranieri, Responsabile Acquisti e Appalti, Coni Servizi
Finance - «Come cambia il mestiere di CFO nell’era digitale»
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Roberto Mannozzi, Presidente ANDAF
Supply Chain - Canali, il digitale sposa multicanalità e qualità sartoriale
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Stefano Canali, General Manager, Canali intervisteK
Advisory Board Umberto Bertelè Presidente Advisory Board Giampio Bracchi Politecnico di Milano
Giuliano Noci Politecnico di Milano Paolo Pasini SDA Bocconi Francesco Sacco Università dell’Insubria - SDA Bocconi Raffaello Balocco Segretario Advisory Board
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Pier Luigi Zaffagnini, Amministratore Delegato, Top Consult
Ifin Sistemi pronta per le fatture digitali B2B: «Un’evoluzione naturale»
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Giovanni Maria Martingano, Amministratore Ifin Sistemi
HPE, IT e business evolvono di pari passo
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Roberta Russo, Technology Services Support Business Unit Manager, HPE
Carlo Alberto Carnevale Maffè Università Bocconi Maurizio Dècina Politecnico di Milano
Come arrivare preparati agli obblighi della conservazione digitale
osservatoriK
Da Partner a Business Enabler: il nuovo ruolo della Direzione HR
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Fiorella Crespi, Osservatori Digital Innovation, Politecnico di Milano reportageK
Work & Life Integration: benefici per tutti
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rubrica | ricerche e studi
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rubrica | nomine
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cover story
Smart Manufacturing: la via italiana alla quarta rivoluzione industriale
alessandro perego Politecnico di Milano
L’innovazione digitale sta trasformando il paradigma di riferimento anche per le aziende manifatturiere. Per il nostro Paese è un’opportunità per far valere le vocazioni industriali, riconosciute in tutto il mondo per come esprimono e alimentano genialità, cultura, design, qualità di vita e benessere. È però necessario creare il contesto adatto, diffondere consapevolezza e sostenere le imprese nel percorso di cambiamento
Sempre più spesso si sentono usare espressioni come Industry 4.0, Factory of the Future, Digital Manufacturing, Industrial Internet, ecc. Conferenze, workshop e seminari si susseguono, con titoli fotocopia, in cui fanno capolino i termini di cui sopra, talvolta anche con evidenti forzature. In molti prospettano l’avvento di una “nuova rivoluzione industriale”, la quarta, ed anche le istituzioni, sia a livello centrale sia regionale si stanno interrogando su tali neologismi. Ma di cosa stiamo in realtà parlando? Questi termini cosa sottendono concretamente? La digitalizzazione dell’industria Diciamolo con chiarezza: questi nuovi inglesismi sono l’apice comunicativo di iniziative politico-industriali promosse a seguito della crisi economica in Paesi industrialmente avanzati, Germania in primis e Stati Uniti in parallelo, e poi molti altri al seguito. | 6 |
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Il postulato di queste iniziative è sempre lo stesso: l’importanza del manufacturing per lo sviluppo e il progresso umano. Il leit motiv è parimenti comune: le moderne tecnologie digitali (dal software all’automazione) sono oggi da un lato in grado di dare un’enorme spinta alla produttività umana, dall’altro possono trasformare i tradizionali modelli aziendali di tayloristica memoria in archetipi più customerdriven (ultra-personalizzazione dei prodotti, monitoring a distanza, servitizzazione, ecc.). Tra queste diverse iniziative ci sono pure alcune differenze, sia nei modelli di governance (pubblici e privati), sia nei contenuti (una maggiore considerazione delle tecnologie Internet-of-Things, piuttosto che delle nuove frontiere dell’Additive Manufacturing), ma il tratto comune, ovvero l’importanza della digitalizzazione dell’industria, è ben più forte. Quale che sia la denominazione, è evidente come la repentina evoluzione delle tecnologie digitali stia oggigiorno ponendo tutti di fronte ad un potenzia-
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Marco Taisch Politecnico di Milano
come esprimono e alimentano genialità, cultura, design, qualità di vita e benessere. definizione, tecnologie e dominio applicativo
le cambio di paradigma, che permetterà anche alle aziende manifatturiere di realizzare una maggiore inter-connessione e cooperazione tra le proprie risorse (impianti, persone e informazioni, sia interne alla fabbrica sia distribuite lungo la catena del valore), fornendo la chiave per migliorare – anche drasticamente – l’efficienza dei propri sistemi e, più in generale, la competitività. La progressiva automazione degli impianti produttivi ridurrà l’impatto del costo della manodopera, aumentando al contempo la richiesta di capitale umano sempre più qualificato. Le aziende creative ed innovative potranno arricchire i propri prodotti e i servizi con funzionalità distintive, realizzabili con tecnologie ed infrastrutture digitali. Dopo decenni di de-industrializzazione il vento pare cambiato, e sentiamo quasi prossimi i segnali di una ripresa e una rinascita produttiva che permetterà di tornare a far valere le vocazioni industriali italiane, riconosciute in tutto il mondo per
L’espressione Smart Manufacturing esprime una visione del futuro secondo cui, grazie alle tecnologie digitali, le imprese industriali e manifatturiere aumenteranno la propria competitività ed efficienza tramite l’interconnessione e la cooperazione delle proprie risorse (impianti, persone, informazioni), sia interne alla Fabbrica sia distribuite lungo la catena del valore. Alla base dello Smart Manufacturing vi è un insieme eterogeneo di tecnologie digitali innovative, che spaziano dall’Information Technology all’Operational Technology; le tecnologie però sono solo il mezzo, non il fine, di questa rivoluzione. Lo Smart Manufacturing si concretizza nell’adozione di alcune tecnologie digitali innovative, che chiameremo Smart Manufacturing Technologies, che si possono ricondurre a due grandi insiemi: il primo, più coeso e vicino all’Information Technology (IT), che include Industrial Internet (of Things), Industrial Analytics e Cloud Manufacturing; il secondo, più eterogeneo e vicino allo strato delle Operational Technologies (OT), rappresentato da Advanced Automation, Advanced Human Machine Interface ed Additive Manufacturing. Pur nella loro eterogeneità, queste tecnologie hanno un fondamentale tratto comune: quello di abilitare una forte interconnessione tra le risorse utilizzate nei processi operativi. Nel futuro immaginato dallo Smart Manufacturing, dunque, gli impianti, i lavoratori, i materiali in input e i prodotti finiti saranno dotati di sensori che li identificano e ne rilevano costantemente posizione, stato e attività; i dati raccolti saranno analizzati per migliorare la capacità produttiva, l’efficienza, la sicurezza e la continuità operativa; gli operatori verranno facilitati nelle loro mansioni grazie a robot collaborativi e a nuove interfacce uomo-macchina che ne potenzieranno sia la capacità esecutiva sia quella decisionale. Infine, tutta la fabbrica sarà connessa al resto del sistema logistico-produttivo e ai clienti tramite piattaforme cloud e i dati relativi all’utilizzo dei prodotti saranno utilizzati per facilitare l’assistenza post-vendita, lo sviluppo di nuovi prowww.digital4executive.it
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dotti e servizi, oltre che per abilitare nativamente nuovi modelli di business. Questi esempi sono utili anche per sottolineare un aspetto fondante: Smart Manufacturing non significa adottare isolatamente questa o quella tecnologia innovativa, quanto mettere a fuoco il meccanismo complessivo attraverso cui la maggiore integrazione delle risorse genera del valore addizionale, riducendo le inefficienze, valorizzando la conoscenza, e migliorando la capacità di pianificare e reagire. Le Smart Manufacturing Technologies trovano applicazione praticamente in tutti i processi di un’azienda industriale e manifatturiera. Per inquadrare meglio il discorso, tuttavia, è utile ricorrere a uno schema articolato in tre aree. La prima, Smart Lifecycle, include il processo di sviluppo di un nuovo prodotto, la gestione del ciclo di vita del prodotto e la gestione dei fornitori coinvolti in queste fasi. La seconda, Smart Supply Chain, include la pianificazione dei flussi fisici e finanziari nel sistema logistico-produttivo allargato. Infine, la terza area, Smart Factory, include i processi che rappresentano il cuore della manifattura: produzione, logistica interna ed esterna, manutenzione, qualità, sicurezza e rispetto delle norme. La situazione italiana
Tutte le tecnologie hanno un fondamentale tratto comune: quello di abilitare una forte interconnessione tra le risorse utilizzate nei processi operativi
Per misurare la conoscenza e la diffusione dello Smart Manufacturing nella manifattura italiana è stata condotta una survey indirizzata ai COO/Direttori di produzione e CIO/Responsabili IT, cui hanno partecipato 307 imprese, di cui 210 grandi e 97 piccole e medie, selezionate in modo da coprire 9 settori di grande rilevanza per il tessuto industriale italiano.
le smart manufacturing technologies
Oltre un terzo dei rispondenti alla survey dichiara di non conoscere i temi dello Smart Manufacturing, mentre nel resto dei casi il tema viene percepito a cavallo tra le tecnologie di produzione (OT, 44%) e le tecnologie informative a supporto dei processi (IT, 46%). Il 37% delle imprese dichiara di non conoscere il tema Smart Manufacturing/Industry 4.0 (rispettivamente 32% nelle grandi imprese, 50% nelle PMI), con grandi disparità per settore: se, ad esempio, nei settori Automotive, Alimentare e Macchinari la percentuale degli intervistati che conosce il tema è prossima al 70%, in altri settori il numero di coloro che dichiara di non conoscere la materia è prossimo o addirittura superiore al 50%. Approfondendo la conoscenza delle singole Smart Manufacturing Technologies, emerge un grado di non conoscenza, per ciascuna tecnologia, prossimo al 40%, che arriverebbe al 70% se si considerasse come requisito l’aver condotto almeno un’analisi preliminare di applicabilità, dunque non limitandosi a letture o considerazioni decontestualizzate. Tra tutte, le capacità offerte dalla Advanced Automation (robot cognitivi e collaborativi) e da soluzioni di Advanced HMI di tipo software (es. soluzioni a supporto delle performance operatore) sono le meno conosciute. Su circa 600 applicazioni di Smart Manufacturing, le tecnologie più diffuse sono quelle di Industrial IoT & Analytics a supporto delle attività esecutive (produzione e logistica), con alcune interessanti novità (la crescita dell’Industrial Analytics nei processi di planning) e alcune conferme (l’Additive Manufacturing nello Sviluppo Nuovo Prodotto per funzioni di Rapid Prototyping).Dal punto di vista dei processi, è la
le componenti di valore (mercato totale italiano nel 2015: 1,2 miliardi di euro)
Cloud Manufacturing
Industrial Analytics Industrial IoT
System Integration 30%
270 mln E 23%
790 mln E 66%
Software 22%
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Servizi a valore aggiunto 20%
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Hardware 28%
Fonte: Osservatorio Smart Manufacturing, Politecnico di Milano, 2016
120 mln E 10%
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fabbrica il centro della trasformazione digitale, con applicazioni in tutti i principali ambiti. La gestione del ciclo di vita del prodotto appare anch’essa molto vitale, con l’adozione di diverse soluzioni, soprattutto orientate alla collaborazione. Rispetto allo scorso anno, risulta più ricco il quadro applicativo in area supply chain, sebbene ancora lontano dal suo potenziale. Costruendo un quadro completo delle applicazioni riscontrate, l’area della Smart Factory rappresenta quella più sviluppata, con diverse soluzioni mature (e.g. sensoristica per efficienza energetica e per controllo e monitoraggio dei parametri ambientali, monitoraggio in tempo reale dell’avanzamento della produzione con tecnologie IoT e Analytics, spesso adottate in modo sinergico, tracciabilità dei prodotti all’interno della fabbrica attraverso tag RFId) ed altre in pieno sviluppo (e.g. introduzione dei robot collaborativi sulle linee sia per la produzione che per il controllo qualità, sperimentazione di augmented operator con Advanced HMI all’interno dei magazzini - e.g. Wilko ltd - o di smart glasses - e.g. Airbus - da utilizzare sulla linea di assemblaggio, piuttosto che a supporto del processo di manutenzione da remoto - e.g. Lee Co. e KSP Steel). Anche in ambito Smart Lifecycle si osserva una buona dinamica applicativa, soprattutto parlando di tecnologie cloud applicate a vantaggio della collaborazione (sviluppo prodotto
e relazione con i fornitori). Parliamo ad esempio di piattaforme utilizzate per monitorare e raccogliere dati e informazioni durante l’intero ciclo di vita dei prodotti, sistemi di tracciabilità e tecnologie IoT che permettono la raccolta dati sulle modalità di utilizzo dei prodotti, al fine di migliorarne la progettazione. L’area Smart Supply Chain è meno ricca dal punto di vista delle tecnologie utilizzate, e con applicazioni che si concentrano sull’utilizzo di Analytics per l’ottimizzazione dei processi di pianificazione: piattaforme intelligenti “decidono”, in base all’analisi dei dati relativi ai flussi di vendita dei prodotti, come inviare gli ordini alle linee di produzione, anche a quelle delocalizzate, e come organizzare le scorte di magazzino - e.g. Benetton e Calzedonia. Rispetto allo scorso anno, dunque, il quadro applicativo appare in evoluzione, anche se crediamo che esso debba ancora esprimere il suo vero potenziale: una volta che le Smart Manufacturing Technologies avranno permeato il processo manifatturiero e di sviluppo prodotto, allora l’innovazione delle relative logiche di pianificazione sarà quasi inevitabile. L’italia deve attivarsi subito Creare il contesto adatto, diffondere consapevolezza, sostenere le imprese che intraprendono il cambiamento: queste le tre linee su cui l’Italia deve
Nel futuro immaginato dallo Smart Manufacturing, gli impianti, i lavoratori, i materiali in input e i prodotti finiti saranno dotati di sensori che li identificano e ne rilevano costantemente posizione, stato e attività www.digital4executive.it
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cover story | Sm ar t M anu fact u r i ng: l a v i a i ta l ia n a a l l a qua rta rivo l uz io n e in dus t ria l e
la conoscenza del tema è ancora scarsa (survey su 307 imprese italiane)
31%
Non conosco
Ho letto articoli
16%
16%
Ho partecipato ad eventi su questo tema
Ho già implementato soluzioni su questo tema
mettersi al lavoro, coordinate dalla regia di un documento programmatico centrale. La prima richiede un’Agenda Digitale per una Industria Digitale, che operi per rileggere le iniziative già in atto sul tema (reti a banda larga, security e sostegno alla nuova imprenditorialità tra tutte) alla luce delle esigenze dell’ecosistema industriale italiano che, lo ripetiamo, è il vero motore del nostro Paese. Per usare un’immagine chiara e forte, la banda larga, prima che in centro città per vedere la Tv on demand, serve nelle zone industriali per fare cloud manufacturing. La seconda esigenza è di creare consapevolezza dell’Industria Digitale, affrontando quella mancanza di conoscenza che abbiamo noi stessi misurato, promuovendo azioni di sensibilizzazione delle imprese (e.g. comunicazione diffusa nei media e nei canali specializzati, formazione mirata, costituzione di dimostratori sul territorio), sviluppando e disseminando modelli per la valutazione della maturità e la misura dei benefici, per rafforzare anche la capacità delle banche e dei prestatori di capitale di comprendere (e supportare) la trasformazione in atto. In questo senso, l’Italia dovrà giocare la sua partita anche coordinandosi con le roadmap di trasformazione promosse dall’Europa.
La vera differenza starà nel “come fare”, ovvero nella capacità di progettare azioni pensate per il contesto italiano, e metterle in atto poi con estrema rapidità | 10 |
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Sto valutando di fare qualcosa
La terza linea deve porsi l’obiettivo di realizzare l’Industria Digitale tramite iniziative concrete di supporto alla trasformazione: incentivi alla crescita dimensionale, defiscalizzazione degli investimenti, accesso al credito, sviluppo di programmi di coordinamento. Queste sono le azioni in cui si dovrà mostrare di saper leggere con intelligenza il contesto italiano, per sperare nella necessaria efficacia. Ad esempio, alla luce dei limiti prima richiamati, sarà inutile prevedere azioni di defiscalizzazione degli investimenti se essi andassero a finanziare piccoli e isolati progetti pilota, invece che estese implementazioni; allo stesso modo, è inutile immaginare fondi a sostegno della modernizzazione degli impianti, senza riservare parte dell’investimento a sostegno alla trasformazione (culturale e gestionale) che quella macchina moderna e connessa può portare; simili considerazioni si possono fare riguardo ai target dimensionali delle imprese, ai settori e mirando soprattutto a coinvolgere le aziende a capo di alcune filiere strategiche per la nostra industria, e così via. Come si evince, più che l’originalità in termini di “cosa fare”, la vera differenza starà nel “come fare”, ovvero nella capacità di progettare azioni pensate per il contesto italiano, e metterle in atto poi con estrema rapidità.
Fonte: Osservatorio Smart Manufacturing, 2016
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MANUELA GIANNI
Steve Wozniak fondatore di Apple
Steve Wozniak si racconta: da Apple I alla realtà aumentata Acclamato dalla community hi-tech come una star di Hollywood, il 65enne fondatore di Apple insieme a Steve Jobs è intervenuto al Sapphire di Orlando parlando a ruota libera di passato, presente e futuro. Ecco dalle sue parole come è nato, nel ’76, il primo personal computer della storia, e cosa pensa di realtà aumentata, intelligenza artificiale e controllo vocale FOTO: MICHAEL BULBENKO
Allegro, loquace, spiritoso, appassionato: Steve Wozniak - noto anche come The Woz, iWoz o “l’altro Steve”- è oggi una star indiscussa nel mondo hi-tech, capace a 65 anni di ispirare e affascinare giovani geek e ingegneri di tutto il pianeta. E lui non si risparmia: partecipa spesso e volentieri agli eventi del settore, per soddisfare l’inevitabile curiosità intorno alla leggendaria fondazione di Apple e alla realizzazione del primo personal computer della storia, e per fornire la sua visione sulle novità e sul futuro. Noi l’abbiamo ascoltato a Orlando, in Florida, dove è intervenuto come keynote speaker a Sapphire 2016, evento annuale di SAP che raccoglie circa 30mila partecipanti. la vera storia dell’Apple I, il primo computer da casa Wozniak ha ripercorso la storia della nascita di Apple, creata insieme a Steve Jobs nel 1976, e dei | 12 |
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primi due rivoluzionari prodotti, Apple I e Apple II, di cui è stato il vero artefice tecnologico, saldatore alla mano. Un modello di computer allora inconcepibile, perché fino a quel momento nessuno aveva mai immaginato che quelle misteriose e ingombranti macchine in grado di fare calcoli potessero entrare nelle case ed essere utilizzate da persone non esperte, trovando un impiego diverso da quello aziendale. Ma Wozniak, che aveva studiato qualche anno di ingegneria ma poi aveva abbandonato per un incidente (prenderà la laurea a Berkeley negli anni successivi), era fermamente convinto di poter sviluppare un computer rivoluzionario. Per hobby e per passione, non per farne un business. «Sono partito con l’idea di costruire un computer con 4 k di memoria, perché questa era la quantità minima di byte di cui c’era bisogno - ha raccontato -. Lo dissi a mio padre, anche lui ingegnere, ma mi rispose che sarebbe stato impossibile e comunque più costoso di una villa, quindi non avrebbe
m a nage m e nt | St e v e Wo z n ia k s i rac c o n ta : da A p p l e I a l l a re a ltà a ume n tata
Chi è Steve Wozniak Icona della Silicon Valley e filantropo, Steve Wozniak, classe 1950, è stato co-fondatore di Apple insieme a Steve Jobs, nel 1976. Woz, come è chiamato, ha segnato lo sviluppo dell’industria dei computer progettando i primi personal computer della storia, Apple I e l’anno successivo Apple II, dotato di CPU, tastiera, grafica a colori e un floppy disk drive. Ai tempi aveva lasciato l’univerità per un incidente e lavorava in HP: prenderà la laurea in ingegneria a Berkeley nel 1981. Negli anni ha ottenuto molteplici riconoscimenti ufficiali. Nel 1985 il Presidente degli Stati Uniti gli ha conferito la National Medal of Technology, riservata agli innovatori più meritevoli. Nel 2000 è stato ammesso alla Inventors Hall of Fame. Appassionato di matematica ed elettronica, si è sempre dedicato all’insegnamento e alla diffusione della cultura informatica nelle scuole, investendo tempo e risorse finanziarie in varie attività. È autore dell’autobiografia “iWoz: From Computer Geek to Cult Icon”.
avuto alcun mercato». Ma The Woz non si arrende. «Decisi di diffondere gratuitamente i miei progetti presso la comunità degli ingegneri californiani e diventai in breve tempo l’idolo dell’Homebrew Computer Club di Palo Alto». Ed è in questo Club che Steve Jobs, di 5 anni più giovane, viene folgorato, intuendo l’immenso potenziale commerciale del progetto. «Mi disse che avremmo dovuto unire gli sforzi e produrre al costo massimo di 20 dollari, per poi rivenderlo a 40 dollari, un circuito stampato che offrisse a chiunque la possibilità di montare in casa propria un computer». Come spesso accade, le idee geniali sono quelle cha hanno la semplicità come ingrediente fondamentale. Wozniak, però non era convinto. Lavorava in quel periodo in HP, che amava profondamente, fianco a fianco con i più bravi ingegneri dell’epoca. Cercò quindi di sviluppare all’interno dell’azienda di Palo Alto la sua invenzione. Invano. «Tentai per cinque volte di proporre ai vertici di HP la mia idea - ha ricordato -. Guardate, dicevo, qui c’è un home computer, potrà raggiungere tutte le case degli americani per aiutarli a risolvere i loro problemi quotidiani. Ma nessuno volle investire nel progetto». In effetti, il gioiellino progettato da Wozniak, che sarà poi battezzato Apple I e venduto al prezzo di 666,66 dollari, era lontano anni luce dai calcolatori HP usati dalle aziende per eseguire i programmi dell’epoca: era dotato di tastiera, di un’unità di memorizzazione dei dati ed era pronto all’uso. Inoltre, dato che era destinato a un impego personale, su suggerimento degli amici del Club Homebrew vennero inseriti dei giochi, oltre ad applicazioni come la gestione del budget e delle scadenze famigliari. Va ricordato che solo qualche anno dopo vide la luce il primo
foglio di calcolo, che diede la stura alla diffusione di massa dei pc. «Non era proprio nelle corde di HP produrre una macchina che permettesse di giocare a casa propria - ha commentato The Woz -. L’azienda si concentrava sulla produttività dei calcolatori, sul fatto che si potessero, grazie ai progressi dell’elettronica, migliorare i processi produttivi e ridurre i costi per le aziende. Ma io ero sempre più convinto che l’home computing era la strada giusta da percorrere». Poi la svolta: un negozio locale effettua un ordine di un centinaio di Apple I, per un valore di 50.000 dollari. Wozniak si convince e suo malgrado lascia HP per iniziare la sua avventura con Steve Jobs, da cui si separa nove anni dopo per fondare una nuova azienda. La casa della mela, dunque, non è nata in un garage, come spesso si sente raccontare. La realtà virtuale? «Sono un fan» Cosa pensa l’inventore delle ultime novità tecnologiche? È molto colpito dalla realtà virtuale, di cui si dichiara un fan. «Ormai abbiamo sviluppato una sorta di assuefazione all’innovazione: ci sono già tante tecnologie interessanti e con tutte le novità che escono di continuo tutto si appiattisce. Ma avete provato un visore per la realtà virtuale? Ho pensato: “Questo è nuovo! Devo averlo, devo imparare a usarlo, sarà divertente!” Si tratta di un modo completamente diverso di vedere il mondo e questo ha indubbiamente un effetto emotivo notevole ma, credetemi, porta anche enormi benefici, tangibili e concreti». Basta indossare un casco per trovarsi su una spiaggia o su Marte e quando si toglie il visore non www.digital4executive.it
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management | St e v e Woz ni ak s i r acconta: da A p p l e I a l l a re a ltà a ume n tata
Il celebre scatto ritrae Steve Jobs (a destra) e Steve Wozniak negli Anni ‘70
si riuscirà a credere di essere sempre stati seduti comodamente sul divano di casa, è come essere trasportati in un altro mondo. «Nei cinema abbiamo la tecnologia IMAX (il sistema di proiezione che amplia il video), che ci regala una visione molto più reale dei film rispetto al passato, una vera e propria esperienza immersiva. Bene, la realtà virtuale è un passo avanti nel futuro. Ogni sviluppo nella tecnologia dal primo computer in poi mostra un miglioramento nella visione delle immagini, schermi sempre più grandi, colori più vivi, risoluzione migliore, così che gli oggetti ci sembrano sempre più reali anche se non lo sono. Voglio portare questo mondo virtuale in una dimensione sempre più reale». Intelligenza Artificiale e Machine Learning Wozniak è intervenuto anche sul tema, sempre più attuale, dell’Artificial Intelligence. La ricerca sui computer evolve nel segno di una sempre maggiore emulazione delle attività umane: sono già disponibili macchine in grado di imparare da sole dall’analisi dei dati (self-learning, o Machine Learning), e di prendere decisioni in base al contesto, ragionando e comportandosi in modo analogo agli esseri umani. «Alcuni decenni fa chiamavamo Intelligenza Artificiale quella dei grandi computer che sfidavano
«Grazie all’Intelligenza Artificiale, avremo insegnanti low cost e super smart, altamente personalizzabili, in grado di adattarsi alle esigenze dei diversi allievi, da quello più sveglio a quello che, invece, ha difficoltà di apprendimento» | 14 |
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Gary Kasparov agli scacchi - ha puntualizzato Woz -. Si trattava in realtà di set di istruzioni e metodologie create dall’uomo per simulare l’intelligenza umana. Oggi siamo su una dimensione completamente diversa: i computer imparano da soli e in un futuro non molto lontano saranno in grado di analizzare in autonomia una situazione, un problema e valutare le possibili soluzioni da intraprendere. Questo sarà utile in vari ambiti, ad esempio nell’educazione, dalle scuole elementari fino ai gradi più alti delle università e dei dottorati di ricerca. Avremo insegnanti low cost e super smart, altamente personalizzabili, in grado di adattarsi alle esigenze dei diversi allievi, da quello più sveglio a quello che, invece, ha difficoltà di apprendimento». E ci sono ambiti nei quali i computer che si sostituiscono all’uomo sono il presente, non il futuro. «Guardate a quello che succede nel mercato finanziario: è dominato dalle reti di computer, che gestiscono transazioni in millisecondi e provvedono in automatico a gestire compravendite. Sostituire una sola macchina richiederebbe mille persone, farebbe perdere tempo e milioni, forse miliardi di dollari». Lo smartphone al centro e il comando vocale Infine, a Wozniak è stato chiesto di commentare il recente annuncio siglato da SAP ed Apple per lo sviluppo di Mobile App in ambito enterprise. «Il mercato oggi è focalizzato sul portare l’intero data center sul chip, al motto di “tutto sul silicio”, con la tendenza generalizzata a utilizzare le memorie nano flash per velocizzare e rendere più efficiente lo storage e la capacità computazionale. Mentre il software aziendale segue una tendenza già piuttosto diffusa sul fronte consumer, ovvero “everything on a phone”». E ha concluso: «Siri è la mia applicazione preferita. Il fatto di poter parlare con lo smartphone e chiedergli di fare arrivare un taxi nel punto in cui mi trovo, senza nemmeno dover comunicare l’indirizzo, è una cosa che molti ancora sottovalutano. È dirompente e in futuro cambierà il nostro modo di vivere».
