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23 | 2015

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. Alessandro Perego Digital Supply Chain, agilitĂ prima di tutto . Greg Brandeau Il potenziale innovativo del “genio collettivoâ€? . Benetton, una regia globale dalla cassa alla sede centrale . Internet Advertising, alla ricerca del giusto target .


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editoriale

Gli USA, la Volkswagen e le imprese hi-tech E se l’attacco fosse una vendetta? La prima cosa che ho pensato allo scoppio dello scandalo Volkswagen? È la vendetta degli Stati Uniti per la quasi-crociata che l’UE, sotto la spinta soprattutto tedesca e la guida del commissario tedesco per gli affari digitali, Gunther Oettinger, sta portando avanti contro le loro imprese tech: contro Google in primo luogo, che corre il rischio di finire a pezzi (destino che a suo tempo Microsoft evitò con fatica), ma anche contro Apple, Amazon, Facebook e Uber. Con un accanimento che sembra andare al di là di ragioni più che giuste, quali la lotta ai possibili abusi da posizione dominante e all’elusione fiscale. Con un accanimento che probabilmente riflette la frustrazione di non disporre (a differenza della Cina) di campioni in grado di controcombattere a livello interno e globale e di avere anzi alcune delle roccaforti della propria economia a rischio disruption.

di

umberto bertelè presidente advisory board digital4executive autore di “strategia”

@umbertobertele

Un’interpretazione degli eventi del tutto fantasiosa, la mia, ma non completamente priva di senso. Perché l’EPA-Environmental Protection Agency, che ha lanciato e dato grande pubblicità all’accusa, è una agenzia del governo statunitense. Perché l’accusa è stata lanciata proprio nel momento in cui il passaggio dall’Euro5 all’Euro6, obbligatorio nell’UE dall’1 settembre 2015, avrebbe tolto dal mercato i veicoli incriminati (ma ora sono iniziati i sospetti anche sull’Euro6). Perché, se gli Stati Uniti avessero cercato la forma più dolorosa di ritorsione contro la Germania, avrebbero sicuramente scelto come bersagli l’auto e Volkswagen: l’auto, insieme con le attività connesse, vale infatti poco meno dell’8 per cento (la percentuale più alta al mondo) del PIL del Paese e ancor più in termini di occupati; Volkswagen è di gran lunga il gruppo più importante, per giunta con una parte di azioni in mani pubbliche e un ruolo molto rilevante (sia formale sia sostanziale) del sindacato. Le imprese statunitensi tech sotto attacco pesano molto meno, come percentuale del PIL e ancor più degli occupati del Paese, ma ne rappresentano la componente dell’economia più avanzata e - insieme con le grandi banche - più pregiata. Apple è leader mondiale assoluta per capitalizzazione con un valore a inizio ottobre di 630 miliardi di $, dopo aver toccato i 750, e con un utile netto (largamente favorito dall’elusione fiscale) di 50 miliardi. È seguita da Google (ora Alphabet) a 440 e da Microsoft a 365, mentre le prime due non tech - Berkshire Hathaway (la società del mitico Warren Buffett) e Exxon Mobil (l’antica regina ora penalizzata dal prezzo del petrolio) - capitalizzano rispettivamente solo 320 e 315 miliardi. Facebook ne vale circa 260, Amazon 250 e Uber, non ancora quotata, ha una capitalizzazione implicita sulla base dell’ultimo conferimento - superiore a 50: valori tutti molto elevati se si pensa che le due società top del nostro listino, Intesa Sanpaolo ed Eni, capitalizzano 60 miliardi ciascuna. L’attacco europeo potrebbe quindi costare molto alle grandi del mondo tech statunitensi, così come costerà molto a Volkswagen - e presumibilmente all’industria tedesca oltre che all’immagine del Paese - il recente scandalo: in termini di spese, per il richiamo di 11 milioni di auto, di possibili class action da parte dei clienti e di caduta nelle vendite, con la perdita della leadership mondiale che la società aveva finalmente conquistato nel primo semestre 2015 superando Toyota. La Borsa ha già colpito il titolo, facendolo scendere del 45 per cento nell’ultimo mese e portando così la capitalizzazione a 52 miliardi di dollari, appena 1 più di Uber (titolo che peraltro comparativamente valeva poco già prima dello scandalo), per la qualità uniquely awful (qualificazione di FT) della governance. A rischio ci sono ora i posti di lavoro - gli occupati diretti sono ben 575mila (contro i 92mila di Apple e i 57mila di Google) - e il tantissimo indotto (in parte anche nel nostro Paese). C’è un’altra riflessione che vorrei fare, sull’importanza che il software - spesso silenziosamente - ha raggiunto nella nostra vita. L’istruzione-canaglia (rogue il termine anglosassone) era nascosta dal 2007 fra le tante che controllano il funzionamento del motore ed è stata scoperta solamente con le prove su strada: o forse, come sostengono alcuni sempre fantasticando, con la spiata per vendetta di qualcuna fra le persone (sicuramente non poche) che condividevano il segreto.

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Digital Supply Chain: agilità prima di tutto

Alessandro Perego, Direttore Scientifico Osservatori Digital Innovation e Ordinario di Logistica e Supply Chain Management School of Management, Politecnico di Milano

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MANAGEMENTK

Favorire l’innovazione attraverso la genialità condivisa

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Il digitale al servizio del cambiamento: anche la terapia diventa “disruptive”

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Normative - Apparecchiature di controllo dei lavoratori: le novità del Jobs Act

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Greg Brandeau, scrittore, Presidente e coo, Maker Media

Francesca Fedeli, co-fondatrice del movimento fightthestroke.org

Gabriele Faggioli, giurista, Partners4Innovation, Presidente Clusit

intervisteK

La pubblicità online alla ricerca del giusto target

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Verso la Real Time Enetrprise. Ma con semplicità

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La digital transformation che aiuta le PMI a restare competitive

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«Accompagnamo un cambiamento culturale molto profondo»

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Nuovi spazi per il lavoro che cambia: il progetto Copernico 100

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I rischi di una soluzione di eProcurement non certificata

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Fabrizio Angelini, CEO e Founder SenseMakers Luisa Arienti, CEO, SAP Italia

Rosalba Agnello, Country Sales Manager Aziende private del settore Industria & Terziario, Hewlett Packard

Gianni Camisa, Amministratore Delegato, Dedagroup ICT Network Pietro Martani, ideatore di Copernico, CEO di Windows on Europe Marco Argilli, Client Solutions & Security Director, BravoSolution

digital transformationK

Advisory Board Umberto Bertelè Presidente Advisory Board Giampio Bracchi Politecnico di Milano Carlo Alberto Carnevale Maffè Università Bocconi Maurizio Dècina Politecnico di Milano Giuliano Noci Politecnico di Milano Paolo Pasini SDA Bocconi Francesco Sacco Università dell’Insubria - SDA Bocconi Raffaello Balocco Segretario Advisory Board

Operations - BCG: l’Industry 4.0 regala nuove opportunità al Sistema Italia Supply Chain - Benetton, una regia digitale per la Supply Chain Worldwide Finance - Rainbow: cartoni animati, un business dove tutto è cambiato con il digitale. Anche fare il CFO Finance - SIA: analisi dei dati nel settore finanziario, un potenziale inesplorato HR - In Italia è caccia alle nuove competenze dell’era digitale

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speciale “retail ed ecommerce”K

Innovazione digitale del Retail: in Italia tante soluzioni, ma strategie poco chiare

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reportageK

Cosa significa oggi Smart Working per le aziende italiane

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OsservatoriK

Il Cloud in Italia vale 1,5 miliardi. Polimi: «Vincente il modello ibrido»

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rubrica | ricerche e studi

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rubrica | nomine

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Stefano Mainetti, Responsabile Scientifico Osservatorio Cloud & ICT as a Service, Politecnico di Milano


cover story

di

alessandro perego

Direttore Scientifico Osservatori Digital Innovation Ordinario di Logistica e Supply Chain Management School of Management, Politecnico di Milano

Digital Supply Chain: agilità prima di tutto In un contesto a medio-alta incertezza quale quello in cui operano oggi le imprese industriali, l’approccio strategico più corretto al Supply Chain Management è quello “Agile”, orientato cioè alla adattabilità, alla velocità di risposta, alla gestione del rischio. Ma ciò è possibile solo con l’adozione delle tecnologie digitali, come Internet of Things, Cloud Computing e Big Data

Secondo una prospettiva parziale, il Supply Chain Management sarebbe da intendere come un sinonimo di gestione estesa a tutta la Supply Chain, dall’approvvigionamento delle materie prime fino alla distribuzione al consumatore finale. Io preferisco invece considerare il Supply Chain Management come la corretta prospettiva con cui impostare la strategia aziendale: la creazione di vantaggio competitivo sostenibile (o di vantaggi multipli e transitori come il nuovo pensiero strategico sembra suggerire) deve adeguatamente considerare gli altri attori della propria Supply Chain. Questi ultimi – siano essi parte della catena di approvvigionamento o della catena di distribuzione o anche fornitori di servizi essenziali – sono infatti fonte di valore (opportunità) o di rischio (minacce). Per molte aziende la possibilità di incidere sui risultati aziendali agendo sui “partner” di filiera è addirittura maggiore degli spazi di azione interni. Questo è a maggior ragione vero per quelle aziende che hanno un elevato gra| 6 |

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do di terziarizzazione della propria Supply Chain, e quindi un più alto grado di dipendenza dai partner di filiera. Conoscere la propria Supply Chain L’introduzione della prospettiva di Supply Chain nel processo strategico richiede in primo luogo di conoscere la struttura e le caratteristiche della/e Supply Chain in cui l’azienda opera. Esercizio, questo, per nulla scontato, se consideriamo che molti manager aziendali – a domanda esplicita – non sanno disegnare la propria Supply Chain non appena si scende al secondo livello di fornitura o al secondo livello di distribuzione. Una caratteristica fondamentale della Supply Chain è il grado di incertezza a monte (supplyside uncertainty) e a valle (demand-side uncertainty) (si veda il box a pagina 11). L’incertezza a monte dipende da diversi fattori quali la maturità delle tecnologie produttive, la stabilità e localizzazione della


cove r st o ry | Dig ita l Sup p ly C h a in : ag il ità p rima d i t utt o

base fornitori, la presenza di fornitori alternativi per i componenti più critici, la volatilità nel prezzo delle materie prime. L’incertezza a valle dipende invece dalla difficoltà nel prevedere la domanda dei prodotti finiti, la dipendenza da pochi clienti importanti, la lunghezza del ciclo di vita dei prodotti, la localizzazione e stabilità dei mercati di destinazione, e altri fattori ancora. La matrice di incertezza della Supply Chain (Figura 1) è al riguardo un utile strumento per “conoscere” la propria Supply Chain e studiarne l’evoluzione nel tempo. sistemi a incertezza crescente La generale evoluzione di molti dei fattori sopra elencati è alla base di un progressivo aumento di incertezza che caratterizza la maggior parte delle Supply Chain. Da un lato l’evoluzione tecnologica dei materiali, la globalizzazione dei mercati di approvvigionamento, l’aumento di complessità in molti prodotti apparentemente semplici e la volatilità nel prezzo di molte materie prime aumentano inesorabilmente l’incertezza supply-side. Dall’altro lato, l’aumento della gamma di prodotti, la riduzione del

ciclo di vita dei prodotti, la rilevanza crescente del peso delle campagne promozionali, la globalizzazione dei mercati sono tutti elementi che aumentano l’incertezza demand-side. Anche aziende che 10 anni fa potevano descrivere la propria Supply Chain come un sistema a relativamente bassa incertezza – tipicamente molte aziende nell’Alimentare o negli Elettrodomestici per fare un paio di esempi – oggi e soprattutto domani sono e saranno più orientate a descriversi come appartenenti a Supply Chain a medio-alta incertezza. In sintesi, le Supply Chain stanno diventando sistemi a incertezza crescente. Gli approcci strategici alla gestione della Supply Chain Se in un contesto relativamente stabile l’approccio strategico alla gestione della Supply Chain è quello di tipo “Lean”, volto cioè all’ottimizzazione spinta dei processi, in un contesto a medio-alta incertezza l’approccio più corretto è quello che sinteticamente prende il nome di “Agile”, orientato cioè alla adattabilità, alla velocità di risposta, alla gestione del rischio

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cover story | D i gi tal S u pply Chai n: agi l i tà pr i ma d i t ut t o

(figura 1). Nell’approccio di tipo Lean le politiche di gestione della Supply Chain sono costruite a partire dall’assunto di fondo che le condizioni al contorno (la Supply Chain esterna) sono note e relativamente stabili. È quindi ragionevole procedere a ottimizzare progressivamente i processi – a snellirli (lean) delle attività a basso valore aggiunto – in modo da aumentare il valore atteso dei principali indicatori di redditività aziendale (ad esempio il ROA o Return on Assets, profitto su capitale investito). I classici modelli basati sulle tecniche di ricerca operativa – applicati al disegno della rete logistica, alla pianificazione della domanda e delle scorte, alla definizione della giusta combinazione di livello di servizio e prezzi – appartengono a questa categoria. Nell’approccio di tipo Agile cambia invece l’assunzione di fondo: la Supply Chain esterna è sorgente di grandi opportunità ma anche di grandi rischi, ed occorre quindi conoscerla (averne visibilità), monitorarla (tracciare i flussi e gestire i rischi), gestirla (collaborare con gli altri attori). Più che puntare a ottimizzare il valore atteso della profittabilità bisogna diventare capaci di gestirne le possibili sorgenti di variazione (in positivo per sfruttarle, in negativo per mitigarle). Velocità, visibilità, collaborazione, flessibilità, gestione del rischio divengono le nuove parole chiave. Riduzione dei lead time, postponement (ossia posticipare le attività di personalizzazione al più tardi e il più a valle possibile nella Supply Chain), previsione

della domanda collaborativa, utilizzo di molteplici alternative di approvvigionamento, outsourcing della logistica: sono queste alcune delle politiche coerenti con un approccio Agile. Occorre chiarire che non esiste un approccio strategico alla gestione della Supply Chain che sia il migliore in assoluto. In altre parole, le strategie di Supply Chain Management devono essere coerenti con il grado di incertezza della Supply Chain. Tuttavia, nel contesto in cui si trovano molte aziende oggi – ossia nella transizione da una situazione di medio-bassa incertezza verso una incertezza progressivamente crescente – le politiche di tipo Lean devono spesso essere integrate con politiche di tipo Agile. La Digital Supply Chain Facciamo ora un passo in più, connettendo politiche e strumenti. Le principali politiche dell’approccio strategico di tipo Agile – quelle descritte dalle parole chiave viste sopra: velocità, flessibilità, reattività, riduzione del rischio – sono abilitate dalla digitalizzazione dei processi di Supply Chain (Digital Supply Chain). In altre parole, se togliessimo dal banco degli strumenti la maggior parte delle più o meno recenti innovazioni nell’area del digitale – Internet of Things, Cloud Computing, Big Data –, la gestione “Agile” della Sup-

FIGURA 1 - strategie per la supply chain Incertezza a valle

bassa

Incertezza a monte

alta

supply chain “risk-hedging”

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alta

Supply chain AGILE

La “copertura dei rischi” relativi alla strategia di gestione della Supply Chain è tesa a ridurre i rischi di interruzioni/rotture della catena

La supply chain “Agile” ha come obiettivo la riduzione dei rischi, sia lato domanda che lato offerta, attraverso una combinazione delle due strategie di copertura rischi e reattività

supply chain lean

supply chain responsive

La strategia Lean Supply Chain è volta a massimizzare il ROA (Return On Assets) atteso, generando vantaggi competitivi sia a livello di costi che di valore

La “responsive” Supply Chain è tesa a mitigare i rischi lato domanda (relativi alla variazione delle esigenze e dei gusti dei consumatori)

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Fonte: Hau L. Lee, 2002, Aligning Supply Chain Strategies with Product Uncertainties, California Management Review , volume 44 number 3, pp.105-119

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Principali fattori di incertezza a monte • Numero, unicità, localizzazione dei fornitori • Stabilità della base dei fornitori • Durata dei contratti di fornitura • Livello di dipendenza della base dei fornitori • Numero di passaggi a monte della supply chain • Performance dei fornitori • Rischio Paese dei fornitori • Livello di maturità di processi e tecnologie • Complessità dei prodotti/numerosità dei componenti • Livello di qualità richiesto

Principali fattori di incertezza a valle • Varietà dei prodotti • Volatilità della domanda • % delle vendite indotta da promozioni/sconti • Elasticità dei prezzi • Fluttuazione dei prezzi • Ciclo di vita dei prodotti (lunghezza e posizione lungo la curva) • Tasso di introduzione di nuovi prodotti • Rischio di obsolescenza • Numero e caratteristiche dei segmenti di mercato • Intensità della competizione • Numero di passaggi a valle della supply chain • Importanza del time-to-market • Nuovi mercati/nuovi canali

ply Chain rimarrebbe un bell’insieme di teorie, vere, ma poco applicabili a costi ragionevoli. Vi sono in particolare tre esemplificazioni paradigmatiche della Digital Supply Chain (figura 2). Dalla digitalizzazione del Procure-to-Pay al Supply Chain Finance L’integrazione digitale dei processi commerciali, logistici e finanziari tra i diversi attori della Supply Chain – dalla redazione dei contratti fino alla gestione dei pagamenti – costituisce un’eccezionale leva non solo per ridurre i costi, ma soprattutto per ridurre i tempi di ciclo e aumentare quindi la velocità di esecuzione dei processi stessi. In altre parole, per accorciare “temporalmente” la Supply Chain. In questo senso è essenziale lavorare sulla digitalizzazione e integrazione dell’intero processo, e non solo su porzioni singole dello stesso (ad esempio il solo scambio di ordini o il solo scambio di fatture). La digitalizzazione del processo Procure-to-pay costituisce poi la base infrastrutturale e informativa per attivare progetti di Supply Chain Finance in cui si

utilizza la “forza relazionale” di una Supply Chain per migliorare le prestazioni finanziarie, anche aumentando il potere contrattuale nei confronti del mondo finanziario (ad esempio mediante il Reverse Factoring una azienda con buon merito creditizio negozia le condizioni di finanziamento per i “suoi” fornitori). L’adozione di strumenti di Supply Chain Finance – dai più elementari come il Reverse Factoring ai più evoluti anche di tipo extrabancario quali il Dynamic Discounting o l’Invoice Auction – costituisce un importante fattore di controllo e mitigazione dei rischi finanziari nella Supply Chain. Dalla Supply Chain Visibility al Supply Chain Collaborative Planning La condivisione di informazioni di business tra attori della stessa Supply Chain è una delle politiche fondamentali per aumentare la qualità dei processi di programmazione operativa e pianificazione strategica. Si pensi ad informazioni sull’andamento della domanda di prodotto/servizio sui mercati finali (che deve viaggiare da valle verso monte) oppure a www.digital4executive.it

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Fonte: Politecnico di Milano

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FIGURA 2 - Innovazione digitale e gestione della supply chain: tre esempi

eProcure-to-Pay

Visibilità sulla supply chain

Supply Chain Collaborative Planning

Supply Chain Finance

Tracciabilità

informazioni sullo sviluppo di nuovi prodotti o sui vincoli di capacità produttiva (che devono viaggiare da monte verso valle). Lo scambio di queste informazioni è per altro la base per sviluppare processi di reale collaborazione nella pianificazione della Supply Chain, adottando quei modelli che vanno sotto il nome di CPFR (Collaborative Planning Forecasting and Replenishment). Dalla Tracciabilità di prodotti ed eventi al Supply Chain Risk Management La visibilità e il monitoraggio portati al livello fisico più elementare – il singolo prodotto e il singolo accadimento –, oltre a costituire una fondamentale sorgente di valore informativo sull’origine e la storia dei prodotti stessi, consentono di aumentare la capacità di controllo e risposta alle imprevedibilità della Supply Chain. La tracciabilità dei prodotti e degli accadimenti lungo tutta la Supply Chain è poi alla base dell’applicazione di modelli di Supply Chain Risk Management, in cui l’identificazione e la gestione dei rischi è fatta tenendo conto del fatto che l’azienda non è una cellula isolata, ma è parte di un corpo – la Supply Chain appunto – che è esso stesso fonte di rischi e anche – per fortuna – di soluzioni. Un problema culturale Ma quale è in questo momento il livello di adozione della Digital Supply Chain? E quali le direzioni di sviluppo di modelli e tecnologie? Occorre in primo luogo riconoscere che la maggior parte dei modelli e degli strumenti per implementare il percorso tracciato sono ampiamente disponibili, fatta forse eccezione per le aree del Supply Chain | 10 |

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Supply Chain Risk Management

Finance e del Supply Chain Risk Management, ove si sta ancora lavorando per configurare una offerta più completa e attrattiva. Si aggiunga poi che i più o meno recenti sviluppi della tecnologia – dal Mobile, al Cloud, all’Internet of Things – hanno reso disponibili soluzioni più potenti a costi più contenuti. Si pensi ad esempio alle soluzioni di tracciabilità: nell’ultimo paio d’anni l’offerta in area Internet of Things si è arricchita di decine di piattaforme per l’integrazione di oggetti intelligenti e la corrispondente analisi dei dati, e che molti oggetti (dalle macchine di produzione ai prodotti) sono già nativamente intelligenti (embedded smart objects). A fronte di tutto questo, però, l’adozione dei modelli di Digital Supply Chain è ancora modesta: scendendo maggiormente nel dettaglio, è più significativa nelle aree della digitalizzazione del Procureto-Pay e della Tracciabilità, dove vi sono vantaggi di costo da una parte e obblighi normativi dall’altra, e decisamente più scarsa nelle altre aree. Cosa spiega tale limitata adozione – nonostante la disponibilità di modelli e strumenti – in tutte quelle Supply Chain – che come visto sono la maggior parte – che stanno evolvendo verso una maggiore incertezza sia sul lato della domanda che su quello degli approvvigionamenti? Io credo che il problema sia essenzialmente culturale. E non intendo puramente un fatto di conoscenza (o meglio ignoranza) della forma della Supply Chain in cui si opera, e dei modelli di integrazione e collaborazione. Credo piuttosto che “in nuce” si tratti di un problema di consapevolezza, di sentirsi (o meno) parte di un ecosistema – la Supply Chain – con cui si è in relazione organica, e da cui dipende letteralmente la vita o la morte della propria azienda. In altre parole, tornando al concetto iniziale, il Supply Chain Management non è logistica: è strategia!


THE POWER OF PROTECTION

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management - world of business ideas di

in collaborazione con

Annalisa Casali

Greg Brandeau

Favorire l’innovazione attraverso la genialità condivisa

Scrittore presidente e coo, maker media

L’ex collaboratore di Steve Jobs e CTO di Walt Disney, autore del best seller “Collective genius: the art and practice of leading innovation”, spiega l’approccio che punta sullo sviluppo della creatività mettendo a fattor comune i contributi di ciascun membro della piramide organizzativa. Una metodologia che negli Stati Uniti è sposata da aziende come Apple, Pixar e Google

Lo sentiamo ripetere ormai quotidianamente, quasi come un mantra: il mondo va veloce e le aziende devono adeguarsi in fretta alle dinamiche competitive anzi, per quanto possibile, bisogna anticiparne le tendenze. La gestione dell’innovazione all’interno di una grande azienda impone al management di risolvere un dilemma fondamentale: come è possibile assicurare una leadership forte che, tuttavia, non inibisca l’espressione della creatività dei singoli individui? Il tradizionale approccio del ‘far crescere dall’interno’ le professionalità e la creatività oppure ‘mutuarle dall’esterno’ richiede tempi lunghi, che nelle condizioni economiche attuali risultano insostenibili. E allora quale può essere la soluzione? Semplice: sfruttare i singoli contributi di creatività e innovazione che ciascun membro dell’organizzazione può offrire e metterli a fattor comune, favorendo la genialità diffusa. | 12 |

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Tra i primi colossi industriali a sperimentare questo nuovo approccio ci sono General Electric e PepsiCo e, più di recente, Apple, Pixar e Google. Acceso sostenitore della filosofia del ‘collective genius’ è Greg Brandeau, compagno di avventure di Steve Jobs dapprima in Apple e, successivamente, in Pixar, relatore al World Business Forum 2015 di Milano. I tre pilastri del genio diffuso Tre sono i cardini di questo approccio allo sviluppo della creatività. Anzitutto, la cosiddetta ‘willingness’, ovvero la predisposizione delle migliori condizioni perché la genialità collettiva possa proliferare. Il focus, in questo caso, ruota intorno al perché esiste l’azienda, qual è il suo scopo e quali sono i suoi obiettivi di breve (economici) e lungo termine (strategici). Il secondo aspetto riguarda quello che gli inglesi chiamano ‘engagement’, l’impegno che ciascun


manage m e nt - wor l d of b us i ne s s i d e a s | Favo rire l’ in n ova z io n e at t rav e rso l a g e n ia l ità c o n divisa

Chi è Greg Brandeau Ingegnere formatosi al Massachusetts Institute of Technology (MIT) di Boston, Greg Brandeau ha maturato nel corso degli anni una profonda esperienza nella guida di aziende innovative. La sua carriera inizia nel 1993 al fianco di Steve Jobs, dapprima in NeXT Computer e, successivamente, in Pixar, con il compito di sviluppare team e tecnologie all’avanguardia per il gigante dell’entertainment. Quando Pixar viene ceduta a The Walt Disney Company (2006), Brandeau diventa Vice Presidente Esecutivo e CTO (Chief Technology Officer) di The Walt Disney Studios. Dal 2013 è Presidente e Direttore Operativo di Maker Media, media company che pubblica riviste e libri. Nel suo best seller “Collective Genius: the art and practice of leading innovation” fa leva sulla sua esperienza per diffondere la filosofia della leadership focalizzata sull’innovazione. È anche un profondo sostenitore della Rete e della stampa 3D come motori dell’innovazione all’interno delle aziende più tradizionali.

componente dell’organizzazione mette nell’interagire con gli altri per risolvere i problemi. Esattamente come avviene nel corpo umano, in cui ogni cellula è interrelata con migliaia di altre. Ed ecco che, di nuovo, la condivisione dei valori e degli obiettivi aziendali è fondamentale. «In Pixar, per esempio – precisa Brandeau –, l’obiettivo era riuscire a fare i migliori film per famiglie che fossero mai stati realizzati e tutti contribuivano a questo scopo, dal magazziniere all’ingegnere della grafica 3D. Questo permetteva di assicurare un livello di collaborazione tra i vari dipartimenti che raramente ho visto in altre organizzazioni. A volte le persone dovevano fare parecchi straordinari per aiutare altri team ma lo facevano con convinzione, perché avevano sposato in pieno gli obiettivi dell’azienda». I risultati in concreto? Quindici film campioni d’incassi nelle sale, ora diventati dei blockbuster, senza che alcun progetto si sia mai tramutato in un fallimento. Infine, l’ultimo pilastro della genialità diffusa è quella che Brandeau definisce ‘power interaction’ e che «significa saper rispettare i ruoli, ma anche i punti di vista differenti. Lo scopo del brainstorming deve essere la soluzione di un problema o un intervento migliorativo, quindi occorre rispettare qualsiasi considerazione o critica, anche quelle che arrivano da una persona alla base della piramide organizzativa aziendale». «Infondere sicurezza alle persone dei diversi team, in modo che non provino imbarazzo a fare critiche costruttive o rimettere in discussione le decisioni prese è la vera sfida – sottolinea –. Molte persone potrebbero avere delle idee potenzialmente dirompenti per l’azienda, ma se l’organizzazione non crea l’ambiente utile perché possano essere

espresse al meglio allora queste idee probabilmente non verranno mai esternate». I leader più innovativi, in definitiva, non sono quelli che pensano di sapere tutto ma quelli che hanno sviluppato la capacità di riconoscere il vero talento e riescono a circondarsi di persone in gamba, predisponendo l’ambiente giusto perché tutti siano in grado di dare espressione al proprio genio e alla propria creatività. Un altro aspetto spesso citato dal manager è il rispetto della diversità di pensiero legata al vissuto e alle tradizioni del singolo individuo. Questo vale soprattutto per gli Stati Uniti, dove molte aziende prediligono assumere e riunire in team persone appartenenti a gruppi etnici diversi (ispanici, asiatici…), perché il vissuto, le tradizioni e il diverso modo di pensare di ciascuno è utile a favorire l’innovazione. Imparare dai fallimenti «Il problema principale che cito quando qualcuno mi chiede quale sia il maggior ostacolo alla diffusione dell’innovazione condivisa è l’incapacità di mettersi in discussione. Il mondo oggi cambia molto più in fretta di quanto avveniva anche solo cinque anni fa e le aziende devono essere sempre pronte a ridisegnare i propri modelli di business, i propri cicli produttivi e, di conseguenza, i propri obiettivi». Non si tratta certo di un processo facile e non si può pensare che sia una questione che riguarda solo le multinazionali. Le aziende più piccole sono, spesso, quelle nelle quali si manifesta la maggior rigidità di pensiero, sia da parte dei proprietari che dei lavoratori. «Ma è proprio in queste realtà che la genialità condivisa si rivela più efficace, perché sovente al www.digital4executive.it

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management - wor l d of b us i ne s s i d e a s | Favo rire l’ in n ova z io n e at t rav e rso l a g e n ia l ità c o n div isa

loro interno si lavora già in piccoli team molto integrati nei quali le persone sono in contatto diretto, visivo, tutto il giorno». «Steve Jobs, con il quale ho lavorato a stretto contatto per anni – prosegue – era una forza della natura. È riuscito a fondare e dirigere tre realtà multimiliardarie, ovvero Apple, Pixar e quella che io chiamo Apple2, quando è stato richiamato a condurre la società che aveva fondato anni prima. Il suo carisma era innato, riusciva a convincere tutti che la sua proposta fosse sempre la migliore. Poi, però, con l’esperienza si è reso conto che scambiare, condividere, anche mettere in discussione le idee e i progetti si rivela più efficace che non imporre le proprie opinioni, pur se basate su ottimi assunti. La sua forza è stata quella di sapersi circondare delle persone giuste, di creativi, persone che pensavano fuori dagli schemi, non di

‘yes man’». Tutti all’interno della società posseggono una ‘fetta’ di genio, si dice convinto il manager, e «il mio obiettivo, nelle realtà presso le quali ho lavorato, è sempre stato riuscire a creare le condizioni ideali perché ciascuno potesse esprimere la sua creatività al meglio, accelerando l’innovazione e migliorando la soddisfazione dei singoli». Un esempio concreto? William Curran, responsabile delle iniziative Cloud di Google, alcuni anni fa aveva riscontrato problemi all’apparenza insanabili con il BIOS del motore di ricerca. I due team che lavoravano sotto la sua direzione, a quel punto, hanno abbandonato l’idea di mettersi in competizione l’uno contro l’altro e, in totale autonomia, hanno creato un sodalizio, durato ben tre anni, che ha permesso di trovare la soluzione definitiva all’intoppo tecnologico. Tutto questo è stato possibile perché all’interno di Google si è sempre cercato di creare un ambiente ‘fertile’ per lo sviluppo di forme di genialità collettiva. La paura del fallimento, a detta del manager, è un altro pesante deterrente all’innovazione: «La sperimentazione genera, in ogni caso, risultati. Ecco perché osservando ciò che non ha funzionato, metabolizzando le critiche e cercando le modalità migliori per porre rimedio agli errori commessi è possibile favorire l’innovazione. Anche il fallimento può essere fonte d’ispirazione, tramite quella che io amo definire agilità creativa».