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McKinsey, la partnership IT-business è un imperativo Una nuova ricerca evidenzia lo scollamento che esiste nella maggioranza delle organizzazioni tra CIO e top management, mettendo in luce, dati alla mano, il vantaggio ottenuto dalle aziende che riescono a superare questo gap: maggiore è il coinvolgimento dell’IT come partner strategico per lo sviluppo dei progetti, migliori sono le performance
Vi siete mai chiesti cosa rappresenta l’IT all’interno della vostra organizzazione? È un partner, un consulente o un semplice fornitore di prestazioni? Il modo in cui viene considerata la divisione servizi informativi potrebbe essere un’utile cartina di tornasole per comprendere qual è l’approccio della vostra azienda all’innovazione. È stata McKinsey a delineare questa corrispondenza, stilando un’indagine (condotta a ottobre 2015 su 709 manager, 422 focalizzati sulle tecnologie e 287 provenienti da altri ambiti operativi) che mette in stretta relazione il dinamismo nelle trasformazioni di business in chiave digitale con l’apporto del team di Information Technology. In estrema sintesi, la ricerca evidenzia che maggiore è il coinvolgimento dell’IT come partner strategico per lo sviluppo dei progetti, migliori sono le performance dell’impresa sotto diversi profili, compresi quelli fondamentali dell’eroga| 16 |
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zione dei servizi core e della creazione di una sana cultura aziendale. Nonostante molti rispondenti al sondaggio si dicano convinti che questa alleanza porterebbe vantaggi reciproci al business e all’IT, pochissime organizzazioni la considerano una realtà di fatto allo stato attuale. I risultati dello studio suggeriscono comunque che il rapporto dovrà necessariamente rinsaldarsi per far fronte alla crescita dei servizi offerti dalle terze parti (soprattutto sul fronte del Cloud) e sull’onda della digital disruption. Senza contare che il 91% del campione dice che la propria compagnia è impegnata in una roadmap di evoluzione digitale. Riuscire a trasformare questo nuovo legame in un vantaggio competitivo significa primariamente definire nuovi modelli e priorità per il comparto IT. Il che si traduce nell’impellente bisogno di nuovi talenti, specialmente nell’ambito del data science. Merce ancora assai rara sul mercato del lavoro.
m a nag e m e n t | Mc Kin se y: l a pa rt n e rsh ip IT - b usin e ss è un im p e rat i vo
I vantaggi della collaborazione Entrando più nello specifico, il rapporto sottolinea che nelle (poche) organizzazioni in cui l’IT è già considerato un partner del business, un impatto positivo è riscontrabile su ciascuno dei 14 diversi parametri rispetto a cui McKinsey ha interpellato i manager. Per esempio ne traggono vantaggio la capacità di fornire servizi end-user con efficacia, di gestire l’infrastruttura informatica e l’aggiornamento delle applicazioni. Il 35% di chi ha già sviluppato un rapporto consolidato con l’IT sostiene che la collaborazione è stata fondamentale per dare vita anche a nuove competenze di business. Invece solo il 14% di chi considera l’IT un consulente o un fornitore può dire altrettanto. Allo stesso modo, lavorare gomito a gomito con il team del CIO risulterebbe tre volte più efficace nell’implementazione di processi innovativi in chiave bottom-up e nella creazione di una cultura diffusa sull’uso degli strumenti informatici, mentre la capacità di far emergere nuove idee di business, di consegnare progetti nei tempi stabiliti e di digitalizzare processi operativi migliora nel doppio dei casi. Eppure, nonostante l’evidenza, le cose faticano a cambiare e c’è un certo disallineamento tra intenzioni e percezioni da un ufficio all’altro. Il 44% degli IT manager intervistati rivela che il taglio dei costi è uno dei task prioritari che la propria azienda assegna alla divisione, secondo solo al miglioramento dell’efficacia nei processi informatici. D’altra parte solo il 16% dei business manager sostiene che la priorità assegnata al proprio ufficio IT sia la riduzione della spesa. Nelle aziende in cui queste
risorse sono considerate alla stregua di consulenti o fornitori, solo il 14% degli executive dice che l’azienda ha sviluppato iniziative digitali attorno al core business, mentre un terzo dei CIO dichiara di partecipare ai progetti in questione. Nelle organizzazioni in cui la partnership tra i due versanti è già realtà, i valori associati alle risposte raddoppiano. Servono un ripensamento organizzativo e nuovi talenti La causa di questo scollamento, secondo i risultati ottenuti dalla ricerca, risiederebbe in una debolezza sostanziale del reparto IT, dovuta a sua volta a una mancanza di chiarezza nelle priorità e nei ruoli che è chiamato a ricoprire, ma soprattutto da un modello organizzativo e operativo non ancora all’altezza delle sfide che sta affrontando il business. C’è poi la questione delle competenze da rinnovare e dei talenti da ingaggiare per tenere le attività al passo coi tempi. Il fatto che questo elemento sia una criticità è ben rappresentato dalla scarsa considerazione che il tema in sé riscuote tra gli intervistati, che però con una quota “bulgara” del 93% ammettono che attrarre nuove risorse è per la propria organizzazione molto difficile. I bisogni sono più impellenti soprattutto nell’area degli Analytics, in quella del Cloud, dello sviluppo del Mobile e della Cybersecurity. Ed è evidente che fino a quando questi ambiti non disporranno sia sul piano quantitativo che su quello qualitativo dei giusti talenti, l’IT continuerà a essere relegato in un ruolo di consulenza o, peggio, di pura fornitura di servizi. Come se non bastasse, sempre più “commoditizzati”.
IT e business raramente lavorano in partnership, ma la maggioranza degli executive pensa che dovrebbero farlo Ruolo attuale dell’IT all’interno delle organizzazioni interpellate
Partner (L’IT collabora attivamente nella definizione della strategia con il business, che utilizza a proprio vantaggio e in modo proattivo le tecnologie)
Consulente (L’IT fornisce input ai progetti di business, partecipa regolarmente alle discussioni e favorisce il raggiungimento degli obiettivi attraverso le tecnologie)
Ruolo che l’IT dovrebbe svolgere per supportare al meglio il business nelle organizzazioni interpellate
27%
76%
22%
Fornitore (L’IT è considerato dal business un fornitore di servizi tecnologici)
16%
49%
Fonte: McKinsey&Company
% di risposte* (base: 709)
8%
*La somma delle percentuali è inferiore a 100 perchè non sono state conteggiate le risposte “non so”
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management - world of business ideas di
in collaborazione con
annalisa casali
Nirmalya Kumar docente di marketing london business school
Dalle quattro “P” alle tre “V”: come cambia il marketing nell’era digitale Ripensare la funzione Marketing in un’ottica più strategica è di vitale importanza per le imprese. È questo il concetto che da anni sta cercando di diffondere l’indiano Nirmalya Kumar, professore alla London Business School. Il tradizionale approccio del marketing mix di Kotler non è del tutto superato, ma è ormai insufficiente a garantire la sopravvivenza nel lungo termine dell’azienda. Ecco perché
Dalla tattica alla strategia. Dallo spot TV alla comunicazione puntuale e personalizzata all’interno del punto vendita o sul web. Il Marketing sta vivendo un periodo di profondi cambiamenti. La comunicazione digitale pervasiva, con la possibilità di raggiungere in pochi secondi una platea sconfinata di persone, ha mostrato già da tempo i suoi limiti, così come il mercato di massa (mass market). In uno scenario globale come quello attuale, la concorrenza internazionale dei paesi in cui il costo della produzione è particolarmente contenuto spinge verso il progressivo assottigliamento dei margini. Occorre ripensare il business, cercando strade alternative per raggiungere il proprio cliente e offrirgli soluzioni, non più solo prodotti, altamente personalizzati e con un corredo di servizi puntuali. Occorre spostare il focus della concorrenza dal prodotto al valore aggiunto, alla differenziazione rispetto alla concorrenza, all’unicità dell’esperienza di acquisto. Occorre | 18 |
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trovare nuove strade che siano percorribili, però, in modo economico e sostenibile nel tempo. Il ruolo del Marketing, in un contesto così dinamico, va necessariamente ripensato. Il tradizionale modello delle quattro “P” (o del “Marketing mix” - product, price, placement e promotion, ovvero prodotto, prezzo, distribuzione e promozione), introdotto dal professor Jerome McCarthy nei primi anni Sessanta e poi diffuso a livello planetario da Philip Kotler, è messo in discussione. Anacronistico pensare che la vera differenziazione dell’offerta di un’azienda si basi solo su elementi operativi. Più logico, invece, ricondurre anche il Marketing a una dimensione più strategica, come teorizza nel suo best seller “Marketing as strategy” l’esperto indiano di relazioni d’impresa Nirmalya Kumar. Il suo lavoro parte dall’evidente necessità di coinvolgere in modo più diretto il CEO nelle attività di Marketing, con interventi che non devono più essere focalizzati
man agement - world of b us i ne s s i d e a s | Dal l e q u at tro “P ” a l l e t re “V ”: c o me c a mb ia il ma rke t in g n e l l’ e ra d ig ital e
sugli aspetti tattici, ma devono abbracciare un orizzonte temporale di lungo periodo. Solo così, sostiene Kumar, i CMO (Chief Marketing Officer) potranno ottenere l’attenzione dei CEO. Solo dimostrando che il Marketing non è fatto di “fronzoli” ma che il suo ruolo è produrre del concreto valore aggiunto per il cliente. Questo significa ragionare a un livello più alto di quello prettamente operativo, lavorando in sintonia con le altre Line of Business e, soprattutto, offrire una prospettiva bottom line - che si ottiene solo se il responsabile Marketing è in grado di dimostrare, dati alla mano, qual è il ritorno che le attività di comunicazione e promozione sono in grado di garantire rispetto agli investimenti sostenuti. Ed ecco che, allora, gli aspetti da monitorare e su cui agire diventano tre, idealmente riconducibili a “3 V”. Il perno di questa teoria è, infatti, il VALORE (le V appunto) e il CMO dovrà sempre essere in grado di individuare i clienti “di valore” (valued customer), la value proposition (il valore dell’offerta) e il valued network, ovvero il canale attraverso il quale si assicura la diffusione presso i clienti del valore generato. Se l’obiettivo è riuscire a portare un’offerta di qualità a una pluralità di segmenti di mercato, allora il Marketing non può operare da solo. Deve, invece, necessariamente relazionarsi con altre funzioni come la
Supply Chain (per assicurare un time-to-market in linea), il Finance - per costruire un modello economico sostenibile intorno all’offerta - e la Ricerca e Sviluppo (per plasmare l’offerta sulle necessità evidenti o inespresse della clientela). Il responsabile Marketing, che all’interno del consiglio d’amministrazione non sempre è presente, deve invece finalmente acquisire una dignità pari a quella del direttore operativo o finanziario, sostiene il professore. Le opportunità legate a mobile e social I principali fattori di successo, oggi, secondo Kumar sono la velocità e l’ampiezza del mercato. La prima è esemplificata nell’evoluzione delle comunicazioni in atto nell’ultimo decennio, ma anche nel progressivo accorciamento del ciclo di vita dei prodotti. Se si guarda al secondo aspetto, invece, non si può non comprendere come il mercato di riferimento sia ormai per tutti, anche per le PMI e le aziende più tradizionali, il pianeta, perchè la competizione è globale. Finora, spiega l’esperto, il Marketing ha cercato di individuare il cliente all’interno di ogni persona. Oggi, invece, deve essere in grado di identificare l’individuo che sta dietro ogni cliente, con le sue peculiarità, le sue abitudini, le sue amicizie e i suoi hobby.
Il metodo delle tre V aiuta a definire la strategia di prodotto rispondendo a domande riferibili a tre ambiti: Quali clienti servire? Cosa offrire? In che modo?
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management - wor l d of b us i ne s s i d e a s | Dal l e quat t ro “P ” a l l e t re “V ”: c o me c a mb ia il ma rke t in g n e l l’ e r a dig ita le
L’abilità di comprendere CHI è il cliente, dov’è in questo momento - fondamentale, quindi, il ruolo delle tecnologie mobile e GPS –, chi sono i suoi amici e quali sono i suoi interessi (chiave, quindi, il ruolo dei social media) è destinata a cambiare in modo dirompente il Marketing a partire dalla pubblicità. Dal modello dello spot televisivo “spray and pray” (inonda e spera), che per decenni si è fondato sulla probabilità che il nostro cliente potenziale fosse davanti alla TV a quell’ora e su quel canale, si passa a un’esperienza decisamente più individuale e unica, dove i messaggi di Marketing possono finalmente, grazie al web e alle tecnologie digitali, essere presentati alla persona giusta al momento giusto e nel posto giusto. Chi, cosa, come L’idea di Kumar, in sintesi, è di orchestrare le azioni di Marketing in un unicum strategico, crossfunzionale e bottom line. Strategico, perché deve superare la tradizionale ottica tattica. Interfunzionale perché il Marketing deve relazionarsi con tutte le altre funzioni aziendali e non può operare in autonomia. Bottom line perché il CMO deve essere in grado di produrre report e statistiche precise sul ROI (ritorno sugli investimenti) delle spese di Marketing, al pari di qualsiasi altra uscita finanziaria. Tre sono gli obiettivi che il professore indica chiaramente come pilastri della sua teoria delle tre “V”:
chi è Nirmalya Kumar Classe 1960, Nirmalya Kumar è professore di Marketing alla prestigiosa London Business School e co-direttore dell’Aditya Birla India Centre della stessa università. Grande appassionato di arte indiana, è uno dei maggiori esperti mondiali di strategia aziendale e marketing. Ha insegnato discipline economiche alla Harvard Business School, all’IMD (International Institute for Management Development) di Losanna (Svizzera) e alla Kellogg School of Management della Northwestern University di Evanston (Illinois - USA). In qualità di consulente, coach e relatore, ha lavorato con una cinquantina di aziende delle Fortune 500 in 60 diversi paesi. Ha ottenuto un Master in Business Administration (MBA) presso l’Università dell’Illinois di Chicago e un dottorato (PhD) in marketing alla Kellog Graduate School of Management e, dal 2013, siede nel Consiglio di Amministrazione del colosso indiano dell’automotive Tata Sons. Autore di alcuni dei più diffusi testi universitari di strategia al mondo, Kumar nel suo “Marketing as strategy” teorizza che il marketing delle aziende moderne deve essere sempre più strategico e meno tattico-operativo come, invece, sostenuto da Philip Kotler e insegnato per decenni in centinaia di corsi universitari.
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Value segment (o valued customer) La prima “V” risponde alla domanda: CHI stiamo cercando di fidelizzare? Oppure: CHI vogliamo riuscire ad acquisire come nostro cliente? A questo livello viene analizzato tutto quel che sappiamo sul nostro cliente: comportamenti, ricerche di Marketing e qualsiasi altra informazione possa essere d’aiuto per farci conoscere meglio il target, i suoi bisogni e cosa sta cercando. Value proposition Questa “V” dovrà rispondere alla domanda: COSA vogliamo offrire ai nostri clienti? A questo livello si entra nel dettaglio del prodotto, con i suoi elementi di differenziazione rispetto alla concorrenza, e il team Marketing è coinvolto nel lavoro degli altri dipartimenti aziendali in attività di ricerca e sviluppo (R&D), progettazione e produzione. In questa fase rientra anche l’ideazione di tutta la componente di servizi accessori rispetto al prodotto o servizio principale (garanzie…). Value network L’ultima “V” deve rispondere alla domanda: COME andremo a garantire la value proposition del punto 2 ai nostri clienti? In questa fase, tutta l’azienda è coinvolta nella generazione di elementi di valore aggiunto per il cliente: logistica, vendite, ma anche finanza, risorse umane e acquisti. Tutti devono lavorare all’obiettivo comune di erogare una customer experience originale. La sequenza di queste attività, tuttavia, non riuscirebbe a far centrare al Marketing i propri obiettivi se non fosse correttamente concertata. Kumar parla, a questo proposito, di “orchestrazione cross-funzionale”, a indicare la necessità che tutti i reparti lavorino sempre al meglio e abbiano ben chiaro in ogni momento qual è l’obiettivo comune: riuscire a portare al cliente l’offerta migliore. Lo studioso arriva a ipotizzare la creazione in azienda di funzioni R&D, Marketing, acquisti, vendite… singolarmente dedicate a ciascun segmento di mercato, pur mantenendo in comune tutte le attività necessarie a garantire la sostenibilità del modello attraverso le economie di scala. Un esempio citato spesso da Kumar è quello di Starbucks, in cui tutto è stato pensato e sviluppato avendo come obiettivo il valore per il cliente finale: dalla fattoria del Centro America che fornisce i chicchi di caffè al layout del punto vendita, per arrivare fino alla cordialità “standardizzata” delle cassiere.
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Daniele Lazzarin
intervista a
BCG: dall’evoluzione naturale alle “cortine di fumo”, ecco i 4 stili della digitalizzazione
Just Schuermann
Leader of Marketing, Sales & Pricing Practice BCG Europe
La trasformazione digitale non è più un’opzione: è un obbligo. È un cammino che richiede quattro fasi e si può affrontare con quattro diversi approcci: uno “darwiniano”, uno disruptive, uno basato su piattaforme abilitanti, e uno su grandi annunci e poca sostanza. Il modello “omnichannel” per ora conta pochi casi ottimali, e richiede attenzione soprattutto negli ambiti decentralizzazione, logistica e IT
La trasformazione digitale oggi non è una possibile opzione, è un obbligo. Non c’è più tempo per aspettare, il rischio è di finire fuori dal business in pochi anni, come dimostrano casi come Blockbuster Video o Kodak. È un percorso lungo, in quattro fasi, e quattro sono anche i possibili approcci. Non è detto che si debba per forza rivoluzionare l’azienda in qualunque settore ci si trovi. Però bisogna iniziare a muoversi, anche perché la pressione del mercato e degli investitori è forte: tanto forte che diverse realtà, pur di mostrare che stanno facendo “qualcosa di digitale”, ricorrono a vere e proprie “cortine di fumo”, annunciando imponenti progetti che in realtà hanno ben poco di concreto. Questo in sintesi il cuore dell’intervento di Just Schuermann, Leader of Marketing, Sales & Pricing Practice di BCG in Europa, e core member della Consumer Goods and Retail Practice della prestigiosa società di consulenza, all’ECommerce Forum | 22 |
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2016 di Milano. A margine dell’evento abbiamo approfondito con Schuermann i punti salienti del suo discorso, partendo dal primo problema: da dove cominciare? Qual è il modo migliore per avviare la trasformazione digitale? Si può gestire con un modello di continuous improvement, o dev’essere una serie di interventi dirompenti? Secondo l’esperienza di BCG, ci sono quattro fasi della trasformazione digitale. Nella prima un’organizzazione prende coscienza che deve agire, e inizia a esplorare cosa significhi la digitalizzazione nel suo specifico contesto di business. Molti dei nostri clienti per esempio visitano la Silicon Valley o altri distretti tecnologici avanzati per osservare le tendenze e capire cosa stia succedendo alle frontiere dell’innovazione. La seconda fase consiste nel concretizzare le idee nate dalle osservazioni della prima. Quindi qui
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Un esercizio che facciamo con i nostri clienti è questo: analizza il tuo business di oggi, determina i tuoi fattori critici di successo, e cerca di capire quanto siano attaccabili da un ipotetico attore che entri nel settore senza strutture pregresse e asset, armato solo delle nuove tecnologie
si decide cosa fare nel caso specifico, in quale ordine e con quali priorità, dando forma alla propria strategia digitale, e alla roadmap per realizzarla. La terza fase è quella dei progetti, dell’implementazione delle piattaforme tecnologiche, dei cambiamenti dei processi, e dell’avvio di nuovi modelli di business. La quarta è la “messa a terra” della trasformazione, lo “scaling up”, in cui il business quotidiano cambia profondamente e le entrate dai nuovi modelli si fanno rilevanti. Si può fare tutto questo in modo evolutivo invece che “disruptive”? Dipende da quanto è forte l’impatto della digitalizzazione sul proprio settore, e da quanto grande è il rischio di muoversi gradatamente invece che velocemente. Nel settore dei retail department store, oggi un modello di business “brick & mortar” puro, senza canali digitali sul web o su mobile, è già molto rischioso, perché il modello vincente è omnichannel. Qui davvero il non muoversi non è un’opzione, perché si finisce fuori mercato. Una dimostrazione che a volte l’evoluzione graduale non basta è Blockbuster Video, che in 5 anni è passata da leader di mercato al fallimento. Un esercizio che facciamo con i nostri clienti è questo: analizza attentamente il tuo modello di business di oggi, determina esattamente i tuoi fattori critici di successo, e cerca di capire quanto siano attaccabili da un ipotetico nuovo attore che entri nel settore senza strutture pregresse, senza asset e avviamento, armato solo delle nuove tecnologie. Se uno o più elementi sono attaccabili, la mossa giusta è implementare le nuove tecnologie nel modo migliore per aggiornare il proprio modello prima che altri possano sfruttare la vulnerabilità.