Portare l’innovazione nei settori più tradizionali Greg Brandeau è il portabandiera, in tutto il mondo, della cultura Maker, un movimento che incoraggia l’applicazione delle tecnologie per scopi diversi da quelli per le quali inizialmente sono state sviluppate. Si tratta di un movimento sociale che opera, però, con uno spirito ‘artigianale’, mettendo a disposizione dei contributori metodi di fabbricazione tipici delle aziende, in passato dominio esclusivo delle istituzioni e non dei singoli individui. Secondo il manager, l’apprendimento di qualsiasi tecnologia dovrebbe avvenire ‘sul campo’ (learning-by-doing) e dovrebbe sempre essere incoraggiata l’esplorazione delle intersezioni possibili tra settori tradizionalmente separati, come la programmazione informatica e la siderurgia. In questi contesti è la Rete il punto di incontro delle genialità individuali, perché la comunità dei Maker si incontra virtualmente, su siti web dedicati, e utilizza i social media come repository dei contributi individuali oppure come un’agorà per scambiarsi idee, suggerimenti, commenti e critiche. Stampanti e scanner 3D, tecnologie Cloud, microcontrollori programmabili e droni sono solo alcuni degli strumenti che stanno favorendo la crescita del | 14 |

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movimento Maker. Questi, combinati con la progressiva diffusione dell’Open Source, dapprima in ambito software e successivamente anche a livello hardware (microcomputer), e del Cloud stanno, contribuendo in maniera decisiva al successo dell’Internet of Things (IoT, Internet delle cose). La “nuvola” è di per sé il servizio fulcro dei Maker, perché digitalizza il flusso di lavoro e permette l’evoluzione verso la cosiddetta ‘economia collaborativa’. Abilita, inoltre, la produzione distribuita, ovvero il download di file che si traducono immediatamente in oggetti attraverso un processo di fabbricazione digitalizzata e, in questo senso, la stampa 3D assume un ruolo chiave. Inizialmente utilizzata per produrre a basso costo i prototipi dei futuri prodotti, per esempio nell’industria aerospaziale, oggi i suoi ambiti applicativi si estendono agli oggetti di uso domestico per arrivare fino all’ambito sanitario, con soluzioni utili a realizzare protesi e impianti che si adattino al meglio a chi li dovrà usare. A tendere, la stampa 3D diventerà sempre più economica, tanto che si inizia già a parlare di “produzione personale”, come avviene per un abito sartoriale.


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Il digitale al servizio del cambiamento: anche la terapia diventa “disruptive” Superamento delle crisi, spostamento del focus dal problema alla soluzione, change management tramite obiettivi incrementali, co-creation di soluzioni inedite e basate sulle tecnologie. Questi gli insegnamenti di management ricavati dall’esperienza di una coppia di genitori alle prese con una diagnosi di ictus perinatale per loro figlio, che ha portato anche allo sviluppo dell’innovativa piattaforma Miracle, basata su edutainment, Internet of Things e stampa 3D

Quali insegnamenti di management si possono trarre dall’esperienza di una coppia di genitori alle prese con una diagnosi di ictus alla nascita per il loro bambino? Molti, in termini di “superamento” delle crisi, di spostamento del focus dal problema alla soluzione, di gestione del cambiamento e soprattutto di spinta alla ricerca di soluzioni inedite, “disruptive” e basate sulle tecnologie. È per questo che Francesca Fedeli e Roberto D’Angelo sono stati invitati al World Business Forum 2015 di Milano, con un intervento incentrato sulla loro “nuova vita” iniziata nel 2011, quando è nato Mario, e portata avanti con un percorso di nuovi approcci e terapie sperimentali che li ha spinti a fondare l’associazione Fightthestroke.org, e soprattutto a ottenere risultati insperati per il piccolo. Un percorso in cui le tecnologie digitali hanno avuto un ruolo «determinante rispetto a genitori che si fossero trovati nella nostra situazione solo 20 anni fa - ci spiega Francesca Fedeli -, e questo per tre motivi». Il primo è la possibilità di raccogliere velocemen| 16 |

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te informazioni. «Molti associano la nostra storia a quella del film “L’olio di Lorenzo”, dove si vedono i due genitori che passano molte notti in biblioteca per studiare la malattia del figlio. Per noi tutto questo è stato molto più rapido e semplice: dal momento della diagnosi siamo andati a cercare sul web, su siti ma anche su forum e social media attraverso i quali siamo entrati in contatto con altri genitori che vivevano esperienze simili alla nostra. E non è solo un fatto di rapidità, ma di numero di persone e di ampiezza delle informazioni raggiungibili, abbattendo tutte le barriere geografiche». Attivare i “neuroni specchio” attraverso il video Il secondo motivo, molto legato al primo, riguarda la ricerca comune di soluzioni, che viene ottimamente supportata appunto dai social media. «Quando abbiamo capito che la nostra storia non


m a nage m e nt - world o f b u sin e ss id e a s | Il di g i ta l e a l se rv i z i o de l c a mb i a me nto

era solo nostra, e che per fare passi avanti dovevamo allearci con altri, abbiamo creato un gruppo privato su Facebook, che oggi raccoglie circa 250 genitori. È stata una cosa spontanea, non ponderata, ma nel tempo ci siamo resi conto appunto della validità di questa modalità d’interazione sia per la condivisione di esperienze, il mutuo supporto e l’aiuto, sia per il “brainstorming” di idee che aiuta a trovare soluzioni - si va dalla cura e terapia, ai rimedi di piccoli problemi quotidiani - e poi a migliorarle e correggerle gradualmente, e a metterle a disposizione di tutti, accelerando il progresso rispetto a una ricerca scientifica che ha tempi lunghi». Il terzo motivo è che la tecnologia può contribuire anche a migliorare la terapia, in questo caso di riabilitazione motoria. «I bambini che hanno subito ictus hanno bisogno di sedute frequenti di fisioterapia, e chiaramente farle in ambiente familiare invece che in ospedale dà migliori possibilità di recupero: oggi attraverso la tecnologia si può operare di concerto con il medico in remoto, con soluzioni di telemedicina, e nello stesso tempo “mettere in rete” il bambino con altri bambini. Come fondazione abbiamo sviluppato una terapia che si chiama Miracle, basata anche su questo principio: è più facile che il bambino metta in pratica cose che impara vedendo altri bambini, e oggi può vederne provenienti da qualsiasi parte del mondo, grazie a una connessione video». Tra i temi toccati da Francesca e Roberto al World Business Forum ci sono anche edutainment, Internet of Things e stampa 3D. «La piattaforma Miracle prevede l’insegnamento attraverso il gioco. Non è un videogioco, fa leva sul funzionamento dei “neuroni specchio”, che si attivano quando un individuo compie un’azione e un altro lo osserva: è dimostrato che i neuroni usati dall’esecutore durante l’azione si attivano anche nell’osservatore». Il trattamento si chiama Action Observation Therapy ed espone il paziente a una serie di video, coinvolgendolo in modalità di gioco all’imitazione. In questo modo i neuroni specchio si attivano e stimolano l’apparato motorio, facilitandone il recupero. La stampa 3D per “fabbricarsi” i giochi Quanto all’IoT, le video-storie della piattaforma Miracle sono fruibili attraverso vari device tra cui anche Kinect, il dispositivo della consolle Xbox di Microsoft che “cattura” i movimenti del corpo senza dover impugnare o indossare sensori. In questo modo è possibile registrare i dati di movimento e fornirli al medico.

Francesca Fedeli co-fondatrice del movimento fightthestroke.org

Inoltre nella piattaforma si possono disegnare giochi e poi realizzarli con una stampante 3D. «Oggi c’è una carenza reale di oggetti quotidiani adatti a disabili: questo dimostra come una soluzione digitale possa ovviare alle disparità di disponibilità di terapie e supporti tra zona e zona geografica: si sa che a Milano sono accessibili strutture e cure che al Sud non ci sono». Questo tipo di esperienza, conclude Francesca Fedeli, può insegnare molte cose anche in termini di change management: si supera uno shock focalizzandosi non sul problema, ma sulla soluzione; e si abilita il cambiamento lavorando su abitudini e obiettivi incrementali. «Quando abbiamo appreso la diagnosi in un primo tempo ci siamo chiusi in casa, una cosa tipica delle sindromi post-trauma. Poi a un certo punto o si rimuove il problema o si combatte, e noi abbiamo preso questa seconda strada, ma rimanendo sempre “entro il contesto”, in alleanza con medici e istituzioni, come dimostra la collaborazione con il professor Giacomo Rizzolatti, neuroscienziato di fama mondiale che ha scoperto i neuroni specchio e nel 2014 è stato insignito del Brain Prize. La nostra è una soluzione che libera gli ambulatori di fisioterapia territoriali, ma non toglie al medico la possibilità di fissare obiettivi e monitorare il paziente». Quanto agli obiettivi incrementali, «ancora adesso siamo solo all’inizio, pensare alla guarigione di Mario è un traguardo troppo grande: abbiamo imparato che è fondamentale leggere la situazione e poi stabilire dei traguardi parziali e successivi, scomponendo il problema e affrontandolo per passi». www.digital4executive.it

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intervista di

manuela gianni

Fabrizio Angelini CEO e Founder Sensemakers

La pubblicità online alla ricerca del giusto target Internet è ormai il secondo canale di advertising in Italia. Si affermano nuove metriche per misurarne la reale efficacia mentre si va affinando l’analisi dei dati degli utenti, per campagne ancora più mirate. Il futuro si chiama Programmatic, e sta cambiando completamente le dinamiche: la negoziazione è sempre più affidata alle piattaforme tecnologiche, con conseguenze notevoli su pianificazione e organizzazione

La transizione verso il digitale ha completamente rovesciato nell’arco di un decennio le dinamiche del mercato dell’advertising. Mentre, complice la crisi, si contrae inesorabilmente il mercato della pubblicità tradizionale, in particolare stampa e TV, l’advertising digitale cresce esponenzialmente: a fine 2015, infatti, secondo l’Osservatorio New Media e New Internet del Politecnico di Milano il 30% dell’investimento pubblicitario totale in Italia sarà sul digitale. Solo 7 anni fa era il 10%. I driver che hanno guidato la crescita sono noti: la pubblicità segue a ruota l’aumento del consumo del web e si adatta alle nuove modalità di fruizione, soprattutto da smartphone e tablet. E siamo solo all’inizio. Con la diffusione dell’ecommerce, ci aspettano ancora molte novità nei prossimi anni, come racconta Fabrizio Angelini, manager con una vastissima esperienza nella comunicazione innovativa, oggi CEO e Founder di Sensemakers, società che offre servizi in ambito | 18 |

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digital basati sull’analisi e interpretazione dei dati relativi agli utenti della rete. Sensemakers è il rivenditore esclusivo per l’Italia della multinazionale della digital analysis comScore. Come sta cambiando il mondo della pubblicità online? Negli ultimi anni la trasformazione è stata rapidissima. Uno dei player più importanti del settore, Facebook, dieci anni fa era appena nato. Sono cambiati i media mix degli investimenti, con l’advertising online che guadagna un ruolo sempre più rilevante, ma soprattutto sono cambiati i player. Paradossalmente si stanno replicando dinamiche tipiche del mercato TV: il mercato del digitale è iper-concentrato, si stima che Google e Facebook coprano il 75% del totale e godono di gran parte dei benefici dell’andamento positivo del mercato digitale. È un fenomeno conclamato, se ne discute anche a livello europeo ma non si sta reagendo.


intervista | La pubblicità online alla ricerca del giusto target

Quali sono i punti di forza dell’advertising online rispetto a quella dei mezzi tradizionali? Il vero valore aggiunto è la capacità di profilazione, che permette di raggiungere un target molto specifico, grazie alla possibilità di tenere traccia del profilo di chi naviga, dei suoi interessi, delle attività svolte nelle diverse fasce della giornata. Questa è stata sempre la grande promessa che l’online cerca di rispettare. I sistemi di tracciamento e misurazione e gli strumenti di gestione del dato sono infinitamente più evoluti di quelli dei mezzi tradizionali e consentono analisi molto puntuali, in particolare per quanto riguarda la conversione: il web non è soltanto un luogo di esposizione della merce e di advertising, ma anche di transazione. La diffusione in Italia è in linea con il resto del mondo? Nel benchmark internazionale, siamo tra i paesi di seconda fascia e stiamo seguendo il trend mondiale. In Gran Bretagna, ad esempio, l’investimento digitale ha già superato quello televisivo e si stima che lo stesso avverrà quest’anno anche negli Stati Uniti. L’Italia invece è ancora un mercato “TV-driven”: se il digitale vale il 30%, la televisione - sempre secondo gli Osservatori del Politecnico di MIlano - è ancora superiore ai 50%. Va detto che anche se il nostro mercato è un diciottesimo di quello americano e un ottavo di quello inglese, noi italiani abbiamo un livello di competenza su queste tematiche che è altissimo. Credo che i professionisti italiani, anche quelli con un profilo tecnologico, siano più aperti al pensiero laterale, a capire cioè le ricadute economiche a valle di un processo. I colleghi stranieri si meravigliano di questa particolarità. Alcuni sviluppi a livello globale sono partiti dall’Italia, anche per comScore, e sono stati replicati a livello internazionale. La navigazione Internet avviene sempre più da Mobile. Quali sono le conseguenze?

La crescita dell’investimento sul Mobile segue lo spostamento del traffico e il tempo speso dall’utente. Questo trend sta creando problemi non banali che andranno affrontati: se il tracciamento dell’utente da desktop avviene attraverso i cookie, su Mobile è più complicato individuare e tenere traccia dell’efficacia della pubblicità. Oggi l’80% del traffico Mobile è in-App, cioè interno alle App, e il 42% di questo traffico è concentrato sull’App più diffusa, il 75% sulle prime quattro. Il trend non potrà che concentrare ulteriormente gli investimenti sui player che hanno una grande capacità di generazione e attrazione di traffico. Parlo di Google, Facebook, WhatsApp.

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intervista | La pubblicità online alla ricerca del giusto target

Internet advertising, gli scenari fino al 2018 Dopo la buona crescita dell’internet advertising registrata nel 2014 (+18%), il 2015 per l’Osservatorio New Internet e New Media del Politecnico di Milano sarà un anno di consolidamento e conferma, con un incremento poco sotto il 10%, che avvicinerà il valore complessivo del mercato pubblicitario online ai 2,1 miliardi di euro. I ricercatori del Politecnico hanno provato anche a tracciare i trend delle diverse componenti del mercato pubblicitario da qui al 2018, con un tasso di crescita medio annuo per l’internet advertising intorno all’8% che porterà il peso di internet sul totale mezzi - oggi pari al 27% - a pesare ben oltre il 35%. Secondo l’Osservatorio i principali fenomeni che caratterizzeranno le dinamiche dei prossimi anni sono: • un cambiamento nel mix delle componenti del display advertising, con una riduzione del ruolo della banneristica tradizionale e un incremento dei Social network (che raddoppieranno il proprio peso, arrivando a superare il 30% del totale dispaly) e del video advertising (dal 27% del 2014 al 30% del 2018); • un ruolo sempre più significativo dei nuovi device che potrebbero pesare quasi la metà dell’intero mercato internet advertising; • una sostanziale tenuta del search advertising, che rimarrà circa un terzo del mercato, come nel 2014; • una crescita importante degli investimenti sulle piattaforme di programmatic advertising, che nel 2018 si avvicineranno al 40% della pubblicità display, rispetto al 10% del 2014. I trend attesi nei prossimi anni saranno influenzati anche dall’impatto di alcuni temi molto dibattuti nell’ultimo periodo. In particolare: • la viewability, ossia la messa a disposizione di strumenti che consentono di misurare la percentuale di impression realmente visualizzate dagli utenti; informazione che potrebbe portare impatti significativi sul valore degli spazi; • il native advertising, ossia le forme di pubblicità che, integrandosi perfettamente con il contenuto editoriale, consentono di aumentare l’efficacia degli investimenti e di ridurre la percezione di invasività da parte degli utenti; • l’abbattimento delle attuali barriere presenti sul canale Mobile precedentemente citate (formati, metriche di misurazione, tracciamento degli utenti); • la velocità con cui le aziende attribuiranno un ruolo centrale allo sfruttamento dei “big data” (dati propri e/o di terze parti) per definire le proprie strategie di investimento, cavalcando così il trend del data-driven advertising; • l’integrazione tra Editori e Social Network, che potrebbe portare ad un aumento dei ricavi per entrambi gli attori; • lo sviluppo di soluzioni tecnologiche per il tracciamento del comportamento cross-device degli utenti e la costruzione di modelli di attribuzione – sia tra i diversi device, sia tra i diversi player della filiera – per quanto riguarda gli investimenti con obiettivi di performance; • lo sfruttamento dei device mobili in mano agli utenti per creare meccaniche pubblicitarie integrate con i mezzi tradizionali, in particolare la TV (second screen advertising), sia in termini di potenziamento del contenuto pubblicitario trasmesso sul grande schermo (fornendo, ad esempio, maggiori informazioni o la possibilità di acquisto immediato di un prodotto), sia in termini di investimento sincronizzato su più mezzi (offline e online).

I sistemi di erogazione della pubblicità automatici, il cosiddetto Programmatic, diventano sempre più diffusi. A che punto siamo? Il trend è assolutamente ineludibile: le forme di trading e di gestione della negoziazione sono sempre più svincolate dalla negoziazione umana e affidate a piattaforme tecnologiche. Queste sono in grado di incrociare in maniera velocissima, nell’or| 20 |

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dine dei millisecondi, abitudini e profilo sociodemografico di una persona, e di erogargli una pubblicità affine ai suoi interessi, selezionando in maniera chirurgica il target ed erogando impression in maniera puntuale. Analisi internazionali dicono che entro il 2017 il 70% delle transazioni avverrà in modalità programmatic nei paesi più avanzati. In Italia siamo più indietro e secondo gli Osservatori del Politecni-


intervista | La pubblicità online alla ricerca del giusto target

internet advertising: la vista per device milioni di E 2.500

Smart Tv +11%

1,94 mld E

+107%

62 294

2.000

1.500

30 191

+53%

1.000

1521

+4%

1579

+7/10%

≈2,1 mld E

Tablet App

+40/50%

Smartphone

+30/40%

Pc

Fonte: Politecnico di Milano

1,74 mld E

+0/5%

500

0 2013

co di Milano arriveremo al 20% alla fine di quest’anno. Tutti in qualche modo dovranno attrezzarsi. L’automazione della pubblicità online porta con sé una serie di temi correlati. Il primo è il tema della gestione dei Big Data: servono potenti architetture informatiche, in grado di analizzare grandi moli di dati in tempo reale, e sempre più gli advertiser si stanno attrezzando per costruire piattaforme in grado di incrociare il dato della pubblicità con il loro database proprietario. Bisogna infatti essere in grado di sapere se l’utente a cui viene erogata la pubblicità è già un proprio cliente, incrociando i dati della navigazione con il CRM. È un tema che tocca tutti, sia gli operatori della filiera -i centri media e le concessionarie - sia gli investitori: non solo l’offerta quindi, ma anche la domanda. La pubblicità online è più efficace di quella tradizionale, ma ci sono anche falsi miti, come l’idea che il target sia raggiungibile al 100% ...

2014

2015 (dati stimati)

È vero, il web ha disatteso la promessa di riuscire a capire in maniera puntuale chi sta di fronte al pc e quali sono i suoi interessi. A livello internazionale, si stima che una “impression” su due non raggiunga il target. È un dato medio, che mette insieme target molto ampi e anche target molto ristretti. Ma prima che noi lanciassimo i nostri servizi di analisi, nel 2012, alcuni operatori sostenevano di essere in grado di erogare pubblicità al 100% in target. Studi puntuali hanno drammaticamente abbassato queste percentuali. Inoltre c’è il problema delle frodi: più gli scambi avvengono sulle piattaforme elettroniche, svincolati dal controllo umano, più si è soggetti a truffe informatiche, ovvero a traffico non reale. Oggi anche questi elementi possono essere controllati e verificati. In Italia in particolare il fenomeno è ancora molto contenuto, si parla di stime tra l’1 e il 2% di traffico non umano. Però il fenomeno è in crescita.

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Startup Boosting

MISSIONE

Giocare un ruolo sempre più attivo nello stimolare la nascita e lo sviluppo di nuove avventure imprenditoriali in ambito digitale in Italia: è questo l’obiettivo che gli Osservatori Digital Innovation si pongono nella convinzione che ciò rappresenti un ingrediente fondamentale per il rilancio della nostra economia. Per questo motivo nasce il progetto Startup Boosting che intende identificare le idee di business e i progetti imprenditoriali più innovativi nei diversi settori digitali, che saranno supportati e seguiti nel loro sviluppo. CHI PUÒ PARTECIPARE

AMBITI DI APPLICAZIONE

Possono partecipare: • persone fisiche (singole o in gruppo) in possesso di un’idea di business fortemente innovativa; • aziende in fase di startup e con elevato potenziale di crescita; • imprese anche già avviate che abbiano sviluppato innovative idee di business.

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COSA OFFRE

I candidati che supereranno il processo di valutazione: • saranno supportati nella messa a punto del progetto imprenditoriale, con l’obiettivo di accelerarne lo sviluppo e il raggiungimento degli obiettivi di business; • avranno la possibilità di frequentare gratuitamente un percorso di alta formazione presso il MIP – la Business School del Politecnico di Milano – finalizzato ad accrescere le competenze e l’empowerment del gruppo imprenditoriale; • saranno supportati nella ricerca dei capitali di rischio necessari.

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MODALITÀ DI PARTECIPAZIONE

• La partecipazione è gratuita. • Per iscriversi compilare il Form di registrazione sul sito www.startupboosting.com che include una breve descrizione del progetto imprenditoriale, in cui vengono messi in evidenza: prodotti/servizi innovativi erogati, mercato target, principali concorrenti, fatturato previsto e investimenti stimati (anche solo in modo approssimato). • Ogni mese vengono valutate le proposte pervenute.

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intervista | La pubblicità online alla ricerca del giusto target

«In Italia il mezzo TV è ancora prevalente su quello digital per la pubblicità, ma le competenze sull’online advertising sono altissime»

Quali valutazioni vengono effettuate per valutare l’efficacia di un’Adv online? Ormai gli investitori internazionali richiedono la misurazione delle performance ed è fondamentale dare trasparenza e chiarezza. E nel mercato italiano c’è uno specifico bisogno di definire standard e benchmark. Oggi il gioco è stato svelato e chi investe è molto attento: si è capito che bisogna trovare il modo di discriminare la qualità degli spazi. Ormai sono disponibili metriche che valutano se la pubblicità erogata online è stata effettivamente vista, come la viewability, o il targeting. Chiunque si occupi di pubblicità sa che sono questi i due assi di valutazione: l’opportunità di essere vista e il fatto che sia stata vista dal target giusto. Per esempio un banner su due non viene mai visualizzato perché viene erogato in una posizione di pagina non visibile all’utente. Oggi si possono fare analisi molto più approfondite che riguardano la qualità della pagina e l’affollamento dei contenuti, e misurazioni qualitative che in futuro miglioreranno di molto il servizio e che saranno sempre più importanti, come la Brand Safety: è la coerenza del contenuto pubblicitario rispetto al contenitore, al publisher che lo ospita. Pensiamo a un brand per bambini pubblicato su una pagina che parla di fatti di sangue, o a una pubblicità di un’auto che va su una pagina dove c’è anche quella di un competitor. Inoltre, c’è una tema di localizzazione: l’impression va erogata nell’area geografica d’interesse. Questo si riesce a fare riconoscendo l’IP di provenienza. La pubblicità online inizia a essere molto invasiva. Non si temono reazioni del pubblico? È vero, oggi la pubblicità può essere molto invasiva: sappiamo che dopo aver guardato un prodotto su un sito di eCommerce, fino a che non lo si acquista o anche dopo si continua ad essere bombardati con messaggi su quel prodotto. L’uso crescente dell’AdBlock, che in Italia secondo uno studio Adobe ha raggiunto circa il 13% del mercato, ha iniziato a creare preoccupazioni tra le concessionarie. Come dicevo, serve trasparenza sulle performance dell’Adv online. Se il mercato riuscirà ad applicare un premium price e riconoscere il va-

lore di una impression validata ci sarà anche maggiore efficienza. Come si stanno attrezzando le aziende italiane? Dipende. Molti sono in grado di misurare in maniera abbastanza puntuale qual è il ritorno sulle vendite delle campagne che fanno. Per altre, ad esempio le utility, questo non è ancora vero. In generale gli investimenti in pubblicità TV rappresentano ancora la quota maggiore, ma stimare il tasso di conversione è difficile. Come vede il prossimo futuro? Cambierà ancora moltissimo nei prossimi anni, con la crescita dell’eCommerce. E l’attenzione sull’advertising online aumenterà quando sarà dimostrata la capacità di convertire l’investimento in una transazione. Negli ultimi anni molti passi avanti sono stati già fatti, e sono cambiati gli interlocutori: del resto, adesso essere digital e social oggi non è più una moda: è una necessità.

Come misurare il ROI: viewability e targeting Oggi la “viewability” è un concetto molto dibattuto, richiamato anche da Angelini nell’intervista a fianco. Il punto è che solo una parte delle impression vendute è in realtà vista dagli utenti. Secondo il Media Rating Council, un’impression si considera vista (“in-view”) quando almeno il 50% dei suoi pixel è visualizzato per un secondo. Quindi il tasso reale di visualizzazione è inferiore al 100% per due motivi principali: molti utenti lasciano una pagina (aperta magari per sbaglio) prima di un secondo; la finestra del browser può non essere impostata in full-screen. Secondo comScore solo il 47% delle impression è in-view, sia a livello internazionale sia in Italia. Un altro modo di misurare le performance del messaggio è rilevare l’efficacia del targeting, ossia la percentuale di impression che raggiungono il target di una campagna. Questo indice a livello internazionale è mediamente del 48%, e anche in questo caso l’italia è in linea. Per gli investitori pubblicitari è fondamentale quindi incrociare viewability e targeting per ottimizzare il ritorno delle proprie campagne. www.digital4executive.it

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normative

di

Apparecchiature di controllo dei lavoratori: le novità del Jobs Act

Gabriele Faggioli

giurista, Partners4Innovation Presidente Clusit

È stato da poco pubblicato il decreto attuativo che modifica lo Statuto dei Lavoratori, un intervento reso necessario dall’evoluzione tecnologica. La nuova norma estende il campo di applicazione alle strumentazioni informatiche e telematiche aziendali utilizzate per finalità di controllo e sicurezza dalle aziende e dalle pubbliche amministrazioni, come il content filtering o i sistemi di Device Management

È stato da pochi giorni pubblicato il decreto attuativo della delega sulle semplificazioni che, tra l’altro, prevede all’art. 23 la modifica all’articolo 4 della legge 20 maggio 1970, n. 300 meglio noto come Statuto dei Lavoratori. La norma disciplina se e in che termini i datori di lavoro possono usare impianti audiovisivi e altri strumenti di controllo sul posto di lavoro. L’intervento normativo si è reso necessario perché l’evoluzione tecnologica e le strumentazioni che i datori di lavoro oggi possono utilizzare hanno determinato una serie di dubbi in merito all’applicabilità della disposizione stessa e, in particolare, del comma II (del testo previgente) che obbligava le aziende a raggiungere un accordo sindacale quando utilizzavano sistemi di controllo per esigenze produttive, organizzative o di sicurezza ma da cui poteva derivare anche la possibilità di controllo indiretto dell’attività lavorativa. L’applicazione della norma previgente, dise| 24 |

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gnata a suo tempo sostanzialmente per regolamentare l’utilizzo delle telecamere, è stata oggetto negli ultimi anni di alcune pronunce estremamente interessanti della Corte di Cassazione che ne ha esteso la portata anche a una serie di impianti e apparecchiature di controllo più recenti. Si fa riferimento, in particolare, alla sentenza n° 15892/2007 che ha sancito l’applicabilità nel caso in esame dell’obbligo di accordo sindacale a un impianto automatico di controllo degli accessi a un parcheggio aziendale (i log raccolti permettevano di valutare se un lavoratore usciva o meno legittimamente dal luogo di lavoro) e alla sentenza n° 4375/2012 con la quale la Corte di Cassazione ha sancito l’applicabilità dell’art. 4 comma II Statuto dei Lavoratori ai sistemi di content filtering. Secondo la Corte di Cassazione, infatti: “i programmi informatici che consentono il monitoraggio della posta elettronica e degli accessi Internet


nor m ati v e | Appa r e c c h iat ure di c o n t ro l l o de i l avo rat o ri: l e n ov ità de l J o b s Act

Secondo una pronuncia della Corte di Cassazione, i programmi informatici che consentono il monitoraggio della posta elettronica e degli accessi Internet sono necessariamente apparecchiature di controllo

sono necessariamente apparecchiature di controllo nel momento in cui, in ragione delle loro caratteristiche, consentono al datore di lavoro di controllare a distanza e in via continuativa durante la prestazione, l’attività lavorativa e se la stessa sia svolta in termini di diligenza e di corretto adempimento (se non altro, nel nostro caso, sotto il profilo del rispetto delle direttive aziendali)” e ciò “è evidente laddove nella lettera di licenziamento i fatti accertati mediante il programma Super Scout sono utilizzati per contestare alla lavoratrice la violazione dell’obbligo di diligenza sub specie di aver utilizzato tempo lavorativo per scopi personali (e non si motiva, invece, su una particolare pericolosità dell’attività di collegamento in rete rispetto all’esigenza di protezione del patrimonio aziendale)” Di fatto, anche analizzando la successiva sentenza della Corte di Cassazione n°2722/2012, sembra essere stato disegnato un regime in cui esistono controlli difensivi preventivi e reattivi nonché illeciti che si risolvono nel mero non lavoro e altri che pongono in essere anche un’aggressione a un bene oggetto di tutela di titolarità dell’azienda. Quando ricorrono tali due condizioni (controllo reattivo a fronte di evidenze e aggressione a un bene tutelato e non solo mero non lavoro) per la Corte di Cassazione si poteva adottare un’interpretazione meno rigida dell’art. 4 comma II Statuto dei Lavoratori (testo previgente), potendo evitare

l’accordo sindacale, avendo dichiarato nell’ultimo caso citato che il “datore di lavoro aveva compiuto un accertamento ex post quando erano emersi elementi di fatto tali da raccomandare l’avvio di una indagine retrospettiva” e che “il controllo difensivo non riguardava l’esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro ma era destinato ad accertare un comportamento che metteva in pericolo la immagine del datore di lavoro” e quindi che “tale situazione è già esclusa dal campo di applicazione dell’Art. 4 comma II Statuto dei Lavoratori”. In questo contesto normativo e giurisprudenziale è stata resa disponibile alle aziende una serie di nuove tecnologie che permettono, pur avendo quasi sempre una finalità di sicurezza, un controllo indiretto (preterintenzionale) del comportamento del lavoratore sul posto di lavoro. Si pensi in via esemplificativa ai sistemi di data loss prevention o ai sistemi MAM (Mobile Application Management) per i device mobili, per i quali non esistono ancora pronunce giurisprudenziali di Cassazione ma rispetto ai quali occorre porsi la domanda della loro possibile installazione e della conseguente (o meno) applicabilità dell’obbligo di accordo sindacale che a oggi, ad avviso dello scrivente, appare necessario. Si deve, infatti, considerare che la nuova formulazione dell’articolo 4 Statuto dei Lavoratori prevede che:

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n ormati ve | Appa r e cchi at u r e d i cont r ol l o d e i l avo rat o ri: l e n ov ità de l J o b s Ac t

La portata della riforma appare rilevante in termini di chiarezza ma non rivoluzionaria in termini di contenuto, anche considerando che resta comunque da applicare la normativa in materia di protezione dei dati personali

1. “Gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e possono essere installati previo accordo collettivo stipulato dalla rappresentanza sindacale unitaria o dalle rappresentanze sindacali aziendali”. Gli elementi fondamentali della nuova formulazione dell’articolo sono che: a. non esiste più il comma primo, che stabiliva il divieto assoluto di utilizzare strumenti di controllo finalizzati alla verifica dell’attività lavorativa;

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b. viene inserita fra le finalità perseguite la “tutela del patrimonio aziendale”, non presente nell’attuale dizione normativa. 2. “La disposizione di cui al primo comma non si applica agli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e agli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze”. Questo passaggio del nuovo testo normativo è senz’altro quello destinato a creare maggiori dubbi interpretativi. Infatti, se chiaramente vengono esclusi i sistemi di controllo accessi (dovendosi intendere gli accessi fisici ai locali e, interpretando in via estensiva la parola “accesso”, gli accessi logici ai sistemi informatici) e controllo presenze (così superando la sentenza della Corte di Cassazione n°15892/2007 sopra richiamata) ad avviso dello scrivente restano in perimetro di accordo sindacale tutti i sistemi di controllo che non siano nativi dello strumento messo nella disponibilità del lavoratore o che, comunque, raccolgano informazioni ulteriori rispetto al mero “accesso” ai locali fisici o ai sistemi). Infatti, la norma sembra applicarsi agli “strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa”, cioè un personal computer o un device mobile ma non, invece, alle apparecchiature, sistemi o strumenti che, gestiti dal datore di lavoro e che rappresentano un elemento “aggiunto” allo strumento, non nativo e non utilizzato per l’attività lavorativa, permettono il controllo indiretto dell’attività del lavoratore (o alcune operazioni effettuate come il cambio di SIM o il download di App o, elemento ancora più delicato, la spostamento geografico tramite sistemi di geolocalizzazione di nuova generazione). In altre parole, ad avviso dello scrivente, un sistema di Content Filtering, un sistema di Data Loss Prevention, un sistema MAM per device mobili continueranno a essere oggetto di obbligo di accordo sindacale (e peraltro non avrebbe senso il contrario, considerando la portata del primo comma visto


nor m ati v e | Appa r e c c h iat ure di c o n t ro l l o de i l avo rat o ri: l e n ov ità de l J o b s Act

che questi sistemi appaiono potenzialmente enormemente più invasivi rispetto a una telecamera). In tal senso si è peraltro pronunciato anche il Ministero del Lavoro che il 18 giugno 2015 ha emanato un comunicato dove si legge: • “La modifica all’articolo 4 dello Statuto chiarisce, poi, che non possono essere considerati “strumenti di controllo a distanza” gli strumenti che vengono assegnati al lavoratore “per rendere la prestazione lavorativa” (una volta si sarebbero chiamati gli “attrezzi di lavoro”), come pc, tablet e telefono cellulari. • L’espressione “per rendere la prestazione lavorativa” comporta che l’accordo o l’autorizzazione non servono se, e nella misura in cui, lo strumento viene considerato quale mezzo che “serve” al lavoratore per adempiere la prestazione. Ciò significa che, nel momento in cui tale strumento viene modificato (ad esempio, con l’aggiunta di appositi software di localizzazione o filtraggio) per controllare il lavoratore, si fuoriesce dall’ambito della disposizione. In tal caso, infatti, da strumento che “serve” al lavoratore per rendere la prestazione, il pc, il tablet o il cellulare divengono strumenti che servono al datore per controllarne la prestazione. Con la conseguenza che queste “modifiche” possono avvenire solo

alle condizioni ricordate sopra, ovvero la ricorrenza di particolari esigenze, l’accordo sindacale o l’autorizzazione”. 3. “Le informazioni raccolte ai sensi del primo e del secondo comma sono utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro a condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto di quanto disposto dal decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196”. Occorre, quindi, rispettare, per poter utilizzare legittimamente le evidenze raccolte tramite i sistemi di controllo, l’obbligo informativo di cui all’art. 13 d.lgs 196/03 nonché quanto previsto dal Provvedimento dell’Autorità Garante per la protezione dei dati personali del primo marzo 2007 (adozione di un disciplinare interno redatto in forma non generica). La portata della riforma, quindi, appare sicuramente rilevante in termini di chiarezza ma non rivoluzionaria in termini di contenuto anche considerando che, fermo il tema dell’articolo 4 “Statuto dei Lavoratori”, resta comunque da applicare in modo completo la normativa in materia di protezione dei dati personali che, in ogni caso, pone vincoli non irrilevanti al potere datoriale di porre in essere attività di raccolta di dati personali tramite sistemi di controllo.

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intervista di

manuela gianni

Luisa Arienti CEO SAP Italia

Verso la real-time enterprise. Ma con semplicità L’obiettivo dei progetti di digital transformation è la gestione dei processi di business in tempo reale, grazie all’analisi di dati affidabili e tempestivi elaborati con la piattaforma Hana, riducendo al minimo la complessità. È la vision di SAP, che sta seguendo in questo percorso migliaia di aziende, anche in Italia. Ne parliamo con l’Amministratore Delegato italiano, Luisa Arienti

Un business gestito “real time”, grazie all’analisi dei dati che arriva a essere “predittiva”. Una tecnologia che semplifica, perchè la complessità costa. Tanti importanti progetti di digital transformation anche in Italia, con la piattaforma Hana al cuore. Il ruolo emergente delle Business Network. Con l’AD italiano di Sap, Luisa Arienti, passiamo in rassegna le ultime novità della multinazionale del software. Dottoressa Arienti, quali nuovi scenari sta aprendo la Digital Economy, nella vostra visione? Lo scenario è cambiato: la Digital Economy impone nuove regole per competere e per avere successo. I nuovi trend di mercato - hyper connectivity, super computing, smart world, cyber security e cloud - stanno imponendo una rivisitazione dei modelli di business. Alcuni esempi noti ci fanno ben capire la rivoluzione in atto: Uber si sta trasformando in un’azienda per la “urban logistic”, Alibaba estende le proprie attività ai settori finan| 28 |

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ziari e assicurativi; Facebook non è più solo un social network, ma è tra le più grandi media company, pur non sviluppando alcun contenuto; Amazon ha cominciato a vendere online prodotti alimentari non deperibili, bevande non alcooliche, e l’elenco potrebbe continuare. Secondo un recente studio che abbiamo condotto a livello internazionale con Economist Intelligence Unit è emerso che il 90% dei CEO intervistati è consapevole che l’economia digitale sta avendo un impatto sul proprio mercato, ma solo il 25% ha sviluppato un piano e meno del 15% è in fase di execution. E in Italia? Riscontriamo questa realtà anche in Italia: grande consapevolezza, ma tempi più rallentati per passare all’azione. SAP Hana è alla base della nostra visione a supporto del business digitale e della della “real-time


intervista | verso la real-time enterprise. Ma con semplicità

enterprise”. Qual è il bilancio, a 5 anni dal lancio? SAP Hana è adottato da oltre 7200 aziende nel mondo. A conferma del nostro costante impegno lo scorso febbraio abbiamo lanciato SAP S/4 Hana a oggi selezionato da più di 900 imprese. In Italia, chi è già partito è il gruppo Marcegaglia, che ha recentemente annunciato di aver avviato un processo di IT Transformation per rendere ancor più efficiente la propria infrastruttura e per rispondere alle nuove sfide di mercato con una roadmap precisa di migrazione che permetterà loro di accedere a dati e informazioni a velocità e volumi maggiori, per un governo “real-time” dell’azienda. Il principio ispiratore lanciato da SAP l’anno scorso è Run Simple: quali sono i cardini di questo approccio? Run Simple vuol dire semplificare la complessità. Secondo le ultime stime del Global Simplicity Index del 2013 il costo per gestire la complessità si aggira sui 237 miliardi di dollari, pari al fatturato delle prime 200 aziende del mondo: questo rappresenta un onere enorme, che si traduce in circa 10% dei profitti bruciati e in opportunità di business mancate. Per competere con successo nello scenario della Digital Economy è dunque necessario evolversi e trasformare la complessità in semplicità. La nostra visione per la semplificazione si articola in 5 aree, a cominciare da SAP Hana e SAP S/4 Hana per la gestione digitale delle attività core dell’azienda. Le altre sono l’area delle soluzioni a supporto della Customer Experience, del Worforce Engagement, le business network (Ariba, Concur e FieldGlass) e infine l’Internet of Things. Il valore di questo framework è dettato dal fatto che l’intera catena del valore è digitalizzata. Un’esigenza oggi è accedere al dato corretto, nel tempo giusto, direttamente sul dispositivo. Questa esperienza assume diverse definizioni, come “right-time experience” o “contextual service”. Come vi state muovendo in questa direzione? Quando un’azienda intraprende un viaggio di trasformazione digitale, deve affrontare le complessità di gestione di Big Data sempre più distribuiti, e ha bisogno di soluzioni in grado di gestire il business in tempo reale, con agilità, scalabilità e conoscenza del contesto. Recentemente abbiamo presentato SAP Hana Vora, un motore di gestione per query in-memory in grado di offrire analisi ricche e interattive su Hadoop e fornire Analytics in grado di migliorare i processi decisionali delle aziende con una visione a tutto tondo delle attività. Questa innovazione porterà benefici a clienti di settori diversi, soprattutto laddove l’utilizzo interattivo di Analytics e di

Big Data all’interno dei processi è estremo: i servizi finanziari, le telecomunicazioni, la sanità, la produzione. Oltre che sulle piattaforme e sulle applicazioni, la strategia di SAP punta molto sulle Business Network, in particolare Ariba e Concur. Qual è la vision e quali ricadute prevede sul mercato italiano? Molti CEO di grandi e medie aziende stanno oggi ragionando su come rendere più semplici i rapporti con il mondo esterno, oltre che quelli interni. Come creare efficienza nel momento della selezione di un nuovo fornitore, di un nuovo partner o consulente? Ecco che il concetto di business network che per noi include Ariba, per i processi di approvvigionamento, Fieldglass, per la ricerca e la gestione di personale, e Concur, per la semplificazione dei processi di gestione delle spese legate alle trasferte di lavoro, assume particolare attualità. Ariba, con oltre 17 milioni di aziende collegate e una presenza in 190 Paesi, rappresenta il più grande Business Network commerciale al mondo, con circa 700 miliardi di dollari di transazioni all’anno: è più della somma dei volumi di Amazon, eBay e Alibaba. In Italia Ariba sta prendendo piede nei settori caratterizzati da una lunga e complessa filiera di approvvigionamento, seguendo quello che succede all’estero dove tra i nostri clienti annoveriamo ad esempio Air France, Cirque du Soleil e GlaxoSmithKline. Con Hana la Predictive Analysis sta diventando realtà in molte aziende. A che punto siamo, in Italia? Quali cambiamenti sta portando nel business? Alla base dei nuovi scenari (ad esempio l’IoT) e sviluppi del business vi è il dato e la sua interpretazione. Ma non solo. Un ulteriore tassello fondamentale è l’analisi predittiva, che significa registrare tendenze ed estrapolare elementi dai Big Data per prendere decisioni rapidamente e con la massima efficienza. In Italia stiamo registrando un crescente interesse verso questi temi in diversi settori, dalle utilities ai servizi. Collaboriamo con aziende come Trenitalia per un progetto di predictive maintenance, che permette l’ottimizzazione delle attività di manutenzione grazie a sensori installati sui treni; con Gruppo Piaggio che ha adottato una serie di tecnologie e soluzioni innovative tra cui SAP Hana e SAP Predictive Analysis per supportare il proprio processo di trasformazione verso il digitale e la real-time enterprise; o ancora con Sacchi Elettroforniture che recentemente ha annunciato l’adozione di SAP Predictive Analytics e SAP InfiniteInsight per migliorare la customer experience creando offerte personalizzate basandosi sull’identificazione di nuovi modelli di comportamento. www.digital4executive.it

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digital transformation - operations di

Jacopo Brunelli

L’Industry 4.0 regala nuove opportunità al Sistema Italia Simulazioni e prototipi virtuali sono sempre più utilizzati anche in settori tradizionali come il manifatturiero. L’idea è di ridurre i costi di produzione e il time-to-market ma non solo. Integrare al meglio i flussi produttivi ha anche ricadute positive sulla customer experience. Una tendenza che può contribuire a favorire il rilancio dell’economia del Bel Paese. L’analisi di BCG

Disegnare un perimetro che definisca che cosa sia, o significhi, digitale nell’economia contemporanea è impresa complessa. Digitale è una definizione che, ormai, si è estesa fino a comprendere i campi più differenti. Non esiste settore – da quelli tradizionali come la meccanica, alla medicina al farmaceutico, all’editoria – che non sia costretto a ripensarsi dai fondamentali. Qualcuno è ancora in mezzo al guado, altri hanno del tutto mutato la loro fisionomia. Uno degli ambiti di maggiore impatto del digitale è senz’altro il manifatturiero, tanto che si parla di quarta rivoluzione industriale o Industry 4.0. Ipotizziamo che un produttore di beni utilizzi un software innovativo per simulare una linea di produzione prima che questa entri in funzione. Così facendo potrebbe intervenire in anticipo su eventuali difetti, plasmarla in base alle proprie esigenze e ottimizzarla integrando prodotto e macchinari, ottenendo un risparmio di tempo | 30 |

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e incrementi di flessibilità e qualità. Quello che abbiamo fatto è solo un esempio dei numerosi campi di applicazione e dei relativi benefici del digitale nelle operations. Un secondo esempio è costituito dall’utilizzo di tecnologie di prototipazione virtuale, che consentono di ridurre il numero di prototipi e prove durante lo sviluppo di nuovi prodotti, con notevoli riduzioni sia di costo sia di time-to-market. Gli impatti, però, si spingono oltre la progettazione e la supply chain. La possibilità di scambiare informazioni in tempo reale tra clienti, fabbrica e fornitori, permette di creare un flusso produttivo integrato e ottimizzato in base alle esigenze del cliente, con ricadute positive sulla customer experience. La rivoluzione cui assistiamo ha impatti positivi su tutta la catena del valore ed è un treno che le aziende non possono permettersi di perdere se vogliono rimanere competitive e continuare ad avere successo.


di gi ta l tr a ns f or m ati on - oP e r ati o n s | L’ in dust ry 4. 0 re g a l a n uov e o p p o rt un ità a l S ist e ma I talia

jacopo brunelli

Manifattura digitale, un’occasione di crescita La progressiva mutazione dell’industria manifatturiera porterà con sé importanti opportunità di rilancio per il sistema italiano, tradizionalmente terreno fertile per l’innovazione. La vocazione manifatturiera che caratterizza il Paese non deve essere vissuta come un limite, ma come un’opportunità. Il nostro tessuto produttivo tradizionale è fatto di numerosissime aziende che possono trarre un enorme vantaggio dalla digitalizzazione dei processi operativi. Infatti, tra le nostre eccellenze annoveriamo non solo il lusso, l’abbigliamento, l’arredamento o l’alimentare, ma anche settori ad alto valore aggiunto come l’automazione, la robotica, la componentistica industriale. Ambiti, questi, dove siamo all’avanguardia per ricerca e sviluppo e in cui, grazie alle nostre competenze consolidate, possiamo giocare ruolo da protagonisti nei prossimi anni. La digitalizzazione delle fabbriche costituisce da una parte un’importante occasione di crescita, dall’altra un’opportunità di aumentare la competitività con produzioni più flessibili, meno costose e più reattive alle esigenze dei clienti. Tuttavia la trasformazione comporterà investimenti importanti e capacità di affrontare il cambiamento da parte delle imprese. Per compiere il “passaggio” all’industria digitalizzata stimiamo che il fabbisogno di risorse ammonterà a 250 miliardi di euro nei prossimi 10 anni nella

Principal e responsabile della Practice Operations The Boston Consulting Group Italia, Grecia e Turchia

sola Germania, con un processo di cambiamento che giungerà a maturità entro 15-20 anni. Aumenta l’esigenza di tecnici specializzati per essere competitivi Nell’industria del futuro saranno le macchine che siano computer o robot da questi guidati - a dominare o ci sarà ancora un posto per l’uomo? Non vediamo nessuno scenario da film di fantascienza alla ‘Metropolis’ all’orizzonte. Nei pros-

industry 4.0: i nove driver tecnologici che rivoluzioneranno il futuro della produzione

Big Data e analytics

Robot autonomi

Simulazioni

Additive manufacturing, (stampa 3D industrializzata)

Integrazione software orizzontale/verticale

Industrial Internet (reti di sensori hardware integrati)

Cloud

Cyber security www.digital4executive.it

Fonte: The Boston Consulting Group

Realtà aumentata

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di gi tal transfor m ati on - oP e r ati ons | L’ i nd u s t ry 4. 0 re g a l a n uov e o p p o rt un ità a l S ist e ma I ta l ia

L’Industry 4.0 è la visione della produzione industriale del futuro. Seppure il completamento di questo processo avverrà nei prossimi 15-20 anni, sarà il prossimo quinquennio a decretare chi emergerà sullo scenario competitivo

simi 10 anni prevediamo che solo in Germania l’automazione creerà circa 400mila nuovi posti di lavoro. Tuttavia, cambieranno i profili dei lavoratori: alle aziende serviranno tecnici specializzati come programmatori e meccatronici per gestire i complessi sistemi produttivi, mentre le risorse meno qualificate diminuiranno. Sarà, quindi, necessario prevedere percorsi di formazione ad hoc che preparino i professionisti ad affrontare le evoluzioni e le specifiche del mercato del lavoro. Puntare all’aumento della produttività è un’assoluta necessità per le nostre aziende, che devono bilanciare l’elevato costo del lavoro per rimanere competitive sullo scenario internazionale. Molte aziende hanno capito quanto sia importante puntare su sistemi e processi produttivi all’avanguardia, anche se permane ancora un forte gap negli investimenti rispetto a un competitore europeo diretto della nostra manifattura come la Germania, che, grazie a produzioni di prodotti ad alto valore aggiunto e alto contenuto tecnologico, può comandare sul mercato dei prezzi ‘premium’. I benefici che si potrebbero dei trarre dall’im-

plementazione della visione Industry 4.0 della manifattura digitale sono enormi. In Germania si stimano potenziali di riduzione dei costi della produzione industriale del 5-8%, mentre si prevede possa generare una crescita annua pari a circa l’1% del PIL, grazie soprattutto agli investimenti che le aziende dovranno fare per realizzare le fabbriche del futuro. Per l’Italia e per le aziende italiane è il momento di agire. Seppur il completamento della rivoluzione verso l’Industry 4.0 avverà nei prossimi 15-20 anni, saranno i prossimi 5-10 a decretare chi emergerà tra vincitori e vinti. Occorre pertanto affrontare al più presto alcuni temi strategici. Le aziende manifatturiere devono capire come si trasformerà la loro catena del valore e quali saranno per loro le implicazioni in termini sia di modello di business, sia di sistema produttivo. Per i fornitori di sistemi e impianti produttivi sarà, invece, fondamentale capire su quali tecnologie puntare e crearsi internamente delle competenze IT e di sviluppo software utili per affrontare la crescente domanda di connettività ed interazione tra sistemi.