della quotidianità e del mercato, vedendo quali sopravvivono. Questo è l’atteggiamento di chi sa che si deve muovere, ma non sa esattamente da dove cominciare. Il secondo stile è quello delle “piattaforme strutturali”, in cui il senior management decide di ricorrere appunto ad apposite business platform come traini della trasformazione. Un buon esempio è Procter & Gamble, che già 15 anni fa ha deciso che
«Entrando in un negozio dell’americana Neiman Marcus un cliente che ha la sua app sullo smartphone viene subito riconosciuto e gli shopping assistant gli vanno incontro già informati dei suoi gusti e acquisti passati»
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Quanti “stili” di trasformazione digitale avete osservato nella vostra esperienza? Può citare qualche caso concreto? Penso che in generale ci siano quattro “stili”. Uno è di evoluzione naturale, proprio in senso darwiniano: l’organizzazione sperimenta tanti progetti, magari solo cambiamenti di processo, o iniziative pilota con piccoli investimenti in tecnologie innovative. Li lascia “fiorire” e li mette alla prova
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Lo “smoke bomb approach” si basa su grandi campagne di comunicazione per tranquillizzare gli stakeholder, con annunci tipo “faremo un CRM omnichannel”, o “stiamo comprando startup nella Silicon Valley”, ma senza un piano strategico e una roadmap operativa
una parte del marketing doveva diventare digitale, con obiettivi molto aggressivi da subito in termini di quote di budget pubblicitario da dedicare al web. Anche sul fonte della simulazione 3D dei processi produttivi P&G è stata tra i pionieri, con una serie di soluzioni di digital design di Dassault Systemes, e così pure sul fronte del CRM, già oltre 10 anni fa ha costruito una piattaforma database integrata per la strutturazione e analisi di dati dei consumatori su tecnologie Teradata. Il terzo approccio alla trasformazione digitale è quello “disruptive”, interno o esterno. Per interno intendo il lancio di modelli di business completamente nuovi accanto a quelli tradizionali. Un tipico esempio è quello delle compagnie aeree che creano compagnie low-cost a fianco del brand e del modello già affermato, per esempio Qantas con Jetstar o Lufthansa con Germanwings. Per esterno invece intendo l’acquisizione di startup con business model dirompenti da parte di aziende consolidate. Nell’automotive per esempio Daimler ha investito molto in startup di mobility, come MyTaxi. Diversi trend profondamente innovativi, dall’autonomous driving al car sharing, stanno totalmente cambiando il concetto di mobilità, quindi se non si investe in essi, presidiandoli, si resta tagliati fuori dallo sviluppo del settore automotive. Il quarto stile lo definirei “cortina di fumo” (smoke bomb approach): si basa su una grande comunicazione ai media e ai mercati, che però non precisa cosa si stia facendo nei propri laboratori e progetti pilota. È una strategia per tranquillizzare gli stakeholder con annunci come “faremo un CRM omnichannel”, oppure “stiamo comprando delle startup nella Silicon Valley”, ma non è sorretta da un vero piano strategico e da una roadmap operativa. Qual è il reale livello di diffusione del modello “omnichannel” oggi in Europa? Può citare dei casi fortemente innovativi in questo campo? In effetti ci sono pochissime aziende che realizzano molto bene il concetto di omnichannel. Le migliori vengono da un modello digitale puro e si allargano ai canali tradizionali “brick & mor| 24 |
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tar”. Questo perché partono già da un concetto di “multi-point customer journey”, e attivano anche i canali classici per dare appunto dei touch point in più al consumatore, ma senza mai dimenticare che il passaggio da un canale all’altro dev’essere “seamless”, cioè omogeneo e senza complicazioni. Un esempio è Warby Parker: nato negli Stati Uniti come sito di eCommerce per occhiali, oggi ha esteso l’esperienza di acquisto offline aprendo una serie, seppur ancora limitata, di negozi. Ha ampliato poi il portafoglio dei prodotti brandizzati e alcune tipologie – libri, decorazioni, asciugamani – sono presenti solo nello store fisico. Ci sono però anche dei retailer tradizionali che realizzano bene l’approccio omnichannel. Uno è l’inglese Argos, che partiva da oltre 750 negozi a fianco della vendita a catalogo, e si è espansa all’eCommerce. Un altro in UK è John Lewis: anche questo partito dal brick & mortar, ora realizza in molte categorie il 20-30% del fatturato con l’eCommerce, e offre una shopping experience molto integrata e omogenea. Negli USA le best practice dell’omnichannel sono Neiman Marcus e Nordstrom, due catene di abbigliamento di fascia alta, che vanno oltre la “seamless experience” mettendoci anche una forte personalizzazione. Entrando in un negozio Neiman Marcus un cliente che ha l’app dell’insegna sullo smartphone viene subito riconosciuto e gli shopping assistant gli vanno incontro per consigliarlo, già informati dei suoi acquisti passati, dei suoi gusti e del suo “stile”. L’approccio omnichannel ha forti impatti sui processi interni delle organizzazioni: quali sono le aree in cui le ripercussioni sono più critiche? Le più grandi criticità sono in tre ambiti: il grado di decentralizzazione delle responsabilità, la logistica, e l’IT. Cominciamo dal primo prendendo come esempio il retail tradizionale, in cui tipicamente lo store manager risponde dei profitti e perdite dello store. In Germania lo store manager di Media Markt (casa madre di Media World) ha una quota di minoranza dello store, intorno al 15%, e decide assortimenti, pricing, advertising su
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Best practice di Big Data: da Tesco a Facebook Uno dei grandi cambiamenti di quest’epoca è l’enorme disponibilità di dati sulle vendite e sui clienti, ma chi li sta usando già per applicazioni concrete? «Un esempio è Tesco – ci spiega Schurmann - che ha “inventato” la fidelity card 30 anni fa, e ora ha iniziato a sfruttare i dati raccolti per proporre messaggi e offerte molto personalizzate. Ha centralizzato in un unico team tutta l’attività di direct marketing: oggi può capire dallo storico dei miei acquisti come è fatta la mia famiglia, i miei gusti dettagliati di cibo e vini, e così via, e propormi offerte calibrate su tutto questo». Altro esempio molto avanzato è il gruppo tedesco Otto Group. «È uno dei più grandi online retailer del mondo, sta lavorando con lo specialista di big data Blue Yonder su applicazioni di real time price adjustement, per fare dynamic online pricing basandosi solo sull’andamento delle transazioni in un dato momento». Ma il caso più dirompente, sottolinea Schurmann, è Facebook, «che permette al marketing di un’azienda di individuare precisamente microsegmenti molto specifici di consumatori, con 15 differenti parametri, tipo “venticinquenni che hanno appena cambiato macchina e stanno per cambiare casa”, rivolgendosi a loro con messaggi specifici nel momento prescelto. È uno strumento rivoluzionario: un esempio emblematico del futuro che ci aspetta».
scala regionale. Questo ha provocato un ritardo nell’adozione dell’omnichannel, che presuppone decisioni centrali e unificate su elementi come l’assortimento e il pricing. Ci sono voluti anni per aggiustare il modello in modo da integrare anche l’online, e la soluzione è stata concordare un nucleo di prodotti che è presente sia sull’online sia nei negozi con gli stessi prezzi. Permettendo il ritiro in negozio degli acquisti online, tra l’altro, Media Markt ha iniziato a “richiamare” persone nei negozi. Quindi qui il problema in generale è riuscire a cambiare un modello di responsabilità delegata riaccentrando alcune decisioni. E le ripercussioni su logistica e IT? Riguardo alla logistica, la criticità più grande è nei settori dove si registrano molti resi, per esempio il fashion. Ovviamente una buona politica di customer satisfaction prevede che il cliente possa restituire e cambiare in negozio un prodotto comprato online, o di ordinare in negozio una misura o un colore che in quel negozio non c’è, grazie alla visibilità in tempo reale di tutte le scorte da parte
dello shopping assistant. Ecco: gestire la “reverse logistics” dei resi è molto complicato, richiede approcci di supply chain molto sofisticati. In generale comunque non è detto che occorra un processo logistico ad hoc per l’eCommerce. La catena inglese Tesco ha avviato l’eCommerce facendo packaging e spedizioni dai negozi, senza magazzini specifici per l’online, che poi però ha creato quando il business online ha superato certe soglie. Quindi su questo aspetto la strategia va calibrata sull’andamento del business. Infine l’IT. Qui le criticità principali sono due. Una è permettere la visibilità in tempo reale delle giacenze, e quindi poter “virtualizzare” la gestione delle scorte in modo che quelle in un negozio siano disponibili per tutti gli altri. Una best practice in questo caso è usare i negozi come magazzini, senza depositi specifici per le vendite online. La seconda criticità per l’IT è abilitare la visibilità sul cliente: il call center, il negozio, il direct marketing, devono poter vedere un’unica versione dello storico degli acquisti di un cliente, attraverso la loyalty card o altri strumenti.
Parlando di logistica, non è detto che occorra un processo ad hoc per l’eCommerce. La criticità più grande è nei settori dove si registrano molti resi, per esempio il fashion. Gestire la “reverse logistics” è molto complicato www.digital4executive.it
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DIGITAL INNOVATION Direzione: Mariano Corso
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Il Percorso Executive in gestione strategica dell’innovazione digitale e i Corsi Brevi Digital Innovation di MIP Politecnico di Milano affrontano i temi chiave dell’innovazione digitale nelle Imprese e nella Pubblica Amministrazione, come leva di innovazione strategica e fonte di differenziali competitivi. Realizzati in collaborazione con CEFRIEL, i corsi attingono al know how degli Osservatori Digital Innovation e sono una delle iniziative della Digital Transformation Academy della School of Management del Politecnico di Milano.
Un ampio catalogo a disposizione con nuovi corsi in programma da febbraio a dicembre 2016:
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BIG DATA & ANALYTICS ICT SECURITY IoT e DEMATERIALIZZAZIONE MOBILE CLOUD CONTRATTI INFORMATICI
CONTACTS MIP Management Academy: 02 2399 4896 - scazzosi@mip.polimi.it
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la rivoluzione dell’iperconvergenza
«Sempre più aziende adottano soluzioni iperconvergenti e ottengono semplicità, facilità di installazione e di gestione», afferma Giorgio Ghiglia di PRES, System Integrator e Centro Formazione che da oltre 25 anni trasforma le più importanti innovazioni tecnologiche in soluzioni e servizi che migliorano la competitività delle imprese. Una di queste innovazioni è l’iperconvergenza e il modello è di tipo cloud-like: massima flessibilità e massima scalabilità in funzione delle reali esigenze di business. In cosa si differenziano le soluzioni iperconvergenti rispetto ai sistemi tradizionali? I sistemi tradizionali lavorano a silos: server blade tradizionali, storage arrays e network. Questo richiede un livello di expertise che può ostacolare uno sviluppo rapido del business. Inoltre il dimensionamento iniziale aggiunge costi e inefficienza per l’incapacità di questi sistemi di scalare rapidamente. L’infrastruttura iperconvergente utilizza uno storage basato sul software. Si ottiene un’alta integrazione di server x86 per il computing, lo storage, il network e la virtualizzazione, letteralmente pacchettizzati, pronti all’uso. Questo porta all’integrazione degli hypervisor e dell’infrastruttura fisica con la gestione del cluster. Lo storage è su dischi locali (ibridi o solo flash) e viene presentato come file system distribuito. Il deployment è semplice e veloce con facile scalabilità orizzontale. Quale evoluzione hanno avuto i sistemi? La prima generazione di sistemi convergenti era un progetto open source pronto all’uso con lo scopo di ridurre il time to market. La promessa era avere una soluzione
Giorgio Ghiglia, Top Customers Sales Executive di PRES, spiega perché nell’infrastruttura dei data center è in corso un cambiamento di paradigma ancora più importante di quanto avvenuto in passato con la virtualizzazione dei server
Giorgio Ghiglia Top Customers Sales Executive PRES
semplice. Ma questo ha creato alcuni gap. La gestione delle piattaforme ha comunque creato silos separati perché si basava su elementi tradizionali: server, storage e network. Si “riduce” lo spazio pacchettizzando soluzioni già esistenti, ma non diminuendone la complessità. Con l’iperconvergenza parliamo di device completamente nuovi, indipendenti dallo storage e dal network. In quali ambiti sono più vantaggiosi? In ambito VDI: grazie alla scalabilità si può partire con un pilota per poi estendere l’ambiente. La deduplica e la compressione rendono l’infrastruttura economica. Nelle virtualizzazioni di server: si possono consolidare Sharepoint, IIS, Domain Controller ed altri. I database sono protetti con snapshot istantanee e hanno disponibilità always on. Negli ambienti di test e sviluppo: la possibilità di clonare rapidamente VM accelera il deployment ed il costo dello storage non è più un fattore limitante. Per remote e branch offices: si centralizzano la gestione di servizi e dati senza la necessità di avere competenze onsite. Negli ambienti con grandi database non è invece opportuno usare sistemi iperconvergenti, a causa dell’alto numero di transazioni. È preferibile in questi casi adottare soluzioni convergenti più classiche.
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digital transformation - PA
Il ministro Padoan a Forum PA: «La PA digitale stimolo per tutta l’economia» Intervenendo in un convegno, il Ministro dell’Economia e delle Finanze non ha nascosto il “fallimento gigantesco” nello sfruttare le best practice del Paese, che pure esistono. Andrea Rangone, CEO di Digital360, ha evidenziato il gap italiano e ricordato l’esempio virtuoso della Fatturazione elettronica
La Pubblica Amministrazione può essere un motore della crescita, perché la nuova dimensione dell’economia digitale e degli open data può essere sfruttata dalla PA forse meglio che dal settore privato. Ne è convinto il ministro dell’Economia e delle Finanze Pier Carlo Padoan intervenuto a Roma a FORUM PA 2016 in un convegno dal titolo “Lo Stato innovatore: verso una PA 4.0 in un’economia 4.0”. All’evento sono intervenuti anche Andrea Rangone, docente di strategia e fondatore degli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano, attualmente CEO di Digital360, ed esponenti di importanti aziende del settore quali Agostino Santoni, AD di Cisco Italia, Claudio Bassoli, vice presidente di Hewlett-Packard, Simone Battiferri, direttore della divisione ICT Solutions&Service Platform di TIM, Marco Icardi, Amministratore Delegato di SAS Italia. | 28 |
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«Nella PA ci sono molte best practice, sia italiane che internazionali, evidentemente c’è stato un fallimento gigantesco nella capacità di sfruttare al meglio queste risorse. Ora bisogna passare alla generalizzazione di queste best practice: questa è la riforma strutturale fondamentale che è nell’agenda del Governo», ha detto Padoan. Sicuramente ce n’è bisogno, a guardare lo stato dell’arte della digitalizzazione italiana. Il quadro puntuale (e sconfortante) è stato descritto nel suo intervento da Rangone, che ha messo a confronto i numeri dell’Italia con quelli dell’Europa a 28 membri, su due aspetti determinanti: «Per pareggiare la media degli investimenti per lo sviluppo del digitale, all’Italia mancano 23 miliardi di euro all’anno - ha spiegato -. E alle startup Hi Tech noi dedichiamo lo 0,002% del Pil contro lo 0,025% europeo, ossia 300 milioni di euro in meno ogni anno. È vero che c’è una velocissima rivoluzione
digital transformation - PA | Il ministro Padoan a Forum PA: «La PA digitale stimolo per tutta l’economia»
correlazione fra maturità digitale e pil pro capite
Fonte: Elaborazione Politecnico di Milano su dati provenienti da molteplici fonti (Eurostat, DAS, DESI, MISE, AgiD, Infratel, ecc.)
PIL pro capite in % di quello medio europeo 140
Germania 120 Francia
Regno Unito
ITALIA
100
Spagna
80
60
40 0,2
0,3
0,4
0,5
0,6
0,7
0,8
Digital Maturity Index
mondiale in corso, ma è altrettanto vero che l’Italia rischia di esserne tagliata fuori». Secondo Rangone, tre sono i trampolini da cui partire per «fare innovazione e sfruttare veramente il nuovo internet pervasivo, o internet delle cose: un elettroshock culturale, concrete azioni politiche a livello nazionale o locale e un forte investimento per la digitalizzazione delle PA». Specialmente il terzo punto può diventare una molla decisiva, perchè «la metà del PIL italiano è assorbito dalla spesa per la Pubblica Amministrazione. Se parte di questi soldi venissero investiti nell’innovazione digitale, la PA snellirebbe se stessa, sburocratizzandosi, e stimolerebbe tutta la filiera, essendo un grandissimo acquirente». In altre parole, la PA modernizzando se stessa può fare fare da stimolo e da esempio per tutto il sistema. Un esempio positivo citato sia dal professore che dal ministro è la fatturazione elettro-
nica, ora obbligatoria verso la PA, che ha spinto il privato ad adeguarsi. «L’Italia può emergere a livello europeo come la prima della classe nella PA - ha commentato Padoan - e questo obiettivo si raggiunge pensando all’innovazione nella pubblica amministrazione non solo come meccanica applicazione delle nuove tecnologie, ma anche come possibilità di cambiare processi e comportamenti». Carlo Mochi Sismondi, presidente di FPA, che organizza FORUM PA 2016, ha concluso: «Questo è uno stimolo per tutti noi, stiamo cercando di fare squadra, abbiamo i numeri per ripartire ma la parola d’ordine è farlo tutti assieme».
Nella foto: il ministro Padoan con Andrea Rangone e Carlo Mochi Sismondi www.digital4executive.it
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digital transformation - HR di
paola capoferro ronchetta
intervista a
Postazioni condivise e flessibilità, con “Smart Bank” BNL trasforma il modo di lavorare
antonio marino direttore immobiliare bnl
Empowerment dei dipendenti e un migliore worklife balance. Sono questi i punti cardine del progetto avviato dalla banca. Dopo sei mesi di sperimentazione 200 persone hanno testato il nuovo layout degli spazi ripensato in funzione delle attività da svolgere in sede, e oltre 360 “flexible worker” hanno usufruito della possibilità di lavorare un giorno alla settimana fuori dall’ufficio
BNL Gruppo BNP Paribas, fedele al suo pay off “la banca per un mondo che cambia”, da sempre pone al centro della strategia aziendale la capacità di allinearsi con un contesto economico e lavorativo che è in continua trasformazione, soprattutto con il diffondersi del digitale. Per uno dei principali gruppi bancari italiani – che conta oltre 13mila collaboratori, 2,5 milioni di clienti privati, 130mila tra piccole imprese e professionisti e oltre 33mila tra aziende ed enti – la Digital Transformation rappresenta un vero e proprio cambiamento culturale, che si declina secondo tre dimensioni: nuovi modi di “vivere” gli spazi, flessibilità e fiducia. A tutto questo risponde il progetto “Smart Bank”, il programma di Smart Working della Banca, nato da una convergenza di spinte provenienti da una parte dalla Direzione Immobiliare che, per realizzare la nuova sede della Direzione Generale di Roma, ha avviato analisi e studi su quali fos| 30 |
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sero i nuovi orientamenti in materia di spazi di lavoro e come il nuovo layout potesse impattare sul benessere delle persone e sul loro lavoro, oltre che sull’efficienza aziendale. L’altra spinta è arrivata dalla Direzione HR che puntava a trovare un modello per migliorare l’empowerment e il worklife balance dei dipendenti, quest’ultimo un tema di particolare importanza da un punto di vista di welfare aziendale soprattutto alla luce delle continue trasformazioni della società, degli stili di vita e delle necessità familiari. «Con Smart Bank sono state introdotte nuove e diverse modalità di lavoro basate sulla flessibilità e sulla sempre maggiore responsabilizzazione delle persone nel raggiungimento degli obiettivi di lavoro», racconta il Direttore Immobiliare di BNL, Antonio Marino. «Grazie alle due iniziative che declinano il progetto, Flexible Working e Smart Spaces, oggi riusciamo a garantire la flessibilità secondo tre assi. Innanzitutto c’è il luogo
digital transformation - HR | Postazioni condivise e flessibilita’, con “Smart Bank” BNL trasforma iL modo di lavorare
Il progetto è stato sviluppato facendo leva su quattro elementi, tutti ugualmente abilitanti: gli spazi, la tecnologia, l’evoluzione degli stili di management e i comportamenti delle persone
in cui si svolgono le attività: da noi i dipendenti hanno la possibilità di lavorare un giorno a settimana fuori dall’ufficio. Poi ci sono la tipologia di spazio che si occupa quando ci si trova in sede, e il tempo. Infine, con particolare riferimento ai nostri nuovi format di agenzie, gli spazi che si scelgono di volta in volta quando si interagisce con il cliente in funzione delle sue esigenze». Da un lato quindi con il Flexible Working l’attività lavorativa può essere svolta in una sede diversa da quella abituale per un giorno a settimana, e ai dipendenti è richiesta solo la disponibilità di una connettività adeguata e il rispetto delle policy di sicurezza e riservatezza della banca. Dall’altro lo Smart Spaces riguarda sia gli spazi fisici delle nuove sedi sia quelli su cui, da qui in avanti, si interverrà con progetti basati innanzitutto su logiche di differenziazione degli ambienti e di share desk. In particolare le variabili progettuali considerate sono: diversificazione e flessibilità delle tipologie
di spazi per rispondere a esigenze di collaboration, communication, concentration, contemplation; tecnologia per supportare la mobilità negli spazi e all’esterno (wi-fi diffuso, smart printing, virtual room); acustica e building automation per regolare illuminazione e temperatura in funzione del numero di persone presenti. Sin dalle battute iniziali, il progetto – gestito da tre manager, uno per ciascuna delle direzioni coinvolte (Immobiliare, Risorse Umane e IT) – è stato sviluppato facendo leva su quattro elementi tutti ugualmente abilitanti: gli spazi, la tecnologia, l’evoluzione degli stili di management e i comportamenti delle persone. «Per quanto riguarda la trasformazione degli spazi di lavoro abbiamo cercato di tutelare contemporaneamente le persone e l’azienda. Per questo abbiamo pensato a disegnare il nuovo layout in modo che potesse rispondere alle molteplici esigenze dei dipendenti garantendo comunque l’efficienza e l’adeguatezCoerentemente con la nuova concezione degli spazi, è stato definito un nuovo modello di agenzia che presto sarà adottato
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digital transformation - HR | Postazioni condivise e flessibilita’, con “Smart Bank” BNL trasforma iL modo di lavorare
Durante la fase di assessment sono stati organizzati dei workshop per presentare lo Smart Working, descrivere le finalità del progetto, valutare insieme agli stessi responsabili l’eleggibilità delle loro strutture
za ai cambiamenti organizzativi. Parallelamente con il percorso di change management abbiamo cercato di accompagnare l’evoluzione degli stili di management e abbiamo supportato le persone nel processo di cambiamento degli spazi fisici, delle dotazioni tecnologiche e, più in generale, del modo di lavorare per obiettivi con una maggiore responsabilizzazione e focalizzazione sui risultati. Infatti, con le nuove dotazioni IT HardWork è possibile lavorare in mobilità e sfruttare al meglio gli spazi messi a disposizione grazie all’utilizzo di pc portatili, rete vpn, cellulari aziendali e wifi. Inoltre i software di instant messaging, video conference e condivisione dei documenti consentono di collaborare virtualmente in modo molto più immediato e naturale». La fase pilota del progetto Smart Spaces, che ha coinvolto oltre 200 persone, è stata avviata in concomitanza con il completamento degli spazi di sperimentazione - che, ubicati nella sede storica della banca in via Aldobrandeschi a Roma, riproducono esattamente gli uffici della nuova Direzione Generale di Roma in fase di ultimazione - e ha previsto l’adozione della logica “share desk”. Durante la fase di assessment del progetto Flexible Working sono stati organizzati dei workshop di “Visioning & Induction” a cui hanno partecipato i responsabili delle strutture coinvolte nella sperimentazione. «Questo è stato uno passaggio fondamentale per presentare nel dettaglio lo Smart Working, descrivere le finalità del progetto Smart Bank in BNL, valutare insieme agli stessi responsabili l’eleggibilità delle loro strutture sulla base delle attività svolte dai propri collaboratori, di eventuali vincoli normativi, di processo o tecnologici che ne impedissero l’applicabilità. Questa fase, inoltre, ha rappresentato un primo passo in termini di change management». Le persone delle strutture coinvolte nella prima sperimentazione sono state invitate a candidarsi tramite la Intranet aziendale. La candidatura volontaria è stata poi valutata dai responsabili delle strutture di riferimento tenendo conto delle attività svolte dalla singola risorsa e delle rela| 32 |
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zioni con gli altri membri del team, del grado di autonomia della persona e degli eventuali vincoli tecnologici. «Complessivamente sono stati circa 800 i dipendenti coinvolti nel primo pilota, che ha potuto contare anche sul supporto di P4I-Partners4Innovation, la società del Gruppo Digital360 che offre servizi di Advisory e Coaching, promuovendo la Trasformazione Digitale e l’Innovazione Imprenditoriale. Dopo sei mesi di sperimentazione, sulla base dei risultati positivi ottenuti da un’indagine condotta sul primo campione - alla fine in totale i “flexible workers” sono stati più di 365 per un totale di 4.200 giornate usufruite - è stata avviata una seconda fase di sperimentazione che ha previsto il coinvolgimento di circa altri 1000 dipendenti». La survey, inviata a tutti i dipendenti (collaboratori e manager) coinvolti nella sperimentazione, ha restituito dei risultati interessanti in termini di coinvolgimento ed entusiasmo con cui l’iniziativa è stata accolta: chi ha fruito delle giornate di Flexible Working ha, infatti, valutato positivamente i vantaggi relativi alla gestione flessibile dell’orario di lavoro, al risparmio dei tempi di commuting, all’aumento della produttività legata principalmente alle attività di concentrazione e creatività. In particolare i manager hanno riscontrato un miglioramento del clima e dell’engagement. Infine chi non ha ancora aderito al progetto ha dichiarato che intende partecipare alla seconda fase. «Il nostro obiettivo per il futuro è stimolare tutte le società del Gruppo BNP Paribas affinché quello italiano possa rappresentare il primo progetto di Smart Working “di Gruppo”. Per questo il modello di Flexible Working sarà esteso alle direzioni territoriali e saranno definiti nuovi Hub da cui le persone potranno lavorare. Inoltre, coerentemente con la nuova concezione degli spazi, è stato definito un nuovo modello di agenzia, che presto sarà adottato, basato su un’articolazione degli ambienti che soddisfi le esigenze del cliente (accoglienza, richiesta informazioni standard o consulenza)», conclude il manager.