Incremento della produttività in germania

10%

Componentistica

6%

Meccanica

6% 1%

Altri

55%

6-9%

20-30%

Produzione lorda totale (in ¤ 2T)

Ingegneria meccanica

Food & beverage

Eolico2

10-20%

22%

20-30% 20-30% 25-35% 10-15%

Note: costi di conversione = costi di produzione esclusi i materiali. 1. Effetti supplementari per l’industria manifatturiera, inclusi gli nivestimenti aggiuntivi. 2. Costruzione di impianti di produzione di energia eolica (inclusi i componenti tecnici). Fonte: Federal Statistical Office Germany, Expert Interviews, BCG Analysis

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Costi di produzione rispetto alla produttività totale

5-10% 4-7% 10-15% 9-12% 4-7%

Fonte: The Boston Consulting Group

Automotive

Costi di conversione rispetto alla produttività totale

Produttività aggiuntiva totale (5-8% o mln di ¤ 90-150 1)

Produzione lorda (market share della Germania)

Produttività aggiuntiva media (15-25%1)

Settori


DIETRO OGNI INTERFACCIA, C’È SEMPRE UNA FACCIA. LA NOSTRA

L E A D I N G D I G I TA L T R A N S F O R M AT I O N

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#cresciamoinsieme


digital transformation - supply chain di

Laura Zanotti

Daniele Fregnan Global Logistics & IT Director Gruppo Benetton

Benetton, una regia digitale per la supply chain worldwide Il gigante del fashion prêt-à-porter punta su un nuovo governo dei sistemi e dei processi in cui la logistica si conferma il cuore pulsante dell’efficienza del business. Dalla produzione ai 5.500 negozi, pieno controllo e una visibilità end-to-end praticamente in tempo reale, mixando dematerializzazione e Business Intelligence

È una regia digitale quella scelta da Benetton per rifondare la propria supply chain su un nuovo concetto di governo dei sistemi e dei processi in cui la logistica si conferma il cuore pulsante dell’efficienza del business. Parliamo di una movimentazione di oltre 120 milioni di pezzi, tra capi, scarpe e accessori, distribuiti su un canale di 5.500 negozi, di cui oltre 1.000 diretti, in più di 100 nazioni. Il tutto gestito attraverso un unico cruscotto centralizzato che, dalla produzione al punto vendita, offre il pieno controllo dei processi con una visibilità al 100%, end-to-end. Il modello di sviluppo? Un sistema chiamato Control Tower che, come una vera torre di controllo integrata all’ERP aziendale (SAP), coordina tutti gli operatori della filiera, risolvendo il traffico inbound dell’universo di fornitori e carrier che approdano al magazzino centrale, così come il traffico outbound dei carrier e dei distributori agli store. | 34 |

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Un modello esemplare, che ha portato il Gruppo a entrare nel Magic Quadrant di Gartner. Da Treviso... con colore: obbiettivo customer centricity La storia, ormai nota, del Gruppo partito nel 1965 da un negozio familiare a Treviso e in pochi anni diventato un colosso del fashion prêt-à-porter, nasce da un’intuizione fondamentale: puntare all’assortimento cromatico per programmare collezioni di abbigliamento coordinate, di qualità e dal prezzo abbordabile, capaci di fare la differenza, assecondando la volubilità dei consumatori di qualsiasi razza, età, sesso o ceto sociale. A contribuire al successo del brand indubbiamente la scelta di un marketing coraggioso che, attraverso campagne di shock advertising firmate Oliviero Toscani, è riuscita a dare alla brand awa-


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«Da una funzione di mero trasporto, il modello distributivo evolve, con responsabilità end-to-end a livello worldwide. Il segreto? Un Big Data Management ad alto tasso di integrazione»

reness uno spessore sociale e politico che ha trasformato il logo in un’icona della comunicazione ad alto impatto. «Benetton nasce come azienda a forte vocazione produttiva - spiega Daniele Fregnan, Global Logistics & IT Director, Gruppo Benetton -, che faceva massima sinergia e poi riversava nel mercato. Nella prima fase storica, i clienti erano i partner, non i negozi né tantomeno i consumatori finali. All’inizio in modo coerentemente geniale, in ottica win-win per tutti i partner coinvolti; poi via via perdendo smalto e unicità fino a portare l’azienda a ritenere che andava fatto un cambio di rotta, da cui l’esigenza di “retailizzare”. Spostarsi verso un’ottica consumer-centrica era una sfida veramente importante. Il tema era che le priorità o la direzione dei processi venivano capovolti». Lunga vita alla supply chain Dal 2000, da una produzione completamente industrializzata il brand si apre al commercializzato: da wholesaler l’azienda diventa anche retailer e, negli ultimi due anni, la roadmap abbraccia anche il franchising (a oggi i franchisor sono 200). A livello di supply chain la transizione da una monosupply industrializzata, con lead time di oltre un anno, a una multisupply industrializzata e commercializzata, con lead time tra i 2 e i 10 mesi, modifica in modo significativo i processi. Da una funzione di mero trasporto, il modello distributivo evolve, con responsabilità end-to-end a livello worldwide. Il segreto? Un Big Data Management ad alto tasso di integrazione. «La supply chain deve presidiare tutti gli operatori - racconta Fregnan -. Solo così si possono ottimizzare tutti i processi. Oggi il 70% della logistica è gestito in outsourcing ed è proprio per questo che ci siamo concentrati sulla parte più alta e strategica della governance, ovvero il controllo e la capacità di supervisione e di coordinamento. Gli operato-

ri logistici, infatti, devono essere partner strategici e guidare i clienti nelle scelte migliori, non devono essere opportunisti, perché è una scelta che non paga». Perno tecnologico per l’accresciuta visibilità è la Control Tower, un innovativo strumento di gestione delle relazioni di business, realizzato dal partner tecnologico TesiSquare. Grazie all’integrazione con l’ERP aziendale, consente il pieno controllo di tutti i flussi, integrando soluzioni di tipo collaborativo che portano standardizzazione, condivisione e visibilità tra tutti gli attori che operano nella filiera. «Il 70% del nostro budget è trasporto - ribadisce Fregnan -. Abbiamo 20mila spedizioni da gestire, con 6 milioni di capi che viaggiano ogni giorno. La Control Tower ci assicura maggiore reattività ma anche la possibilità di garantire una più ampia attenzione al cliente. Grazie alla tracciabilità dei processi e a una digitalizzazione ad alta efficienza, possiamo in ogni momento individuare opportunità e rischi a supporto di un decision system decisamente dinamico e proattivo. Grazie al pieno controllo dei processi in entrata e in uscita, infatti, e a una nuova intelligenza di sistema, Benetton sincronizza e coordina tutto il flusso merci, effettuando in tempo reale un’analisi dei dati per definire nuovi ambiti di operatività e vendita, con il supporto di un sistema di alert che potenzia la qualità del monitoraggio. Non bisogna essere legati a vincoli di sistema, la logistica è fatta di informazioni e, nel nostro caso, sono tante e di diverso tipo. Grazie alla reingegnerizzazione, oggi gestiamo un flusso bidirezionale costituito da dati aggregati e informazioni di dettaglio e di tipo transazionale. Con un plus rilevante in quanto tutta la gestione documentale è dematerializzata». A Treviso, il magazzino è un hub di 25mila metri quadrati, interamente automatizzato, e con 46 trasloelevatori sempre attivi per il prelievo dei colli www.digital4executive.it

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finali. Centro nevralgico del coordinamento logistico, il deposito funziona 24 ore su 24 con turni di sole 6 persone per la gestione dell’intera automazione. Come diventare un retailer mondiale «Per una supply chain davvero funzionale leggere i dati di sell out è un prerequisito fondamentale - prosegue Fregnan -. Per questo, un paio d’anni fa abbiamo attivato un programma di collegamento delle casse dei negozi alla sede centrale. È un progetto complicato, che mi ha regalato molte notti insonni, ma già da tre collezioni un migliaio di negozi, sui 5.500 che abbiamo, sono collegati e forniscono dati quotidianamente, che vengono utilizzati per un programma ormai massiccio e strutturato di automatic replenishment. Il valore della digital transformation, infatti, per noi è soprattutto quello di farci collegare ai bisogni dei consumatori». In modalità as a service è stata resa mobile tutta la gestione del back end dei negozi, dove sono state installate la soluzione di cassa e di gestione delle attività di magazzino. Dal visual merchandising alla Business Intelligence, l’innovazione digitale è ormai parte integrante della filosofia dello sviluppo. Una supply chain incentrata su una migliore gestione dati, a partire da quelli di vendita, ottimizza

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bilanciamento tra venduto e produzione, riduce gli out-of-stock anche grazie all’aumento della frequenza delle consegne, a orari prefissati. Un altro passaggio epocale del Gruppo è stato aprire il canale dell’e-commerce: a due anni dal varo, Benetton è oggi presente in 30 Paesi. PLM: United Colors, anzi United Sourcer of Benetton Un altro ambito di ottimizzazione della supply chain su cui il brand sta lavorando è trasformare il rapporto con i fornitori. Grazie al partner Sinesy, Gruppo Benetton ha sviluppato una soluzione ad hoc. «Il sistema consente ai miei colleghi del prodotto e del sourcing di interagire in maniera diretta e istantanea con i fornitori di tutto il mondo - conclude Fregnan -, mettendo a fattor comune le modifiche necessarie a definire il prodotto come oggetto del desiderio. In un’ottica di collaboration, questo ci permette da un lato di condividere alcune informazioni e di dare in qualche modo l’avvio alla relazione con il fornitore in maniera concreta e, dall’altro, di trasferire i dati dall’offline all’online, per costituire una sorta di scheda prodotto basica che costituisce l’inizio del nostro Product Lifecycle Management (PLM), ovvero lo start della filiera della gestione del prodotto».


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digital transformation - finance di

daniele lazzarin

Riccardo Tiranti

Cartoni animati, un business dove tutto è cambiato con il digitale. Anche fare il CFO

Chief Financial Officer Rainbow

Il nome Rainbow non è molto noto, ma grazie alle fatine del WinxClub, un vero marchio globale, l’azienda marchigiana è la dodicesima licenziante al mondo, davanti a Dreamworks e General Motors. «Oggi tutte le mie priorità di analisi, reportistica, controllo di gestione sono completamente diverse da pochi anni fa. Il rapporto con l’IT è quotidiano e il progetto ERP l’ho seguito in prima persona»

«L’avvento del digitale sta cambiando i processi delle imprese di moltissimi settori, e in particolare i processi di amministrazione, contabilità e controllo che sono il mio ambito, ma nel nostro specifico mercato sta rivoluzionando anche le modalità stesse di competizione, proposizione e fruizione dei prodotti». Lo “specifico mercato” di cui parla Riccardo Tiranti, Chief Financial Officer di Rainbow, è quello della produzione di cartoni animati. Rainbow è l’ennesimo tipico caso di media azienda italiana nata in provincia (in questo caso a Loreto, nelle Marche), semisconosciuta al grande pubblico, ma tra i principali operatori internazionali nel suo business. Semisconosciuta, in questo caso, solo come azienda, visto che il suo “prodotto” di punta, la serie animata Winx Club, è famosissimo tra i bambini di 130 Paesi nel mondo. È difficile categorizzare l’attività di Rainbow («possiamo dire che siamo una realtà di “family entertainment”») e anche dimensionarla con i classici indicatori economici. Il fatturato, per esempio, è di | 38 |

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circa 50 milioni di euro (considerando la sola parte di animazione), «ma è un numero non particolarmente significativo, perché non abbiamo costi delle materie prime: i margini Ebitda medi, che sono oltre il 40%, hanno valori assoluti al livello di società industriali che fatturano anche 10 volte tanto». Stesso discorso per i dipendenti: «Quelli in pianta stabile, oltre 100, sono come me persone di back office: amministrazione, finanza, legale, commerciale. Le attività “core” però sono fatte da disegnatori, grafici, sceneggiatori, tecnici di post-produzione, che tradizionalmente in questo settore hanno contratti di collaborazione, e che portano l’organico medio a circa 300 persone». ricavi, dalla dominazione della tv a quella di ip e video on demand In particolare la struttura di amministrazione, finanza e controllo di cui è responsabile Tiranti


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conta circa 15 persone tra la sede di Loreto, quella di Hong Kong e quelle a Roma. «L’impatto del digitale lo vedo fin dalla stessa composizione dei ricavi: quando sono arrivato, nel 2008, in azienda era preponderante la quota proveniente dalla TV e dal cinema; oggi il cinema rimane un business stabile, ma la TV è stata praticamente sostituita da IP On Demand, Video On Demand (VOD) e da tutta la parte Internet. Di conseguenza prima l’accordo principale era con la TV, oggi sono quelli con le nuove piattaforme di distribuzione di prodotti digitali». Un discorso che però è valido soprattutto a livello internazionale, mentre in Italia la parte TV è ancora molto importante («abbiamo un rapporto privilegiato da vent’anni con la Rai, dalla nostra prima produzione Tommy Oscar, alle ultime tuttora in onda sulle diversi reti dell’emittente nazionale»), anche perché da noi le reti in fibra ottica sono poco diffuse. «Non per niente uno dei maggiori player mondiali della tv via Internet, Netflix, ancora deve sbarcare in Italia, il che è un indicatore del ritardo tecnologico del nostro territorio. È un problema che viviamo in prima persona, in quanto oggi il nostro target principale – la fascia d’età tra 3 e 15 anni – fruisce dei nostri prodotti per lo più su device digitali connessi». Rainbow ha creato appositamente un nuovo dipartimento Digital in cui viene sviluppato e supervisionato, sia internamente sia in collaborazione con esterni, tutto il business digitale che ruota intorno alle sue “Property”: dalle Mobile App alla gestione dei social network, fino all’interazione con le varie piattaforme digitali. «L’innovazione continua è fondamentale per la sopravvivenza, in un mondo in cui le piattaforme distributive si sono moltiplicate - cinema, TV, web, mobile - e i broadcaster comprano solo prodotti di successo garantito».

zone geografiche, mentre oggi occorre fare analisi che mettano in luce le tendenze del mercato. C’è quindi da compiere un passo in più – sottolinea Tiranti – che allarga il perimetro del controllo di gestione verso un’analisi qualitativa delle informazioni. In generale il cambiamento più forte riguarda il tempo di risposta: oggi le informazioni sono reperibili online, e praticamente in real time, quindi si possono analizzare in modo talmente veloce da riuscire a prendere decisioni in grado di modificare un trend che è in corso». Per quanto riguarda il rapporto del CFO con l’IT e i sistemi informativi, un esempio molto significativo riguarda la recente adozione di un sistema ERP: «Occorreva una piattaforma per “unificare il linguaggio” in tutta l’azienda, a cominciare dalla reportistica. Questo era uno dei principali compiti che mi sono stati assegnati, anche per la necessità di supportare i progetti di crescita e sviluppo all’estero, organici e con operazioni straordinarie di fusione o acquisizione». In un investimento tecnologico così importante, è interessante notare che il CFO è stato l’owner del progetto: «È ovvio che fossi in prima linea, visto che l’ERP produce i numeri su cui lavoro quotidianamente, mentre chiaramente la parte tecnica è stata curata dalla funzione IT interna in collaborazione con partner qualificati. Le esigenze sono state specifi-

«Nell’animazione l’innovazione continua è decisiva per la sopravvivenza, in un mondo in cui le piattaforme distributive si sono moltiplicate cinema, TV, web, mobile - e i broadcaster comprano solo prodotti di successo garantito»

«Prima guardavamo i rating TV, ora la sentiment analysis» Dal punto di vista più specifico del ruolo di CFO, continua Tiranti, il digitale comporta priorità completamente diverse per analisi, reportistica e monitoraggio: «Per fare un solo esempio, prima guardavamo i rating televisivi, adesso è fondamentale la sentiment analysis: cerchiamo di percepire attraverso i vari social, siti e canali digitali l’effettivo gradimento dei prodotti, e delle azioni commerciali, di marketing e di comunicazione». Anche per il controllo di gestione il focus si è molto spostato: «Prima il lavoro era più “classico”, si guardava il fatturato e tutte le analisi connesse, quanti prodotti venivano venduti per periodi o per www.digital4executive.it

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«Il ritardo del nostro territorio sulle reti in fibra ottica è un problema che viviamo in modo diretto, in quanto oggi il nostro target principale – la fascia d’età tra 3 e 15 anni – fruisce dei nostri prodotti per lo più su device digitali connessi»

cate dalla funzione finanza e controllo, poi chiaramente la realizzazione tecnica è fondamentale e imprescindibile: senza l’IT non si va da nessuna parte». CFO in prima linea nel progetto ERP: «Produce i numeri su cui lavoro» Questa interazione, continua Tiranti, è continua e quotidiana. «L’IT svolge le attività tecniche e si fa carico delle richieste di cambiamento e intervento: è un lavoro più complesso che in altri settori, anche perché nel nostro alcuni ambiti anche strategici non sono coperti da software commerciali, e abbiamo dovuto sviluppare degli applicativi da soli, per esempio per la gestione dei contratti e l’approvazione dei prodotti su licenza». L’azienda ha un ufficio con figure tecniche che si occupano a tempo pieno di IT, e poi delle figure “ibride”, che “traducono” le esigenze di questa parte del business ai tecnici. «Sono persone con competenze trasversali, chiaramente molto difficili da trovare. Per esempio se voglio una funzione di gestione delle trasferte sulla intranet aziendale, ci deve essere una persona che capisca cosa vuole

esattamente l’ufficio del personale, e lo “traduca” per l’IT». Un altro esempio recente è il progetto di implementazione della sentiment analysis: «La richiesta, partita dalla mia funzione, è arrivata all’IT, poi abbiamo deciso di realizzarla tecnicamente con un add-on del sistema ERP. È un tool sempre di SAP (come il sistema ERP, ndr) che andremo a sperimentare, in quanto è uscito 2-3 mesi fa, e appunto esamina i feedback sui vari canali e social individuando immediatamente trend positivi o negativi nei commenti del pubblico». Rainbow, precisa il CFO, ha già dei processi per reagire ai feedback della sentiment analysis, che però prima era basata solo su dati “pubblici”, per esempio le visualizzazioni e i commenti su YouTube: «Ora potremo essere più precisi e profondi. Chiaramente le reazioni ai feedback sono interventi sui video (tempi, inserti pubblicitari, link), sui canali online dedicati, e così via. Interventi che devono essere immediati, perché la digitalizzazione mette in contatto diretto utente finale e produttore: faccio il video, lo pubblico online e immediatamente si hanno già i commenti».

La più grande società d’animazione d’Europa Fondata esattamente vent’anni fa a Loreto da Iginio Straffi, tuttora numero uno e mente creativa della società, Rainbow ha esordito con la serie Tommy e Oscar, e poi con Prezzy, serie con protagonista la mascotte di Gardaland. Il boom però arriva nel 2004 con il WinxClub, il gruppo di sei fatine diventate nel tempo un vero marchio globale ben al di là della serie animata. Secondo License Magazine infatti Rainbow è al 12° posto mondiale tra i licenzianti, davanti a colossi multinazionali come DreamWorks e General Motors, e conta oltre 350 licenziatari - tra cui Giochi Preziosi, Ferrero, Panini, McDonald’s, Unilever -, che commercializzano decine di categorie di prodotti con personaggi Rainbow, dall’abbigliamento ad articoli scolastici, fino alle biciclette. L’azienda, che gestisce direttamente tutto il processo dall’ideazione alla commercializzazione e licensing dei cartoni animati, nel tempo ha poi accolto come investitore il colosso americano Viacom (noto per marchi come MTV e Paramount) e lanciato altri personaggi, diventando la più grande società d’animazione d’Europa. Inoltre ha anche ampliato l’attività alle produzioni per il cinema, ai parchi divertimento (Rainbow MagicLand presso Roma, e altri due sono in progettazione in Malesia e in Cina) e agli spettacoli dal vivo.

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Un passo avanti nei pagamenti digitali: il Servizio CBILL

I pagamenti digitali rappresentano ormai la nuova frontiera dei pagamenti. L’industria finanziaria Italiana è da tempo impegnata su questo fronte mettendo in campo idee e risorse per offrire servizi sempre più innovativi a un pubblico di utenti sempre più evoluto ed esigente. In tale ottica è stato creato il Servizio CBILL (www.cbill.it), che consente alle persone e alle imprese di consultare e pagare on line le bollette emesse dalle aziende e dalle amministrazioni pubbliche, attraverso il proprio Internet Banking e, a discrezione di ciascun Istituto Finanziario, anche attraverso tablet, smartphone, sportello fisico e automatico (ATM). Diversamente dagli attuali servizi di pagamento, che consentono al cliente di una banca di pagare online solo le bollette di aziende o Pubbliche Amministrazioni che abbiano sottoscritto specifici accordi con il suo istituto di credito, il CBILL permette di consultare e pagare le bollette di aziende e Pubbliche Amministrazioni fatturatrici che abbiano adottato il servizio presso un qualsiasi Istituto Finanziario Consorziato CBI. Gli utenti possono, quindi, pagare le bollette in modo semplice e veloce e avere l’opportunità di gestirle direttamente sul conto online della propria banca. I fatturatori, d’altro canto, possono giovare della semplificazione dei processi di riconciliazione contabile, riduzione degli errori e, quindi, di casi di gestione delle dispute, riduzione dei tempi di riscossione e possibilità di personalizzazione del servizio in funzione delle proprie esigenze. Dal suo lancio, avvenuto il 1 luglio 2014, il Servizio CBILL ha raggiunto volumi importanti: 421 istituti atti-

Continua a crescere l’utilizzo del servizio che consente a persone e imprese di consultare e pagare online le bollette emesse dalle aziende e dalle amministrazioni pubbliche, attraverso il proprio Internet Banking: sono circa un milione e 300mila le operazioni effettuate

Liliana Fratini Passi Direttore Generale Consorzio CBI

vi, circa 1.300.000 operazioni di pagamento effettuate per un controvalore di circa 215 milioni di euro. Anche il numero dei fatturatori è in forte crescita: dopo Enel e Wind, tra i primi ad aderire al Servizio CBILL, sono arrivate a più di 40 le aziende e le pubbliche amministrazioni che hanno scelto di offrire ai propri utenti questa innovativa modalità di pagamento e tante altre sono in fase di attivazione. Inoltre, con l’adesione di Equitalia al servizio, avvenuta lo scorso giugno, ciascun cittadino cliente degli istituti finanziari attivi - elencati sul sito www.cbill.it - ha la possibilità di effettuare con CBILL anche il pagamento degli avvisi e delle cartelle emesse da Equitalia, con l’opzione di ricalcolare l’importo prestampato sul bollettino RAV qualora esso risulti variato (a causa, ad esempio, di pagamento in ritardo o di emissione di uno sgravio da parte dell’Ente). Opzione, questa, a tutto vantaggio dell’utente che, estinguendo l’importo esatto del suo debito, comprensivo quindi degli eventuali interessi di mora che sono nel frattempo maturati, vedrà chiudersi definitivamente la propria posizione debitoria con Equitalia. Il gradimento degli utenti è chiaro, da giugno a oggi sono state registrate solo con Equitalia circa 200 mila operazioni.

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digital transformation - finance di

manuela gianni

Deborah Traversa

Analisi dei dati nel settore finanziario, un potenziale inesplorato

Direttore della Divisione Capital Markets SIA

I diversi attori del mondo Finance hanno nei propri archivi una enorme quantità di dati relativi ai clienti, al business e alle regolamentazioni. La sfida oggi è riuscire a elaborarli in modo tempestivo ed efficace, per creare valore, sviluppare nuovi servizi ed estrapolare previsioni per il futuro. Ne parliamo con Deborah Traversa, Direttore della Divisione Capital Markets di SIA

Nel mondo finanziario ogni giorno vengono generati e archiviati dati in grandissima quantità. Tenere traccia di tutte le attività in modo puntuale e tempestivo è di fondamentale importanza, sia per servire al meglio i clienti - privati o istituzionali - sia per ottemperare alle normative, sempre più stringenti. Oggi appare chiaro che tutti questi dati, se opportunamente scandagliati e trattati, rappresentano una miniera di preziose informazioni, utili per misurarsi in un mercato sempre più veloce e competitivo. La tecnologia è pronta, e permette di sviluppare servizi ad hoc per le specifiche esigenze. Ne parliamo con Deborah Traversa, Direttore della Divisione Capital Markets di SIA. Quali nuovi scenari si aprono nel mondo Finance con l’analisi dei dati? Nel settore finanziario c’è ancora un potenziale del tutto inesplorato. I diversi attori dispongono infatti di una enorme quantità di dati relativi ai clienti, al bu| 42 |

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siness e alle regolamentazioni. Oggi, per sostenere la crescita, la sfida più importante è trovare valore in questi grandi volumi di dati, riuscendo a elaborarli in modo tempestivo ed efficace, estrapolando previsioni per il futuro. Ci sono applicazioni in diversi ambiti. Pensiamo all’elaborazione dei dati di business, sempre più integrati e disponibili in tempo reale, che può essere estremamente utile per valutare più consapevolmente le iniziative da intraprendere, considerando tutti i rischi e le dovute priorità. Un altro esempio riguarda le informazioni sulle nuove disposizioni normative europee che rappresentano obblighi a cui adempiere ma anche opportunità su cui puntare per migliorare la reputazione nel mercato, un fattore competitivo chiave. Le società hanno compreso che esiste questa opportunità? Il settore finanziario ne è pienamente consapevole: da una recente ricerca è emerso che oltre il


digital transformation - finance | Analisi dei dati nel settore finanziario, un potenziale inesplorato

«Negli ultimi anni, numerose regole sono state emanate per aumentare la trasparenza del mercato. L’uso di Analytics nei Big Data consente, ad esempio, di anticipare nuovi comportamenti anomali, al fine di riconoscerli tempestivamente e ridurre così al minimo l’impatto sugli investitori»

60% dei player del settore riconosce il valore del Big Data Management e lo considera un fattore critico di successo. Ma c’è un’ulteriore sfida: la trasformazione dei Big Data in informazioni fruibili, un processo che può essere facilitato solo grazie all’utilizzo di innovativi strumenti di analisi oggi disponibili, chiamati Analytics. È necessario, infatti, superare i modelli di analisi tradizionali, che si limitano a proiettare nel futuro trend storici e che spesso riportano a una visione frammentata. È il momento di muoversi verso nuovi modelli di studio che siano in grado di prevedere il futuro attraverso l’analisi di rappresentazioni grafiche intuitive, in modo da aiutare a cogliere le opportunità che si presentano in real time o near real time. Solo così è possibile ridurre al minimo il divario tra le evoluzioni del mercato e la roadmap aziendale. Gli esperti dicono che “cercare di liberare il potere dei Big Data senza implementare una corretta analisi dei dati è come usare Internet senza un motore di ricerca”. Ci può fare qualche esempio? Per chiarire meglio possiamo concentrarci su due casi in particolare, entrambi riferiti ai Capital Markets. Il primo è legato alla compliance verso le nuove regolamentazioni. Negli ultimi anni, numerose regole sono state emanate per aumentare la trasparenza del mercato, con l’obiettivo di favorire una crescita sostenibile e aumentare l’attenzione verso l’investitore finale. I comportamenti anomali sono stati identificati e codificati in base alle esperienze passate anche se la tassonomia è un processo senza fine che segue via via il manifestarsi di nuove pratiche abusive. L’obiettivo del regolatore è di monitorare le operazioni di trading in modo che avvengano in maniera corretta e non ci si può limitare solo a evidenziare ciò che è già codificato come ad esempio l’insider trading: promuovere l’uso di strumenti di Analytics nei Big Data rappresenta uno stimolo fondamentale per anticipare nuovi comportamenti anomali, al fine di riconoscerli tempestivamente e ridurre così al minimo l’impatto sugli investitori. Il secondo esempio fa riferimento al post trading,

che tradizionalmente è stato un business principalmente domestico. Ma le cose sono cambiate. Il progetto TARGET2-Securities ha accentrato, presso la Banca Centrale Europea, una fase sostanziale del processo di regolamento, trasformandolo in una commodity. I player dell’area del post trading, come i depositari centrali, sono ora in competizione sulla fornitura di servizi a maggior valore aggiunto, i value added reporting, che possono ad esempio fornire statistiche sui diversi passi del percorso di regolamento, sui ritardi e sulla gestione degli errori. Questo tipo di dati può essere utilizzato anche dai depositari centrali per predisporre report ad hoc da proporre ai propri clienti. In che modo potete supportare gli operatori del mercato dei capitali? SIA è un provider di tecnologia qualificato per gestire grandi quantità di dati in un modo sicuro. Siamo in grado di supportare i nostri clienti promuovendo nuovi modelli di analisi e offrendo servizi innovativi, oltre che gestire gli sviluppi su larga scala legati all’implementazione delle soluzioni. Operiamo con un know-how altamente specializzato in tutte le aree del settore finanziario, garantendo alte prestazioni. SIA ha competenze specialistiche nell’ambito dei mercati di capitali lungo tutta la catena del valore dal trading al post trading, fino alla sorveglianza. L’approccio che SIA utilizza punta a creare una forte collaborazione con i propri clienti per consegnargli, durante la fase di progettazione, il miglior modello predittivo possibile, che combini la fattibilità delle esigenze del cliente, con la conoscenza di business e tecnica del settore oltre che con la formazione. Il supporto al cliente prosegue anche dopo il rilascio della soluzione di Analytics, creando un circolo virtuoso di scambio di esperienze che permette ai clienti di continuare a migliorare la precisione e la tempestività delle analisi. Grazie a una periodica revisione del progetto, il modello implementato rimane in linea con le frequenti trasformazioni del mercato, in modo da poter cogliere in tempo reale tutte le nuove opportunità che emergono. www.digital4executive.it

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digital transformation - hr

di

Emanuele madini

osservatori digital innovation school of management politecnico di milano

In italia è caccia alle nuove competenze dell’era digitale Data Scientist, Social Media Manager, eCommerce Manager, Digital Strategist. Queste sono alcune delle nuove professionalità maggiormente richieste dalle aziende in ogni settore, e al tempo stesso ancora difficili da formare internamente e reperire sul mercato del lavoro. La fotografia dell’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano

Parallelamente alla crescita della pervasività della Digital Transformation, nasce l’esigenza di sviluppare in ogni area aziendale nuove competenze e professionalità in grado di gestire il cambiamento. Nuove competenze che quindi non sono più una realtà solo per la direzione IT o per le imprese tecnologiche ma per tutti i settori e funzioni aziendali e impongono un ripensamento dei processi e servizi, soprattutto delle aree HR, Marketing e Operations. Per questo l’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano ha studiato quali sono oggi i nuovi ruoli e le professionalità digitali più richieste dalle aziende per potere affrontare la Digital Transformation. Innanzitutto dall’analisi dei dati relativi alle stime dei nuovi posti di lavoro creati dall’innovazione digitale è emerso prepotentemente come spesso esista un divario tra domanda e offerta di lavoro delle nuove competenze digitali in Italia, con oltre 20 mila posti | 44 |

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di lavoro vacanti oggi, che nel 2020 si prevede toccheranno i 170 mila - secondo quanto riportato dalla ricerca di Empirica “e-Skills for jobs in Europe” -. In questo contesto le aziende si trovano, spesso, anche nella condizione di non avere strumenti adeguati per ricercare le nuove figure professionali di cui necessitano, per capire se c’è la possibilità di svilupparle internamente e addirittura talvolta di comprendere se già ci sono in azienda. Data Scientist, Social Media Manager, eCommerce Manager, Digital Strategist: sono queste alcune delle nuove professionalità maggiormente richieste in ogni settore, e al tempo stesso ancora difficili da formare internamente e reperire sul mercato del lavoro. A livello di direzione aziendale, poi, tra quelle che hanno maggiore necessità di nuove professionalità e competenze digitali ci sono il Marketing, l’Information Technology e le Risorse Umane stessa.


digital transformation - hr | in italia è caccia alle nuove competenze dell’era digitale

Ciascuna azienda è chiamata a ridisegnare le New Capabilities secondo un processo logico ben definito, che punti a individuare e formare i Job Profile necessari per sviluppare la strategia aziendale dei prossimi tre o cinque anni

La carta d’identità dei nuovi professionisti digitali L’Osservatorio ha tracciato un quadro chiaro delle competenze che devono avere le nuove figure che la Digital Disruption ha reso necessarie in azienda. Il Chief Digital Officer deve essere capace di sovrintendere (e coordinare fra loro) tutte le funzioni dell’azienda che interagiscono con il mondo dei canali digitali, dai social network ai dispositivi mobili, dalle piattaforme di commercio elettronico sino ai sistemi informativi interni. Il Chief Innovation Officer ha il compito di proporre modelli innovativi per il business dell’impresa, mentre più tecnica è la figura del Chief Security Officer, preposto alla protezione della sicurezza delle informazioni e dei sistemi dell’azienda. Competenze tecnologiche, matematiche e di management deve averle il Data Scientist per essere in grado di leggere i trend socio-culturali, elaborare fonti di dati, interpretare le informazioni e darne una prima traduzione a livello di impatti di business. Il Digital Marketing Manager ha il compito di gestire e ottimizzare le interazioni digitali con clienti e prospect attraverso i canali social, web e mobile, E website, social media e applicazioni multimediali sono al centro del lavoro del Digital Media Specialist per progettare e gestire l’evoluzione di soluzioni digitali innovative, mentre la strategia di posizionamento sui social e la spinta all’incremento delle vendite spettano al Social Media Manager. A guidare i processi di migrazione d’impresa verso il mondo delle tecnologie digitali è il Digital Strategist, mentre le gestione degli spazi di lavoro e la diffusione delle tecnologie digitali a supporto della flessibilità spetta al Digital Workspace Manager. Infi-

ne per ottimizzare gli store digitali, attraverso la progettazione dei contenuti, le aziende devono ricorrere all’eCommerce Manager e per massimizzare l’efficacia della relazione con la clientela presidiando il sistema di Customer Relationship Management bisogna affidarsi all’eCRM & Profiling Manager. Ricerca nuove professioni digitali: meglio il mercato esterno o lo sviluppo interno? Partendo dal presupposto che la maggior parte delle organizzazioni non hanno ancora all’interno le figure professionali digitali di cui hanno bisogno, l’approccio più diffuso è quello di farle crescere internamente, soprattutto per sopperire a una scarsa maturità del mercato del lavoro, a cui si ricorre diffusamente unicamente per ricercare gli eCRM & Profiling Manager e i Digital Marketing Manager. Andando ad analizzare più in profondità le necessità delle aziende, quelle dell’area servizi

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digital transformation - hr | in italia è caccia alle nuove competenze dell’era digitale

puntano a sviluppare internamente la figura del Data Scientist, le imprese Finance il Digital Media Specialist, e il settore Manifatturiero per colmare il gap con gli altri settori punta sul ruolo del Chief Security Officer. In virtù di tutte queste evidenze e prendendo in considerazione gli investimenti che le aziende stanno facendo in iniziative che puntano a far crescere la cultura digitale in azienda – un esempio è Enel, come nel box - il 2015 rappresenta quindi un anno di svolta. Per cavalcare l’onda della Digital Transformation, ciascuna azienda è chiamata a ridisegnare le New Capabilities secondo un processo logico ben definito, che punti a individuare e formare i Job Profile necessari per sviluppare la strategia aziendale dei prossimi tre o cinque anni dell’organizzazione, con il coinvolgimento sistematico del management. E per farlo è necessario partire dall’analisi del

piano industriale così da comprendere quali sono gli ambiti di innovazione digitale prioritari e definire un modello di assessment, definito dalla Direzione HR. In seconda battuta si deve comprendere se si possiedono internamente le competenze necessarie per sviluppare questi progetti di innovazione oppure no, solitamente attraverso delle survey sottoposte ai manager. Allo stesso tempo è importante fare uno scouting delle competenze emergenti e dei nuovi Job, per il recruiting esterno. Una volta individuato “il cosa”, ovvero quali siano le competenze da sviluppare, è fondamentale comprendere “il come”, ed è da qui che parte il progetto di “Talent Management Transformation”, una vera e propria revisione dei processi di talent management in essere per costruire la propria roadmap di innovazio¬ne e cambiamento dei modelli e degli approcci per la gestione e valorizzazione dei talenti.