digital transformation - HR
Come impostare un progetto di smart working: le cinque fasi principali Visioning, Readiness Assessment, Model Design, Change Management e Monitoring & Coaching. Sono queste le leve su cui agire affinché ogni organizzazione sia in grado di disegnare il suo percorso di cambiamento del modello di organizzazione del lavoro
Emanuele Madini Associate Partner P4I - Partners4Innovation
Un progetto di Smart Working è un processo complesso di cambiamento che richiede di agire contemporaneamente su più leve e che deve partire da un’attenta considerazione degli obiettivi, delle priorità e delle peculiarità tecnologiche, culturali e manageriali dell’organizzazione. Non possono esistere pertanto ricette standard preconfezionate, ma ogni organizzazione deve disegnare un proprio percorso. Dall’esperienza dei principali casi di studio, nazionali e internazionali, è possibile individuare 5 step metodologici che un’azienda deve seguire nel percorso di implementazione di un modello di Smart Working. Si tratta di: 1) Visioning: consiste nel creare consapevolezza e nel definire la strategia e la vision sull’introduzione dello Smart Working in azienda, coerentemente con la cultura aziendale. È importante confrontarsi con altre realtà che hanno già sperimentato questa nuova modalità di lavoro e raccogliere reference practice in termini di gestione degli spazi di lavoro, strumenti di collaborazione e comunicazione, iniziative di change management, aspetti giuslavoristici e definizione di policy organizzative, per creare commitment a livello di vertice aziendale. Successivamente sarà possibile personalizzare il modello che ben si adatta al contesto aziendale e agli obiettivi che si intendono perseguire con l’introduzione del cambiamento. 2) Readiness Assessment: al fine di fare un’analisi della situazione as is e raccogliere le informazioni iniziali indispensabili per definire il modello e identificare i target di popolazione aziendale che possono
entrare a far parte del progetto pilota, questa fase deve prevedere un’analisi dei profili lavorativi presenti in azienda: a ciascuno saranno associate configurazioni coerenti ed efficaci di spazi, strumenti e policy di flessibilità e i progetti pilota più indicati. 3) Model Design: permette di definire il modello di Smart Working sotto due punti di vista, organizzativo e tecnologico, e di identificare le modalità di lancio della sperimentazione. Definire il modello di Smart Working vuol dire entrare nel merito di policy organizzative, aspetti giuslavoristici ed evoluzione delle dotazioni tecnologiche indispensabili per abilitare il modello e il cambiamento. 4) Change Management: prevede la progettazione e realizzazione di workshop e laboratori di innovazione manageriale per supportare i capi in un percorso di sperimentazione e apprendimento dei nuovi stili manageriali legati allo Smart Working. Occorre tenere in considerazione gli aspetti legati a una corretta comunicazione e alle iniziative connesse, in ottica di sensibilizzazione della popolazione aziendale. 5) Monitoring & Coaching: consiste nella valutazione dell’andamento dei progetti pilota: generalmente avviene dopo 6 mesi dall’inizio della sperimentazione ed è importante per identificare i benefici e rilevare criticità e azioni correttive. Il monitoring del primo progetto pilota ha l’obiettivo di garantire il corretto avvio della sperimentazione, raccogliere più informazioni possibili per consolidare il modello e identificare approcci virtuosi e success stories da valorizzare in termini di comunicazione interna. www.digital4executive.it
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digital transformation - marketing di
manuela gianni
intervista a
Maria Cristina Farioli
Director of Marketing, Communications and Citizenship IBM Italia
I marketer alla sfida dei dati: da “mad men” a “math men” La creatività resta importante, ma il digitale impone una radicale trasformazione. Maria Cristina Farioli, CMO di IBM Italia, racconta perché e come il Marketing deve oggi diventare “data-driven”, anche per valutare il “sentiment” verso il brand: accanto alle tecnologie cognitive, che permettono l’analisi real time, serve un sapiente storytelling. Centrale il tema delle competenze: «Abbiamo bisogno di esperti digitali, project manager, analisti dei dati»
Chi si occupa di Marketing vive oggi in bilico tra la ricerca di idee originali e l’esigenza di intercettare con gli strumenti più avanzati un consumatore che frequenta sì i negozi, ma al contempo compra e si informa online. Lo scenario è radicalmente cambiato nell’ultimo decennio, diventando sempre più complesso. Nell’ambito di una survey sui C-Level manager che viene svolta ogni anno, IBM ha ascoltato la voce di circa 750 direttori Marketing in 50 paesi e chiesto loro che cosa li sta più preoccupando pensando ai prossimi tre anni. Ne abbiamo parlato con Maria Cristina Farioli, CMO di IBM Italia. Cosa c’è in cima alla lista delle preoccupazioni dei Marketing Manager? La prima preoccupazione, un po’ scontata, è relativa al fenomeno della convergenza dei settori industriali. Il digitale abbatte le barriere: difficilmente oggi si riesce a definire un perimetro di industria | 34 |
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chiaro e preciso, e questa condizione di trasversalità fa sì che aziende nuove, come le start up, possano sovvertire le regole. Citando i casi più noti, nessuno si sarebbe mai aspettato che sulla scena si affacciasse Uber e cambiasse il mondo dei taxi, o Airbnb nel settore degli alberghi, piuttosto che Facebook diventasse una piattaforma di contenuti non avendo contenuti, o il successo di BlaBla Car che è l’esempio più significativo di come una piattaforma possa aggregare domanda e offerta. La convergenza disorienta il Marketing, che è la finestra sul mercato, il primo punto di contatto, che si occupa di posizionamento del brand e di interazione con i clienti. E la seconda preoccupazione? La seconda preoccupazione è la customer experience, che viene definita la priorità in assoluto. Utenti, consumatori, clienti oggi hanno tanti canali per informarsi, interagire con le aziende, comparare
digital transformation - marketing | i marketer alla sfida dei dati: da “mad men” a “math men”
il servizio o il prodotto. La nuova frontiera è l’omnicanalità. La sfida che hanno i Marketing manager è riuscire a offrire una modalità di coinvolgimento consistente. Significa che i canali devono essere sinergici tra loro, raccontare il brand, il servizio, il prodotto in modo univoco, ma con la loro ricchezza. Se 10 anni fa bastava fare un’analisi del mercato, segmentarlo e poi posizionare il brand e l’offerta, oggi il cliente si muove e si esprime in diversi contesti fisici e digitali: bisogna essere capace di ascoltare, di raccogliere questi dati, strutturarli, leggerli e interpretarli. Lavorare con i dati rappresenta un grande cambiamento per il mondo del Marketing… Il Marketing deve diventare più scientifico, più matematico e non solo creativo: nella survey il cambiamento viene sintetizzato con il passaggio da “mad men” a “math men”. È necessaria l’evoluzione a una disciplina più strutturata e consapevole, il data-driven Marketing: è l’analisi dei dati attraverso i software analitici che deve guidare le azioni. In che modo il cognitive computing può aiutare il Marketing? Il cognitivo è la nuova frontiera, in grado di aumentare la capacità interpretativa dei dati per anticipare un fenomeno, di analizzare i dati in real time, anche in modo estemporaneo: pensiamo ad esempio ai dati del meteo, che possono impattare su un servizio o un prodotto. È possibile comprendere la percezione del brand da parte del cliente, qual è la sua inclinazione e verificare se quello che noi pensiamo che il brand comunichi, sia in realtà il percepito dell’audience. Se il digitale cambia il modello di business, quanto il brand è in grado di leggere e interpretare questa trasformazione, di mantenere la sua identità? Per rispondere a questa domanda è stata sviluppata una specifica capacità cognitiva, che si chiama Personality Insights, che va a leggere la personalità del brand attraverso tutti i vari canali social, Twitter, Instagram, Linkedin. Un esempio è Marchesa, un brand fashion inglese: durante una sfilata sono state utilizzate le capacità del cognitive computing per leggere dal mondo social i dati che rivelano il sentiment dell’audience. Su un abito da sera sono stati applicati fiori a led che cambiavano colore, con tonalità diverse associate a sentimenti: gioia, energia, empatia… È così che è possibile orientare la tipologia di prodotto o di vestito in linea con l’aspetto emotivo del momento. È importante comprendere che il cognitive non è una macchina, ma una potenzialità infinita di calcolo
e di software che sta in Cloud, utilizzabile as a service. Watson è un progetto che si potenzia e sviluppa costantemente: nel 2011 utilizzava 5 capabilities cognitive, oggi ne utilizza 50. E se il valore percepito di un brand non è quello che si desidera? Il profilo viene comparato con quello che l’azienda vuole comunicare per evidenziare la distanza. Poi bisogna capire come ri-raccontare il brand. Da qui nasce l’importanza dell’accordo che IBM Italia ha siglato con Storyfactory, società che si occupa di storytelling, di narrazione d’azienda, di raccontare sul mercato il proprio brand. Per la customer experience multicanale, l’arte della narrazione del brand diventa estremamente importante. I Marketing manager come reagiscono davanti al mondo dei dati, alla necessità di imparare un nuovo linguaggio più scientifico? Sono un po’ in difficoltà: uno dei problemi che evidenziano nella survey è proprio il tema degli skill. Questo tema riguarda tutti, ma il Marketing ne risente più di altre aree: serve una virata sulle competenze delle persone, ma non è possibile cambiare pelle da oggi a domani. Abbiamo bisogno soprattutto di esperti digitali, ma anche di project manager, per sviluppare tutta la progettualità di una campagna, e di capacità di analisi dei dati, quindi competenze tecniche e matematiche. Come è possibile accelerare lo sviluppo di queste nuove competenze? Dobbiamo creare contesti, ambienti ed ecosistemi che permettano la contaminazione, mixando nuovi skill con vecchi skill, ad esempio utilizzando, come fanno molte aziende, le startup come acceleratori, per portare delle nuove idee. Oppure attraverso un sistema di alleanze: IBM ne ha fatte diverse, proprio per integrare queste competenze di tipo digitale. Grazie anche a queste nuove acquisizioni, noi siamo oggi la più grande Web Agency nel mondo. E il canale fisico? Non tutto è digitale, ma la vera chiave è saper integrare il fisico con il digitale, proprio perché l’esperienza di acquisto del cliente è variegata, quindi è necessario trovare il corretto equilibrio. Cito l’esempio di Amazon, che è nata nell’eCommerce, e che adesso sta acquisendo punti di vendita fisici. Si sente anche la necessità, specie nel mondo del retail, di modelli di stoccaggio e distribuzione più efficienti e prossimi ai territori. www.digital4executive.it
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L’Innovazione Digitale on Demand I servizi di aggiornamento professionale degli Osservatori Digital Innovation Osservatori.net Gli Osservatori Digital Innovation rappresentano una fonte unica di conoscenza sull’Innovazione Digitale sviluppata da un team di oltre 80 Ricercatori e Professori del Politecnico di Milano, che da anni punta a fornire a professionisti, manager e imprenditori una visione strategica e manageriale dell’innovazione digitale, consapevole che questa rappresenta una leva indispensabile per la competitività delle imprese e il rilancio economico e sociale del nostro Paese.
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INDUSTRY DIGITAL INNOVATION
Internet Media, Mobile e eCommerce: i Percorsi di Aggiornamento Executive
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Gli Osservatori Digital Innovation della School of Management del Politecnico di Milano organizzano un percorso di Workshop e Webinar con l'obiettivo di supportare i professionisti che si occupano di Internet Media, Mobile e eCommerce nella comprensione degli aspetti più importanti e dei principali trend in questi ambiti.
PERCORSO
Internet Media Strategy
Workshop
Social Advertising: quali opportunità per la pianificazione media?
Webinar
Data Management Platform: alcuni casi concreti di utilizzo
Workshop
Native Advertising: definizioni, opportunità e trend in atto
Webinar
Monetizzare i contenuti editoriali: lo scenario internazionale
PERCORSO
I Workshop e i Webinar possono essere seguiti in diretta web e on demand (successivamente alla diretta)
Mobile B2C Strategy
Webinar
Cosa significa adottare una strategia per le Mobile App
Webinar
Approccio lean allo sviluppo di un’App
Webinar
Mobile App e ambienti di sviluppo
Webinar
Mobile App e linguaggi di programmazione
Workshop
Application Store Optimization
Webinar
Testing: strumenti a supporto e costi da sostenere
Webinar
Dark pattern e progettazione della Mobile UX
Webinar
Mobile App e Marketing: strumenti di marketing utilizzare in fase di lancio di una Mobile App
Workshop
Mobile App e Compliance: i principali requisiti di compliance di un’Applicazione per Smartphone
Webinar
Mobile App Design Trends
Webinar
User Onboarding: best practises per le Mobile Apps
PERCORSO
eCommerce B2C
in We b
ar
Workshop
I Workshop e Webinar possono essere acquistati singolarmente o a condizioni agevolate sottoscrivendo uno degli abbonamenti Premium Pass. Per gli abbonamenti aziendali è possibile utilizzare i fondi della formazione finanziata.
Webinar
eCommerce B2c: strumenti per la generazione e la gestione del traffico
Webinar
eCommerce B2c: la tutela dei consumatori e le regole da rispettare
Webinar
Mobile commerce: progettare e implementare iniziative di successo
Webinar
La multicanalità online: le alternative di utilizzo del canale online per un azienda tradizionale (produttore o retailer)
Workshop
Le direttrici di innovazione del Mobile Payment & Commerce: dalle startup ai Big player dove stiamo andando?
Webinar
Il Retail e le sfide del digitale
Webinar
L’eCommerce a supporto della multicanalità: percorsi, benefici, criticità
Workshop
Social Selling: come coltivare le relazioni e acquisire nuovi clienti sui social network
Workshop
Social Intelligence & Analytics: come fare customer insight e misurare l’efficacia dei social network in eCommerce
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digital transformation - procurement di
patrizia licata
intervista a
Gennaro Ranieri
responsabile Acquisti e Appalti Coni Servizi
Coni, acquisti e appalti telematici a garanzia della trasparenza totale La Direzione Acquisti di Coni Servizi utilizza da circa due anni una piattaforma digitale per gestire albo fornitori, gare e contratti, anche per grandi opere. Un passo importante e necessario, che rende tutti i processi più efficienti e tracciabili, e quindi sicuri e trasparenti, nel rispetto del codice degli appalti della PA. Anche in vista della Candidatura Olimpica di Roma
I processi di approvvigionamento sono diventati telematici anche in un ente delle dimensioni e del peso del Coni. Una robusta piattaforma tecnologica, fornita dallo specialista BravoSolution, ha rivoluzionato da circa 2 anni il modo in cui l’ente seleziona i suoi fornitori e compra tutto ciò di cui ha bisogno, garantendo trasparenza e rispetto delle norme: un aspetto chiave, anche in vista della Candidatura Olimpica Roma 2024. Ne abbiamo parlato con Gennaro Ranieri, responsabile Acquisti e Appalti di Coni Servizi. Quanto è importante il procurement per gli obiettivi strategici e di business del Coni? La Direzione Acquisti del Coni cura tutte le attività di approvvigionamento di lavori, beni e servizi per Coni, Coni Servizi e per il Comitato di Candidatura Olimpica Roma 2024, assicurando l’ottimizzazione dei costi, la trasparenza, il rispetto del Codice degli Appalti. E in questo momento in cui il Coni è sotto i riflettori per la candidatura olimpica, la correttezza | 38 |
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e il rispetto degli standard normativi è quanto mai cruciale perché qualunque problema legato alla gestione degli appalti potrebbe avere ripercussioni negative sulla candidatura. Va anche considerato che Coni Servizi non è solo una società pubblica partecipata dal Ministero dell’Economia, e dunque soggetta al Codice degli Appalti pubblici, ma integra al suo interno una serie di stakeholder, come le Federazioni sportive, le Società di calcio A.S. Roma e S.S. Lazio che necessitano di attività di acquisto per erogare le proprie prestazioni (pensiamo ad esempio ai servizi di manutenzione dello Stadio Olimpico…). La Direzione Acquisti è dunque chiamata a svolgere il suo compito in modo impeccabile, da un lato per quel che riguarda il rispetto delle normative, dall’altro in termini di velocità, qualità e efficienza nei confronti dei clienti interni. In che modo la tecnologia vi aiuta nella ricerca dell’efficienza del processo di acquisto e appalto?
digital transformation - procurement | CONI, acquisti e appalti telematici a garanzia della trasparenza totale
Da circa 2 anni ci siamo dotati di un portale acquisti su cui vengono effettuate le attività che vanno dalla selezione dei fornitori, alla negoziazione e approvvigionamento in tutte le categorie merceologiche, fino alla gestione del contratto. Quando si parla di portale acquisti, infatti, non intendiamo solo ciò che riguarda la gara, ma anche le fasi a valle e monte. A monte, in particolare, gestiamo telematicamente l’albo dei fornitori; a valle usiamo il portale per la fase di contrattualizzazione. I vantaggi sono molteplici: più concorrenza, trasparenza e velocità di interlocuzione con i fornitori che in questo modo dispongono di un’unica interfaccia dove posso reperire tutte le informazioni sull’iscrizione all’albo e le attività di gara di Coni Servizi. Quali sono, secondo il suo punto di vista, le caratteristiche essenziali che deve avere di una piattaforma per la gestione dei processi di acquisto? Innanzitutto la cyber security, un requisito prioritario per tutelare l’integrità e la riservatezza dei dati trattati. Una soluzione certificata offre senza dubbio maggiori garanzie da questo punto di vista. È poi importante che la soluzione sia modulare, per gestire in maniera integrata anche le fasi pre e post negoziazione. Inoltre deve essere flessibile per adeguarsi nelle funzionalità offerte alle frequenti modifiche normative che le stazioni appaltanti pubbliche devono rispettare negli acquisti. È fondamentale anche la facilità di utilizzo: per agevolare il passaggio alla gestione telematica, l’interfaccia tecnologica deve essere intuitiva. La soluzione che stiamo utilizzando offre tutte queste caratteristiche.
offrire beni e servizi; ciò contribuisce ad aumentare la concorrenza e ad ampliare le opportunità di business per tutti i fornitori. Per concludere, guardando alla sua esperienza di circa due anni in Coni, ci potrebbe indicare la più importante “cosa fatta” di cui è soddisfatto e quella “non fatta” che vorrebbe realizzare? La cosa che più mi rende orgoglioso è proprio aver introdotto, in un arco di tempo breve, la telematica nel ciclo albo fornitori-gara-contratto. Prima il Coni operava in maniera tradizionale e cartacea. Con un’adeguata attività di formazione ai buyer, abbiamo introdotto l’innovazione “eProcurement” e ora nessuno potrebbe più farne a meno. Sono orgoglioso di aver agevolato un cambiamento così significativo all’interno del Coni. Guardando al prossimo futuro, il progetto che ora sto portando avanti riguarda l’implementazione del sistema di vendor rating dei fornitori: non si tratterebbe solo di un sistema di valutazione delle performance contrattuali - aspetto peraltro di grande importanza anche in termini di controllo della spesa, ma anche di carattere “etico”, morale e reputazionale. A mio avviso il rispetto dei requisiti dell’ex articolo 38 del Codice degli Appalti (ora art. 80 nel nuovo Codice) è necessario ma non sufficiente per chi contrae impegni con la pubblica amministrazione. Ritengo ci sia spazio per modelli di valutazioni più articolati, in grado di far emergere con maggior chiarezza i fornitori davvero in grado di offrire globalmente qualità, eticità e affidabilità ai processi di spesa del settore pubblico.
Coni Servizi è coinvolta, in quanto stazione appaltante, in grandi opere legate ad eventi sportivi: la prevenzione dei rischi di corruzione o di infiltrazioni criminali è cruciale
Coni Servizi è coinvolta, in quanto stazione appaltante, in grandi opere legate ad eventi sportivi: Come limitare i rischi di corruzione o infiltrazioni negli appalti? Nella prevenzione dei rischi di corruzione o di infiltrazioni criminali i due elementi chiave per me sono le persone e le tecnologie. Se Roma dovesse vincere la candidatura olimpica, è in questa direzione che bisogna lavorare: uno staff irreprensibile, oltre che ben formato sugli aspetti di sicurezza, e il supporto di strumenti tecnologici solidi e affidabili. Quando gli acquisti sono gestiti con una piattaforma sicura, tutto è tracciato e le infiltrazioni non possono trovare maglie in cui insinuarsi. Al tempo stesso, una piattaforma tecnologica permette l’apertura della stazione appaltante a qualunque soggetto interessato e in possesso dei requisiti per www.digital4executive.it
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digital transformation - finance di
daniele lazzarin
intervista a
Roberto Mannozzi
presidente andaf e Direttore Centrale Amministrazione, Bilancio e Fiscale Gruppo Ferrovie dello Stato Italiane
«Come cambia il mestiere di CFO nell’era digitale» Roberto Mannozzi di Ferrovie dello Stato, da pochi mesi presidente dell’Andaf – l’associazione direttori amministrativi e finanziari - spiega le principali sfide per il responsabile della funzione Finance oggi in Italia. «Non è più solo “l’uomo dei bilanci”: in un mondo ormai data driven, è una figura sempre più spesso al fianco dell’amministratore delegato per le scelte strategiche»
Roberto Mannozzi, Direttore Centrale Amministrazione, Bilancio e Fiscale del Gruppo Ferrovie dello Stato Italiane, è da pochi mesi presidente di Andaf, l’associazione nazionale direttori amministrativi e finanziari, che con 1700 soci è la principale realtà italiana di rappresentanza di CFO (Chief Financial Officer) e manager dell’area Finance. A Mannozzi abbiamo chiesto come stanno cambiando la figura e il ruolo del CFO alla luce della trasformazione digitale. Quali sono le principali sfide oggi per un CFO, in particolare in Italia? È in corso una metamorfosi della figura del CFO, sempre più spesso al fianco dell’amministratore delegato per supportare scelte di investimento e di business, soprattutto in un periodo di scarsezza di risorse da investire. Il ruolo del CFO non può essere più visto né vissuto come uomo dei bilanci o dei numeri a consuntivo. In un mondo sempre più “data driven”, la sfida è trasformarsi da disciplinati garanti | 40 |
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dei numeri a manager in grado di gestire l’enorme volume di dati e informazioni che arrivano da tutte le aree di business, di estrapolare gli indicatori più utili per sintetizzare le tendenze, di monitorare l’avanzamento delle attività rispetto agli obiettivi. Quindi l’esigenza di lavorare su analytics e Big Data porta il CFO a cambiare impostazione e competenze, e a cercare nuovi tipi di collaboratori. Non solo esperti di principi e norme contabili, ma anche ingegneri informatici e data analyst, fino a ieri fuori dall’orbita del mondo finance. Questi nuovi skill possono aiutare nella misura degli asset intangibili, come il marchio, che oggi incidono sempre più sul valore delle aziende? In effetti c’è un problema di capacità di valutazione che deve andare oltre gli asset materiali. È una sfida che abbiamo di fronte come CFO, e che ci si sta ponendo in Andaf. Occorre trovare regole e standard condivisi anche a livello internazionale per
digital transformation - finance | «Come cambia il mestiere di CFO nell’era digitale»
associare dei Key Performance Indicator agli asset intangibili. Dobbiamo poter dare un valore al capitale umano, di immagine, di marchio, di conoscenze, e comunicarlo in report di facile lettura. Altrimenti il rischio è scoraggiare gli investimenti in questi campi – che invece sono i più importanti proprio in chiave di misurazione del valore - perché le aziende non sono in grado di valutarne i ritorni, se non in caso di eventi eccezionali come il calcolo del valore d’avviamento, un tipico intangibile, nel caso di un’acquisizione. Come le tecnologie digitali possono supportare il CFO di fronte a queste sfide? Per gestire gli enormi volumi di dati e informazioni di cui parlavo non si può fare a meno delle piattaforme tecnologiche, e in particolare delle soluzioni Cloud, che hanno vantaggi molto evidenti dal punto di vista del CFO. Il Cloud lo vivo giornalmente in azienda e nelle discussioni in ambito Andaf: a volte emerge ancora il timore per la sicurezza del dato che viene esternalizzato. È importante porsi questi problemi, ma è importante anche superarli: oggi ci sono garanzie e d’altra parte non si può pretendere di gestire tutte le tecnologie e i dati entro l’azienda. Sempre di più sarà necessario far leva su integrazioni orizzontali con l’esterno, su organizzazioni a rete in cui all’occorrenza “pescare” le risorse e competenze che occorrono per un certo progetto. Quali sono i progetti di soluzioni digitali in cui è coinvolto lei come CFO del gruppo Ferrovie dello Stato? Soprattutto in Trenitalia negli ultimi anni abbiamo fatto investimenti molto significativi nella gestione dei Big Data per il CRM, per conoscere sempre meglio i clienti e disegnare prodotti che ne anticipino le esigenze. Poi in ambito mobile il personale sui treni e quello che opera sulla rete ferroviaria sono ormai dotati di palmari per accelerare e semplificare le attività. Mentre per la manutenzione dei materiali rotabili stiamo portando avanti un progetto molto innovativo per sostituire gli interventi fissati a scadenze con quelli basati su analisi predittive. I nostri treni sono pieni di sensori sui componenti più a rischio di usura che ci indicano lo stato reale, in modo da gestire in modo molto più mirato e sicuro gli interventi. Nei grandi progetti di trasformazione digitale che ruolo ha il CFO rispetto al CIO e alla funzione ICT? Soprattutto in aziende di una certa dimensione, con attività e management internazionali, proprio per l’evoluzione del CFO verso il ruolo di “braccio destro” del CEO nelle scelte strategiche, succede spesso che per questi cruciali progetti di trasformazione digitale l’area ICT finisca nell’orbita del CFO.
Nelle piccole e medie imprese il discorso è spesso diverso. Tra i soci Andaf ci sono molti responsabili finance di PMI, a volte l’area AFC (amministrazione, finanza e controllo, ndr) è affidata a “capo contabili” senza le competenze necessarie per gestire progetti di questa portata. In generale però nelle medie e grandi aziende italiane la tendenza è vedere nel CFO il manager in grado di sintetizzare gli elementi che arrivano dalle LOB (line of business, ndr) e dal mondo esterno, e mettendo il top management in grado di proiettare in avanti il business dell’azienda. In questo scenario come cambia il rapporto del CFO con gli altri C-level? Con le LOB deve esserci uno scambio continuo, occorre una crescita di cultura manageriale di tutta l’azienda per superare la logica a silos funzionali. E deve crearsi un rapporto molto stretto tra CEO e CFO, ma non perché il CFO dev’essere più importante degli altri, ma semplicemente perché per il bene dell’azienda la trasformazione va guidata da chi è abituato a raccogliere e sintetizzare i dati. E questa impostazione deve essere capita e accettata dalle LOB: solo così le loro esigenze possono essere inserite nella giusta prospettiva nelle priorità strategiche dell’azienda.
Andaf, 1700 soci per l’associazione dei CFO italiani «L’obiettivo di Andaf è sostenere la crescita culturale dei soci: ne abbiamo oltre 1700, più dell’80% sono responsabili amministrativi, CFO e dirigenti o quadri di amministrazione, finanza e controllo, poi ci sono anche professionisti dell’area fiscale aziendale, e in minor numero anche di società di consulenza o revisione – ci spiega Roberto Mannozzi, presidente dell’associazione -. Abbiamo 12 sezioni territoriali e 6 comitati tecnici sulle principali aree dell’AFC: finance reporting standard, fiscale, corporate governance e compliance, corporate finance, ICT, e pianificazione e controllo». A livello internazionale Andaf fa parte di Iafei, associazione dei financial executive di tutto il mondo (esclusi gli USA), che ha oltre 17mila soci ed è presieduta da un italiano, Fausto Cosi, predecessore di Mannozzi al vertice di Andaf. Andaf è socio fondatore di vari organismi tra cui Oic (organismo italiano di contabilità), e fa parte di gruppi di lavoro di Consob e Borsa Italiana. Tra le attività principali ci sono la formazione – con corsi a Milano e Roma, e Master post universitari con la Liuc di Castellanza e le Università di Pisa, Bologna, Udine, e Partenope di Napoli – e gli eventi professionali. «Abbiamo un congresso nazionale annuale – il prossimo sarà in ottobre a Taormina – e almeno tre forum annuali, dedicati al fiscale, al bilancio, e alla pianificazione e controllo», precisa Mannozzi. www.digital4executive.it
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digital transformation - supply chain di
Daniele Lazzarin
Canali, il digitale sposa multicanalità e qualità sartoriale La strategia che punta su retail diretto ed export è supportata da diversi progetti di innovazione realizzati con la software house del gruppo. Il più recente integra automazione di magazzino, ERP e Mobile. Il General Manager: «La crescita degli ordini urgenti e su misura, trainati dall’eCommerce, ci ha spinto a riprogettare la logistica». Il CIO: «Il nuovo magazzino ha triplicato la capacità di movimentazione, con tempi di servizio calati di oltre il 50%»
Si parla spesso di trasformazione digitale del Made in Italy, e della necessità di sposare la tradizione “sartoriale” italiana con la capacità di crescere anche all’estero - con un modello “multichannel”, basato sia su una rete retail sia sull’eCommerce. Canali è un ottimo esempio di tutto questo, e nel suo caso l’aggettivo “sartoriale” è più che appropriato, essendo un’impresa familiare – fondata nel 1934, è alla terza generazione – che produce abiti artigianali di alta qualità, anche su misura. E che negli ultimi anni ha deciso di puntare appunto sul retail diretto e sulla crescita all’estero, supportando questa strategia con una serie di progetti di digitalizzazione dell’amministrazione, dei punti vendita, e della logistica. Progetti basati sul sistema ERP Dynamics AX di Microsoft, e facilitati dalla presenza nel gruppo di DataFashion, software house di proprietà 100% Canali e specializzata sul settore moda-abbigliamento. Proprio dall’accelerazione sul retail diretto, nel | 42 |
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2011, è nata la necessità di dotarsi di un sistema ERP internazionale, e semplice da implementare in tutti i paesi, compresa la possibilità di trovare facilmente system integrator locali specializzati, spiega Colzani. «Si è così deciso di adottare AX, allora nella versione 2009, e le soluzioni di LS Retail (partner islandese di Microsoft, ndr) come sistemi di cassa: siamo partiti dalla sede asiatica e dai negozi di Hong Kong, Shanghai, Pechino, Macao e New York». In una seconda fase poi Canali ha iniziato a sostituire il gestionale legacy della casa madre in Italia con AX, stavolta nella versione 2012, par-
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stefano canali
tendo dall’area amministrazione, contabilità e finanza, operativa dal gennaio 2015 con estensioni funzionali sviluppate da DataFashion per gestire le peculiarità del settore moda.
general manager canali
Un nuovo magazzino che ne sostituisce quattro La terza fase ha riguardato la parte logistica. Per sostenere crescita, internazionalizzazione ed eCommerce la società ha deciso di costruire un nuovo centro distributivo centralizzato e automatizzato accanto al quartier generale di Sovico, in sostituzione dei precedenti quattro magazzini. «Negli ultimi anni abbiamo constatato l’aumento della complessità del processo di spedizione, a causa delle nuove richieste dei clienti - ha spiegato Stefano Canali, General Manager di Canali, al recente Microsoft Forum di Milano -. In precedenza avevamo una situazione molto semplice, con ordini organizzati e comunicati mesi prima e finestre temporali ben definite che consentivano alla logistica di pianificare con un certo agio le modalità con cui definire le spedizioni e quindi consegnare». Oggi, continua Canali, accanto a questi ordini “tradizionali” sta crescendo sempre più un altro tipo di ordini, urgenti, su misura, piccoli («spesso di capo singolo»), da mandare in tempi molto rapidi al cliente finale, tra cui quelli provenienti dall’eCommerce. «Tutto questo richiedeva di reingegnerizzare tutto il processo di logistica, a partire dalla costruzione di un magazzino totalmente nuovo, automatizzato, che avesse a monte un software con caratteristiche peculiari – sottolinea Canali -. Un software in grado di gestire in modo nati-
vo la complessità tipica del nostro settore, con prodotti differenziati per taglia, colore, tessuto, eccetera. E poi di integrarsi in modo flessibile con applicazioni esterne: per esempio terminali mobili - così che i nostri operatori di magazzino possano ricevere le istruzioni su dove prendere i capi che devono essere messi sul sistema automatico che li porta all’area di spedizione –, e anche sistemi di terzi, per gestire la ricezione di prodotti da fornitori esterni». Un’app per i magazzinieri e un portale per i fornitori Dal punto di vista informativo la nuova struttura - da cui partono le spedizioni per tutto il mondo - è gestita con il modulo WMS (Warehouse Management System) di AX, implementato da Da-
Fatturato 220 milioni, il 90% viene dall’estero «Canali produce esclusivamente in Italia, in fabbriche di proprietà per i capispalla e presso fornitori, tutti italiani, per gli accessori - ci spiega il CIO Giovanni Colzani -. Ha circa 1900 dipendenti di cui 1500 in italia, distribuiti tra il quartier generale di Sovico (Monza), e diverse aziende di confezione in Brianza, Marche e Abruzzi». All’estero Canali ha poi filiali e show room in USA, Cina (Hong Kong e Shanghai), Londra, Parigi, Amsterdam. «Negli ultimi anni è molto cresciuto il numero di negozi a marchio Canali, che sono circa una trentina e costituiscono il secondo canale più importante dopo i department store negli USA. E poi c’è la rete in franchising estesa soprattutto in Asia: il fatturato 2015 è stato di circa 220 milioni di euro, di cui oltre il 90% viene dall’export».
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di gi tal transfor m ati on - s up p ly c h a i n | Cana l i, il dig ita l e sp o sa mult ic a n a l ità e qua l ità sa rt o ria l e
«Oggi accanto agli ordini “tradizionali”, comunicati mesi prima, sta crescendo sempre più un altro tipo di ordini, che sono urgenti, su misura, piccoli (spesso di capo singolo), da mandare in tempi molto rapidi al cliente finale: tra questi ci sono quelli provenienti dalle vendite online» taFashion, che l’ha integrato con l’impianto fisico automatizzato di movimentazione e stoccaggio, e con i dispositivi mobile in dotazione al personale. In questo modo Dynamics AX gestisce logiche e flussi di magazzino mentre il software di automazione si occupa dell’operatività, con allineamento bidirezionale delle informazioni in tempo reale. E’ stato inoltre sviluppato un portale collaborativo interfacciato con AX per consentire ai fornitori di alimentare direttamente il gestionale con i dati relativi alle spedizioni. ridotti al minimo gli errori umani Il progetto, spiega il CIO Colzani, ha richiesto circa 18 mesi, di cui i primi 12 dedicati a ridisegnare i processi dell’azienda, analizzare i requisiti di clienti e mercato, censire le soluzioni sul mercato, e definire i gap funzionali del software da colmare. Nei mesi successivi sono state sviluppate le personalizzazioni e le integrazioni con il dipartimentale di automazione del magazzino, ed è stata creata una app proprietaria per l’uso di AX dai dispositivi mobile, interfacciati al gestionale grazie ai servizi standard mobile di AX 2012. Rispetto alla situazione precedente, che era completamente diversa, continua il CIO di Canali, il nuovo assetto logistico ha fortemente aumentato la rapidità di svolgimento delle operazioni sul prodotto finito e il contributo informativo per gli operatori e il management. «La capacità operativa del magazzino si è triplicata in termini sia di bauli che di capi movimenta-
L’ERP gestisce logiche e flussi di magazzino, il software di automazione si occupa dell’operatività, con allineamento bidirezionale delle informazioni in tempo reale. Un portale collaborativo inoltre consente ai fornitori di alimentare direttamente il gestionale con i dati relativi alle spedizioni | 44 |
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ti, e i tempi di servizio sono calati di oltre il 50%. Sono migliorate la visibilità dei flussi e la reportistica, e si sono ridotti al minimo gli errori umani». Per l’eCommerce non sono previsti processi logistici a parte: «Riusciamo a garantire consegne espresso in 48 ore, comunque per le vendite online l’obiettivo è soprattutto aumentare la rotazione degli stock». Tra i prossimi passi un sistema PLM Nel complesso, osserva Colzani, questa serie di progetti è stata impegnativa («non credo ci siano molte esperienze di AX nel nostro settore in Italia»), ma è stato utile anche per riconvertire il know-how della software house di gruppo sui sistemi Dynamics. A questo punto i prossimi passi per Canali saranno l’attivazione del pacchetto verticale AX for Retail su negozi italiani, da estendere poi anche ai negozi europei e nel resto del mondo, la migrazione delle società estere da AX 2009 ad AX 2012, e l’estensione del sistema ERP della sede centrale ai processi di ciclo passivo e produzione. A proposito di produzione, Canali sta rivedendo alcune logiche in quest’area, supportandole con sistemi dipartimentali ad hoc. «Infine un altro progetto che dovremo prima o poi affrontare è l’adozione di un sistema PLM, a completamento dell’ERP, con cui gestire schede tecniche e distinte base, per non eccedere in customizzazioni su AX, perché si sa quanto sia complesso poi gestire e mantenere questi sviluppi».
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Prossime presentazioni dei risultati delle Ricerche LA SCHOOL OF MANAGEMENT
La School of Management del Politecnico di Milano, con oltre 240 docenti, e circa 80 fra dottorandi e collaboratori alla ricerca, dal 2003 accoglie le molteplici attività di ricerca, formazione e alta consulenza, nei campi del management, dell’economia e dell’industrial engineering che il Politecnico porta avanti attraverso le sue diverse strutture interne e consortili. Fanno parte della Scuola il Dipartimento di Ingegneria Gestionale, le Lauree e il PhD Program di Ingegneria Gestionale e il MIP, la business school del Politecnico di Milano. La School of Management ha ricevuto nel 2007 l’accreditamento EQUIS. Dal 2009 è nella classifica del Financial Times delle migliori Business School d’Europa.
6 LUGLIO 2016
Istituto Mario Negri Aula A - Mariella Alberini Via Privata Giuseppe La Masa, 19 20156 Milano
12 OTTOBRE 2016
Istituto Mario Negri Aula A - Mariella Alberini Via Privata Giuseppe La Masa, 19 20156 Milano
18 OTTOBRE 2016
Università degli Studi di Milano Aula Magna Piazza dell’Ateneo Nuovo, 1 20126 Milano
GLI OSSERVATORI DIGITAL INNOVATION Gli Osservatori Digital Innovation della School of Management del Politecnico di Milano (www.osservatori.net) vogliono offrire una fotografia accurata e continuamente aggiornata sugli impatti che le tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) hanno in Italia su imprese, pubbliche amministrazioni, filiere, mercati, ecc. Gli Osservatori sono ormai molteplici e affrontano in particolare tutte le tematiche più innovative nell’ambito delle ICT, classificate secondo 3 macro categorie. 1) Digital Transformation: Agenda Digitale, Digital Innovation Academy, Startup Hi-tech, Startup Intelligence; 2) Digital Solutions: Big Data Analytics & Business Intelligence, Cloud & ICT as a Service, eCommerce B2c, Enterprise Application Governance, Fatturazione Elettronica e Dematerializzazione, Gestione Progettazione e PLM (GeCo), Information Security & Privacy, Internet of Things, Mobile B2c Strategy, Mobile Payment & Commerce, Smart Working; 3) Verticals: Cloud nella PA, Digital Finance, Digital Innovation in Arts & Cultural Heritage, Digital Insurance, eGovernment, Export, Gioco Online, HR Innovation Practice, Innovazione Digitale nel Retail, Innovazione Digitale in Sanità, Innovazione Digitale nel Turismo, Internet Media, Mobile Banking, Professionisti e Innovazione Digitale, Smart Manufacturing, Supply Chain Finance.
OSSERVATORIO ECOMMERCE B2C Convegno verticale sull’eCommerce nel settore dell’Abbigliamento Il convegno dal titolo “L’online nel Fashion: un canale che fa tendenza” sarà l’occasione per presentare i risultati della prima Ricerca verticale sull’eCommerce nel settore dell’Abbigliamento promossa dalla School of Management del Politecnico di Milano e Netcomm. L’indagine ha coinvolto i principali operatori dell’eCommerce B2c nel settore dell’Abbigliamento in Italia e si è posta i seguenti obiettivi: quantificare il mercato italiano dell’eCommerce, approfondendo il ruolo dell’online nell’abilitare l’Export; analizzare le caratteristiche e il comportamento di acquisto dei web shopper italiani; mappare la customer experience dei siti eCommerce di Abbigliamento, identificando i fattori che impattano positivamente sul conversion rate; classificare i principali modelli di business, evidenziandone i fattori critici di successo; approfondire i percorsi multicanale che, mediante l’integrazione tra online e offline, scardinano le barriere tipiche delle vendite a distanza; identificare le principali dimensioni di innovazione, attraverso l’analisi di soluzioni di frontiera e di startup eCommerce (italiane e internazionali). La presentazione dei risultati sarà intervallata da due tavole rotonde che coinvolgeranno alcuni dei principali operatori di Abbigliamento online e da interventi di alcune startup italiane, tra le più promettenti del settore.
OSSERVATORIO SMART WORKING Convegno di presentazione dei risultati della Ricerca 2016 La Ricerca si è posta le seguenti finalità: monitorare la diffusione dello Smart Working in Italia approfondendo le iniziative nelle diverse leve di progettazione; comprendere come le tecnologie digitali (social collaboration, communication, virtualizzazione, smart office) supportano l’introduzione dello Smart Working e quali sono le principali opportunità e criticità all’adozione; approfondire le iniziative di enterprise mobility (app, device e platform); identificare le best practice di Smart Working nel panorama nazionale; analizzare il punto di vista dei lavoratori e la loro predisposizione allo Smart Working; approfondire gli impatti dello Smart Working sulle città (es. ruolo degli spazi di coworking). Durante l’evento saranno presentati e premiati i progetti vincitori del premio “Smart Working Award” 2016.
OSSERVATORIO ECOMMERCE B2C Convegno di presentazione dei risultati della Ricerca 2016 Il convegno sarà l’occasione per presentare i risultati della Ricerca 2016 dell’Osservatorio eCommerce B2c, promosso da Netcomm-School of Management del Politecnico di Milano. L’indagine ha coinvolto i primi 300 operatori dell’eCommerce B2c, attraverso survey e studi di caso, e si è posta i seguenti obiettivi: monitoraggio del mercato italiano dell’eCommerce attraverso un’analisi puntuale dell’offerta; confronto con lo scenario internazionale nei principali mercati occidentali (Europa e USA), emergenti (Brasile, Cina, Russia, …) ed evoluti (Giappone, Corea, …); analisi degli acquisti in Italia tramite Smartphone e Tablet, con un approfondimento sulle evoluzioni in atto; approfondimento sui modelli multicanale adottati dai merchant italiani, con particolare attenzione ai benefici e alle criticità connesse; analisi dei servizi logistici a supporto dell’eCommerce B2c; utilizzo degli strumenti di pagamento tradizionali e analisi di strumenti “nuovi ed innovativi” comprendendone il loro impatto sull’eCommerce B2c in Italia; identificazione delle principali dimensioni dell’innovazione, attraverso esempi rappresentativi dei trend in atto nell’eCommerce B2c.
Informazioni aggiornate al 30 maggio 2016 - Per dettagli completi visitare la pagina web: www.osservatori.net
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Tutti i vantaggi del servizio CBILL per i pagamenti online multibanca
La digitalizzazione dei pagamenti rappresenta uno degli obiettivi primari nel processo di ammodernamento del nostro paese. Le imprese bancarie italiane, che lavorano da tempo in questa direzione, stanno investendo fortemente nella digitalizzazione ed offerta di strumenti di pagamento innovativi. Uno di questi strumenti è il CBILL, il servizio realizzato dal Consorzio CBI e offerto in modalità competitiva dagli Istituti Finanziari Consorziati, che consente il pagamento online in modalità multicanale e multibanca di utenze domestiche, ticket sanitari, multe, tributi, tasse ed altro ancora. Il Servizio, lanciato il 1° luglio 2014, ha registrato un immediato successo, come spiega Liliana Fratini Passi, Direttore Generale del Consorzio CBI: «A fine aprile 2016 avevamo 522 Istituti attivi e oltre 2 milioni e 800mila operazioni di pagamento effettuate, per un controvalore complessivo di circa 580 milioni di Euro, con circa 180 fatturatori, di cui 90 Pubbliche Amministrazioni». CBILL è già applicabile anche al pagamento dei servizi offerti dalla Pubblica Amministrazione tramite il Nodo PagoPA dell’AgID. Ciò consentirà l’efficientamento del colloquio tra imprese bancarie e Pubblica Amministrazione, nonché la disponibilità per i cittadini di servizi di pagamento sempre più efficaci ed evoluti. I vantaggi del Servizio CBILL risultano molteplici. Innanzitutto, mentre con gli altri servizi di pagamento online i clienti possono pagare solo i bollettini delle aziende o delle PA che hanno sottoscritto specifici accordi con il loro Istituto di credito, con CBILL basta collegarsi al proprio Internet banking per consultare e pagare bollettini e conti spesa di qualsiasi azienda e PA
utenze domestiche, ticket sanitari, multe, tributi, tasse ed altro ancora: Attraverso il servizio, lanciato dal consorzio CBI nel 2014, sono state effettuate oltre 2 milioni 800 mila operazioni verso circa 180 fatturatori, di cui 90 pubbliche amministrazioni
Liliana Fratini Passi Direttore Generale Consorzio CBI
che abbia adottato il Servizio CBILL. Inoltre è possibile il calcolo automatico dell’importo dovuto, anche dopo la scadenza del bollettino, funzionale ad esempio per chiudere la propria posizione debitoria relativa ad un avviso di pagamento emesso da Equitalia (avvisi e cartelle di pagamento in caso di tributi, contributi e tasse non pagate). Il cittadino può quindi beneficiare di un servizio “intelligente” che gli consente in tutta autonomia di visualizzare e saldare l’esatto importo che risulta dovuto alla data dell’operazione. Numerosi anche i vantaggi per i Fatturatori che con CBILL possono garantire maggiore valore all’utente, con una nuova modalità di pagamento semplice, veloce e sicura, migliorando anche la tempestività e la trasparenza. E ancora, semplificazione dei processi di riconciliazione contabile, riduzione degli errori e dei tempi di riscossione, possibilità di raggiungimento di un maggior numero di utenti online e, infine, di personalizzazione del servizio. Inoltre, grazie alla completa digitalizzazione dei bollettini, il Servizio CBILL consente anche di ridurre i costi di stampa contribuendo alle politiche di sostenibilità ambientale, riducendo ogni anno il consumo di carta di circa 12.600 tonnellate e le emissioni di anidride carbonica di circa 21.420 tonnellate.
p er u lt er i o r i i n f o rma zioni...