Enel, un’azienda “Digital Ready” Enel punta a diventare la prima utility al mondo con una concreta strategia digitale, con ricadute positive su tutte le aree di business. «Il punto di partenza sono le risorse umane: conoscere, sviluppare e rinforzare le competenze digitali dei dipendenti sono la chiave di volta per affrontare il cambiamento», sottolinea Silvia Stellato, Development Global ICT and Global Procurement and HR Business Partner Global ICT and ICT Key people di Enel. E per valutare il livello di familiarità con le tecnologie della popolazione e contribuire a identificare una long list di Digital Champions, Enel ha lanciato un progetto di Assessment, volto a fare un identikit dei Digital Specialist identificando le competenze tecniche (Technology Expert) e creative (Lateral Thinker/Digital Influencer), mappare le skill digitali della popolazione Enel per definire dei cluster e costruire delle azioni mirate; identificare e ingaggiare la Digital Champions Community. L’obiettivo è proporre una visione sintetica dell’andamento complessivo dell’azienda e dell’andamento delle Unità Organizzative e calcolare due indicatori: la “Digital Readiness”, ovvero la percentuale di profili con più skill digitali (Startupper, Guru e Hacker), e la “Redemption”, la percentuale di coloro che hanno ottenuto un profilo sul totale. Con un percorso di gaming composto da un mix di test da effettuare su diversi canali e piattaforme, tra cui Twitter e Facebook, secondo vari step previsti dalla survey erogata su un tool online, il progetto pilota, secondo un meccanismo ad imbuto, ha coinvolto 4.906 dipendenti nella fase di Digital Readiness Assessment. Questo step, che ha avuto una redemption del 45%, ha portato a identificare il livello di digitalizzazione dei rispondenti, distinguendoli dapprima in tre gruppi - Nativo analogico, Networker e Star Digitali -, e successivamente in altri quattro - Star Digitali, Startupper, Guru Digitali e Hacker -. La fase successiva di Lateral Thinking Assessment ha permesso di capire che “tipo di digital” sono i dipendenti appartenti al 53% dei 1.799 dipendenti coinvolti, per giungere infine a 116 Digital Champions. A breve partirà l’estensione internazionale del progetto che punta a coinvolgere l’intera popolazione aziendale, per cui si parla di circa ottantamila dipendenti.

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intervista di

Domenico Aliperto

Rosalba Agnello

La digital transformation che aiuta le pmi a restare competitive

Country Sales Manager Aziende private del settore Industria & Terziario Hewlett Packard

Alla vigilia del Roadshow organizzato da Hewlett Packard per illustrare alle imprese italiane i vantaggi della trasformazione digitale, Rosalba Agnello spiega l’approccio della multinazionale, focalizzato su 4 temi: infrastruttura, gestione dei dati, produttività personale e sicurezza. «L’obiettivo è essere più vicini possibile alle singole realtà e proporre soluzioni su misura sfruttando una logica territoriale»

La cosiddetta Digital Transformation è molto più di un messaggio di marketing lanciato dai fornitori di soluzioni tecnologiche a una categoria, quella dell’imprenditoria italiana, ancora piuttosto restia al cambiamento. È la necessità di un’evoluzione che coinvolge non solo le imprese clienti, ma l’intera filiera, partner e vendor inclusi, componendo un circolo virtuoso. Hewlett Packard ne è consapevole e per questo è attento promotore di questo processo, che sta alimentando attraverso un modello di adattamento inteso a trasformare vecchi modelli organizzativi in funzione delle nuove esigenze di business, “ibridando” conoscenze e competenze a tutti i livelli di business. Ne abbiamo parlato con Rosalba Agnello, che - in qualità di Country Sales Manager Aziende private del settore Industria & Terziario - si occupa in Hewlett Packard proprio di orchestrare questo sforzo di coesione. Quali sono oggi le necessità della PMI e su quali argomenti si dimostra più sensibile? | 48 |

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La prima esigenza riguarda la capacità di rimanere competitivi, di raggiungere un time to market veloce in un mondo globalizzato. Con la libera circolazione di idee e servizi, la competizione arriva da tutte le parti e la trasformazione non è più sufficiente se condotta esclusivamente all’interno del proprio mercato verticale o nell’alveo della propria funzione: per ottenere un dimensionamento corretto della proposizione aziendale, chi si occupa di IT oggi deve per esempio sapere anche cosa vuol dire mettere in produzione determinate referenze. Così come i responsabili delle catene produttive hanno la necessità di capire quali ricadute hanno le loro scelte sui sistemi informatici. Input la cui utilità è essenziale pure per chi si occupa di marketing e deve conoscere le reali richieste del mercato. Su questi fronti si sta affermando una certa consapevolezza. Lo noto nei meeting con i clienti, a cui prendono parte sempre più spesso sia i CIO sia i responsabili di business.


intervista | La digital transformation che aiuta le pmi a restare competitive

C’è, però, ancora molto da fare. È qui che si sviluppa il nostro ruolo. La strategia Hewlett Packard passa, innanzitutto, dalla creazione di un modello organizzativo interno focalizzato al 100% sulle PMI. Che per noi, tolti i grossi gruppi internazionali, il public sector e il finance, rappresentano in pratica la totalità del mercato italiano. A prescindere dalle dimensioni, l’obiettivo è essere più vicini possibile alle singole realtà e pensare a soluzioni su misura sfruttando una logica territoriale. Su quali temi instaurate la collaborazione con i vostri interlocutori? Dal terziario all’industria, una volta identificate le specifiche esigenze settore per settore lavoriamo con un approccio tailored a cavallo di quattro aree, che sono per Hewlett Packard i pilastri della trasformazione digitale che hanno come output un business outcome ben identificato. La prima area attraversa la transizione verso l’ibrido e presuppone la creazione di un’infrastruttura flessibile che abbracci tutte le componenti della parte IT, dal data center ai terminali, passando per l’archiviazione e la gestione del dato, un’architettura capace di eliminare qualsiasi tipo di barriera alla crescita. La seconda area è quella della sicurezza, sia dal punto di vista della connettività, sia rispetto all’accesso alle informazioni, con il tema della riservatezza dei dati che diventa sempre più rilevante ora che al patrimonio informativo delle imprese si collegano anche i device personali. L’altro punto è, consequenzialmente, il data management: i nuovi modelli di business si costruiscono a partire dalle informazioni utili ricavate dall’analisi dei dati. E i dati stanno crescendo in maniera esponenziale. L’ultimo elemento è relativo alla produttività individuale dei collaboratori, ed è un’area che comprende tutti gli aspetti che ho appena citato, dalla flessibilità alla sicurezza, che devono essere date per scontate nel momento in cui si punta a incrementare il valore delle risorse aziendali. Da dove conviene partire per poi sviluppare tutte e quattro le aree? Dipende dall’interlocutore. Se ha competenze diffuse ad alto livello si riescono ad affrontare i quattro temi in modo parallelo. C’è comunque una costante: piuttosto che parlare di tecnologia, bisogna adottare, per lo meno all’inizio, un linguaggio di business. Poi potremo attestarci sulle performance. Se, invece, ci troviamo a discutere con una persona di stampo puramente IT, la proposizione su cui riscuotiamo maggiore attenzione è quella dell’infrastruttura ibrida, seguono la gestione dati e l’incremento della produttività. D’altra parte, sulla sicurezza l’interesse è sempre stato elevato. Ades-

so, essendo cambiati i modi in cui si accede alla rete aziendale, è un’attenzione ancora più alta. Come gestire la transizione dalle soluzioni on premise a quelle Cloud? Lavorando su due fronti, private e hybrid. Il vantaggio di avere soluzioni di Cloud privato è abbastanza evidente. Permette di avere una flessibilità interna e un response time ridotto rispetto alle richieste di mercato. Per accompagnarlo a un approccio ibrido, che garantisce costi minori e maggiore scalabilità, puntiamo sulla creazione di Cloud service provider italiani che offrano servizi ai clienti direttamente dal territorio nazionale. I dati devono essere vicini e facilmente raggiungibili. Qual è il ruolo dei partner come intermediari in questo processo di trasformazione? Premesso che la rete dei partner per noi è fondamentale nell’ottica di coprire tutto il territorio italiano e che la maggior parte di loro ha ben compreso il valore della proattività nel rivolgersi ai clienti finali, l’ulteriore passaggio che occorre è la capacità di diventare loro interlocutori a 360 gradi, con conoscenze multidisciplinari - mi passi il termine ‘ibride’ - nelle varie aree di business in cui sono chiamati a operare come consulenti non più solo nell’ambito IT. Da dove arrivano i segnali più promettenti? Con mia sorpresa ho avuto ottimi feedback in modo uniforme da tutte e sei le zone in cui abbiamo suddiviso la Penisola: Lombardia, Emilia Romagna, Nord Est, Nord Ovest, Centro-Sud, e Toscana-Umbria-Marche.

Digital Transformation Tour Think Big at Any Size Hewlett Packard, in collaborazione con Digital4Executive e ZeroUno, organizza un tour in sei città d’Italia per illustrare alle imprese i vantaggi della trasformazione digitale al fine di coglierne le sfide e le opportunità. La tematica sarà affrontata a partire dai trend di mercato, sino all’analisi di casi concreti di aziende innovative. Per informazioni e registrazione www.digital4.biz/eventi o eventi@ digital4.biz. 27 Ottobre 11 Novembre 17 Novembre 19 Novembre 24 Novembre 26 Novembre

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Hitachi Systems CBT, servizi a valore e sicurezza per liberare le aziende dalla complessità

Di recente nominato Presidente e CEO della nuova Hitachi Systems CBT, Flavio Radice sta ora riorganizzando l’azienda e convogliando le energie verso nuovi ambiziosi obiettivi, ovvero trasferire al mercato ancora maggiori evidenze e garanzie della capacità di tradurre in concreto la strategia annunciata al momento dell’acquisizione da parte del colosso giapponese, avvenuta prima dell’estate. Hitachi Systems CBT è così entrata nella famiglia Hitachi Systems, che, con 3,5 miliardi di dollari di fatturato, conta oltre 14mila persone ed è parte della corporate Hitachi, multinazionale tra le maggiori a livello mondiale. «Ho accettato con entusiasmo la richiesta di assumere in prima persona il ruolo di guida dell’azienda - afferma Radice - con grande senso di responsabilità e con la consapevolezza degli obiettivi e delle priorità dell’azionista. Si tratta di una sfida importante, che porto avanti con il supporto, l’energia e la passione del mio team, composto da oltre 300 persone. Stiamo vivendo una fase di profondo cambiamento organizzativo: il piano di crescita prevede non solo il consolidamento sul mercato italiano, ma anche l’espansione a livello europeo. È un nuovo “mindset”, che passa attraverso l’ottimizzazione dei processi, il potenziamento dell’offering sul territorio italiano, e future acquisizioni che verranno finalizzate dal Gruppo Hitachi». In particolare, l’azienda punta su aziende italiane ed europee che possono ampliare la potenza di fuoco sia in termini di portafoglio, sia di mercati indirizzabili. Non mancano inoltre iniziative che hanno al centro lo Human Factor. «A breve partirà un progetto dedicato

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A Flavio Radice, che ora ricopre il ruolo di Presidente e CEO, è demandato il compito di guidare l’ambizioso progetto di crescita e rinnovamento della società, che prevede anche acquisizioni sul mercato europeo e massima valorizzazione delle persone. «Il carattere distintivo dell’azienda non è cambiato»

Flavio Radice Presidente e CEO Hitachi Systems CBT

ai giovani neolaureati che vorranno entrare nel gruppo Hitachi - rivela il manager-. A una ventina di giovani talenti sarà data l’opportunità di far parte della nostra realtà, nell’area dell’offerta di servizi o nel nostro incubatore per definire nuovi prodotti e servizi e nuovi approcci alla comunicazione». La partita, dunque, non è semplice, ma estremamente avvincente e promettente per tutte le persone che lavorano in azienda. Il piano di crescita Radice intende potenziare il piano strategico: «Rinnovamento e crescita sono le keywords strategiche, anche se in coerenza con il nostro DNA di Cloud, Service, Application e Technology Integrator. L’acquisizione non ha cambiato il carattere distintivo del System Integrator, stiamo lavorando in continuità dal punto di vista dell’offerta, seppur potenziandola e ottimizzando la modalità con cui andremo a erogare i servizi. Sicuramente manterremo l’aspetto multibrand e multivendor dal punto di vista delle tecnologie, sia a livello hardware, sia middleware, per restare, anche su questo versante, vicini alle esigenze dei clienti. Stiamo sviluppando iniziative per


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dare ancora più valore ai servizi gestiti e alla sicurezza, potendo contare su una nuova Business Unit dedicata alla Security. Ma è soprattutto in ambito Enterprise Information Management con la piattaforma WebRainbow che vogliamo giocare un ruolo fondamentale del processo di digitalizzazione delle imprese. Nel mondo dei servizi Cloud è in atto un rafforzamento dei Data Center e dell’offerta EasyCloud. Possiamo contare su un approccio 100% tailor made e multibrand e sulla forza del brand Hitachi per le alleanze internazionali». Sostanzialmente un rinnovamento favorito da un approccio industriale, da una visione internazionale del business e dall’allineamento al modello Hitachi Systems a livello finanziario, amministrativo e operation che il neo Presidente giudica come estremamente positivi: «Stiamo vivendo un’integrazione con una multinazionale che ha standard operativi molto

elevati in termini di processi di accounting, di controllo di gestione e finance. Si tratta quindi di una fase impegnativa, ma assolutamente costruttiva». Hitachi Systems CBT, con un forte approccio consulenziale, si pone come il partner tecnologico ideale per supportare, comprendere e anticipare le esigenze dell’utente: «Ci poniamo l’obiettivo di semplificare la gestione dell’informatica all’interno delle aziende pubbliche e private italiane e presto europee. Uno slogan che spesso usiamo è “cedere la complessità per focalizzarsi sul proprio core business”: in altre parole siamo in grado di supportare le organizzazioni prendendoci carico di tutti gli aspetti tecnologici. Lo facciamo da più di 35 anni con molte competenze, e con oltre 1200 certificazioni». Un mix di specializzazione, esperienza e know-how che posiziona Hitachi Systems CBT come uno dei primi player italiani in grado di rispondere a qualunque necessità delle imprese.

EasyCloud Tra i pilastri cardine della proposta di Hitachi Systems CBT rientra l’offerta di servizi Cloud, per accompagnare le aziende nel percorso verso la Cloud Business Transformation in un’ottica tailor-made, in base alle esigenze delle singole realtà. Un approccio consulenziale per proporre un servizio innovativo, tarato sulle modalità e le tempistiche richieste dal cliente.

EasyCloud offre soluzioni di Private, Public e Hybrid Cloud, con approcci progressivi al Disaster Recovery e alla Business Continuity e si presenta come piattaforma multi-tenant, compatibile con tutti i Sistemi Operativi, Virtualizzatori, Database, Sistemi di Backup e Sicurezza. Contribuiscono a garantire l’alto livello di servizio i Datacenter di ultima generazione situati a Milano e Roma, poli strategici nel panorama italiano.

WebRainbow, la piattaforma di Enterprise Information Management Accompagnare i clienti nella strada della dematerializzazione è da oltre 20 anni la mission della Business Unit dedicata a WebRainbow, la Piattaforma Software di Enterprise Information Management di Hitachi Systems CBT. Una concezione avanzata di Gestione Documentale, che non si limita solo alla dematerializzazione dei documenti, ma che supporta

la digitalizzazione integrata di informazioni, processi, applicazioni e persone, con verticalizzazioni e soluzioni specifiche, sia per aziende private che pubbliche, di medie e grandi dimensioni. Una sede dedicata, un team di oltre 40 persone, 230 clienti per oltre 43.000 utenti attivi sono alcuni dei numeri dell’asset scelto da Hitachi Systems CBT per portare il proprio offering in tutta l’Europa.

Focus sulla Security Con la BU dedicata alla Sicurezza, Hitachi Systems CBT diventa Partner di riferimento nella gestione del ciclo di Security Risk Management. Un approccio consulenziale a 360° per tutte le esigenze di Security, dalla Compliance alla gestione in Cloud dei servizi passando per l’implementazione delle migliori soluzioni tecnologiche, affrontando i delicati temi della

protezione che toccano, indistintamente, tutti gli ambiti di offerta. La sicurezza diventa un aspetto fondamentale in termini di Managed Services ampliando il raggio d’azione, creando una vera e propria partnership con il cliente, con un rapporto che esuli dalla semplice fornitura di prodotti, ma che affronti tutti gli aspetti aziendali che ne abilitano il business.

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10 novembre CONVEGNO CON ESPOSIZIONE VI edizione

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GESTIONE DEI PROCESSI SANITARI È UN EVENTO DI:

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intervista

Camisa, Dedagroup: «accompagnamo un cambiamento culturale molto profondo» «Dobbiamo parlare una lingua diversa, spiegando processi e non tecnologie, proponendo non tanto performance quanto metriche di business e prospettando il reale impatto delle soluzioni sui risultati e sulle strategie aziendali». L’AD del gruppo racconta la sua ricetta per affrontare le sfide di oggi Una competizione tanto vasta su scala globale quanto serrata sul piano locale. Un processo di metamorfosi delle skill, delle esigenze e persino dei linguaggi di business che richiede capacità di adattamento ancor più che flessibilità. E soprattutto l’imporsi di un mercato customer-centric, con strategie di ingaggio e personalizzazione liquide. Sono queste le sfide di oggi secondo Dedagroup ICT Network. «La ricetta giusta per vincerle non esiste - ammette Gianni Camisa, AD della multinazionale trentina - ma il modello che abbiamo elaborato sembra funzionare molto bene». Camisa spiega che il modello è fondato su cinque aspetti fondamentali. «Siamo innanzitutto vicini ai clienti e all’ecosistema in cui sono inseriti, supportandoli nel loro percorso di trasformazione digitale. Stiamo accompagnando un cambiamento culturale interno ed esterno molto profondo, prendendo coscienza che i nostri interlocutori sono radicalmente cambiati. Dunque anche noi dobbiamo parlare una lingua diversa, spiegando processi e non tecnologie, proponendo non tanto performance quanto metriche di business e prospettando il reale impatto delle soluzioni sui risultati e sulle strategie aziendali». Il terzo punto riguarda la capacità di dare risposte nuove a nuovi bisogni, o addirittura anticiparli, trovando il punto di equilibrio tra innovazione e integrazione di componenti tecnologiche concrete e robuste. «Un concetto che definiamo “innogration” e che opponiamo alla sperimentazione fine a se stessa, che spesso non presenta a nostro avviso profili di rischio accettabili».

Gianni Camisa amministratore delegato Dedagroup ICT Network

Il quarto asse ha a che fare con un processo strutturato di revisione dell’offerta. «Non possiamo più limitarci a proporre ERP o altri tipi di software. Dobbiamo integrare, arricchire le soluzioni consolidate con componenti crossfunzionali che espandano le potenzialità dei prodotti. Infine, diamo il benvenuto a chi per accademia o per mestiere si occupa di innovazione. Attraverso i FIT Talks, incontri di confronto a tema, cerchiamo di costruire una visione a 360 gradi sullo scenario», racconta il manager. Oggi il network internazionale di Dedagroup - con un fatturato di 205 milioni di euro e 1700 collaboratori - forma una galassia di imprese specializzate in vari ambiti dell’ICT. «La logica che adottammo otto anni fa sembra funzionare, siamo riusciti ad adattarci a un mercato che non ha di certo brillato, e a crescere nonostante il contesto», commenta Camisa. I plus di questo approccio? «La capacità di attivare le diverse competenze del gruppo attorno alle esigenze del cliente, secondo un metodo progettuale agile e in un’ottica di condivisione del rischio. Una filosofia, la nostra, che esercita un certo fascino sul mercato. Ormai sono i partner che vengono a cercarci e ci troviamo a competere con tutti i grandi player globali. Allo stesso tempo, però, spesso affrontiamo localmente soggetti molto specializzati e radicati sul territorio. Per questo riteniamo estremamente importante sviluppare una capacità di azione globale mantenendo però al contempo una costante attenzione al contesto territoriale in cui operiamo» conclude il manager. www.digital4executive.it

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I Workshop e Webinar possono essere visti in diretta Web e on demand (successivamente alla diretta). Tipologia

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Data

Area tematica

11 Webinar

Percorso sulla sicurezza IT e privacy

On Demand

Sicurezza IT e privacy

10 Webinar e Percorso sul Social Media Marketing 3 Worskhop

On Demand

Social Media Marketing

Webinar

Big Data e problematiche di gestione della privacy

20 ottobre

Compliance

Webinar

Le 10 regole d’oro della Mobile UX

22 ottobre

Mobile B2c Strategy

Webinar

Come creare e gestire un SOC

23 ottobre

Sicurezza Informatica e Privacy

Workshop

Come gestire lo tsunami di dati

28 ottobre

Big Data Analytics & Business Intelligence

Webinar

Dossier sanitario e fascicolo sanitario elettronico: le nuove linee guida del Garante

29 ottobre

Innovazione Digitale in Sanità

Webinar

La biometria in azienda: quali regole rispettare?