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intervista
Come arrivare preparati agli obblighi della conservazione digitale «Con l’entrata in vigore a marzo 2017 delle nuove regole è necessario che le aziende comincino ad adeguare i loro sistemi. Anche perché non si tratta solo di un cambiamento informatico, ma soprattutto organizzativo». L’AD di Top Consult racconta le strategie da adottare Dal 12 marzo 2017 diventano obbligatorie le nuove regole tecniche della conservazione digitale, che manderanno in pensione la delibera CNIPA N. 11/2004 e la vecchia dizione di conservazione sostitutiva. «Una volta si chiamava così perché i documenti erano tutti cartacei e quelli informatici (pochi) andavano appunto a sostituirli», racconta Pier Luigi Zaffagnini, l’Amministratore Delegato di Top Consult, l’azienda impegnata nella conservazione fin dagli albori della legislazione digitale, che ha realizzato nel 1999 con il Comune di Pesaro il primo archivio sostitutivo italiano e “inventato” una serie di servizi a corredo, fra cui il manuale della conservazione. Le nuove regole definiscono delle linee guida sulle caratteristiche dei sistemi di Conservazione Digitale sia per i documenti informatici che per i fascicoli, sui modelli organizzativi, sul ruolo del Responsabile della Conservazione. Quest’ultimo deve collaborare con altre figure aziendali e garantire la redazione e il mantenimento del Manuale della Conservazione, diventato ora obbligatorio, che descrive il processo della conservazione stessa, le modalità di esibizione e i formati degli oggetti destinati alla conservazione. La nuova normativa prescrive anche nuovi standard sulle strutture dei dati e per la gestione dei cosiddetti pacchetti informativi di archiviazione. «Le aziende devono cominciare ad adeguare i sistemi per arrivare alla scadenza preparati - sottolinea Zaffagnini -, e avere un intero esercizio fiscale con le stesse regole, partendo dal primo gennaio 2017. L’evoluzione della conservazione non comporta, infatti, solo un cambiamento informatico, ma ha anche ricadute organizzative e comportamentali. Non è sufficiente utilizzare un
Pier Luigi Zaffagnini Amministratore Delegato Top Consult
pacchetto software aggiornato, ma è necessario avere una specifica consulenza, legale e applicativa, accompagnata da un’attività di formazione specializzata. Inoltre le organizzazioni hanno bisogno di strumenti smart che estendano le modalità operative dei social network e della social collaboration anche alla gestione elettronica dei documenti». A tutto questo risponde il prodotto di punta di Top Consult, TopMedia Social NED, il cui nuovo modulo Lex è già conforme alla nuova normativa e consente di effettuare la conservazione digitale sia in house che in outsourcing. «Nell’ambito della formazione e consulenza abbiamo pensato a un servizio in house, Conlex 2.0, che offre supporto legale e applicativo per creare gli archivi digitali, e aiutare i Responsabili della Conservazione a capire i confini del loro ruolo e qual è il livello di delega». Il servizio prevede una giornata di formazione con il legale e con lo specialista applicativo, offre una consulenza per la realizzazione del manuale della conservazione, e prevede il rilascio del certificato di conformità del manuale. Per il mantenimento a norma nel tempo delle soluzioni Lex è stato pensato il servizio Manlex 2.0, che prevede la ricertificazione annuale del manuale della conservazione, la possibilità di sottoporre 5 quesiti all’anno di tipo applicativo o legale sul tema Lex agli specialisti e ai legali, una visita annuale completa e approfondita di audit-collaudo degli archivi realizzati svolta da specialisti Top Consult. «Avere un controllo periodico per le aziende è uno sprone per svolgere continuativamente nel tempo l’attività di catalogazione e di conservazione nel modo corretto», conclude Zaffagnini. www.digital4executive.it
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intervista
Ifin Sistemi pronta per le fatture digitali B2B: «Un’evoluzione naturale» Dopo due anni dall’obbligo verso la PA, circa il 10% delle fatture XML in Italia oggi viene gestito tramite le soluzioni dell’azienda padovana, che sta già sperimentando la fatturazione elettronica tra aziende private in progetti presso multinazionali e multiutility. «Offriamo workflow completamente digitali del ciclo attivo e passivo, fino alla conservazione a norma, i servizi gratuiti entry level dello Stato non saranno un problema»
«In questi 15 mesi di piena operatività l’obbligo di fatturazione elettronica verso la Pubblica Amministrazione ha generato un grande fermento, e in Italia è sempre più diffusa la consapevolezza dei benefici. Non solo in termini di azzeramenti di costi (stampa, affrancatura e spedizione per il ciclo attivo, scansione, indicizzazione e archiviazione cartacea per il ciclo passivo), risparmi di tempi (consegna e approvazione), e controllabilità di gestione. Ma soprattutto di digitalizzazione di interi processi, dall’inserimento ordini alla gestione documentale». Così Giovanni Maria Martingano, amministratore di Ifin Sistemi, riassume la visione della società padovana, tra i principali specialisti italiani di soluzioni di dematerializzazione e conservazione digitale. Con il decreto 127 dello scorso agosto il legislatore ha aggiunto agevolazioni fiscali e amministrative che dal prossimo gennaio favoriranno l’ultimo salto di qualità: la diffusione della fatturazione digitale B2B, cioè tra aziende private. «In questo modo la semplificazione e la digitalizzazione sono promosse nell’interazione tra | 50 |
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qualsiasi coppia fornitore/cliente: si potrà uniformare facilmente il formato della fattura a livello di azienda e di gruppo, la gestione e conservazione digitale dei documenti sarà digitale, e ci si potrà predisporre all’invio della fattura elettronica anche ai privati cittadini». Insomma il mercato si sta muovendo decisamente verso soluzioni digitali totalmente a norma e certificate: «Parlo dell’accreditamento Agid e della conservazione a norma, piuttosto che della ISO 27001, lo standard internazionale per gli aspetti legati alla sicurezza delle informazioni». Storicamente Ifin Sistemi, continua Martingano, è partita nella fatturazione elettronica proponendo soluzioni per il ciclo attivo verso la PA, e ampliando da subito il discorso dalla mera trasmissione verso Sogei della fattura ad altre criticità collegate molto diffuse. «Per esempio diversi clienti multinazionali avevano il problema di “tradurre” formati di fattura originati da sistemi contabili centralizzati, tipicamente SAP, magari installati in Germania, Francia o India, nel formato ac-
intervista | Ifin SIstemi pronta per le fatture digitali B2B: «Un’evoluzione naturale»
Giovanni Maria Martingano
cettato da Sogei. Così abbiamo sviluppato un portale Web appunto di traduzione, conversione e trasmissione di fatture verso la PA, con una procedura integrata che arriva alla conservazione digitale a norma». Parallelamente la società ha lavorato anche sul ciclo passivo della PA, sviluppando un portale Web di gestione integrata dell’intero processo, dalla notifica della fattura all’utente fino alla protocollazione e conservazione passando per la registrazione contabile e l’approvazione o rifiuto, tenendo sempre come obiettivo, sottolinea Martingano, la massima semplicità di attivazione e uso. Tirando le somme, la piattaforma Ifin Sistemi consente di gestire sia l’emissione di fatture attive verso la PA, sia la ricezione da parte della stessa PA. «Circa il 10% delle fatture XML in Italia oggi viene gestito tramite le nostre soluzioni: parliamo già oggi di milioni di documenti». come differenziarsi in un settore sempre più affollato In un campo così attuale, però, dove la concorrenza è sempre più numerosa (gli esperti di settore parlano di oltre 200 operatori di fatturazione e conservazione digitale in Italia), continuare a distinguersi è decisivo. Una delle carte su cui punta Ifin Sistemi è appunto l’integrazione forte della fatturazione elettronica con i sistemi contabili più diffusi (SAP in testa) e con il sistema documentale, permettendo workflow completamente digitali e integrati di gestione delle fatture attive e passive, completati dalla conservazione digitale a norma. Altri elementi di differenziazione sono semplicità di adozione e multi-canalità: «Abbiamo un applicativo Web per la gestione del canale delle fatture attive e passive, un sistema di comunicazione e notifica multicanale (Web, Email, Sms) per gestire tutte le esigenze, e la possibilità di gestire molteplici utenti, uffici pubblici, enti e società». Tra i più tipici casi d’uso delle soluzioni Ifin Sistemi, sottolinea Martingano, «ci sono i centri servizi digitali e gli intermediari che svolgono attività di back office e fatturazione per grandi realtà multinazionali, e quelli che una volta erano i postalizzatori, che con noi trovano la possibilità di nuovi business in sostituzione della carta, con ampi margini di personalizzazione e integrazione con le loro soluzioni specifiche». Altri interlocutori tipici sono player (società di consulenza e process reengineering) interessati a guidare i propri clienti verso soluzioni tecniche e organizzative di nuova generazione, o grandi enti pubblici alle prese con progetti di digitalizzazione su scala regionale. E poi come già accennato ci sono multinazionali e grandi aziende, interessate anche a sperimentare da subito la fatturazione elettronica tra imprese. «Per le fatture B2B siamo già nella sperimentazione con l’Agenzia
amministratore Ifin Sistemi
delle Entrate: stiamo facendo progetti su tracciati proprietari molto diffusi con grandi multinazionali e multiutility, nonché nei settori trasporti ed energy, integrando la conformità con le norme italiane in un’ottica di eProcurement europea, recependo per esempio il regolamento eIDAS e il progetto PEPPOL».Nel B2B, continua Martingano, gli ambiti più avanzati sono l’automotive, «con progetti già avanzati tra costruttore e rete di concessionari», e le multiutility, «con iniziative più sperimentali verso i clienti aziendali sul territorio». Dal punto di vista tecnico, l’estensione delle soluzioni di fatturazione elettronica al B2B è un’evoluzione naturale. «Chi ha scritto le norme e chi le ha tradotte in indicazioni tecniche ha ascoltato gli operatori di mercato cercando di raggiungere l’obiettivo nel modo più semplice; d’altra parte è vero che diverse grandi aziende capofiliera e interi settori hanno definito dei formati proprietari, ma essendo la fattura PA a regime già da due anni, molti sono stati attenti a seguire schemi estremamente simili come architettura e formato, il che permetterà l’adozione della fattura b2b senza grandi stravolgimenti». Infine una considerazione sulle polemiche nel settore per i servizi gratuiti di generazione, trasmissione e conservazione delle fatture elettroniche che l’Agenzia delle Entrate renderà disponibili, mettendosi secondo qualcuno in concorrenza con gli operatori privati. «Personalmente la penso in modo diverso. Lo Stato ha scelto di offrire dei servizi entry level agli attori più piccoli, artigiani e microaziende, per assicurarsi di coinvolgere tutti nella digitalizzazione. Io lo vedo come un rischio solo per chi offre servizi a scarsissimo valore aggiunto. Chi propone servizi di alto livello qualitativo certamente non ha nulla da temere». www.digital4executive.it
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intervista di
domenico Aliperto
intervista a
Roberta Russo
Technology Services Support Business Unit Manager di HPE
HPE, IT e business evolvono di pari passo La digital transformation impone un’innovazione a ciclo continuo, che si scontra con i limiti di budget, risorse e strumenti a disposizione. Nasce da qui la soluzione Datacenter Care di Hewlett Packard Enterprise, che offre flessibilità, sicurezza e integrazione con i sistemi multivendor, adeguando la logica on demand del Cloud alle esigenze di crescita e internazionalizzazione delle imprese
Per sostenere un’innovazione che oggi è continua, le aziende devono affrontare molteplici sfide. Quali? Secondo Roberta Russo, Technology Services Support Business Unit Manager di HPE, la questione verte su quattro aree. «La principale riguarda l’opportunità di far evolvere le infrastrutture IT di stampo tradizionale verso sistemi ibridi, in cui possano coesistere soluzioni on premise e Cloud. C’è poi il tema della difesa dalle minacce: sia quelle esterne, e cioè tutto ciò che ha a che fare con la cybersecurity, sia protezione dai rischi interni come la perdita accidentale di dati. Il terzo punto ruota intorno alla crescente mole di dati, che se da una parte sono indispensabili per aiutare il business a prendere decisioni in maniera efficace e rapida, dall’altra sono sempre meno strutturati, tra conversazioni sui social media, video e immagini. L’ultima sfida è quella della produttività personale, con la possibilità di accedere in ogni luogo e in maniera sicura a qualsiasi applicazione. Non c’è azienda che non stia affron| 52 |
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tando, a tutti i livelli, queste trasformazioni. Ma spesso mancano le competenze. La nostra risposta è il servizio HPE Datacenter Care». In cosa consiste e quali sono i vantaggi offerti dalla piattaforma Datacenter Care? Il servizio si prende cura del data center del cliente in modo esteso, non più con una logica a silos, a partire dal supporto di hardware, middleware e sistemi operativi fino ad arrivare agli applicativi di partner e altri vendor, offrendo un servizio personalizzato, che a conti fatti contiene tutto e solo quel che realmente serve al cliente. In termini operativi, Datacenter Care permette di ottenere un single point of contact per gestire un intero portfolio di soluzioni modulari, che possono cioè essere integrate seguendo l’evoluzione delle diverse aree di business, consentendo di indirizzare qualsiasi tipo di organizzazione, dalle grandi multinazionali alle PMI più strutturate. Il merito è anche di Datacen-
intervista | HPE, IT e business evolvono di pari passo
ter Care Flexible Capacity, che offre all’utente una modalità di fruizione completamente nuova delle applicazioni, e di OSS, che oltre a svolgere attività di manutenzione può delegare task operativi. In che modo un’azienda alla ricerca di nuovi modelli di business e maggiore efficienza operativa può sfruttare Flexible Capacity? È un sistema innovativo che rappresenta un unicum del mercato. Coniuga i vantaggi dell’on demand del Cloud pubblico, i cui costi sono relativamente contenuti, con la solidità delle soluzioni on premise e del Cloud privato. In un’era di grandi cambiamenti tecnologici e per di più dominata dal tema dell’hyper convergence, diventa sempre più difficile ipotizzare budget per le necessità infrastrutturali dell’immediato futuro. Per questo Flexible Capacity prevede un meccanismo di fee applicate alle capacità effettivamente utilizzate: così i costi dell’IT sono flessibili e trasparenti, e possono essere trasferiti all’utente finale, senza intaccare il CAPEX e mettere a bilancio l’acquisto di queste risorse. Lo stesso Datacenter Care Flexible Capacity evolve costantemente, seguendo le metamorfosi del mercato. Tra le integrazioni più recenti c’è quella con il Cloud pubblico di Microsoft, Azure. In quali situazioni la soluzione si dimostra più efficace? È ideale, ad esempio, per tenere sotto controllo i picchi dei carichi di lavoro in ambienti eCommerce, ma anche nella gestione di attività legate al manufacturing e al service providing, rispetto a cui un arresto del servizio nel momento in cui aumenta la domanda può risultare fatale in termini di reputazione. Flexible Capacity consente poi di affrontare il dinamismo del mercato accompagnando le imprese non solo nelle fasi di crescita, ma anche nelle trasformazioni e negli adattamenti che possono richiedere un temporaneo ridimensionamento della struttura. Senza contare che le organizzazioni che puntano all’internazionalizzazione o che stanno affrontando processi di acquisizione possono disporre di tutta la flessibilità di cui hanno bisogno per integrare sistemi diversi in Paesi differenti, potendo contare sul sostegno di un’azienda globale come HPE. In ambito OSS (servizi di supporto operativo) come viene declinato il tema dell’immediatezza e della semplicità sul piano dell’assistenza da remoto? Oggi è fondamentale che le imprese abbiano la facoltà di dedicare risorse qualificate al core business
e al cliente, delegando task operative per sviluppare economie di scala, flessibilità di costo, nuove efficienze, o anche per accedere a skill che non hanno in casa. OSS è un servizio di monitoraggio remoto delle attività giornaliere sulle aree server, storage, security e back up gestito da centri di competenza dislocati in tutto il mondo. In Italia il Remote Delivery Center è a Cernusco sul Naviglio (MI), e fornisce assistenza in lingua italiana 24 ore su 24. Come accennato, gli ambiti applicativi dell’OSS stanno gradualmente trasformandosi: da strumento orientato prevalentemente al saving, il servizio offre anche la possibilità di acquisire nuove competenze per l’accesso a piattaforme integrate con il nostro sistema, come SAP Hana. Un’azienda può quindi per esempio accedere alla soluzione di business intelligence in modalità pay per use e affidarne la gestione operativa a OSS, rendendo il “salto” verso le nuove soluzioni molto meno traumatico e liberando al tempo stesso risorse da dedicare allo sviluppo delle attività strategiche anziché alla manutenzione del sistema. In che modo la soluzione HPE Datacenter Care può sostenere le imprese nella transizione verso l’hybrid Cloud? Il modulo di Datacenter Care dedicato a Helion Open Stack permette di cominciare il viaggio a prescindere dalla fase di sviluppo e dalle dimensioni che contraddistinguono l’organizzazione, lasciando sempre la libertà di spostarsi eventualmente su altre architetture. Qual è il ruolo dei partner nella costruzione di valore aggiunto per HPE e per i clienti finali attraverso Datacenter Care? I partner sono sempre stati al centro della strategia di HPE. D’altra parte, garantendo la possibilità di veicolare l’intero portfolio, HPE li aiuta a superare il ruolo di semplici manutentori e a elevare il livello dell’offerta facendo leva sulla copertura territoriale, sulla padronanza dei contesti, dei business. Ogni azienda è diversa, e grazie alla conoscenza di lungo corso dei clienti, i system integrator sanno capire in che momento della propria storia e della propria evoluzione si trova una determinata organizzazione. Ai partner storici si affiancano poi alcuni nuovi player, che si stanno proponendo come veri e propri service provider, dotati di infrastrutture e competenze peculiari che contribuiscono ad arricchire l’offerta per il cliente finale. In altre parole, siamo diventati tutti attori di un ecosistema in fieri, all’interno del quale chiunque ha la possibilità di progredire e fare la differenza. www.digital4executive.it
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normative
di
Gabriele Faggioli (FOTO)
legale, p4i-partners4innovation e
Chiara Giorgini
Legal Consultant P4I-partners4innovation
Il Privacy Shield verso l’approvazione definitiva La firma del testo che rappresenta lo scudo UE – USA per la privacy sembrava vicinissima, ma lo scorso 30 maggio il Garante Europeo per la protezione dei dati Buttarelli ha pubblicato una valutazione sulla bozza, sottolineando la necessità di introdurre dei miglioramenti. Obiettivo: garantire un livello di protezione almeno equivalente a quello offerto all’interno dell’Unione Europea
Il testo del Privacy Shield sembrava ormai giunto a un passo dall’approvazione definitiva. E invece, il Garante Europeo per la privacy Giovanni Buttarelli ha precisato come il nuovo accordo debba essere rivisto onde evitare che anch’esso venga bocciato dalla Corte di Giustizia UE. Quest’ultima, infatti, a seguito del ricorso presentato contro Facebook dallo studente Max Schrems, aveva nell’ottobre scorso invalidato il cosiddetto Safe Harbour, il trattato tra Europa e Stati Uniti che fino a quel momento aveva regolamentato il trasferimento dei dati personali oltreoceano. La Corte si era in particolare soffermata sul fatto che il meccanismo del c.d. Safe Harbour non impediva alle pubbliche autorità degli Stati Uniti di interferire con i diritti fondamentali delle persone. In attesa di un nuovo accordo, le imprese avrebbero dovuto valutare i contratti in essere con le controparti statunitensi e fare affidamento su strumenti giuridici alternativi per trasferire dati personali | 54 |
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verso gli Stati Uniti, come le clausole standard approvate dalla Commissione Europea. Il 2 febbraio Unione Europea e USA hanno raggiunto un accordo politico in materia di protezione dei flussi transatlantici dei dati. Trattasi, ovviamente, del primo step di una serie di passaggi necessari alla definizione di un testo definitivo, che nelle intenzioni originarie della Commissione Europea avrebbe dovuto essere pubblicato entro la fine di giugno. In un comunicato stampa, tuttavia, la stessa ha già precisato come il Privacy Shield prevederà un meccanismo di protezione dei dati più stringente rispetto al precedente, con limiti ben definiti in ordine all’accesso ai dati personali da parte delle autorità pubbliche statunitensi ed una serie di possibilità di ricorsi da parte da parte dei cittadini europei contro l’illegittimo utilizzo dei dati personali. In data 29 febbraio, invece, la Commissione Europea ha pubblicato le proposte di testi giuridici
n o rm at iv e | Il P ri vac y Sh i e l d v e rs o l’ a pprova z i o n e de f i n i tiva
Il testo prevederà limiti ben definiti in ordine all’accesso ai dati personali da parte delle autorità pubbliche statunitensi, e una serie di possibilità di ricorsi da parte dei cittadini europei contro l’illegittimo utilizzo
che compongono il nuovo accordo, ovvero una bozza di decisione sull’adeguatezza del Privacy Shield (“draft adequacy decision”), i principi che dovranno essere osservati da parte delle aziende statunitensi che vogliono importare dati personali dall’Europa, nonché impegni scritti del governo statunitense sull’applicazione dell’accordo, con particolare riguardo alle limitazioni in materia di accesso ai dati personali da parte delle autorità pubbliche di sicurezza. In particolare, le aziende agiranno sotto il controllo del Department of Commerce e dovranno verificare che gli obblighi relativi ai diritti individuali siano rispettati anche da aziende a cui, eventualmente, i dati vengano successivamente trasferiti. Inoltre, per monitorare il regolare funzionamento del nuovo regime si procederà con una revisione congiunta annuale, condotta dalla Commissione Europea e dal Department of Commerce, alla quale prenderanno parte esperti nazionali di intelligence degli Stati Uniti e delle Autorità di protezione dei dati. Dal canto loro, i cittadini potranno rivolgersi direttamente alle aziende, che avranno l’obbligo di trattare i reclami entro 45 giorni, alle Autorità Garanti del proprio Paese, oltre che, da ultimo, ad un difensore civico (il c.d. “Ombudsperson”), qualora sospettino che i propri dati personali siano stati illegalmente utilizzati dalle Autorità di intelligence statunitensi. Il 13 aprile il Gruppo di Lavoro art. 29 ha espresso il proprio parere in merito alle bozze di testi giuridici predisposti dalla Commissione Europea, sottolineando come esso costituisca senza dubbio un grande passo avanti rispetto al precedente Safe Harbour, contribuendo ad un maggior livello di tutela degli interessati. Tuttavia, il Gruppo di Lavoro ha espresso la necessità di lavorare sui testi al fine di migliorare alcune previsioni. Innanzitutto, il nuovo accordo apparirebbe eccessivamente complesso, a volte incoerente e lascerebbe un eccessivo spazio d’azione alle autorità di pubblica sicurezza statunitensi. In secondo luogo, si porrebbe la necessità di sottoporre a revisione i testi alla luce dell’approvazione del nuovo Regolamento Europeo in tema di prote-
zione dei dati personali, al fine di garantire un livello di tutela pari a quello offerto dal Regolamento. Del 26 maggio è l’approvazione, da parte del Parlamento Europeo, di una risoluzione non legislativa, con la quale esso ha chiesto alla Commissione Europea di continuare le negoziazioni con gli Stati Uniti al fine di rimediare alle carenze del Privacy Shield. Infatti, se da un lato il nuovo accordo presenta dei sostanziali miglioramenti rispetto al precedente Safe Harbour, dall’altro vi sarebbero ancora dei nodi problematici da sciogliere: l’accesso da parte delle autorità di pubblica sicurezza ai dati trasferiti, la complessità del meccanismo di ricorso, l’assenza di poteri effettivi in capo alla nuova figura del Mediatore nel Dipartimento di Stato, nonché la possibilità di raccogliere grandi quantità di dati, che in alcuni casi non sarebbe conforme ai principi di necessità e proporzionalità. Infine, il Parlamento ha chiesto alla Commissione di effettuare periodicamente valutazioni del Privacy Shield alla luce delle nuove disposizioni del Regolamento Europeo in tema di protezione dei dati personali, approvato lo scorso 14 aprile. Da ultimo, come sopra accennato, il Garante Europeo per la privacy Giovanni Buttarelli ha espresso le proprie preoccupazioni rispetto al nuovo accordo, sottolineando come esso, così formulato, rischia di venire nuovamente invalidato dalla Corte di Giustizia UE. In particolare, andrebbero meglio esplicitati principi quali quello relativo alla conservazione dei dati e al trattamento automatizzato, oltre che i diritti di accesso e quello di opposizione. Il Garante Europeo per la protezione dei dati ha poi sottolineato che andrebbero chiariti meglio i casi nei quali è possibile derogare ai principi del Privacy Shield, possibilità concessa dal nuovo accordo per ragioni legate alla sicurezza nazionale o qualora sia previsto in forza di disposizioni di legge. Si è dunque in attesa dell’approvazione del testo definitivo del Privacy Shield, originariamente prevista entro la fine di giugno, che non potrà che tenere conto delle critiche mosse dal Gruppo di Lavoro art. 29 e dal Garante Europeo per la protezione dei dati personali. www.digital4executive.it
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osservatorio di
paola capoferro ronchetta
Fiorella Crespi
Da Partner a Business Enabler: il nuovo ruolo della Direzione HR
osservatori Digital innovation Politecnico di Milano
I professionisti delle risorse umane devono diventare agenti di cambiamento della cultura manageriale e organizzativa per massimizzare il valore delle persone. Per farlo, devono cogliere le opportunità offerte dai nuovi strumenti digitali come gli Analytics e le piattaforme di Digital Learning. I risultati della ricerca dell’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano
Il mercato del lavoro sta vivendo una profonda trasformazione fortemente influenzata dall’Innovazione Digitale. A cambiare quindi è anche il ruolo della Direzione HR, che da semplice ufficio del personale, diventa uno dei punti nevralgici che guida la Digital Transformation delle imprese con progetti innovativi e il ripensamento dei modelli e degli spazi di lavoro. Il digitale, infatti, è diventato ormai parte integrante di molti progetti di trasformazione HR: nel 2016 il 61% delle organizzazioni italiane ha un budget dedicato a nuove iniziative digitali nell’ambito delle risorse umane e per il 58% lo stanziamento è superiore a quello del 2015, con un’incidenza media del 15% sul budget complessivo della Direzione HR. In particolare le iniziative riguardano i processi di valutazione delle performance (prevista nel 53% dei casi), la formazione (51%) e la ricerca e selezione del personale (51%). | 56 |
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Sono questi alcuni fra i principali risultati emersi dalla ricerca dell’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano, “HR Business Enabler: dati, tecnologie, e competenze per valorizzare il capitale umano”, che ha coinvolto i Responsabili delle Risorse Umane e i Responsabili di area HR attraverso studi di caso e due survey, “Formazione e Digital Learning” e “Scenario, competenze e HR Big Data Analytics”, a cui hanno risposto rispettivamente 70 e 114 aziende . «Negli ultimi anni le Direzioni HR hanno cambiato pelle: da una torre d’avorio di specialismo si sono avvicinate alle line of business, hanno imparato a essere reattive, a parlare la lingua del business e a rispondere alle mutevoli esigenze delle line e dei loro clienti interni - afferma Fiorella Crespi, Direttore dell’Osservatorio -. Oggi però questo non basta più. A fronte di quella che è l’intensa trasformazione del business, l’HR non
os s e r vator i o | da pa rt n e r a b usin e ss e n a b l e r: il n uovo ruo l o de l l a D ire z io n e HR
La Direzione HR deve essere proattiva e creare, come un vero e proprio Business Enabler, le condizioni perché non solo siano soddisfatte le esigenze attuali ma anche quelle che potrebbero manifestarsi nel futuro
può limitarsi ad aspettare di ricevere nuove richieste, nuove domande. Deve essere proattiva e creare, come un vero e proprio Business Enabler, le condizioni perché non solo siano soddisfatte le esigenze attuali ma anche quelle che potrebbero manifestarsi nel futuro». Ad esempio, per quanto riguarda il Recruiting e le nuove competenze da assimilare invece di attendere che sia il business a manifestare delle esigenze, oggi la Direzione HR deve essere in grado di fare un assessment di quelle che sono le competenze digitali e innovative e disegnare un piano di sviluppo. Nel 2016, secondo la ricerca, le funzioni aziendali che necessitano maggiormente di introdurre nuovi ruoli e competenze digitali sono i Sistemi Informativi (78%), il Marketing e Customer Care (63%), l’Organizzazione e Risorse Umane (38%) e le Vendite (38%). A crescere è anche l’esigenza di ruoli con competenze digitali per supportare i processi di Innovazione, Ricerca e Sviluppo (66%) Per quanto riguarda i profili il maggiormente introdotto dalle organizzazioni (22% dei casi) sarà quello del digital marketing manager - la professionalità che coordina le iniziative di marketing digitale -, seguito (20%) dal social media recruiting specialist che recluta personale attraverso
i social media, dal social media manager (18%) che cura la comunicazione sui social media, dai technology marketing officer (16%) che ha competenze di marketing e tecnologiche, dal digital workspace manager (15%) che gestisce gli spazi di lavoro in modo flessibile attraverso l’uso delle tecnologie digitali (15%), per finire con il digital learning specialist (13%) che ha il compito di progettare, gestire e monitorare percorsi e piattaforme per la formazione digitale. «Il ruolo della formazione è sempre più rilevante all’interno delle aziende soprattutto alla luce delle nuove competenze digitali che sono richieste dalle organizzazioni al loro interno», continua Crespi. La Direzione HR ha quindi anche il compito di innovare il processo di formazione all’interno delle aziende, cogliendo tutte le opportunità generate dal digitale. «Formazione non è solo quella obbligatoria da svolgere in aula, ma è anche educazione in relazione agli stili manageriali, alle competenze tecniche, e alle soft skill. Sono questi, infatti, i temi su cui la Direzione HR nel prossimo anno andrà a investire in modo sempre più significativo. Il concetto di digital learning è molto più che il tradizionale concetto di eLearning: è la creazione di una
La formazione non è più solo quella tradizionale, obbligatoria e da svolgere in aula: è anche educazione in relazione agli stili manageriali, alle competenze tecniche e alle soft skill www.digital4executive.it
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osservatori o | da par t ne r a b u s i ne s s e nabl e r : il n uovo ruo l o de l l a D ire z io n e H R
HR Big Data & Analitics: una sfida per le Direzioni HR «Considerando la progressiva digitalizzazione dei processi di gestione del personale, e la conseguente crescita esponenziale di dati e informazioni a disposizione della Direzione HR, è necessario acquisire all’interno della funzione le capacità per gestire l’insieme di competenze, tecnologie e fonti informative per poter rispondere tempestivamente alle domande legate ai problemi decisionali del business prima che le esigenze diventino impellenti», racconta Crespi. Nel 2016 il 41% delle aziende campione ha previsto l’avvio di progetti in quest’ambito, tuttavia nelle organizzazioni l’attuale utilizzo di tecnologie di HR Big Data & Analytics è ancora strettamente legato alla semplice reportistica o, al più, al confronto con sistemi di benchmark esterni.
In particolare a essere più diffusi (47% dei casi) sono gli HR analytics di tipo descrittivo, ovvero gli strumenti che effettuano analisi sui dati offrendo una rappresentazione della situazione attuale. Il 24% del campione usa invece strumenti che consentono di ottenere dashboard ad hoc, con la possibilità di fare elaborazioni in tempo reale (descrittivi real time) e il 3% quelli predittivi, che analizzando i dati storici attraverso algoritmi permettono di prevedere i risultati futuri. Ad oggi invece ancora non sono stati rilevati casi di utilizzo sistematico di Analytics di tipo prescrittivo, che aggiungono alla componente predittiva la capacità di sviluppare e confrontare diversi scenari, identificando i possibili scenari causa-effetto tra i dati.
L’utilizzo degli hr analytics nei processi hr Utilizzati in più di 5 processi HR
Campione: 88 aziende
47%
Utilizzati in meno di 4 processi HR
24%
40%
3% 22%
Nessun utilizzo
7% 93%
75%
Fonte: Politecnico di Milano
38%
36%
17%
Tipologie di Analytics
Descrittivi
Descrittivi Real Time
piattaforma integrata di canali e di strumenti nei programmi di formazione - dai webinar ai social network, dalle applicazioni mobile per la formazione a iniziative di gamification - che permettono alle persone di essere formate in maniera più efficace utilizzando gli strumenti più consoni alla fruizione dei contenuti». Anche se i budget allocati al Digital Learning rappresentano il 12% della spesa formativa complessiva e considerando che | 58 |
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Predittivi
Prescrittivi
solo nel 17% delle organizzazioni è già stato adottato in modo pervasivo e trasversale alle diverse tipologie di formazione, cresce l’interesse delle organizzazioni. Infatti, sebbene quella tradizionale in aula sia ancora prevalente, il 75% delle aziende ritiene che il Digital Learning abbia per i prossimi tre anni una rilevanza maggiore rispetto alla formazione tradizionale in aula (rispetto al 38% degli ultimi 3).
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speciale “hr”
Euhrnet, una rete di aziende specializzate per offrire servizi HR personalizzati
I risultati della recente ricerca effettuata dall’Osservatorio HR Innovation Practice mostrano un limitato utilizzo degli HR Big Data & Analitycs per raccogliere, gestire e analizzare dati del personale in modo da fornire un supporto decisionale e strategico. Due organizzazioni su cinque hanno in previsione di rivedere i processi di amministrazione e budget del personale. Da due anni la rete di imprese Euhrnet si propone al mercato come modello di gestione alternativo per l’amministrazione del personale in outsourcing, rivolgendosi ad aziende di qualsiasi settore e dimensione. «Piccoli e soli si fa fatica, grandi si rischia di approcciare un mercato alla ricerca di soluzioni sempre più personalizzate con un unico modello di servizio», racconta Ermanno Bini Chiesa, il Presidente della Rete di Imprese Euhrnet. «Da qui è nata l’idea di una rete di imprese che coinvolge aziende specializzate, che può essere una valida proposta alternativa di fornitura». Il cliente negozia il perimetro contrattuale e le condizioni di servizio, mentre compito della rete è identificare il soggetto più adatto a rispondere alle esigenze manifestate. Il contratto è sottoscritto tra il cliente e l’azienda che fa parte della rete, che può contare sul supporto operativo delle altre sottoscrittrici qualora non sia in grado di erogare in modo autonomo il servizio richiesto. Il contratto di rete propone, infatti, proprio la condivisione e il supporto nel portare avanti i progetti strategici e favorisce un commitment imprenditoriale. In alcuni casi il contratto di tecnologia può essere addirittura sottoscritto direttamente con il produttore del software HR, come ulteriore garanzia di capitaliz-
La condivisione di un progetto e la collaborazione orizzontale tra organizzazioni che erogano il medesimo servizio aiuta a ridurre la filiera distributiva dei servizi, mettendo al centro il cliente e diminuendo i rischi progettuali in un processo payroll outsourcing
Ermanno Bini Chiesa Presidente della Rete di Imprese Euhrnet
zazione dell’investimento tecnologico e progettuale. Euhrnet è un modello di gestione che rispetta le specificità e le caratteristiche imprenditoriali delle singole aziende che compongono la rete, amplificando il loro potenziale sul mercato. Chi lavora in autonomia spesso si vede precludere alcune opportunità per ragioni dimensionali, di territorio, di servizio oppure semplicemente perché per avere determinate specializzazioni è necessario il raggiungimento di volumi che consentano la realizzazione di economie di scala. Erogare un servizio di outsourcing oggi su tecnologie HR web based, integrate e multifunzionali, richiede competenze non solo normative, ma anche informatiche. Il mercato non può che beneficiare di queste innovazioni tecnologiche, che tuttavia vanno presidiate da società di servizi specializzate. Non più solo quindi società di elaborazione paghe in outsourcing ma veri e propri HRservice e non più soli ma uniti condividendo un obiettivo comune, dando le massime garanzie al cliente finale. «Euhrnet non è una società, è un modello organizzativo che noi applichiamo nel settore dei servizi, ma in realtà può essere preso come spunto per aumentare la competitività di tutte le PMI operanti in qualsiasi settore», conclude Bini Chiesa.
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www.e u hrne t.i t
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Quando Smart Working vuol dire raggiungibilità e mobilità per i dipendenti
Agile, slegato da una postazione fissa, in grado di comunicare e accedere in modo protetto e semplice agli strumenti e alle informazioni aziendali. Sono queste le caratteristiche principali del lavoratore “smart”, che secondo i dati dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano si sta diffondendo in una grande azienda su due. «Si tratta di un cambio di paradigma per le aziende, da cui non si può più prescindere vista la crescente esigenza di lavorare in mobilità», racconta Paolo Canzii, il Responsabile vendite area Enterprise di Italtel. «L’esigenza è ancora più sentita dalle aziende con diverse sedi sparse sul territorio nazionale, e talvolta anche all’estero nel caso delle multinazionali, che cercano di centralizzare e uniformare gli strumenti utilizzati dai dipendenti». È un cambiamento win-win in cui i benefici per l’azienda coincidono con quelli per i lavoratori. «L’ingrediente chiave dello Smart Working secondo noi è la Collaboration, che migliora le comunicazioni interpersonali e di gruppo, garantisce la possibilità di accedere a dati e applicazioni aziendali sempre e ovunque». Come partner tecnologico Italtel propone la soluzione Collaboration at Work che integra e rende interoperabili le diverse tecnologie di collaboration, anche realizzate su standard non consolidati, che coesistono nelle aziende, il tutto in un’ottica best of breed, ovvero di utilizzo delle soluzioni migliori già presenti sul mercato. «Mobilità operativa, video-comunicazione e collaborazione extra aziendale sono i cardini della nostra proposizione - continua Canzii -. Puntiamo a garantire una buona user experience, riproducendo quella che si ha con gli strumenti social nella vita privata».
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il nuovo modello di lavoro sta conquistando le grandi aziende. con Collaboration at Work, Italtel favorisce le comunicazioni interpersonali e di gruppo sempre e ovunquE, puntando in particolare sulla video-comunicazione
paolo canzii Responsabile vendite area Enterprise Italtel
Collaboration at Work favorisce inoltre raggiungibilità e mobilità dell’utente finale. Ogni dipendente è univocamente identificato da un singolo numero di telefono e può scegliere se rispondere dal device fisso o da quello mobile, commutando la chiamata dall’uno all’altro. Sul device mobile sono disponibili tutti i servizi di collaboration generalmente accessibili solo quando si è fisicamente presenti al proprio posto di lavoro. «Tutto questo favorisce un cambio di mentalità da parte dell’azienda: si va infatti verso una valutazione delle performance dei dipendenti non più legata al tempo effettivo di presenza in ufficio, davanti al pc, ma al raggiungimento degli obiettivi che gli sono stati dati. Questo nuovo modo di lavorare flessibile consente quindi di conciliare più facilmente vita privata e lavorativa». Per quanto riguarda poi il servizio di video-comunicazione, permette la piena interoperabilità video tra le diverse tecnologie presenti in azienda e sui device mobili. «L’utilizzo di queste soluzioni porta dei vantaggi significativi per le aziende perché consente di ridurre drasticamente costi e tempi di trasferta, e anche di migliorare la gestione di gruppi di lavoro distribuiti geograficamente e di coinvolgere più attivamente i colleghi che lavorano da remoto», conclude Canzii.
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Copernico, lo spazio di lavoro innovativo è un successo. Ecco perché
Nuovi spazi, nuove esperienze, nuove relazioni, nuove dinamiche: siamo nel pieno di una radicale trasformazione della società e del lavoro, che a Milano è ormai molto evidente. Lo conferma il successo di Copernico Milano Centrale, il business center nato solo un anno fa dove transitano ogni giorno circa 3mila persone, fra coloro che ci lavorano (dallo startupper al manager della multinazionale) e gli ospiti esterni. Un grande spazio concepito per favorire la prossimità delle persone e alimentare il bisogno di scambio reciproco, in grado di accelerare la conoscenza (e il business). Come? Attraverso un denso programma di eventi e occasioni di incontro, ma anche semplicemente al bar, bevendo un caffè o mangiando buon cibo in un ambiente piacevole e informale. «Abbiamo scelto il momento perfetto per aprire un posto come Copernico Milano Centrale e ora il progetto va avanti: stiamo portando il concept in tutta Italia, a partire da Roma, Firenze, Torino e Trieste, e anche all’estero - dice Jacopo Muzina, responsabile Business Development & Partnerships -. È una logica esperienziale: viviamo nell’Economia dell’accesso, dove il possesso è sostituito dal servizio e dall’esperienza che viviamo. In Copernico si è innescato un meccanismo attraente, le persone vengono volentieri, c’è un clima positivo che contagia, stimoli che aiutano ad accelerare il business, un senso di appartenenza a qualcosa di molto innovativo». A partire da questa esperienza, di recente Copernico ha aperto nel cuore di Milano la nuova prestigiosa Clubhouse Brera, un po’ ufficio un po’ luogo conviviale di incontro per 500 membri selezionati, esclusiva ma al contempo aperta: non ci sono vincoli di abbigliamento o di età, ad esempio. «La Clubhouse - sintetizza Muzina - rappresenta un “soft
A un anno dall’apertura del grande business center di Milano Centrale, il progetto si espande con l’apertura di nuove sedi in Italia e della ClubHouse Brera. Luoghi che favoriscono una “contaminazione positiva” e la condivisione di conoscenza, a beneficio di tutti
jacopo muzina Responsabile Business Development & Partnership Copernico
lending” per gli stranieri che arrivano in Italia e desiderano sondare il terreno, per capire se ci sono opportunità. Usufruendo dei nostri spazi hanno una base d’appoggio e la possibilità di avvicinarsi a una community di alto profilo». Ma non è solo questo. La Clubhouse piace poi a chi ha sì un ufficio, ma periferico. Perché viviamo una controtendenza: «Chi negli anni passati aveva scelto di andare a vivere fuori città, alla ricerca di una migliore qualità della vita, sta tornando in centro, aziende comprese - dice Muzina -. E molte mandano qui il top management, a contaminarsi con l’ambiente cittadino». Una terza tipologia di utilizzo è come “prolungamento dell’ufficio”: un ristorante privato dove portare clienti, una sala meeting in più. Ultimo, ma forse il più evidente dei bisogni, è quello di privacy: la Clubhouse permette di incontrare persone lontano da occhi indiscreti. E c’è di più. Se è vero, come sostiene Rifikin, che oggi vale il meccanismo di Collaborative Commons, «l’obiettivo più poetico della Clubhouse è quello di radunare persone per bene e intelligenti che decidono di restituirsi reciprocamente, creando così una potentissima conoscenza, un serbatoio da mettere a disposizione della comunità intera». Nella convinzione che nell’era della Sharing Economy chi continua a fare le cose con l’obiettivo di attivare il mero ritorno personale a breve sarà tagliato fuori dalla società.
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reportage di
Paola capoferro Ronchetta
Work & Life Integration: benefici per tutti I confini aziendali diventano più fluidi e cresce la sovrapposizione tra vita privata e lavorativa. È necessario che le aziende, e in particolare le Direzioni HR, comprendano il reale valore dei modelli di lavoro innovativi supportati dalle tecnologie, per aumentare la produttività e la soddisfazione. Su questi temi si sono confrontati manager di primarie realtà del panorama economico italiano nel corso di una tavola rotonda organizzata da Digital4Executive
Flessibilità nell’impiego del proprio tempo e integrazione tra vita privata e lavorativa: sono queste oggi le esigenze più sentite delle persone, una sfida che le aziende italiane, e in particolare le divisioni HR, sono chiamate ad affrontare. È per questo che aumenta l’interesse verso nuovi modelli di lavoro abilitati dalle tecnologie, tra cui lo Smart Working. Si moltiplicano articoli di giornale, servizi televisivi, studi e ricerche sul tema, a dimostrazione di un livello di attenzione crescente che coinvolge non solo le aziende ma anche le istituzioni: è recente l’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri del Disegno di Legge sulle nuove misure per il lavoro autonomo, che contiene nella seconda parte le norme sul lavoro agile. Nel corso di una tavola rotonda organizzata da Digital4Executive in collaborazione con Wind Business, i manager di primarie realtà del panorama economico italiano si sono confrontati su questi temi, raccontando le loro esperienze di lavoro “smart”. | 64 |
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Ad aprire i lavori è intervenuto Emanuele Madini, Associate Partner della società di Advisory P4I – Partners4Innovation e fra i massimi esperti italiani sul tema, che ha delineato i nuovi modelli di organizzazione del lavoro flessibile. «I confini aziendali diventano sempre più fluidi e le organizzazioni stanno seguendo e inseguendo un’evoluzione che la tecnologia ha già avviato», ha raccontato. «Per fare proprio il paradigma della Work & Life Integration, in cui c’è sovrapposizione tra vita privata e lavorativa, è necessario che le aziende comprendano che i modelli di lavoro innovativi rappresentano un modo per aumentare la produttività: si tratta di un patto equilibrato tra azienda e collaboratori da cui scaturiscono benefici e positività per tutti. In questa partita, i due concetti chiave sono autonomia e responsabilizzazione: è fondamentale che le persone lavorino per obiettivi. A corollario
re po rtag e | Wo rk & L if e I n t e g rat io n : b e n e f ic i p e r t u tti
poi ci sono orario di lavoro flessibile, strumenti tecnologici e spazi di nuova concezione, driver in grado di accelerare un cambiamento che è soprattutto culturale». Proprio la forte rigidità dei modelli e dell’organizzazione del lavoro sono le principali cause per cui l’Italia accusa un forte ritardo rispetto al resto dell’Europa in termini di produttività personale.
Per Fabiano Pinto, Head of Business Market Development di Wind, sono però tangibili i segnali che qualcosa sta cambiando e che la macchina della trasformazione si è messa in moto. «La nuova generazione è abituata a lavorare in modo più smart e molte aziende hanno capito che, per essere competitivi, oggi è necessario valorizzare i nuovi talenti», ha sottolineato il manager dell’azienda guidata da Maximo Ibarra. Nell’integrazione tra vita privata e lavorativa, la tecnologia gioca un ruolo primario. «È necessario e strategico avere una vision complessiva e creare le migliori condizioni lavorative per contribuire al business rispettando, al contempo, le esigenze specifiche dell’individuo». Per garantire più flessibilità alle persone è però necessario distinguere fra due mondi: da un lato c’è quello aziendale, con rigide policy di sicurezza a tutela dei dati sensibili, e dall’altro quello personale, che sempre più coincide con la sfera dei Social Network. «E questo vale sia per i dispositivi (pc, smartphone, tablet) sia per la connettività: oggi è possibile tenere “separato” - attraverso la presenza di due APN sulla stessa SIM - l’uso lavorativo da quello privato. Ciò garantisce all’azienda di avere il pieno controllo dei costi e, contemporaneamente, alle persone di essere più libere nell’utilizzare le applicazioni preferite». In questo modo si evitano inoltre i problemi legati al superamento delle soglie di traffico, che possono causare la riduzione della velocità di navigazione o, addirittura, il blocco del telefono, anche nei momenti meno opportuni: è il caso, ad esempio, di un venditore in presenza del cliente mentre sta negoziando un contratto.