3 novembre

Smart Working

Webinar

E-leadership, come si costruisce e si coltiva

6 novembre

HR Innovation Practice

Webinar

Le competenze digitali di base necessarie per il lavoro: quali sono e come acquisirle

6 novembre

HR Innovation Practice

Webinar

Talent Management Journey: definire la roadmap per innovare la gestione dei talenti

9 novembre

HR Innovation Practice

Webinar

Come valutare le imprese digitali e la loro acquisizione

10 novembre

Digital & M&A

Webinar

eCommerce B2C: la tutela dei consumatori e le regole da rispettare

16 novembre

eCommerce B2c

Webinar

Le novità su Sistemi di Conservazione Digitale e Fatturazione Elettronica verso la PA

24 novembre

Fatturazione Elettronica e Dematerializzazione

Webinar

Esperienza di adozione della nuova ISO 27001/2013

25 novembre

Sicurezza Informatica e Privacy

Webinar

Mobile Wallet: i servizi da integrare nel portafoglio sul cellulare

26 novembre

Mobile Payment & Commerce

Webinar

Mobile App e Lean Startup: come fare per applicare un approccio lean allo sviluppo di una Mobile App

27 novembre

Mobile B2c Strategy

Webinar

Innovare senza sprechi: Il Metodo MyWaste

30 novembre

Gestione Progettazione e PLM

Webinar

Mobile App e Strategia - Cosa significa adottare una strategia per la progettazione di una Mobile App

novembre

Mobile B2c Strategy


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speciale “Retail ed eCommerce”

Innovazione digitale del Retail: in Italia tante soluzioni, ma strategie poco chiare I retailer sono chiamati a innovare e a considerare la tecnologia come uno strumento capace di abilitare nuove modalità di business. C’è chi è all’avanguardia, ma molti devono ancora cogliere l’opportunità, soprattutto nel Belpaese. Gli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano tracciano lo scenario di un contesto che si sta profondamente modificando

Sono ancora pochi, nel nostro Paese, i retailer che hanno approcciato l’innovazione digitale in modo convinto e con una strategia chiara e di lungo termine. Come noto, rispetto a Francia, Germania e UK, il Retail italiano è caratterizzato da un’elevata frammentazione: ci sono molte più imprese e il fatturato medio è fino a quattro volte inferiore. A influenzare i consumi degli italiani agiscono due fattori preponderanti, come emerge da una ricerca dell’Osservatorio Innovazione Digitale nel Retail del Politecnico di Milano focalizzata sui primi 250 retailer per fatturato in Italia: la congiuntura economica negativa degli ultimi sei anni e il profondo cambiamento che hanno subito i comportamenti di acquisto dei consumatori sotto la spinta della rivoluzione digitale in atto. Nel 2014 gli internet user italiani (intesi come coloro che hanno navigato su Internet almeno una volta nell’ultimo anno) hanno raggiunto quota 37 milioni e i web shopper, ovvero coloro che hanno | 56 |

effettuato almeno un acquisto online nell’ultimo anno, 16 milioni, registrando una crescita del 14% rispetto al 2013. Ancora più esplosivo è il fenomeno Mobile: il 90% circa degli utenti smartphone utilizza il device all’interno del punto vendita e di questi il 42% lo usa per confrontare prezzi, il 30% per inviare messaggi o foto relative agli acquisti e il 25% per cercare informazioni sui prodotti appena visti. In un contesto caratterizzato da una profonda trasfromazione, è quindi necessario farsi promotori dell’innovazione e affidarsi alla tecnologia per esplorare nuove modalità di business. Il punto è capire quanto i retailer ne siano oggi consapevoli. Per questo l’Osservatorio ha analizzato il punto di vista dei top retailer italiani e ha quantificato la spesa in progetti di innovazione digitale. Gli investimenti in innovazione digitale sono ancora limitati rispetto ad altri settori - si attestano nell’intorno di pochi decimi di punto per-


speciale “Retail ed eCommerce”

Marginalità, internazionalizzazione, caratteristiche del processo di acquisto, competitività e struttura della filiera. Sono questi i cinque fattori che influenzano la diffusione del digitale nel settore

centuale del valore del venduto - e rappresentano meno del 15% del totale degli investimenti annuali, rivolti ad ambiti “più tradizionali” come ad esempio l’apertura di nuovi punti vendita. Ma la consapevolezza e l’attenzione dei retailer italiani verso l’innovazione digitale sta crescendo, lo si deduce dal fatto che nel 2014 gli investimenti sono cresciuti mediamente del 25%. Inoltre per l’anno in corso più di due terzi dei retailer hanno portato già a termine o hanno in programma di farlo l’implementazione di oltre 3 progetti di innovazione digitale. Solo il 10% dei retailer dichiara di non avere in programma alcun progetto per il prossimo futuro. il livello di adozione e la maturità di utilizzo delle tecnologie digitali Il punto di snodo per i retailer italiani è orientarsi tra le numerose soluzioni digitali disponibili, per definire una strategia complessiva di innovazione. È utile a tal proposito suddividere i retailer in diverse categorie caratterizzate dal livello di adozione e dalla maturità di utilizzo dell’innovazione digitale. In primo luogo, ci sono coloro che, nonostante l’interesse, non hanno ancora avviato dei progetti di trasformazione, trincerandosi dietro l’alibi dell’incertezza legata ai ritorni economici e delle oggettive difficoltà di quantificazione, soprattutto se il progetto non ha impatti misurabili su fatturato e costi. Poi ci sono i retailer che hanno investito in progetti di innovazione digitale, senza però una strategia chiara e di lungo termine. In questi casi il rischio è di fare delle scelte finalizzate a stupire il cliente con il cosiddetto “effetto wow”, incapace poi di creare affezione nei confronti dell’innovazione digitale. Anche se ancora è il gruppo meno nutrito, c’è anche chi ha approcciato l’innovazione in modo convinto e con una strategia chiara e di lungo termine. Questi casi di eccellenza sono caratterizzati da un forte commitment dei vertici aziendali e da una prospettiva internazionale dovuta al presidio di mercati più evoluti rispetto a quello italiano (ad esempio Francia, Germania, Giappone, UK e USA).

i cinque fattori che trainano il cambiamento Marginalità, internazionalizzazione, caratteristiche del processo di acquisto, competitività e struttura della filiera. Sono questi i fattori che influenzano maggiormente la diffusione dell’innovazione. I retailer con una marginalità elevata mostrano, infatti, una maggiore propensione all’innovazione digitale, anche quando l’investimento è importante e con ritorni nel medio-lungo termine o quando l’adozione è molto pervasiva, prevedendo l’applicazione della tecnologia su ogni singolo pezzo commercializzato). Anche l’internazionalizzazione, intesa come presenza su più mercati, ha un impatto positivo, come dimostrato da molti retailer nell’Abbigliamento. La tipologia del processo di acquisto, poi, ha un forte peso nella scelta di quali e quante tecnologie adottare. I retailer che hanno clienti che effettuano acquisti ricorsivi, standard, con alti volumi e basso valore unitario sono più portati a implementare innovazioni digitali finalizzate alla creazione di efficienza, come ad esempio i sistemi di self check-out e self scanning nell’Alimentare. Al contrario i retailer con clienti caratterizzati da acquisti sporadici, con volumi ridotti ed elevato valore unitario, prediligono le soluzioni che consentono di arricchire l’esperienza di acquisto, come ad esempio le vetrine intelligenti e interattive, i magic mirror o i camerini smart nel caso dell’abbigliamento. Laddove, invece, la competizione è elevata e i retailer tradizionali si confrontano ogni giorno con quelli online, i più aggressivi in termini di prezzo, l’innovazione digitale viene utilizzata per differenziarsi e rafforzare la relazione con il proprio cliente, come ad esempio nell’Informatica ed elettronica di consumo con App o Mobile site che offrono servizi a valore aggiunto in punto vendita. Infine, l’adozione delle tecnologie a supporto dei processi di filiera è maggiormente diffusa laddove è presente una struttura di filiera con pochi attori, oppure si può contare sul supporto di associazioni che spingono la diffusione degli standard. | 57 |


speciale “Retail ed eCommerce”

L’eCommerce completa i canali: «Un’arma contro l’imitazione»

In Italia l’eCommerce vanta ormai numeri considere­ voli sia per gli acquisti “classici” da pc, sia per quelli da Mobile Device (smartphone e tablet), e sempre più imprese lo considerano un componente imprescindibile della loro strategia di commercializzazione “omnicana­ le”, anche in settori diversi da quelli – in primis turismo e abbigliamento – tradizionalmente più premiati dalle vendite online. Settori come quello di Würth Italia, fi­ liale della multinazionale tedesca di prodotti e sistemi di fissaggio e montaggio per professionisti dell’artigia­ nato, dell’edilizia e dell’industria e dell’automotive. Un caso indicato dall’Osservatorio eCommerce B2C del Po­ litecnico di Milano tra le best practice italiane appunto per quanto riguarda il commercio elettronico. Würth è un gruppo da oltre 10 miliardi di euro di fat­ turato (dati 2014), con una gamma di 100mila prodotti. La filiale italiana è la terza del gruppo come dimensioni: ha tre sedi e centri logistici a Egna (BZ), che è anche il quartier generale e Capena (Roma), e sempre nel 2014 ha realizzato vendite per 354 milioni, con 2650 persone di cui 1900 tecnici venditori. «Tutte le aziende del gruppo Würth hanno sposato da anni la logica della multicanalità: nel tempo il canale “storico” – i tecnici venditori – è stato affiancato da una rete di punti vendita proprietari, oggi quasi 100 in tutta Italia, da un call center commerciale, e nell’era digitale appunto dal sito di eCommerce e da un’App di Mobile Shopping», ci spiega Roberto Dalsasso, Re­ sponsabile IT di Würth Italia. «L’obiettivo è che il cliente ci possa trovare in qua­ lunque momento e possa comprare sul canale che in quel momento preferisce, digitale oppure offline». Questi punti di contatto, sottolinea Dalsasso, sono concepiti e gestiti in modo da essere complementari, senza conflitti tra loro, sia dal punto di vista interno (remunerazioni ai venditori e ai vari tipi di addetti coin­ volti), sia verso il cliente, che accede alla stessa gamma | 58 |

In Würth Italia i canali tradizionali venditori, rete di negozi, call center – sono affiancati da un sito di vendite online e un’App di Mobile Shopping. «l’eCommerce consente di concentrarsi su attività a valore aggiunto che, in un mondo in cui i prodotti sono copiati in tempi rapidi, fanno la differenza»

Roberto Dalsasso Responsabile IT Würth Italia

Fabio Mellaia eCommerce Manager Würth Italia

di prodotti, listino prezzi e ventaglio di promozioni su qualunque canale. Le best practice di Würth Italia sull’eCommerce han­ no basi consolidate, v isto che nel campo l’azienda ha praticamente vent’anni di esperienza. «Fin dal 1996 abbiamo una piattaforma elettronica di raccolta ordini: un sistema pensato per utenti tecnici, abituati a riordi­ nare la merce, quindi piuttosto basico dal punto di vista della grafica e della user experience, ma assolutamente funzionale», racconta Fabio Mellaia, eCommerce ma­ nager di Würth Italia. Il sistema permetteva il riordino anche tramite let­ tura di codici a barre. «Pensiamo alla necessità in un magazzino molto grande di riordinare una ventina di articoli che sono andati esauriti: è praticamente im­ possibile tenere a mente 20 codici di prodotti, tornare in ufficio e inserirli manualmente nel computer, per cui noi distribuiamo alla clientela un piccolo scanner laser, per leggere i barcode che applichiamo su ogni prodot­


speciale “Retail ed eCommerce”

to, e riversarli nel computer direttamente come ordine in formato elettronico sul nostro sistema». Sistema che è rimasto operativo fino all’inizio di quest’anno, quando è stata implementata anche in Ita­ lia una piattaforma tecnologica di eCommerce unifica­ ta per tutte le filiali europee di Würth, su cui ciascuna può localizzare e modificare la gamma di prodotti, le informazioni sul sito, servizi, promozioni e così via. E anche una versione mobile, più o meno con le stesse funzionalità. «Ovviamente il riordino tramite barcode è rimasto, e si sono aggiunte funzioni come il “click & collect”, ov­ vero l’acquisto online con ritiro nel nostro punto ven­ dita più vicino entro 60 minuti, e l’order tracking, con possibilità di tracciare il proprio ordine nelle varie fasi dell’iter di trasporto». Non è immediato, continua Mellaia, comunicare in­ ternamente il concetto che il nuovo canale eCommer­ ce è complementare agli altri, una possibilità in più. “Possono nascere resistenze che devono essere supe­ rate, quindi abbiamo sviluppato una serie di progetti formativi, portando in aula i venditori e i gestori dei punti vendita per spiegare loro i meccanismi di funzio­ namento, i vantaggi, le opportunità, come far fronte a eventuali problematiche e come spiegare tutto questo al cliente». Per quanto riguarda l’impatto sugli altri processi, l’inserimento dell’eCommerce ha influito sull’orario di attività del call center («non è bello se il cliente, al di

Tre pilastri per la strategia digitale «Il caso di Würth Italia - osserva Laura Cavallaro, Senior Consultant degli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano - è un’altra conferma del fatto che molte imprese italiane, sia retailer sia produttori, guardano all’eCommerce come a un’opportunità che può trasformare radicalmente l’azienda». Tutte le strategie digitali, sottolinea Cavallaro, andrebbero costruite su tre pilastri: – La strategia: «È indispensabile identificare le alternative strategiche per lo sviluppo dell’eCommerce come canale di vendita online diretta o intermediata da un merchant, o come progetto omnicanale. In entrambi i casi occorre determinare gli asset che l’azienda già possiede e a cui si può dare più valore grazie all’eCommerce: punti vendita, catena logistica, forza commerciale, ampiezza di gamma, elementi di servizio. Non va sottovalutata la potenzialità dei nuovi canali Mobile e Social come “moltiplicatori”, non solo nell’istante di acquisto ma anche come estensione della user experience». – Le operation: «Un approccio strategico ai canali digitali richiede molta attenzione nel cambiare processi di marketing, commerciali, logistici, di customer care e creativi pensati per servire altri canali “tradizionali”». – L’organizzazione: «Per eseguire la strategia digitale serve un team con un mix di competenze che copre l’intera catena del valore dell’eCommerce, collaborando con le altre aree aziendali: marketing, commerciali, logistici, di customer care e creativi. Parte di queste competenze può essere sviluppata in azienda, parte può essere coperta grazie a partner esterni, mentre quelle mancanti si possono reperire sul mercato, anche se in alcuni casi sono poco diffuse nel mercato del lavoro italiano».

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speciale “Retail ed eCommerce”

fuori dell’orario di lavoro classico, telefona per un’in­ formazione e nessuno gli risponde»), e sul modo di lavorare del personale dei punti vendita per il click & collect («all’inizio erano un po’ spaventati dal lavoro in più, ma c’è voluto poco tempo per mostrare loro i van­ taggi: devono semplicemente preparare la merce entro un’ora dall’ordine, ma è un ordine che altrimenti non avrebbero avuto»). Nessuna ripercussione particolare invece c’è stata sui processi logistici: «I nostri sistemi e procedure era­ no già progettati per spedizioni anche da eCommerce a qualunque ora, e un ragionamento analogo vale per i magazzini dei punti vendita; in futuro però ci sarà un’e­ voluzione per supportare la consegna su appuntamen­ to, nel senso che permetteremo al cliente di richiederla nel giorno e all’ora che vuole». Tirando le somme, il fatturato da eCommerce per Würth Italia l’anno scorso è cresciuto del 40%. Quanto al Mobile Shopping, «è ancora presto per parlare di nu­ meri, ma l’App finora ha registrato circa 14mila down­ load». Per avere un’idea, i prodotti di Würth in Italia si rivolgono a oltre 200mila professionisti e artigiani dell’edilizia e dell’industria. «A prescindere dalla tecnologia – conclude Mel­ laia –, un ingrediente fondamentale del successo dell’eCommerce è stato essere riusciti a convincere i vari tipi di personale coinvolto che quest’iniziativa non porterà via lavoro, ma consentirà di eliminare una

Laura Cavallaro Senior Consultant Partners4Innovation

Marco Planzi Associate Partner Partners4Innovation

serie di attività noiose e burocratiche, concentrandosi su attività a valore aggiunto – sviluppare il potenziale del cliente, raggiungere clienti nuovi, proporre servizi evoluti - che oggi, in uno scenario in cui i prodotti sono copiati in tempi impressionanti, fanno la differenza».

Tre fasi per un approccio omnicanale L’impostazione di una strategia omnicanale, ci spiega Marco Planzi, Associate Partner di Partners4Innovation. deve prevedere tre fasi, secondo i criteri dell’approccio Lean: – Incubazione: «Se l’eCommerce deve ancora essere lanciato, o dà un contributo marginale al fatturato, è importante individuare un “incubatore” aziendale. Attorno a uno o più manager che credono fortemente nelle vendite online e hanno una forte reputazione aziendale, è necessario costruire una “task force” di persone con le competenze “core” per lanciare l’eCommerce con spirito imprenditoriale e voglia di sperimentare». – Crescita: «Quando l’eCommerce inizia a essere un canale interessante in termini di vendite e sinergie con gli altri canali, occorre posizionare il team eCommerce nell’organigramma concedendo autonomia operativa rispetto alle altre funzioni, e capacità di sperimentare, grazie anche a un eCommerce Manager o Digital Marketing Manager credibile agli occhi del top management. Il team deve essere rinforzato per assecondare la crescita del canale». – Maturità: «Quando l’eCommerce è uno dei principali canali di vendita e contribuisce con rilevanti sinergie alle performance degli altri, il team viene consolidato e i meccanismi per generare sinergie con gli altri canali sono oliati alla perfezione. In questa fase occorre evitare di “sedersi sugli allori” e continuare a monitorare sia la competizione diretta sia i trend innovativi, tecnologici e di business, che emergono dal mondo delle startup. È infatti importante continuare a sperimentare, aspetto che deve far parte della cultura stessa del team eCommerce».

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speciale “Retail ed eCommerce”

Gros, il business della distribuzione funziona meglio con la digitalizzazione

Tra gli esempi di una distribuzione che ha deciso di investire nell’innovazione digitale per ottimizzare i processi di consegna e rendere più efficiente il dialogo della filiera c’è una realtà italiana interessante: si chiama GROS ed è l’acronimo di Gruppo Romano Supermercati. Società consortile costituita da 70 aziende, GROS ha al suo attivo 14 insegne che costituiscono un rete di 160 punti vendita, tutti distribuiti nell’area di Roma e in altre province del Lazio. Il successo del brand, infatti, si deve a una strategia che, dall’antipasto al caffè, è incentrata su una valorizzazione della produzione romano-laziale. Il modello di business è vincente: nel 2014 il gruppo ha generato un fatturato di 1 miliardo e 300 milioni di euro, in crescita. La qualità del servizio va di pari passo con la qualità dell’informazione. «Movimentiamo oltre 180mila bolle l’anno - spiega Alessandro Borgia, Direttore Finanziario di CE.DI. GROS - e un volume di fatture nell’ordine di 120mila documenti. Nel 2014 abbiamo deciso di digitalizzare ulteriormente i nostri processi di consegna. Il primo obiettivo? Uniformare tutte le attività dei soci». La volontà di standardizzare le procedure attraverso una digitalizzazione più evoluta andava incontro anche alle esigenze di dematerializzare la documentazione per snellire le procedure, innalzando al contempo la qualità dei controlli. Alla fine del 2014, CE.DI.GROS ha così iniziato a implementare tre nuovi moduli di gestione della suite TESI TMS, il Transportation Management System di TESISQUARE. La reingegnerizzazione ha innescato un circolo virtuoso dalla produzione alla distribuzione, accrescendo flessibilità e performance operativa. «Oltre a consentirci notevoli risparmi sulla carta - prosegue Borgia -, la gestio-

La società consortile ha reso digitali prima le fatture e i DDt e, in seguito, tutto il processo di consegna. Risultato: una riduzione dei costi del 65% e personale libero di gestire meglio le attività

ne digitale ha liberato risorse che potranno occuparsi di attività più importanti rispetto, ad esempio, alla ricerca di un Documento di Trasporto (DDT) in un archivio. Secondo le nostre stime, la nuova tecnologia ci consentirà di ridurre i costi nell’ordine del 65%». Un caso emblematico è la gestione dei contenziosi: oltre 30mila documenti l’anno che oggi CE.DI. GROS gestisce con la massima puntualità ed efficienza, avendo un livello di monitoraggio del servizio estremamente dettagliato rispetto, ad esempio, a una consegna non conforme a un ordine per un’inversione di prodotto, un out of stock, un collo deteriorato o una consegna troppo vicina alla data di scadenza. «I vantaggi apportati dalla nuova gestione - conclude Borgia - includono anche la conservazione sostitutiva. Attraverso una formula in Cloud abbiamo ottenuto vantaggi dal punto di vista organizzativo, funzionale, economico e operativo: standardizzazione, efficienza e massima condivisione di tutti i processi, con una trasparenza informativa che ci permette di rivedere le anomalie nella filiera. I vantaggi della nostra scelta tecnologica arrivano anche ai consumatori perché riusciremo a ridurre le spese e quindi a aumentare la nostra competitività». PUNTI VENDITA E TRASPORTATORI SEMPRE PIÙ SMART La digitalizzazione ha portato in GROS anche nuove modalità di interscambio. Perno tecnologico dello sviluppo la Near Field Communication: quando l’operatore deve firmare un DDT, si limita ad avvicinare il badge allo smartphone NFC del trasportatore e la procedura, in tempo reale, registra la firma digitale, mettendo tutto a sistema.

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La legge 231/01 sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche; la legge anticorruzione 190/2012 e la 262/2005 che disciplina i mercati finanziari; la nuova ISO 9001:2015 sono tutte focalizzate sulla gestione dei rischi operativi e/o finanziari: un argomento sempre più delicato sia in termini di assessment che di gestione quotidiana. L’analisi e la gestione dei rischi finanziari o operativi delle aziende è un argomento sempre più delicato sia in termini di assessment che nella loro gestione quotidiana. La maggior parte delle leggi, regolamenti e standard internazionali e nazionali hanno alcuni punti in comune: individuazione delle priorità strategiche e rischi associati; progettazione e realizzazione dei relativi processi; controllo. Ma come si ottiene in pratica una buona gestione del rischio? Implementando un sistema di regole e procedure che disciplinino tutte le attività ed adottando una soluzione capace di garantire la sicurezza dei dati e di modellare, eseguire e monitorare i processi, mettendo a disposizione degli utenti le risorse necessarie per svolgere le attività in modo controllato ed in linea con le procedure definite. Questa è ARXivar, la piattaforma di Business Process Management realizzata da Able Tech, che permette la modellazione, la realizzazione e il monitoraggio dei processi per la valutazione e la gestione del rischio (D. Lgs. 231, Anticorruzione, Qualità, SOX, L.262, Internal Auditng).

La compliance a leggi e regolamenti si ottiene implementando un sistema di regole e procedure “controllate” e adottando una soluzione di Business Process Management capace di garantire sicurezza dei dati e di modellare, eseguire e monitorare i processi aziendali, come Arxivar

ARXivar gestisce il Risk Assesment tramite la mappatura dei processi (attraverso la ricostruzione della formazione degli atti e delle fonti informative/documentali utilizzate a supporto dell’attività svolta) e l’organizzazione logica dei documenti (per processo, normativa, categoria di rischio, categoria di eventi…). ARXivar abilita il pieno controllo dei processi e dei documenti ad essi relativi. La piattaforma monitora la durata delle attività previste tramite escalation, indentifica i relativi processi e le scadenze predefinite, rendendo direttamente disponibili agli utenti coinvolti delle “work list” (attività da svolgere per garantire la conformità alle norme), prevede regole e permessi (identificazione non conformità, indicatori di processo). Traccia inoltre le evidenze degli Audit effettuati, dei flussi informativi ed in generale di tutta la documentazione di processo con immediata reperibilità della stessa. Il tutto integrato con sistemi di business intelligence che permettono l’analisi del funzionamento dell’azienda grazie a parametri immediatamente disponibili. Con ARXivar è possibile misurare l’efficienza e l’operatività senza adottare strumenti aggiuntivi. La piattaforma invia Alert/reminder automatici di richiesta dati o informazioni e notifiche delle carenze di non operatività e/o delle non conformità alla società; rende disponibili report e valutazione degli scostamenti, misurazione delle prestazioni tecniche ed eventuali correzioni del processo. Infine, lato sicurezza dei dati ed in linea con i principali requisiti in ambito D. Lgs. 231/2001 (responsabilità amministrative delle persone giuridiche) ARXivar garantisce che le procedure rispettino i principi della tracciabilità, della separazione dei compiti, dei poteri di firma e autorizzativi, dell’archiviazione con modalità tali da non permettere la modifica successiva se non con apposita evidenza e delle riservatezze (accesso ai documenti archiviati consentito solo al soggetto competente per la supervisione e controllo).

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L’importanza del Software Asset Management per ottimizzare i processi e ridurre i costi

Una piattaforma di applicativi, servizi e consulenza rivolta alle imprese che vogliono fare del SAM (Software Asset Management) un elemento strategico per la crescita. Questo è SAM2GO, la suite che COMPAREX, specialista tedesco di un settore che per Gartner vedrà gli investimenti decuplicare da qui al 2017, propone al mercato italiano. Superato il concetto di SAM come insieme di strumenti, competenze e pratiche attraverso cui ci si limita a monitorare e aggiornare i termini contrattuali delle licenze software per non incorrere negli audit dei vendor, oggi COMPAREX punta a ottimizzare le risorse, ridurre sprechi, ridondanze e conflitti nel licensing dei prodotti in uso. «I vantaggi per il business? Una sensibile riduzione della complessità sul piano operativo, con enormi benefici in particolare per l’efficienza dell’help desk, e un risparmio significativo sui budget da destinare all’acquisto di software», assicura Roberto Brioschi, Amministratore Delegato di COMPAREX Italia. «Da questo punto di vista i nostri clienti riescono ad abbattere i costi fino al 30%». Tutto ciò è possibile grazie a SAM2GO e al lavoro di consulenza degli esperti di COMPAREX. «Agiamo in quattro fasi. Si parte dall’analisi dello status quo del parco software del cliente, ricaviamo le informazioni di base dall’inventario, completandole con interviste e analisi specifiche», racconta Brioschi. La raccolta dei dati caso per caso è fondamentale, perché il licensing presuppone applicazioni diverse delle regole contrattuali: «A seconda delle infrastrutture IT e del tipo di organizzazione ciascun progetto ha le sue peculiarità.

Il mutato scenario tecnologico ed economico italiano ha spinto Comparex, specialista del Software Asset Management, a riformulare l’offerta. la suite sam2go aiuta oggi i clienti a comprendere il parco licenze per identificare nuove opportunità e ridurre costi e complessitA’

Roberto Brioschi Amministratore Delegato COMPAREX Italia

Ci rivolgiamo ad aziende che hanno almeno 250 postazioni, e tipicamente lavoriamo con clienti di grandi dimensioni, con 1.500 unità o superiori». La fase successiva prevede il trasferimento delle informazioni raccolte al motore di elaborazione, che recepisce e organizza licenze, funzioni e progetti confrontandolo con un database costantemente aggiornato, su cui lavorano oltre 200 consulenti SAM attingendo agli input che provengono da 33 mercati e 13 mila produttori. Questa fase prevede la costruzione di una dashboard completa e facilmente navigabile. SAM2GO consente anche di comprendere se si stanno pagando licenze per oggetti diversi destinati a svolgere la stessa funzione e stabilire se il numero di licenze è calibrato all’effettivo bisogno. «Per molti SAM è ancora sinonimo di strumento per evitare l’audit dei vendor. ll nostro invece è un servizio consulenziale che ha un preciso obiettivo: permettere ai clienti di conoscere ciò di cui dispongono e capire ciò di cui hanno realmente bisogno e se, come spesso accade, non si sfruttano tutte le risorse. È attraverso questo nuovo concetto di SAM che diventa possibile riformulare i budget IT e semplificare i rapporti con i vendor», conclude Brioschi.

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reportage di

paola capoferro ronchetta

Cosa significa oggi essere smart per le aziende italiane Le testimonianze di chi, a vario titolo, sta toccando con mano come lo Smart Working stia trasformando il modo di lavorare sono state al centro di un evento organizzato da Digital4Executive. A cambiare sono le policy organizzative, le tecnologie digitali adottate, i comportamenti, gli stili di leadership e gli spazi fisici

Lo Smart Working sta trasformando il modo di lavorare, e lo sta facendo rapidamente perché rimanere ancorati ai vecchi schemi oggi può voler dire perdere terreno. Le tecnologie sono sempre più pervasive ed entrano a far parte della quotidianità, modificando il modo in cui comunichiamo, collaboriamo e lavoriamo all’interno delle imprese. Per questo è fondamentale essere consapevoli della trasformazione in atto e saperne apprezzare e cogliere le opportunità. Cambiano così le policy organizzative, le tecnologie digitali adottate, i comportamenti, gli stili di leadership e gli spazi fisici. Digital4Executive ha organizzato lo scorso giugno l’evento “Smart working, istruzioni per l’uso”, raccogliendo la testimonianza di chi questo fenomeno, a vario titolo, lo sta toccando con mano, per capire cosa significa oggi essere Smart per le aziende italiane. Fino a pochi anni fa la concezione degli uffici era ben diversa rispetto a oggi, come ha raccon| 66 |

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tato Mariano Corso, Responsabile Scientifico dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano: «C’erano dei confini ben delineati tra il lavoro e la vita privata, in ufficio si era raggiungibili solo alla postazione, e la produttività era determinata dal tempo passato alla scrivania». Oggi è necessario riprogettare con intelligenza l’organizzazione del lavoro, e per farlo bisogna adottare una nuova filosofia manageriale - ha sottolineato Corso - volta alla responsabilizzazione delle persone, che hanno come contropartita maggiore flessibilità e autonomia nel definire dove e quando lavorare, e quali strumenti utilizzare. La produttività non è più lineare rispetto al tempo di permanenza in uno spazio». A essere cambiate sono proprio le esigenze dei dipendenti, che spesso si sentono vincolati da un’organizzazione del lavoro che ormai è troppo rigida. Un numero sempre maggiore di imprese riconosce oggi queste opportunità e sta ridando maggiore discrezionalità alle persone in ter-


r e p or tag e | C o sa sig n if ic a o g g i e sse re sma rt p e r l e a z ie n de ita l iane

mini di scelte legate al dove, come e quando lavorare, a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati. «Già esistono esempi di aziende che hanno rifiutato determinati stereotipi, dimostrando che si può fare qualcosa di diverso, anche e soprattutto in Italia dove alcuni progetti di Smart Working rappresentano esempi di eccellenza». Nel nostro Paese, ad aver implementato in modo sistematico un vero programma di Smart Working è circa il 10% delle grandi aziende. A queste se ne aggiungono altrettante che hanno già in programma progetti in tal senso: in pratica, quindi, due aziende su dieci stanno facendo Smart Working. Per Roberto Lauritano, Head of Letting Department di Generali Real Estate, lo Smart Working ormai è una realtà imprescindibile con cui convivere. «Molti dei nostri clienti, anche di settori e dimensioni differenti, hanno introdotto lo Smart Working in azienda o pensano di farlo a breve - ha

specificato il manager -. Il nostro compito è contribuire alla conoscenza e alla diffusione di questo fenomeno, di cui siamo testimoni considerando che l’area su cui abbiamo focalizzato le nostre competenze è proprio quella degli uffici, non solo in Italia ma anche a livello mondiale, e che tra i nostri immobili ne annoveriamo anche di estremamente innovativi come la sede di Mondadori a Segrate, il progetto CityLife a Milano, e la sede di Nestlè ad Assago». Ma lo Smart Working non si può improvvisare, non si può attivare da un giorno all’altro. Per intraprendere questo percorso è necessario cogliere il momento organizzativo più adatto. «Quando si parla di progettare nuovi uffici è importante non tralasciare aspetti strategici come l’efficienza, il ritorno degli investimenti, la riduzione dei costi e la sostenibilità», sottolinea Sabrina Conzadori, Business Services Italy Manager di Nestlè, che ad aprile ha trasferito 1300 persone nella nuova sede di Assago. Il progetto, partito nel 2011, «puntava a costruire un edificio che rappresentasse un nuovo modello organizzativo per dare valore alle persone, cercando di migliorare al tempo stesso le performance di business». Fin dalla fase di progettazione, il nuovo Campus Nestlé in Italia, è stato infatti studiato per rispecchiare il bisogno di riorganizzare gli spazi e i tempi lavorativi in modo flessibile. Proprio per queste sue caratteristiche (open space, ampi spazi informali, aree speciali di supporto al business…etc.) è oggi un esempio, sia per altre realtà del mondo Nestlé, sia per altre aziende, enti pubblici e di ricerca. Questo spazio innovativo rappresenta un grande passo avanti nel processo di trasformazione che ha avvicinato Nestlé allo smart working, un percorso iniziato nel 2006 e che ha portato alla realizzazione di numerose iniziative volte al raggiungimento di un maggiore equilibrio tra vita lavorativa e familiare. Ad esempio, proprio nel 2006 Nestlé ha introdotto in Italia la flessibilità oraria di entrata e uscita (con compensazione su base mensile). È stato poi introdotto il telelavoro, per offrire l’opportunità di lavorare in modo continuativo e prevalentemente da casa, previo accordo formale con l’azienda. Nel 2010 l’attenzione si è poi spostata sul concetto di “flexible work environment”, per il quale il lavoratore sceglie di lavorare in remoto da luoghi diversi dalla postazione aziendale. www.digital4executive.it

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reportage | Cosa s i gni f i c a oggi e s s e r e s m ar t pe r l e a z ie n de ita l ia n e

Da sinistra: Mariano Corso, Direttore dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano; Roberto Lauritano, Head of Letting Department di Generali Real Estate; Sabrina Conzadori, Business Services Italy Manager di Nestlè

E se oggi, a qualche mese dal trasferimento, è già forte il senso di appartenenza a quello che è stato chiamato “Campus”, lo si deve al lavoro di coinvolgimento che si è fatto sulle persone nei mesi precedenti il trasferimento, attraverso opportune attività di comunicazione e change management. In questo modo il cambiamento è stato gestito in modo positivo a diversi livelli. Questo processo ha portato a modalità di lavoro nuove, che possono essere vissute a 360 gradi all’interno del nuovo Campus in cui si trovano aree di lavoro innovative e spazi consueti ripensati in modo diverso: anche il ristorante aziendale, il bar e le aree break, infatti, sono concepiti per favorire l’incontro e lo scambio di idee fra colleghi e attrezzate per lavorarvi in gruppo o da soli. Possiamo inoltre contare su tecnologie digitali che possono ampliare e rendere virtuale lo spazio di lavoro e facilitare le interazioni tra figure interne ed esterne all’azienda. Gli spazi sono stati modellati sulle esigenze del gruppo: ci sono open space con isole da sei o da otto postazioni, il cui numero è stato stabilito grazie alla classificazione del personale in tre categorie - Resident, Internal Mobile, Fully Mobile -, in funzione della percentuale di tempo speso in azienda alla propria postazione e delle attività tipiche del ruolo ricoperto; sale riunioni di diverse dimensioni; aree per teleconferenze e phone booth. «Crediamo molto sul concetto di “Performance vs Presence”. Oggi la produttività è valutata sempre di più sulla base di obiettivi e risultati, e sempre meno della presenza fisica in un solo luogo e per un tempo definito. Abbiamo concepito il nuovo Campus anche per facilitare la flessibilità e promuovere questa cultura». Nestlè ha potuto contare sul supporto di diversi esperti e advisor. Tra questi figura il team di Alessandro Adamo, Partner L22, Director DEGW Italia, società di consulenza internazionale specializzata nella progettazione integrata di ambienti per il lavoro, che ha seguito il gruppo per due anni, dalla posa della prima pietra all’effettivo trasferimento delle persone. Come racconta Adamo, «uno dei primi incontri con il management di Nestlé è stato

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mirato a definire la vision e gli obiettivi del progetto: lo scopo era portare tutte le risorse fino a quel momento distribuite in quattro sedi all’interno di un unico building, e di farlo ottimizzando gli spazi». Il punto di partenza è stato capire quanto l’azienda fosse “Smart” e come gli spazi di lavoro fossero utilizzati dalle diverse business. Si è arrivati così alla costruzione dei tre profili di lavoratori: Resident, Internal Mobile (coloro che passano la maggior parte del tempo in ufficio ma non al proprio posto) ed External Mobile (coloro che si occupano di business fuori dalla sede). «Dall’analisi degli arredi e delle superfici è emerso che meno del 40% dell’organizzazione poteva considerarsi Resident, e proprio questo è stato l’input per disegnare un modello spaziale di sharing che tenesse conto anche del tipo di attività svolta, se individuale o collaborativa. Si è arrivati così allo sviluppo di un nuovo concept, con il 30% delle aree dedicato a spazi di supporto: aree break, phone booth e sale riunioni. Anche il ristorante aziendale è stato pensato per diversi tipi di attività con tre tipologie di aree - long stay, fast, e ristorante tradizionale -, e una caffetteria aperta tutto il giorno con la possibilità di accedere al WiFi. «Il lavoro più impegnativo è stato capire le dinamiche e trasmettere il valore dei singoli brand all’interno degli spazi. La grafica ha avuto un ruolo predominante: dal punto di vista della personalizzazione sono state identificate delle aree dedicate ai brand, che pur con immagini e loghi differenti sono concettualmente nello stesso spazio e permettono un’immediata riconoscibilità e appartenenza al gruppo». Le soluzioni che abilitano lo Smart Working È chiaro che la crescente diffusione delle tecnologie mobili ha un ruolo fondamentale nell’accelerazione dello Smartworking, per collaborare e comunicare. «I dipendenti si aspettano sempre più di utilizzare questi meccanismi anche all’interno della propria azienda, e il fatto che il 75% del traffico Mobile sia generato dalla navigazione in WiFi è indice


r e p or tag e | C o sa sig n if ic a o g g i e sse re sma rt p e r l e a z ie n de ita l iane Da sinistra: Alessandro Adamo, Partner L22, Director DEGW Italia; Stefano Mattevi, Responsabile del Segment Direct Marketing di Telecom Italia

del fatto che i dipendenti vogliono usare i loro device - tablet e smartphone - a casa come in ufficio, a mensa, nelle phone booth», conferma Stefano Mattevi, Responsabile del Segment Direct Marketing di Telecom Italia. Per questo bisogna porre attenzione a due elementi: da una parte la disponibilità di banda, e dall’altra la scelta di quali strumenti utilizzare, per riprogettare le applicazioni gestionali in modo che siano fruibili facilmente anche sui device che il lavoratore utilizza nella sua digital life.

E Telecom Italia nella partita dello Smart Working non gioca solo il ruolo di operatore, ma anche di pioniere, dopo il recente avvio di un progetto interno, fortemente voluto dall’Amministratore Delegato, che ha coinvolto 40mila dipendenti in tutta Italia, puntando sul concetto di Smart Building. «Uno degli elementi chiave oltre la tecnologia è l’organizzazione degli spazi. Tante cose si possono realizzare e implementare in un nuovo edificio, anche grazie all’utilizzo della tecnologia NFC - che consente sem-

Come rendere confortevole l’ambiente di lavoro Secondo una ricerca IFMA (International Facility Management Association), uno spazio di lavoro per essere Smart deve avere aree riservate dove le persone possano lavorare con concentrazione e fare piccoli meeting, project area per lavorare in gruppo, aree di socializzazione destinate a meeting informali; ciascuna tipologia deve avere dotazioni tecnologiche adeguate ed essere prossima alla postazione di lavoro, nonché immediatamente identificabile e accessibile. A condividere questi aspetti è Lella Castelli, Responsabile Marketing di Sedus Italia, la società di matrice tedesca specializzata nell’innovazione degli arredi per gli uffici, che si occupa di benessere produttivo da 144 anni. «Benessere significa realizzare degli spazi in cui le persone stiano bene, in cui ci sia comfort ed ergonomia, e in cui sia curato anche l’ambito emozionale, che può incentivare l’implementazione di nuovi modelli di lavoro. Ci sono degli aspetti fondamentali da tenere in considerazione, i cosiddetti bisogni primari». Per esempio, se l’ambiente utilizzato per una sessione di brainstorming è confortevole e la luce è naturale, l’incontro potrà assumere un aspetto più informale, le persone si sentiranno più a proprio agio e potranno lavorare meglio. Lo stesso ragionamento vale anche per le aree break o quelle di socializzazione: se sono accattivanti, per il colore e per le emozioni che generano, e facilmente individuabili, si possono utilizzare non solo per una

pausa e per fermarsi e chiacchierare, ma diventano di fatto nuovi spazi di interazione e lavoro, che sprigionano nuove energie produttive. Anche gli arredi giocano un ruolo primario: «Devono essere flessibili e riconfigurabili nello stesso ambiente, anche per una questione di ottimizzazione degli spazi: sempre più si richiede comfort, ergonomia, accessibilità, identificazione al prodotto». Per questo è importante ad esempio che lo stesso arredo possa essere utilizzato per un meeting informale piuttosto che per una riunione ufficiale, o che all’interno di un open space si riesca a creare in modo estemporaneo un’area riunione con lo stesso tavolo di lavoro o con un tavolo richiudibile e con dei pannelli fonoassorbenti mobili. Gli spazi però non sono l’unico fattore abilitante. Infatti a concorrere alla buona riuscita di un progetto di Smart Working ci sono anche gli strumenti tecnologici che consentono di lavorare in mobilità, ovunque e in qualunque momento, anche grazie alla flessibilità garantita da un’infrastruttura di rete che consente anche l’utilizzo di applicazioni in Cloud scalabili, in grado di rendere sempre disponibili i servizi aziendali. Ed è proprio a questo livello che gli operatori di telecomunicazioni giocano un ruolo determinante, innanzitutto perché mettono a disposizione una rete di comunicazione con la quale gli utenti dello Smart possono accedere alle funzioni delle applicazioni aziendali. www.digital4executive.it

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reportage | Cosa s i gni f i c a oggi e s s e r e s m ar t pe r l e a z ie n de ita l ia n e Da sinistra: Ilaria Santambrogio, Country Manager di Plantronics; Lella Castelli, Responsabile Marketing di Sedus Italia.

plicemente avvicinando un cellulare o un badge a un lettore di aprire un tornello, pagare la mensa, stampare un documento - e delle applicazioni in Cloud, fondate sulla disponibilità di un’infrastruttura verticale che può crescere secondo le esigenze». A cogliere le potenzialità del lavoro Smart è stata anche Plantronics, la piccola multinazionale americana con l’ambizione di far diventare i propri prodotti dei veri e propri hub per gestire le comunicazioni in ambienti Smart, che dal 2009 ha adottato questa filosofia manageriale, consentendo ai professionisti di lavorare dove e quando sono più produttivi. Ilaria Santambrogio, Country Manager di Plantronics, non ha dubbi nell’affermare che implementare le politiche di Smart Working sia vincente sia per l’azienda che per il dipendente, e che uno dei fattori chiave sia la tecnologia, in quanto abilitatore di procedure più efficienti. Plantronics si sta focalizzando in particolare su alcune aree che definisce “innovation waves”, per

dare valore aggiunto alla user experience. La prima è quella che l’azienda chiama “Be in the zone”, ovvero fare in modo che la tecnologia si adatti agli spazi in cui si lavora per far svolgere al meglio le attività del personale. È questo il caso degli auricolari innovativi, in grado di capire qual è il contesto in cui si sta operando e di calibrare di conseguenza il proprio funzionamento: ad esempio, se l’ambiente è molto rumoroso, i sistemi di “noise cancellation” si attivano per proteggere meglio la conversazione e per isolare la persona, senza che sia costretta a spostarsi. La seconda area è quella della “contextual intelligence”, che attraverso dei sensori consente all’auricolare di adattarsi al contesto che lo circonda. Se per esempio durante una conference call il tono della persona che parla è molto noioso o se non sta facendo delle pause l’auricolare potrebbe farlo presente. «Questi sono tutti accorgimenti che permettono al professionista che collabora sempre più in modo virtuale, perché è uno smarter worker, di essere efficace».

Le quattro mosse per uno Smart Working di successo Tutte queste esperienze confermano quanto rilevato dall’ultima ricerca dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano: fare Smart Working vuol dire lavorare su quattro leve di riprogettazione del lavoro. Innanzitutto bisogna pensare a nuove policy, per esempio in termini di orari e di spazi di lavoro, per liberare energie e opportunità di produttività. In secondo luogo è fondamentale puntare sulle tecnologie digitali abilitanti, tra cui il Mobile e il Cloud, per dare ai lavoratori la giusta configurazione e gli strumenti per essere produttivi ovunque e in qualunque momento. Ma è importante anche ridisegnare gli spazi di lavoro differenziandoli in funzione delle diverse esigenze - come ad esempio concentrarsi, comunicare verso l’esterno, collaborare in piccoli gruppi in modo formale o informale -, pensando all’ufficio come a un luogo di incontro in cui si sprigiona creatività e collaborazione. Infine bisogna ripensare agli stili di leadership tra manager e collaboratori, verso un’identità allargata all’azienda, un maggior empowerment delle persone per orientarle sempre di più al raggiungimento della performance, e un adeguato livello di flessibilità e virtualità, perché oggi a fronte di un numero crescente di strumenti per collaborare e comunicare con i colleghi è necessario imparare a farne il giusto uso. Se si riesce a lavorare su tutte queste leve si può arrivare a progettare un nuovo modello di lavoro che porta grandi benefici all’azienda, che guadagna in produttività a fronte di una riduzione dei costi, ma anche alle persone, che possono contare su una maggiore qualità del lavoro e su un miglior bilanciamento tra vita privata e vita lavorativa. | 70 |

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PROSSIMI EVENTI LA SCHOOL OF MANAGEMENT

La School of Management del Politecnico di Milano, con oltre 240 docenti, e circa 80 fra dottorandi e collaboratori alla ricerca, dal 2003 accoglie le molteplici attività di ricerca, formazione e alta consulenza, nei campi del management, dell’economia e dell’industrial engineering che il Politecnico porta avanti attraverso le sue diverse strutture interne e consortili. Fanno parte della Scuola il Dipartimento di Ingegneria Gestionale, le Lauree e il PhD Program di Ingegneria Gestionale e il MIP, la business school del Politecnico di Milano. La School of Management ha ricevuto nel 2007 l’accreditamento EQUIS. Dal 2009 è nella classifica del Financial Times delle migliori Business School d’Europa.

GLI OSSERVATORI DIGITAL INNOVATION Gli Osservatori Digital Innovation della School of Management del Politecnico di Milano (www.osservatori.net) vogliono offrire una fotografia accurata e continuamente aggiornata sugli impatti che le tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) hanno in Italia su imprese, pubbliche amministrazioni, filiere, mercati, ecc. Gli Osservatori sono ormai molteplici e affrontano in particolare tutte le tematiche più innovative nell’ambito delle ICT: Agenda Digitale, Big Data Analytics & Business Intelligence, Canale ICT, Cloud & ICT as a Service, Cloud per la PA, Digital & M&A, Digital Innovation Academy, eCommerce B2c, eGovernment, Enterprise Application Evolution, eProcurement nella PA, Export, Fatturazione Elettronica e Dematerializzazione, Gestione Progettazione e PLM (GeCo), Gioco Online, HR Innovation Practice, ICT & PMI, ICT Accessibile e Disabilità, ICT nel Real Estate, Information Security &Privacy, Innovazione Digitale in Sanità, Innovazione Digitale nel Retail, Innovazione Digitale nel Turismo, Innovazione Digitale nelle Utility, Internet of Things, Intranet Banche, Mobile B2c Strategy, Mobile Banking, Mobile Economy, Mobile Enterprise, Mobile Payment & Commerce, Multicanalità, New Media & New Internet, Professionisti e Innovazione Digitale, Smart Manufacturing, Smart Working, Startup, Supply Chain Finance.

OSSERVATORIO CLOUD PER LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE Convegno di presentazione dei risultati della Ricerca 2015

11 NOVEMBRE 2015

La Ricerca 2015 si è posta i seguenti obiettivi: indagare il posizionamento della PA Italiana nello scenario europeo; con uno specifico focus sul panorama italiano, monitorare i percorsi di razionalizzazione del patrimonio infrastrutturale e applicativo di Enti Centrali e Locali della PA Italiana con particolare riferimento a quanto previsto dall’agenda digitale; individuare e approfondire trend e approcci della PA nell’introduzione del Cloud, con particolare riferimento all’interno delle Regioni; identificare le best practice in essere di utilizzo del Cloud nella PA centrale a livello europeo; aiutare a definire le azioni prioritarie per promuovere il cambiamento. Alla presentazione dei risultati della Ricerca seguirà la Tavola Rotonda, a cui parteciperanno i referenti di alcune delle principali aziende che offrono servizi e soluzioni in ambito Cloud Computing e la presentazione di casi di studio di enti della PA centrale e locale Italiana che hanno adottato tali soluzioni. L’obiettivo è quello di creare un’occasione di confronto e analisi sul livello di utilizzo del Cloud Computing all’interno della PA Italiana fra i decisori ICT della PA, i fornitori del mercato ICT, i docenti e i ricercatori della School of Management.

Auditorium Via Rieti Via Rieti 13 00198 Roma

OSSERVATORIO INNOVAZIONE DIGITALE NEL RETAIL Convegno di presentazione dei risultati della Ricerca 2015

18 NOVEMBRE 2015

Istituto Mario Negri Aula A - Mariella Alberini Via Privata Giuseppe La Masa 19 20156 Milano

La Ricerca 2015 si è articola nelle seguenti aree: mappatura delle principali innovazioni digitali nei processi di back-end e di front-end e calcolo del relativo livello di adozione tra i retailer italiani; analisi dei modelli omnicanale che prevedono l’utilizzo congiunto e integrato dei canali online e fisico; studio del livello di investimento in innovazione digitale dei retailer italiani nel 2015 ed analisi del corrispondente trend; progettazione di un cruscotto di indicatori per la valutazione dei benefici derivanti dall’innovazione digitale e quantificazione dei benefici per alcune innovazioni selezionate; analisi delle startup italiane ed internazionali in ambito Retail; studio della governance dei progetti di innovazione digitale in ambito Retail, per chiarire i processi di adozione e gestione (funzioni coinvolte e suddivisione dei ruoli) e le priorità d’investimento. La presentazione dei risultati della Ricerca sarà seguita dalla testimonianza di alcuni retailer italiani che hanno già implementato innovazioni digitali e da una Tavola Rotonda con i retailer ed i player dell’offerta per discuterne le opportunità.

OSSERVATORIO BIG DATA ANALYTICS & BUSINESS INTELLIGENCE Convegno di presentazione dei risultati della Ricerca 2015

26 NOVEMBRE 2015

Istituto Mario Negri Sala Conferenze Via Privata Giuseppe La Masa 19 20156 Milano

La Ricerca 2015 si è posta come obiettivi: monitorare il mercato e lo stato di diffusione delle soluzioni di Big Data Analytics & Business Intelligence; definire una “Big Data Journey” per le organizzazioni che identifichi i percorsi e i passi per l’adozione matura delle soluzioni di Big Data Analytics & BI; identificare i benefici e analizzare le barriere all’adozione di tali strumenti; analizzare i nuovi ruoli organizzativi e le nuove competenze; indagare le applicazioni in specifici settori e processi aziendali, identificando i casi di successo; comprendere il ruolo svolto dalle startup in questo settore. Il Convegno sarà occasione di confronto fra i decisori ICT e di line of business delle aziende della domanda, i fornitori del mercato, i docenti e i ricercatori della School of Management, che analizzeranno la situazione attuale dell’utilizzo dei sistemi di Big Data Analytics & Business Intelligence nel mercato italiano. Oltre alla presentazione dei risultati della Ricerca il Convegno prevederà una Tavola Rotonda dei referenti delle principali aziende che offrono servizi e soluzioni in ambito Big Data Analytics & Business Intelligence; un approfondimento delle esperienze di alcune tra le startup italiane più innovative in tale ambito; una presentazione di casi di studio di aziende utenti che hanno adottato tali soluzioni; la consegna del premio “Big Data Innovation Awards” alle aziende che si sono distinte per capacità di cogliere le opportunità di una sempre maggiore disponibilità di dati e di sfruttare le informazioni come supporto ai processi decisionali.

P E R M A G G I O R I I N F O R M A Z I O N I V I S I TAT E I L S I T O

w w w. o s s e r v a t o r i . n e t


intervista di

manuela gianni

Pietro Martani

Nuovi spazi per il lavoro che cambia: il progetto Copernico 100

ideatore di Copernico CEO di Windows on Europe

Il più grande workspace europeo, da poco operativo a Milano, sarà il cuore di una “rete” che riflette l’evoluzione del concetto di ufficio nell’era digitale. «Il “mattone” è solo una dimensione, ce ne sono altre due cruciali: il sistema relazionale, con le opportunità che nascono dal networking, e l’acquisizione e condivisione di conoscenza» FOTO: Andrea Menin Chillaxingroad

Cambia il modo di lavorare, e anche gli spazi vanno ripensati. Nasce da qui l’idea di Copernico Milano Centrale, un grande palazzo in zona Stazione Centrale a Milano che oggi è il più grande spazio di co-working europeo. Ma è solo un tassello di un progetto a rete che coprirà tutta l’Italia. Ne parliamo con Pietro Martani, imprenditore ideatore di Copernico e CEO di Windows on Europe, holding che gestisce realtà immobiliari dedicate all’hospitality sia per il business sia per il tempo libero, presente in 31 località Italiane e 5 capitali internazionali. Windows on Europe è leader in Italia nella gestione di immobili, strutture paraalberghiere, case vacanze, residence e spazi di lavoro. Da dove nasce l’idea di Copernico? L’idea nasce osservando i cambiamenti del mondo del lavoro, che stanno avvenendo su tutti i fronti. I lavoratori freelance crescono in modo esponenziale: nel mondo anglosassone a breve diventeranno uno su due, in Italia sono ancora forse uno su sette, ma ci | 72 |

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sono grandi spazi di sviluppo. E queste persone non lavorano in un ufficio classico, ma hanno bisogno di spazi diffusi sul territorio e di luoghi adatti agli incontri. Ci sono poi le piccole aziende, che non hanno la capacità di definire un perimetro fisso per molti anni, e cercano di tagliare gli spazi dedicati agli uffici. Ma anche le grandi aziende stanno guardando con attenzione allo smart working. Dal mio punto di vista ogni singola azienda italiana deve ripensare a come i propri spazi sono concepiti. Si sta passando da logiche di controllo sulle risorse umane a logiche di responsabilizzazione, perché si è capito che il talento è importante e l’innovazione è la benzina del domani. In questa chiave le aziende devono pensare al benessere dei propri lavoratori, e nasce il bisogno di luoghi che possano essere vicini alle persone: non necessariamente ogni giorno si devono recare nella sede dell’azienda. Noi crediamo che la nostra missione sia costruire un’infrastruttura per queste aziende, rompendo le logiche consolidate.


intervista | Nuovi spazi per il lavoro che cambia: il progetto Copernico 100

«Nel nostro progetto il digitale ha un ruolo decisivo. La rivoluzione del lavoro che è in corso è fortemente accelerata da tre fattori: Cloud, Mobile, e Social Network»

Come si inserisce Copernico nel progetto Windows on Europe? Siamo partiti nel 2006 e Copernico è il settimo workspace di Windows on Europe, l’evoluzione di un percorso abbastanza articolato in cui abbiamo maturato esperienza. È stata una sfida che sembrava a tutti dissennata: prendere un palazzo di 16mila metri quadrati, decadente, vuoto da 4 anni, e trasformarlo completamente. Abbiamo creato 6 piani di spazi per lavorare, che oggi sono interamente occupati o prenotati, dalla grande multinazionale come dal freelance, e diversi spazi sociali: tutto il piano terra è progettato per ospitare ogni tipo di incontro, sia privato che aperto al pubblico. Copernico non è solo un edificio, in realtà è una piattaforma, uno spazio che fa parte di una rete di spazi. Il progetto ne prevede 100. E come funziona la piattaforma Copernico? Cos’altro c’è oltre agli edifici? Il mattone, il palazzo, rappresenta forse il 30% della piattaforma Copernico, ma ci sono altre due dimensioni che per noi sono importantissime. La prima è la community e il sistema relazionale, quindi le opportunità che nascono dal networking. Qui abbiamo ancora tantissimo da fare, Al momento abbiamo realizzato un social network, Nico, per ricercare e conoscere le persone che sono dentro a questo mondo, e organizziamo molti eventi aperti alla community. C’è una ricerca costante di valore per il cliente dal punto di vista dell’allargamento del sistema relazione. Il secondo livello è il contenuto, o meglio la conoscenza, l’apprendimento, la condivisione del sapere. In Italia la cultura manageriale è un po’ rarefatta, alcuni valori che fanno parte di questa cultura sono scarsi rispetto ad esempio al mondo anglosassone, e c’è una serie di falle nel sistema in Italia soprattutto nello sviluppo dell’education dei giovani. Nella nostra visione, Copernico 100 punterà anche all’acquisizione di conoscenza all’estero, per portarla a Milano e quindi fonderla sul territorio. In tutti questi spazi si può lavorare in modo smart, sia in gruppo sia da soli. Sono membri della community anche manager di importanti aziende, che preferiscono venire in Copernico a incontrare i clienti perchè la loro sede è fuori Milano. I punti Copernico sul territorio saranno tutti correlati, quindi in prospettiva il consulente si prenota lo spazio più

vicino al cliente o all’albergo, e poi magari mentre è lì prende un caffè e conosce altre persone. Credo che ci sarà una moltiplicazione di valore, mano a mano che aumentano i centri in rete. Quali sono i prossimi passi per realizzare il progetto di avere cento spazi in Italia? Il progetto prevede 100 spazi sul modello di Copernico tutti pensati con la stessa logica e collegati alla piattaforma. Il “mastodonte” di Via Copernico 38 è il prototipo, tutta l’esperienza verrà replicata: dal progetto delle sale meeting al disegno dei processi, all’idea di fondere reception e Cafè, creando un ambiente sociale ancora più spinto in spazi più piccoli, lavorando molto sul fronte tecnologico e sul design. Apriremo spazi tendenzialmente in città che hanno più di 60mila abitanti e avranno dimensioni variegate in base alla città alla zona. A Milano abbiamo 5 spazi, a brevissimo ne avremo 7/8, e altri due a Roma. A Milano in Foro Bonaparte 22, in zona Brera, stiamo completando una “club house”: non avrà uffici perché è pensato come un posto di incontro, con massima attenzione al servizio, al food e all’ambiente. Abbiamo imposto alcune regole perchè vogliamo creare molta diversità, che pensiamo sia una ricchezza: ci sarà una ripartizione pari di donne e uomini di industrie differenti, in particolare design, fashion e finance, che sono i tre settori tipici di quella zona. Ma ovviamente è aperto anche ad altre realtà. Quale ruolo ha la tecnologia nel vostro progetto? Ha un ruolo decisivo. Questa rivoluzione del lavoro che è in corso secondo me è fortissimamente accelerata da tre fattori: Cloud, Mobile, e Social Network. Il Cloud perché ha spostato il faldone dell’ufficio dentro il telefonino o il computer, cosa che permette di condividere i documenti e averli sempre sincronizzati ovunque ci si trovi. Il Mobile è collegato a questo, e permette di essere sempre attivi e raggiungibili. E i social network hanno cambiato il modo in cui le aziende pensano a sé stesse; oggi siamo tornati al prodotto, alla sostanza, a un forte orientamento sull’assetto organizzativo, in cui le risorse umane sono al centro. Le aziende devono essere molte attente a come trattano le persone, e questo si deve riflettere nel modo di concepire gli spazi, nel networking, e nel modo di gestire contenuti e conoscenza. www.digital4executive.it

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osservatorio di

daniele lazzarin

Stefano Mainetti Responsabile Scientifico Osservatorio Cloud & ICT as a Service

Il Cloud in Italia vale 1,5 miliardi. Polimi: «Vincente il modello ibrido» Altra forte crescita (+25%) per un mercato in cui la componente Public Cloud aumenta del 35% a 460 milioni di euro, e gli investimenti di Cloud Enabling Infrastructure del 21%, superando il miliardo. Forte incremento (70%) della spesa delle PMI. «Il punto d’arrivo è far lavorare insieme servizi pubblici e sistemi informativi interni»: il quadro dell’Osservatorio Cloud & ICT as a Service 2015 del Politecnico di Milano

Se per il Cloud italiano il 2014 è stato l’anno della definitiva consacrazione, il 2015 è quello della conferma di una tendenza ormai consolidata, ma ancora con forti tassi di crescita, su due strade parallele e complementari: il Public Cloud e la creazione di una infrastruttura interna aziendale “Cloud Enabling”. Sommando queste due componenti, il mercato nel nostro Paese arriverà a valere 1,51 miliardi di euro a fine 2015, con un incremento del 25% rispetto al consuntivo 2014 che è stato di 1,21 miliardi. due approcci molto diversi È questa l’estrema sintesi dello scenario che emerge dal report 2015 dell’Osservatorio Cloud & ICT as a Service del Politecnico di Milano: il quinto della sua storia, come di consueto molto ampio, basato su indagini sulle aziende utenti (570), casi di studio, interviste con i player di settore e anali| 74 |