I due concetti chiave sono autonomia e responsabilizzazione: è fondamentale che le persone lavorino per obiettivi. È un patto tra azienda e collaboratori da cui scaturiscono benefici e positività www.digital4executive.it
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reportage | Work & L i fe I nt e gr at i on: b e ne f i ci p e r t ut t i Da sinistra: Fabiano Pinto, Head of Business Market Development di Wind, Luciano Settembrini, Organizzazione Processi e Sistemi Application Maintenance di BNL
Ci sono realtà che stanno già sperimentando forme di lavoro che favoriscono l’integrazione tra vita lavorativa e privata. È il caso di Pfizer, che da quattro anni consente a circa il 30% dei dipendenti di lavorare da casa un numero prefissato di giorni a settimana, secondo accordi ben precisi presi con i sindacati. A raccontarlo è Giorgio Longo, Manager del Dipartimento di Business Technology nonché delegato RSU per la FILCTEMCGIL di Pfizer Italia: «I nostri colleghi del Nord Europa fanno Smart Working da anni. Da noi quest’onda è arrivata un po’ in ritardo, ma l’IT in questo senso aiuta. Il vero punto di forza del nostro progetto è, infatti, la maturità della tecnologia che abbiamo adottato a livello globale, che ci permette di svolgere il nostro lavoro ovunque ci troviamo nel mondo. Pc portatili, smartphone e infrastruttura ci consentono di duplicare in qualunque momento e da qualsiasi posto la scrivania sul computer». Se la tecnologia non pone ostacoli, ma anzi rappresenta un fattore abilitante, in Italia il vero limite è quello culturale. Come sotto-
Da sinistra: Giorgio Longo, Manager del Dipartimento di Business Technology nonché delegato RSU per la FILCTEM-CGIL di Pfizer Italia, e Fabio Bolognesi, Responsabile della Divisione Analisi sistemi operativi e procedure del Servizio Organizzazione della Banca d’Italia
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linea Longo, «la cosa più complessa del progetto è stata far accettare al management l’idea che non avevano più il controllo visivo delle persone. Per questo il percorso è stato graduale: siamo partiti con un pilota su 10 persone, ne abbiamo misurato i risultati e abbiamo chiesto i feedback ai manager». Nel prossimo futuro il progetto prevede di ampliare il raggio d’azione dello Smart Working, andando verso modelli più avanzati, «e per superare lo scetticismo del gruppo dirigenziale proporremo alla Direzione Aziendale una serie di iniziative culturali, come workshop e webinar, volte alla sensibilizzazione e alla formazione dei people manager», conclude. Come abbiamo raccontato a pagina 30, anche BNL ha intrapreso un progetto di Smart Working. Luciano Settembrini, Organizzazione Processi e Sistemi Application Maintenance, ha raccontato la sua esperienza: «È iniziata a luglio del 2015 e ritengo il progetto molto interessante. In ufficio, grazie alla tecnologia e al nuovo concetto di Smart
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Spaces (desk sharing), la mia giornata lavorativa è stata sicuramente “diversa”, direi più dinamica per certi aspetti, con la possibilità di collaborare in modo immediato e facile con altri colleghi affiancandoli (grazie a Laptop e WiFi) senza dover per forza prenotare sale riunioni o dover cercare un punto LAN per collegarsi. Con le chat e videochat ho sperimentato un modo nuovo e più rapido per contatti con colleghi distanti, evitando le mail e ricevendo invece risposte in tempo reale. Ho trovato utili, in termini di isolamento e concentrazione, anche gli spazi più riservati previsti in alcune zone degli open space. Da casa, invece, con la modalità Flexible Working una volta a settimana ho utilizzato gli strumenti IT idonei (Laptop, smartphone, VPN, chat) e organizzato il mio lavoro per obiettivi riuscendo a bilanciare al meglio gli impegni lavorativi con esigenze personali e della famiglia, dedicando a questa un tempo qualitativamente migliore senza dovermi, ad esempio, spostare tra ufficio e casa, subendo i classici problemi del quotidiano in una grande città. Credo che il Flexible Work sia soprattutto un progetto di change management, che porterà ognuno di noi, manager in primis, ad un evoluzione culturale. Sono convinto che BNL stia realizzando un progetto molto valido per le persone e anche per indubbi impatti sociali e ambientali. Spero che sempre più colleghi possano essere coinvolti e aderiscano». In Banca D’Italia la leva è stata la ricerca di nuovi modi di lavorare per garantire una maggiore efficienza e flessibilità. «Abbiamo cominciato a prendere in considerazione modalità di accesso da remoto ad alcune applicazioni nel 2005 con l’introduzione dell’utilizzo dei certificati digitali nei processi aziendali», ha raccontato Fabio Bolognesi, Responsabile della Divisione Analisi sistemi operativi e procedure del Servizio Organizzazione della Banca. «Da allora abbiamo completamente dematerializzato, con il ricorso alla firma digitale, la corrispondenza ufficiale e introdotto, nello stesso ambito, la firma remota». Con le recenti ristrutturazioni organizzative l’Istituto ha varato, all’interno di un nuovo quadro regolamentare, il telelavoro, oggi utilizzato da oltre cento dipendenti. «Inoltre abbiamo riformato il sistema dell’orario, con l’obiettivo di coniugare le esigenze delle persone con gli obiettivi aziendali di maggiore flessibilità ed efficienza nelle prestazioni. Nel prossimo mese di luglio, poi, entrerà in vigore, con la riforma delle carriere, un nuovo sistema per gli inquadramenti che pone l’enfasi sui temi della responsabilizzazione e del lavoro per obiettivi, valorizzando il loro legame con il sistema premiante a scapito degli automatismi nelle
Lucio D’Accolti, Responsabile Servizi Territoriali e Infrastrutture – Direzione Sistemi Informativi di Trenitalia
progressioni di ruolo ed economica». Dal punto di vista degli strumenti tecnologici adottati, la Banca ha previsto diversi livelli di accesso da remoto ai sistemi informativi: dal semplice utilizzo di password e OTP per le applicazioni contenti informazioni di carattere generale di interesse del personale, ai pc portatili aziendali corredati con strumenti di cifratura degli hard disk e software per l’accesso sicuro, ai sistemi operativi. Ai dipendenti sono assegnati, in relazione alle mansioni svolte, dispositivi BlackBerry o iPad aziendali; è inoltre possibile accedere alla mail di ufficio con il paradigma Bring Your Own Device (BYOD). Infine, è in programma la sostituzione di circa il 50% delle postazioni fisse con pc portatili in modalità desktop replacement, affinché risultino incentivate forme di lavoro smart da qualsiasi punto della Banca e anche fuori di essa tramite extranet. «La massima attenzione ai profili di sicurezza nell’accesso alle informazioni, e la conseguente differenziazione degli strumenti, derivano dalla natura stessa dell’Istituto che in quanto banca centrale fa dell’informazione, in molti casi di natura riservata, l’input e allo stesso tempo l’output dei propri processi di lavoro». In definitiva, l’approccio della Banca al tema dello Smart Working, per il quale sono in corso gli opportuni approfondimenti, si inquadra in un percorso evolutivo che si è sviluppato negli anni attraverso l’innovazione nelle tecnologie ICT, la dematerializzazione e semplificazione dei processi di lavoro, la riforma dell’orario di lavoro nell’ottica della flessibilità delle prestazioni, il maggior rilievo conferito al conseguimento degli obiettivi e ai profili di responsabilità associati ai diversi ruoli. Ci sono casi in cui sperimentare nuove forme di lavoro diventa l’occasione per rivedere completamente la sua organizzazione. Ne è un www.digital4executive.it
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Pinto, Wind: «Oggi è possibile tenere “separato” l’uso lavorativo di smartphone e tablet da quello privato. Ciò garantisce all’azienda di avere il pieno controllo dei costi e alle persone di essere più libere nell’utilizzare le applicazioni preferite»
esempio Trenitalia, per cui fare Smart Working vuol dire cambiare modo di pensare. Secondo Lucio D’Accolti, Responsabile Servizi Territoriali e Infrastrutture – Direzione Sistemi Informativi, «rappresenta un cambiamento radicale rispetto alla “quotidianità” lavorativa. Noi oggi gestiamo in modo “smart” la quasi totalità della forza lavoro, con particolare attenzione al personale di bordo macchina». L’azienda - partecipata al 100% da Ferrovie dello Stato Italiane e a cui oggi fanno capo circa 35mila persone - ha puntato quindi sul lavoro in mobilità, anche in un’ottica green: «Sono 16.000 i tablet dati in dotazione al personale che guida il treno, i macchinisti, e al personale addetto al controllo biglietti a bordo. Con i tablet dei macchinisti, circa 9.000, siamo riusciti ad azzerare l’utilizzo della carta, arrivando a eliminare fino a 12 kg di carta che ognuno di essi portava quotidianamente con sè». Gli addetti alla manutenzione utilizzano dei palmari industrialiper attività essenzialmente legate alla gestione del magazzino. È in fase di im-
La nuova generazione è abituata a lavorare in modo più smart e molte aziende hanno capito che, per essere competitivi, oggi è necessario valorizzare i nuovi talenti
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plementazione un nuovo prodotto per la manutenzione predittiva che utilizzerà dei tablet “on field“. Il sistema permetterà di spostare la manutenzione dei rotabili con la logica on demand piuttosto che programmata, ovvero quando serve e non a tempi definiti, mentre i tablet saranno adottati per migliorare le prestazioni delle operazioni svolte, ad esempio nella riduzione del rischio di errore quando i dati sono raccolti nei pressi del luogo dove si sta facendo l’intervento. «Quasi tutta la nostra forza lavoro utilizza questi device aziendali, il cui impiego è strettamente legato all’ambito lavorativo e prevede identificazione con username e password», sottolinea D’Accolti. «Questo da un lato tutela noi dal punto di vista della sicurezza, ma dall’altro consente ai dipendenti di avere in sostituzione un nuovo tablet qualora quello in uso si rompa, con le medesime funzionalità del precedente grazie al Mobile Device Management (MDM), che ha anche il pregio di tenere costantemente aggiornati tutti i device mobili». Nei prossimi due anni l’azienda ha in programma di introdurre altri 5mila tablet.
rubrica | ricerche e studi a cura di
paola capoferro ronchetta
con il 29% del mercato, internet è il secondo mezzo pubblicitario italiano L’advertising online raggiungerà quest’anno 2,4 miliardi di euro. Video e Social sono i principali driver di crescita e il Mobile raccoglie un quarto degli investimenti. I dati degli Osservatori del Politecnico di Milano sul mercato italiano dei new Media Il mercato italiano dei Media (che include contenuti a pagamento e pubblicità) dopo molti anni di contrazione ha chiuso il 2015 a quota 15,3 miliardi di euro, in linea con il valore 2014. La Tv è in pareggio, la Stampa registra un calo del 5% e gli Internet Media crescono dell’11% arrivando a valere quasi 2,2 miliardi di euro. In particolare, il 95% di questo mercato fa riferimento alla pubblicità; la restante parte all’acquisto di news online e di servizi in abbonamento legati a video e musica in streaming. Nel 2016 ci si attende che gli Internet Media mantengano lo stesso andamento, con un trend di crescita analogo all’anno precedente. Sono questi alcuni dei risultati presentati dall’Osservatorio Internet Media del Politecnico di Milano, in occasione del convegno “Internet Media: il dato è tratto”. «Il mercato pubblicitario complessivamente nel 2015 ha raggiunto il valore
di 7,4 miliardi di euro, registrando una leggera crescita (+3%) rispetto al 2014. Entrando nel dettaglio, emerge che l’Internet advertising ha toccato i 2,15 miliardi di euro (+11%), rafforzando così la sua posizione di secondo mezzo pubblicitario italiano con una quota del 29% (rispetto al 27% del 2014), alle spalle della Televisione, che continua a valere il 49% (50% nel 2014), pur rimanendo sempre davanti alla Stampa che scende al 17% (18% nel 2014) e alla Radio (stabile al 5%). Nel 2016 secondo le nostre stime l’Internet advertising crescerà ancora di circa l’11% avvicinandosi ai 2,4 miliardi di euro», afferma Marta Valsecchi, il Direttore dell’Osservatorio. Google e Facebook occupano da soli i due terzi del mercato dell’Internet advertising in Italia e continuano a registrare forti crescite, grazie soprattutto ai numeri di audience raggiunti, alla semplicità nella pianificazione e all’ampia disponibilità di dati profilati.
pubblicità online: la crescita è trainata dai Video Il Display Advertising, principalmente banner e video, resta la componente dominante (59% nel 2016), raggiungendo il valore di 1,4 miliardi di euro nel 2016 (+13% rispetto al 2015). Per l’acquisto di visibilità nei motori di ricerca nel 2015 sono stati spesi 702 milioni di euro, con una crescita del 5%, e nel 2016 si prevede che saranno superati i 720 milioni di euro. In particolare per quanto riguarda la componente di Video Advertising la ricerca ha stimato che arriverà quasi a 490 milioni di euro nel 2016 (+34%), dato questo che nasce dalla somma di due componenti: la pubblicità legata a You Tube e ai Social Network e quella presente sui siti degli editori/Media Company italiani e sui portali verticali. Quest’ultima componente vale un terzo del totale e nel 2015 è complessivamente stabile, in valore assoluto.
Andamento dell’internet advertising in italia 2.500
mln euro
1,95 mld 2.000
1,75 mld 1%
<1%
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<1% 9%
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1.500
34%
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Classified Search Altro Display
+14%
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Native Email
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Fonte: Osservatorio Internet Media Politecnico di Milano e IAS Italia
2,15 mld +11%
RUBRICA | ric e rc h e e st u di
Quest’anno, per la prima volta, l’Osservatorio ha stimato anche il valore di mercato del Native Advertising (il metodo pubblicitario che ibrida gli annunci pubblicitari all’interno del contesto editoriale dove sono posizionati), sia in senso stretto, ossia considerando solo i formati cosiddetti Recommendation Widget e In-feed Unit, sia nell’accezione più ampia, includendo anche le componenti Search e Classified (piccoli messaggi raggruppati in una voce specifica), i post sponsorizzati all’interno dei social network e i lavori realizzati a quattro mani con l’editore (come i pubbliredazionali e gli advertorial indicati come contenuto sponsorizzato). Per quando riguarda i device, si con-
ferma il ruolo centrale dello smartphone: un quarto del mercato Internet Advertising è, infatti, su Mobile. Nel 2015 l’Internet Advertising su smartphone è cresciuto del 54% toccando 452 milioni di euro, mentre quello legato alle App per tablet del 35% a quota 84 milioni. I trend sono positivi anche per il 2016. Altro elemento rilevante è quello del Programmatic Advertising, che varrà il 22% della Display Advertising: nel 2016 crescerà poco più del 30%, superando i 300 milioni di euro. La crescita è inferiore alle stime di fine 2015, anche perché gli investitori stanno cercando di valutare i benefici di queste piattaforme, vista l’entità non irrisoria delle fee tecnologiche e dei costi di gestione.
I dati sul comportamento degli utenti Internet italiani confermano i trend in atto. «I Video si stanno affermando come formato privilegiato di consumo dei contenuti Media», afferma Guido Argieri, Telco & Media Director di Doxa. «L’80% degli utenti Internet guarda video brevi online, soprattutto attraverso YouTube (74% degli utenti) e Facebook (50%), ma anche da siti e App dei quotidiani (14%). La presenza dei video aumenta il tempo speso online. Infine abbiamo stimato che 3,2 milioni di italiani utilizzano un servizio in abbonamento per contenuti Video online (TIMvision, Infinity, Sky Online e Netflix); tale valore include anche chi sta provando gratuitamente questi servizi».
Le esigenze dei nuovi consumatori digitali, una sfida per il retail Lo smartphone è sempre di più il baricentro sia nella raccolta delle informazioni che nelle azioni di acquisto. La comunicazione mirata su device mobili in modo coordinato con le attività nei negozi fisici rappresenta il mezzo più efficace per ottenere un aumento delle vendite. La ricerca Total Retail di Pwc I canali digitali hanno modificato il modo in cui le persone ricercano e acquistano prodotti e servizi. Total Retail, la ricerca di Pwc che coinvolge oltre 19 mila consumatori in 19 Paesi, ha confermato che i comportamenti digitali sono ormai un fenomeno di massa, riguardando oltre il 60% della popolazione a inizio 2015, e che lo smartphone ne ha facilitato in modo decisivo la crescita. Se da una parte la ricerca riconosce al punto vendita fisico la centralità del processo di acquisto (il 36% degli intervistati compra in negozio almeno una volta alla settimana) si intuisce la possibilità di un nuovo ruolo attribuito al negozio stesso, da collocare in una più ampia strategia di coinvolgimento del consumatore. Infatti, il 70% degli intervistati dichiara di effettuare una ricerca online prima di acquistare nel punto vendita.
Lo smartphone è diventato l’agente con la maggior influenza: il 75% degli intervistati lo ha utilizzato in fase di preacquisto e il cliente continua la sua ricerca anche negli attimi immediatamente precedenti all’acquisto stesso in negozio: già il 9% lo considera il principale canale per finalizzare e i maggiori utilizzatori dei canali digitali sono i consumatori tra i 25 e i 44 anni, che rispetto ai nativi digitali hanno maggiore potere di acquisto. Per questo è fondamentale che retailer e brand assumano un approccio adeguato verso questo target e siano in grado di proporre un percorso stimolante per i più giovani che presto rivestiranno un ruolo più cruciale. Gli operatori del settore hanno ampi margini di intervento: in Italia il 64% della fascia 18-44 anni è ben disposta a ricevere buoni sconto o offerte sul cellulare e il 25% accetta che i negozi
accertino la loro posizione tramite lo smartphone. La digitalizzazione ha portato a una progressiva consapevolezza della necessità di sviluppare nuove strategie di mobile marketing. In altre parole, per rispondere ai bisogni dei consumatori è necessario customizzarli e riconoscere automaticamente alcune informazioni su di loro, come la loro posizione. In questo scenario, un numero enorme di “tecnologie contactless” sta emergendo come il modo più promettente per sostenere il processo di vendita al dettaglio. Il retail può quindi misurarsi con un nuovo concetto di spazio grazie alle tecnologie mobili molto più integrate alla vita quotidiana. Mentre il tradizionale punto di vendita è limitato (per dimensioni, magazzino, orari) i nuovi negozi sono “distribuiti” e permettono un accesso in qualsiasi momento.
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RUBRICA | ri cerch e e s t u d i
eCommerce in Italia a quota 20 miliardi di euro: il 5% della spesa dei consumatori è online Quasi 13 milioni di persone acquistano online almeno una volta al mese. La cifra spesa dagli italiani su internet nel 2016 aumenterà del 17%, la componente da smartphone del 51% sfiorando 3 miliardi di euro. I dati dell’Osservatorio PoliMi - Netcomm
Quasi 19 milioni di consumatori italiani hanno comprato online negli ultimi 3 mesi e 13 milioni lo fanno regolarmente almeno una volta al mese: il valore dei loro acquisti online raggiungerà 19,3 miliardi di euro nel 2016, con un aumento del 17% rispetto al 2015. Questi i dati più eclatanti emersi dall’undicesima edizione dell’eCommerce Forum 2016, evento che ha fornito una fotografia ampia, precisa e aggiornata sullo stato del commercio elettronico in Italia. «In 5 anni il numero di acquirenti online è raddoppiato da 9 a 18 milioni, e l’incidenza del Mobile è sempre più forte: nel primo trimestre 2016 la percentuale degli acquisti da dispositivo mobile è stata del 21%, di cui circa la metà su un sito web e l’altra metà via App», ha detto Roberto Liscia, Presidente di Netcomm. Si evidenzia nettamente anche una tendenza per cui il livello di soddisfazione indirizza gli acquisti successivi: il tasso di riacquisto sale infatti al 62,5% e ciò significa che meno di 4 acquisti online su 10 avvengono presso un merchant mai utilizzato prima. Inoltre nel 16% dei casi la decisione d’acquisto matura in un percorso tutto in rete (definito dagli addetti ai lavori “digital journey”) lungo una serie di touch point (motori di ricerca, social, siti di comparazione, siti di rating): questi casi sono più numerosi degli acquisti guidati dalla pubblicità e dal passaparola. «La soddisfazione rispetto all’esperienza di acquisto online si mantiene molto alta, con uno scoring di 8,7 (in una scala da 1 a 10) e inoltre l’eCommer-
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ce sembra contribuire alla diffusione dei sistemi digitali di pagamento, visto che sta calando il pagamento alla consegna, che incide per il 9,7% contro il 13% del 2014». Passando dalla domanda all’offerta, le imprese che vendono online non sono certo raddoppiate come gli eShopper, ha sottolineato Liscia. «In Italia ci sono appena 40mila imprese che fanno eCommerce, la quinta parte delle 200mila attive in Francia. Ma l’eCommerce è ormai una parte imprescindibile del processo di trasformazione digitale, e può essere vitale per la sopravvivenza di imprese di tutte le dimensioni, soprattutto laddove la forza del brand Made in Italy è più rilevante: nei settori moda, arredamento e alimentare». Il 24% dell’eCommerce italiano nasce su Smartphone e Tablet Alessandro Perego, Direttore degli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano, ha completato lo scenario descritto da Liscia con le stime dell’Osservatorio eCommerce B2c di Netcomm e Politecnico per l’intero anno 2016. «Il valore degli acquisti online degli italiani quest’anno raggiungerà i 19,3 miliardi di euro, con una crescita del 17% rispetto al 2015, e un’incidenza sul totale del mercato retail italiano che ha raggiunto il 5%, e che se la crescita continua a questi ritmi arriverà al 10% entro tre anni». Nel paniere degli acquisti, i servizi (55%) restano preponderanti sui prodotti (45%), ma questi ultimi crescono di più (27% contro 10%), e quindi
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la ripartizione si avvicina a quella media europea. Lo scontrino medio è di 75 euro per l’acquisto di prodotti, e di 253 euro per l’acquisto di servizi. Altri elementi evidenziati da Perego sono poi il Mobile, la concentrazione del mercato, l’atteggiamento delle imprese “tradizionali”, il ruolo dei marketplace e l’export. Nel primo caso continua il boom degli acquisti online tramite Smartphone, che aumentano addirittura del 51% per un valore di 2,8 miliardi di euro, cioè il 15% di tutto l’eCommerce italiano, che diventa il 24% se aggiungiamo gli acquisti via Tablet. Nel secondo, il 70% del fatturato eCommerce è fatto da 20 aziende, che crescono a un tasso medio addirittura del 21%. Nel terzo caso sempre più imprese tradizionali, sia commerciali che produttrici, stanno avviando una strategia multicanale, attivando un sito di eCommerce o aprendo un “negozio virtuale” su un marketplace, «una soluzione molto valida per piccoli operatori che non hanno i mezzi per sviluppare un sito, per grandi operatori in ottica multicanale, e per qualsiasi realtà interessata a vendere online all’estero, specialmente in mercati – come la Cina – dove le altre opzioni sono molto più complicate». L’eCommerce infatti può essere uno strumento cruciale per esportare il Made in Italy, soprattutto per imprese che non hanno le risorse per crearsi una rete di distribuzione fisica all’estero, ha sottolineato Perego.
RU B |RICA | n o mine rubrica nomin e
Gabriele Del Torchio Amministratore Delegato, Gruppo 24 Ore Gabriele Del Torchio è il nuovo Amministratore Delegato del Gruppo 24 Ore. Nato in provincia di Varese, ha iniziato in Comit, dove è entrato dopo la laurea in scienze politiche e bancarie. Nel 1975 è approdato in Sperry New Holland, dove è rimasto per quindici anni fino a ricoprire la carica di Presidente e Amministratore
Delegato. Prima di arrivare al vertice del Gruppo Ferretti, i cantieri di superyacht, ha lavorato per Komatsu, Cifa, Aps e gruppo Carraro. Dal 2007 è stato alla guida di Ducati, prima come Amministratore Delegato e in seguito come Presidente. Tra il 2013 e il 2015 ha ricoperto il ruolo di Amministratore Delegato di Alitalia.
Marco Sesana Amministratore Delegato e Direttore Generale, Generali Italia Marco Sesana, Chief Insurance & Operating Officer di Generali Italia, è stato nominato Amministratore Delegato e Direttore Generale. Nella sua nuova carica il manager prende il posto di Philippe Donnet che mantiene il ruolo di Country Manager. Questa nomina conferma la volontà del Gruppo di valorizzare le risorse interne e di rafforzare il management team con l’obiettivo di consentire al Gruppo di gestire al meglio le priorità strategiche e operati-
ve e rendere più efficiente il presidio delle aree di business. Sesana è arrivato da McKinsey in Generali Italia nel 2013, anno in cui è partito il progetto di riorganizzazione aziendale, e ha seguito tutto il complesso processo di roll-out dei sistemi informatici della newco. Tra i suoi principali meriti il fatto di essere riuscito a completare con successo la riunione, sotto un unico sistema informativo, dei cinque brand presenti.
Gianluca Attura Amministratore Delegato, Selta Selta, azienda italiana leader nel campo delle tecnologie per le reti elettriche e di telecomunicazioni, ha un nuovo Amministratore Delegato, Gianluca Attura. Quarantanove anni, laurea in Ingegneria negli USA, Attura nella sua carriera ha occupato posizioni di crescente responsabilità in Italia e all’estero in aziende di punta nel settore ICT, tra cui Accenture, Siemens, Avaya Italia ed Eustema. Nel suo
curriculum figurano anche esperienze diverse in campo associativo: già membro del Consiglio della Fondazione Bordoni (FUB), è fondatore e senior Vice President di China EU, organismo deputato allo sviluppo delle relazioni industriali per il digitale tra l’Europa e la Cina e membro del consiglio direttivo di Anitec, l’associazione di primo livello di Confindustria per le industrie ICT.
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RUBRI C A | no mi ne
Alessandro Decio Amministratore Delegato, Sace
Sace, la società di Cassa Depositi e Prestiti (Cdp) che finanzia le aziende italiane esportatrici, ha scelto Alessandro Decio come nuovo Amministratore Delegato e Direttore Generale. Con questa nomina si avvia un nuovo ciclo di sviluppo per la società: secondo quanto indicato dal Piano Industriale 2016-2020 del Gruppo Cdp sarà costituito un polo unico per l’internazionalizzazione a servizio del sistema imprenditoriale italiano attraverso l’integrazione e il rafforzamento delle attività assicurativo-finanziarie per sostenere l’export e
la crescita internazionale delle imprese italiane. Decio proviene dal settore bancario. Prima di arrivare in Sace è stato, infatti, CEO in Ing, dopo quindici anni di esperienza nel gruppo UniCredit, in cui è entrato nel 2000 per supportare il suo sviluppo internazionale. In particolare ha guidato le banche del Gruppo UniCredit in Croazia, Bulgaria e Turchia, prima di assumere la responsabilità di Global Head of Retail nel 2010 e di CRO di Gruppo nel 2012. È stato anche componente del cda di alcune controllate chiave di UniCredit, nonché di Mediobanca.
Massimiliano Pogliani Amministratore Delegato, Illy Caffè
Massimiliano Pogliani è il nuovo Amministratore Delegato di Illy Caffè, la società leader nel segmento del caffè di alta qualità. Pogliani è arrivato in azienda dopo un’esperienza ventennale maturata nelle aree marketing, commerciale e retail, in aziende con marchi premium & luxury. Milanese, si è laureato con lode in Economia e Commercio all’Università Cattolica di Milano e ha conseguito una formazione post laurea alla London Business School e
all’IMD Business School di Losanna. Dopo le prime esperienze lavorative, è entrato in Saeco International Group come Responsabile del marketing globale. Nel 2003 è iniziata la sua esperienza presso il quartier generale svizzero di Nestlé Nespresso, dove, in qualità di Head of international retail & customer management, si è occupato a livello mondiale dello sviluppo delle Boutique Nespresso nel mondo, del customer service e del trade marketing.
Dal 2008 al 2012 è stato prima Chief Commercial & Marketing Officer e poi CEO di Nestlé Super Premium, una divisione creata con l’obiettivo di accelerare l’espansione di alcuni dei marchi Nestlé nel segmento del consumo super premium. Nel 2012 si è trasferito in Inghilterra per entrare in Vertu, azienda leader nella telefonia mobile di lusso, ricoprendo dapprima il ruolo di Chief Marketing Officer e poi di CEO.
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