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si dell’offerta disponibile sul mercato sia italiano che internazionale. Il concetto principale dell’edizione 2014 («per gran parte dei CIO italiani non vi sono più dubbi sul Cloud: il punto è come adottare queste soluzioni») si conferma e si precisa quest’anno nelle parole di Alessandro Piva, Responsabile della Ricerca dell’Osservatorio: «È stato compreso che esistono due approcci - il Public Cloud, e il percorso interno di Cloud Enabling Infrastructure - che sono molto diversi: il primo rapido e dirompente, il secondo più lungo e complesso, scandito da varie fasi di investimenti ed evoluzioni del patrimonio infrastrutturale e applicativo esistente, per arrivare a integrare servizi pubblici e servizi interni nel modo più omogeneo e coerente con le strategie di evoluzione del sistema informativo aziendale». Traducendo in numeri, il valore complessivo di 1,51 miliardi del mercato è legato per due terzi pro-


os s e r vator i o | I l Cl ou d i n Ita l i a va l e 1 , 5 mi l i a rdi . P o l i mi : « Vin c e n t e i l mo de l l o i b ri do»

Il Public Cloud è un percorso rapido e dirompente, mentre l’approccio di Cloud Enabling Infrastructure è lungo e complesso, scandito da varie fasi di investimenti ed evoluzioni del parco applicativo e infrastrutturale esistente

prio alla componente di investimenti nella Cloud Enabling Infrastructure (1,05 miliardi, in crescita del 21%), e per un terzo ai servizi di Public Cloud, che hanno segnato un incremento ancora più forte (35%) arrivando a valere 460 miliardi. In un’azienda su 4 la fase di test ed esperimenti è ormai conclusa Scomponendo la parte Public, il 45% è rappresentato dal fatturato dei servizi applicativi (Software as a Service, SaaS), il 44% nasce da servizi infrastrutturali (IaaS) e l’11% da servizi di piattaforma (PaaS, Platform as a Service). Tra i servizi SaaS, il 46% è attribuibile a servizi di Office Automation, Email, Enterprise Social Collaboration & Intranet, il 21% a CRM, Supply Chain Management ed ERP, il 20% ad amministrazione, finanza e controllo, HR/gestione delle risorse umane, e formazione/eLearning, il 13% a portali Web

B2C ed eCommerce, Business Intelligence e Web Analytics. Dal punto di vista delle dimensioni delle aziende utenti, l’Osservatorio ha approfondito l’interesse verso il Public Cloud sia delle grandi imprese, sia delle PMI (piccole e medie imprese). Nel primo caso la motivazione principale è la possibilità di rispondere alle richieste del business in tempi rapidi, e una grande azienda su quattro (25%) è in una fase di maturità che i ricercatori definiscono “Cloud first”, in cui la sperimentazione sul Cloud è ormai conclusa, ed è stato scelto l’approccio Public Cloud come preferibile in alcuni ambiti progettuali (soprattutto Office Automation, Email, HR, eLearning e CRM). Per il resto, il 29% ha adottato almeno un servizio Public Cloud, un altro 29% sta valutando, e il 17% non è interessato. Tra coloro che stanno

il mercato cloud in italia arriverà a valere 1,51 miliardi di euro +25%

901 mln euro

Public Cloud

460 mln euro

1.210 mln euro +34%

1.510 mln euro Cloud Enabling Infrastructure

+35% 340 mln euro

+49%

229 mln euro

Consuntivo 2013

+29%

Consuntivo 2014

+21%

1.050 mln euro Fonte: Politecnico di Milano

672 mln euro

870 mln euro

Stime 2015 www.digital4executive.it

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La spesa delle PMI in servizi Public Cloud sta crescendo a un tasso più che doppio (+70%) rispetto alla media di mercato, e ha raggiunto i 46 milioni di euro. Il 30% delle PMI usa già questi servizi, e un altro 25% li sta valutando

valutando, gli ambiti più attraenti sono Disaster Recovery/Business Continuity, Office Automation ed Email, Virtualizzazione e Storage. Le motivazioni invece del 17% che non è interessato sono, con poche sorprese, Sicurezza e Privacy (67%), inadeguatezza dell’offerta disponibile, soprattutto in ambiti specifici (40%), e scarsa convinzione del top management (20%), senza dimenticare la scarsa affidabilità della connessione internet (13%), un problema che in Italia purtroppo è ancora molto serio soprattutto fuori dalle grandi città. L’offerta evolve e si differenzia, e le PMI finalmente investono Quanto all’interesse delle PMI verso il Public Cloud, la spesa sta crescendo a un tasso più che doppio rispetto alla media di mercato (+70%), e rappresenta ormai il 10% appunto della componente Public del Cloud italiano, cioè 46 milioni di euro. Il 30% delle PMI utilizza già questi servizi, il 25% li sta valutando, il 43% sa di cosa si tratta ma non è interessato, e il 2% non li conosce, con motivazioni (di utilizzo e di non interesse) molto simili alle grandi aziende. Tra i servizi più adottati vi sono le soluzioni di Office Automation ed eMail (13%), i sistemi ERP e CRM (11%), le soluzioni di Amministrazione Finanza e Controllo o per la Gestione HR (8%), Enterprise Social Collaboration & Intranet (7%) e Business Intelligence (5%). Tra gli ambiti infrastrutturali, l’8% utilizza macchine virtuali e storage e il 5% servizi di Business Continuity e Disaster Recovery. I ricercatori attribuiscono la forte crescita della

Il 25% delle grandi aziende è in una fase ormai matura di uso del Public Cloud, il 29% utilizza almeno un servizio, e un altro 29% li sta valutando, con interesse soprattutto per Disaster Recovery, Business Continuity, Office Automation e Storage | 76 |

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spesa delle PMI all’avanzamento dei progetti di chi era in fase sperimentale, e sul lato offerta alla forte evoluzione della filiera, e soprattutto del canale, in termini di volontà di proporre servizi Cloud, soluzioni, e competenze disponibili. Quell’8% di imprese che hanno fatto da “pionieri” lungimiranti Venendo agli investimenti di Cloud Enabling Infrastructure, come accennato l’obiettivo è creare un Sistema Informativo Ibrido, che unisce e fa lavorare insieme sistemi interni e servizi di Public Cloud, valorizzando caratteristiche e opportunità di entrambi i modelli. Per arrivare a questo però occorre affrontare in modo evoluto il tema dell’integrazione. «Nonostante il Cloud Journey, cioè l’approccio al Cloud, sia diverso azienda per azienda - rileva Stefano Mainetti, Responsabile Scientifico dell’Osservatorio Cloud & ICT as a Service - CIO e player di settore concordano: il punto di arrivo è il Cloud Ibrido, paradigma che permette di beneficiare delle caratteristiche peculiari sia del Cloud Pubblico sia del patrimonio informatico aziendale tradizionale. Solo le aziende capaci di integrare i sistemi in modo evoluto, che a oggi sono circa l’8% del totale, hanno potuto godere dei benefici di innovazione e flessibilità dei servizi Cloud, innestandoli in modo coerente sul proprio Sistema Informativo tradizionale, grazie alla lungimiranza e agli investimenti operati negli anni. Ma con l’aumento di consapevolezza dei CIO e la spinta dell’offerta è ragionevole prevedere un’accelerazione nell’adozione di modelli di Cloud Ibrido».



intervista

Marco Argilli Client Solutions & Security Director BravoSolution

I rischi di una soluzione di eProcurement non certificata Il software as a service supporta ormai anche processi critici come il Procurement. Ma come garantire sicurezza dei dati, compliance alle normative, continuità operativa del servizio? Marco Argilli, Security Director di BravoSolution, spiega i vantaggi di una soluzione certificata sulla Gestione dei Servizi IT (ISO20000-1), sulla Sicurezza (ISO27001) e sulla Business Continuity (ISO22301)

L’adozione di servizi applicativi in Cloud (sia con modello Public che Private) continua a crescere con tassi a due cifre. Le aziende ne colgono i vantaggi: i costi di avviamento sono ridotti, le soluzioni possono essere adottate anche progressivamente, la tecnologia è sempre aggiornata dal provider ed è possibile evolvere facilmente per rispondere alle nuove esigenze del business. Ma non tutte le soluzioni Cloud sono uguali. Soprattutto quando si parla di processi Business Critical, è necessario valutare con attenzione le caratteristiche del servizio e le garanzie offerte dal provider: continuità del servizio, sicurezza, disponibilità, integrità e riservatezza dei dati sono temi che meritano analisi approfondite prima di prendere una decisione. Fra i processi di rilevanza strategica per le aziende c’è il Procurement. Le informazioni trattate sono infatti estremamente delicate: fra queste rientrano l’elenco fornitori, i prezzi dei servizi, i dati sull’aggiu| 78 |

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dicazione di una gara…. Specialista in questo ambito è BravoSolution, multinazionale italiana con oltre 600 clienti e 15 anni di esperienza con varie realtà, alcune delle quali operano in ambiti molto delicati, come Banca D’Italia, il Ministero della difesa in Inghilterra, e l’IRS Internal Revenue Services (l’ente che raccoglie i tributi) in Usa. Per garantire ai clienti la massima affidabilità, BravoSolution investe sistematicamente in ricerca e sviluppo per migliorare costantemente la propria offerta tecnologica, anche in termini di compliance con le certificazioni più riconosciute a livello mondiale. Si tratta in particolare della ISO20000-1, standard che riguarda i processi per la progettazione, lo sviluppo e l’erogazione dei servizi, ovvero la “fabbrica del software” e la gestione operativa, che si aggiunge a quella già ottenuta in precedenza, la ISO27001, più focalizzata sulla sicurezza, che garantisce una gestione dei dati nel rispetto dei principi di riservatezza, integrità e disponibilità delle informazioni.


intervista | I rischi di una soluzione di eProcurement non certificata

A queste si è aggiunta più di recente la ISO22301, certificazione che riguarda la continuità del servizio erogato. «L’azione congiunta delle tre certificazioni ISO, in un modello integrato, assicura ai clienti standard di eccellenza per tutto il ciclo di vita della soluzione, da quando viene progettata a quando implementata ed utilizzata, compresa la gestione degli aggiornamenti periodici. Questo approccio protegge i clienti da rischi», spiega Marco Argilli, Client Solutions & Security Director di BravoSolution. Analizziamo dunque quali sono i rischi che corre un’azienda se acquista una soluzione non certificata ISO20000-1, ISO27001 e ISO22301. Partendo dalla ISO22301: «Il rischio è quello di non avere garanzie di continuità del servizio (business continuity) sia nel caso si verifichi un problema che causa un’interruzione di servizio temporanea, sia in caso di un evento grave, come un incendio o un terremoto che mettono fuori uso il data center», afferma Argilli. In questo particolare ambito è fondamentale avere un piano per gestire contingenza e ripristino del servizio (Disaster Recovery Plan) e si utilizzano due indicatori chiave: il tempo di recovery (Recovery Time Objective – RTO), ovvero entro quanto tempo dall’incidente viene ripristinato il servizio e il Recovery Point Objective (RPO), ossia il momento fino al quale viene garantito il pieno recupero di dati gestiti dal sistema. «BravoSolution garantisce al cliente il riavvio del servizio entro 8 ore e il recupero dei dati aggiornati fino ad un’ora prima del disastro», spiega Argilli. Se la discontinuità di servizio è un rischio per le aziende di tutti i settori, il comparto pubblico e regolamentato deve fronteggiarne uno aggiuntivo, che rimanda alla certificazione ISO20000-1. «Le stazioni appaltanti soggette al Codice degli Appalti Pubblici devono rispettare scrupolosamente le normative. Quando un ente sceglie una piattaforma per la gestione degli acquisti ne valuta senza dubbio la conformità ai regolamenti. Ma questi ultimi, è noto, cambiano continuamente… Non è detto quindi che la conformità di oggi varrà anche fra due o tre anni. La certificazione ISO200001 garantisce che sono in atto dei processi specifici per monitorare l’evoluzione delle normative rilevanti (norme vigenti e cogenti) e per valutarne l’impatto sul funzionamento della soluzione erogata ai clienti. Questo è un aspetto fondamentale, tanto nel settore pubblico come per gli operatori che lavorano nel mercato regolamentato». Tra i vari requisiti che pone la certificazione ISO20000-1, c’è infatti anche quello di predisporre

un processo ad hoc per recepire le modifiche normative rilevanti e valutare la conformità della piattaforma nel tempo. Sono procedure specifiche che BravoSolution attua per monitorare l’evoluzione delle normative nei Paesi in cui opera e recepirle nella progettazione della piattaforma. Un altro rischio nell’acquistare una soluzione non certificata è che non si ha la certezza della confidenzialità dei dati sensibili, che negli acquisti significa prezzi, offerte, valore dei contratti. «Lo standard ISO27001 impone 114 parametri di controllo, per i quali è necessario allestire misure di sicurezza specifiche ai vari livelli. La certificazione prevede un processo di valutazione che prende in considerazione aspetti infrastrutturali, logico-applicativi ed organizzativi. La sicurezza informatica di una soluzione deve essere garantita a tutti i livelli del contesto specifico in cui opera il cliente, ossia attraverso l’attuazione di misure adeguate non solo a livello fisico, ma anche a livello logico e di processo. Molti operatori si limitano a offrire certificazioni per il data center, che rappresenta solo una garanzia per il livello fisico, ossia soltano uno dei tre tasselli fondamentali lasciando scoperti gli altri due: il livello logico (l’applicazione) e quello organizzativo (i processi e le procedure)», continua Argilli. Il livello fisico di sicurezza riguarda la protezione del data center che ospita l’applicativo e contempla il servizio di sorveglianza, il controllo accessi, i sistemi antincendio e antifumo, la fornitura di energia elettrica ridondata. Ma ancora più importanti sono le protezioni logiche, del software, come i meccanismi di strong authentication, l’encryption dei dati, la protezione per respingere azioni di hacking, etc. C’è poi un ulteriore livello, quello organizzativo, che riguarda la gestione della piattaforma da parte dei diversi team che si occupano delle attività di progettazione, sviluppo, installazione e manutenzione: viene effettuata una separazione chiara dei compiti e delle responsabilità tra i gruppi di persone impegnate su queste attività che sono governate da processi specifici eseguiti attraverso l’applicazione di procedure formalizzate. «In assenza di una certificazione ISO27001, tutte queste garanzie decadono, con il rischio di aprire spiacevoli contenziosi che possono portare anche all’annullamento di una gara d’appalto», puntualizza il manager. Le certificazioni si confermano dunque un elemento differenziante per le tecnologie a supporto di processi business critical e requisito imprescindibile di cui tener conto nel momento della scelta della soluzione da adottare. www.digital4executive.it

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rubrica | ricerche e studi a cura di

paola capoferro ronchetta

Mobility nelle imprese italiane: 2,2 miliardi investiti e 10 miliardi recuperati in produttività Crescono ancora la spesa in Device, App e sistemi di Enterprise Mobility Management, e i guadagni di efficienza e valore aggiunto dei mobile worker, dagli agenti di vendita ai manager. L’analisi dell’Osservatorio Mobile Enterprise del Politecnico di Milano La Mobility in azienda in Italia è una realtà concreta nelle imprese grandi e medio-grandi, ma non nelle piccole e medie, visto che solo una PMI su quattro considera di alta o media priorità per il 2016 l’investimento in progetti di supporto dei processi con smartphone, tablet e App e molte delle altre non hanno intenzione di investire neanche più avanti. Eppure i benefici sono chiari: i recuperi di produttività per i mobile worker nel nostro Paese si possono quantificare addirittura in 10 miliardi di euro, grazie all’uso di Mobile Device e App. Sono i principali dati dell’Osservatorio Mobile Enterprise 2015 del Politecnico di Milano, che evidenzia anche la crescita del 18% della spesa totale delle imprese in progetti di Mobile Enterprise, salita a 2,2 miliardi nel 2014, con previsioni di un ulteriore incremento del 50% entro tre anni, fino ai 3,3 miliardi del 2017. Dei 2,2 miliardi spesi nel 2014, il 68% è

servito ad acquistare Device (Smartphone, Tablet, Notebook e altri Terminali industriali), il 25% è legato alla componente Mobile App per il business, e il restante 7% è relativo alle piattaforme di Enterprise Mobility Management. Sales Force, tra 2,5 e 6,5 euro di risparmi per ogni ordine I 10 miliardi di recuperi di produttività stimati dall’Osservatorio si riferiscono all’uso di Mobile Device e App da parte di tutti i tipi di mobile worker: agenti di vendita, manutentori e installatori, autisti, postini, camerieri e commessi, medici e infermieri, imprenditori e top manager, ha precisato Paolo Catti, Direttore Osservatorio Mobile Enterprise del Politecnico di Milano. Per esempio l’uso di una soluzione di Sales Force Automation permette di ridurre il costo del processo di vendita di una cifra tra 2,5 e 6,5 euro per ogni ordine, abbattendo il numero di errori e gli spostamenti dei venditori.

«Mentre le soluzioni di Work Force Management consentono di recuperare fino a 40 euro di produttività per ogni intervento, per esempio abbattendo i tempi sia delle missioni pianificate sia di quelle straordinarie: il Mobile quindi aumenta la produttività, riducendo le attività a minor valore aggiunto», sottolinea Catti. Venendo alle “note dolenti”, cioè alle PMI, un’indagine condotta dall’Osservatorio insieme a Doxa su un campione statisticamente significativo di 351 PMI italiane tra 10 e 250 dipendenti evidenzia un quadro limitato di progetti di Mobile Enterprise, che testimonia una consapevolezza ancora molto bassa della strategicità del Mobile a supporto del business. A parte il dato già citato (poco più di una PMI su 4 assegna un grado di priorità alto o medio alto a questi investimenti), l’indagine evidenzia anche che quasi una PMI su 4 non ha ancora introdotto in azienda alcun Mobile Device (né

il valore del mercato mobile enterprise e i trend attesi

~ 3,3 mld E ~ 2,9 mld E +13% ~ 2,5 mld E +17%

~ 2,2 mld E ~ 7%

Mobile Biz-App

~ 25%

Mobile Device

~ 68%

+15%

2014

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Fonte: Politecnico di Milano

Enterprise Mobility Management Platform

2015

2016

2017


RUBRICA | ric e rc h e e st u di

Notebook, né Smartphone, né Tablet); solo il 25% ha già introdotto Mobile App a supporto dei processi, e ben il 60% non ha alcun interesse o esigenza di introdurre App a supporto del business. «La limitata diffusione di soluzioni Mobile Enterprise nelle PMI è dovuta anzitutto a budget ICT molto limitati e in contrazione da anni, spesso in grado di coprire solo i costi di manutenzione. Inoltre in quasi due PMI su 3 manca una Direzione IT che governi i progetti di innovazione e sappia cogliere le opportunità della Mobility per il proprio business», spiega Marta Valsecchi, Direttore

Osservatorio Mobile Enterprise del Politecnico di Milano. «Si conferma quindi l’incredibile deficit culturale delle nostre PMI sul digitale. Eppure dovrebbe essere chiaro che la sfida della competitività non si gioca solo sui prodotti o servizi, ma con processi più agili e flessibili e con decisioni più tempestive grazie a informazioni e dati accessibili con rapidità e dovunque. Per fortuna però non mancano casi di piccole imprese che hanno intrapreso progetti ampi e poco costosi di Mobile Enterprise di gran valore, anche innovando fortemente il modello di business».

L’eCommerce B2B nel 2020 doppierà gli acquisti online dei consumatori Vendite per 6700 miliardi di dollari saranno trainate dalla migrazione dai sistemi legacy a piattaforme digitali, e dalla crescita della popolarità di marketplace pubblici multi-settore. L’analisi “Future of B2B Online Retailing” di Frost & Sullivan Il mercato delle vendite online business-to-business (B2B) al dettaglio raggiungerà il doppio delle dimensioni del mercato delle vendite online B2C (business-to-consumer) e produrrà entrate per 6.700 miliardi di dollari entro il 2020. A rivelarlo un’analisi di Frost & Sullivan, “Future of B2B Online Retailing”, che pone l’enfasi su come questi modelli di vendita arriveranno in pratica a rappresentare quasi il 27% del commercio totale dell’industria manifatturiera, e che saranno la Cina e gli Stati Uniti a trainare questa tendenza. da un modello one-to-many al many-to-many A favorire l’imponente crescita dell’eCommerce B2B è la rapida migrazione dei produttori e dei grossisti dai tradizionali sistemi tecnologici “legacy” - onerosi dal punto dei costi e degli ingombri e basati su formati di dati proprietari EDI - a piattaforme digitali più moderne, open e online, che rispondono alle mutate esigenze di flessibilità e usabilità degli acquirenti e dei venditori a livello globale, rendendo possibile effettuare le transazioni

di beni e servizi con processi più snelli. Inoltre gioca un ruolo importante anche la crescente popolarità di mercati e piattaforme pubbliche multi-settore, come la cinese Alibaba e l’americana Amazon, che stanno influenzando il mercato e che spingono il bilancio dei rapporti B2B online da un modello di business “oneto-many” al modello “many-to-many”. Si passa quindi da un contesto in cui una singola azienda investe e costruisce una piattaforma elettronica ad hoc per gestire la rete dei propri fornitori, a nuovi scenari in cui qualunque organizzazione può integrare un processo di approvvigionamento online, cosa che chiaramente facilita l’acquisto di beni online. «Questi sono i fattori per cui le reti industriali private e i marketplace pubblici impiegati per acquisti singoli ed estemporanei hanno guadagnato una posizione di rilevanza nell’ultimo decennio - spiega Archana Vidyasekar, Team Leader del gruppo per la Visionary Innovation di Frost & Sullivan -. Con il fatto che le imprese acquistano più di quanto vendono online, queste reti pubbliche aperte di tipo B2C pensate per venditori contribuiranno a offrire loro maggiore visibilità e la capacità

di presentarsi con una vetrina virtuale». Tutto questo però costringe i rivenditori a ripensare le proprie strategie di eCommerce B2B, che a differenza dell’approccio B2C, necessita di una soluzione flessibile per le spedizioni e la logistica, vista la variabilità dei prezzi e la dimensione dei volumi degli ordini. A tutto ciò si sommano anche le preoccupazioni fiscali e normative che influenzano fortemente le vendite. Inoltre è necessario trovare un modo opportuno per far comprendere ai clienti come funzionano i prodotti e come interagiscono con i sistemi preesistenti o con quelli che hanno intenzione di acquistare, attraverso opportune iniziative di marketing o educative in ambito B2B. «Grazie ai progressi tecnologici che facilitano l’acquisto di beni in mobilità attraverso smartphone e tablet, l’uso commerciale di piattaforme online crescerà rapidamente - osserva Pramod Dibble, consulente di Frost & Sullivan -. Anche la nascita di piattaforme Cloud che offrono più scalabilità, lato software e servizio di infrastruttura, sta spingendo le aziende verso la vendita al dettaglio online B2B».

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RUBRICA | ri cerch e e s t u d i

PMI e digitale: in Italia una su dieci è senza computer Un’indagine CNA fotografa lo stato di adozione degli strumenti ICT e la diffusione della cultura del web: se le grandi aziende sono più sensibili al tema, le micro imprese sono ancora ai blocchi di partenza Può sembrare quasi anacronistico ma ancora oggi in Italia una piccola o media impresa su dieci non è dotata di computer, una su cinque è priva di portatili e più della metà di esse non utilizza tablet. Sebbene l’utilizzo dello smartphone sia più diffuso, interessa appena il 20%. Cionostante quasi il 95% delle piccole e medie aziende del nostro Paese reputa internet uno strumento di lavoro imprescindibile. A rilevarlo è un’indagine della Confederazione Nazionale dell’Artigianato e della Piccola e Media Impresa (Cna) condotta su un campione di 3.056 imprese, di cui l’85,3% ha 10 addetti, il 52,9% appartiene all’industria in senso stretto (25,7% manifattura e 27,2% edilizia - costruzioni e impiantistica), il 4,1% al settore dei trasporti e il restante 43% ai settori dei servizi (30,6% per la persona e 12,4% per le imprese). Dalla ricerca è emerso che la dimensione aziendale influisce sul livello di utilizzo delle tecnologie di nuova generazione. Infatti le aziende più grandi (con oltre 20 dipendenti) si dimostrano più attente al tema della digitalizzazione: ben il 98% di esse possiede un sito web. Questa percentuale si riduce di pari passo con la dimensione: si va dall’87% delle aziende con 10-20 dipendenti al 61% delle aziende fino a 9 addetti. Inoltre, le imprese manifatturiere con più di 20 addetti nel 44,4% dei casi utilizza strumenti digitali, mentre per le micro questo vale solo per il 26,2%. La classe dimensionale, invece, sembrerebbe non influire sul commercio elettronico: ad essere attivo in questo segmento di mercato è infatti il 26,5% delle imprese del campione con differenze poco significative in base al numero di addetti. L’elemento strutturale è determinante quando si prendono in conside-

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razione le aziende che operano come acquirenti o come venditori: infatti se da un lato le imprese che comprano online sono circa il 25% in tutte le classi dimensionali, nel caso delle vendite, ad aver colto l’opportunità di operare online è il 12% circa delle micro-imprese contro il 21% circa delle imprese con più di 20 addetti. Un aspetto interessante analizzato riguarda la “fabbricazione digitale”, che prevede l’utilizzo di strumenti di prototipazione, stampanti 3D, fresatrici e tagliatrici laser. In questo ambito una quota significativa di micro-imprese manifatturiere utilizza gli strumenti digitali (26,2%), anche se è ancora lontana dal 44,4% delle imprese con più di 20 addetti. Nelle micro-imprese il dato è più basso e scende sotto il 15%. gli ostacoli sulla strada della digitalizzazione delle PMI Il maggiore vincolo per le piccole e medie imprese italiane è di natura finanziaria. Il punto dolente sono infatti i costi che spesso queste aziende, soprattutto le micro, non riescono a sostenere, come ad esempio quelli relativi al personale che si occupa della gestione del sito web, ai consulenti esterni specializzati in ICT, o ai corsi di aggiornamento e formazione. A darne conferma il dato rilevato dalla Cna, che mostra come appena il 16% delle aziende con meno di 10 addetti ha svolto formazione in merito alle tecnologie ICT nell’ultimo anno, contro il 41% di quelle con più di 20 addetti. Magra consolazione quindi è il fatto che un’impresa su 5 abbia frequentato un “fablab” o un makerspace come luogo di confronto, approfondimento, progettazione e prototipazione. Per quanto riguarda, infine, il supporto di consulenti esterni, ad avvalersene è solo il 35,4% delle aziende.

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Ma i motivi finanziari non sono i soli. L’indagine ha messo in evidenza come a concorrere alla scarsa digitalizzazione delle PMI sia anche la Pubblica Amministrazione, rea di avere un livello di informatizzazione del tutto inadeguato rispetto alle necessità delle imprese, soprattutto rispetto alle pratiche burocratiche da effettuare online. A puntare il dito è, in particolare, il 53% del campione con meno di 10 dipendenti: in media, solo una micro-impresa su tre sbriga più della metà delle pratiche per via telematica. Proprio per questo, secondo la Cna, è necessario sensibilizzare gli organismi centrali, auspicando la costruzione e la realizzazione da parte del Governo di un piano straordinario per la digitalizzazione della micro e piccola impresa italiana. «Questa è l’unica soluzione - sottolinea Sergio Silvestrini, Segretario Generale della Confederazione - per incrementare i livelli di produttività e meglio posizionarci nei confronti dei competitor stranieri. Questo piano deve avere un tempo di realizzazione brevissimo per accelerare il processo di digitalizzazione e colmare il gap digitale delle imprese italiane». E la Cna propone una serie di interventi da attuare entro i prossimi due anni: «Il governo si deve impegnare per consentire alle micro-piccole imprese di avere un sito web, di essere attive nel commercio estero e di utilizzare, almeno un volta, strumenti di fabbricazione digitale - conclude Silvestrini -. L’obiettivo è passare rispettivamente dal 65% al 100%, dal 27% al 50% e dal 26% al 50%. Infine, sarebbe importante che la quota di micro-piccole imprese che svolgono almeno la metà degli adempimenti burocratici via web, passasse entro due anni dal 24% al 50%».


RUBRICA | ric e rc h e e st u di

Il turista digitale italiano è Mobile. Crescono gli acquisti, da smartphone di oltre il 70% e da tablet quasi del 20%. I nuovi device fungono da touch point, favorendo sempre più anche gli acquisti durante il viaggio

Cresce il mercato italiano del turismo digitale: verso i 9,5 miliardi di euro Il “Turista Digitale” italiano è attivo da tempo nelle fasi che precedono la partenza, ma cerca molti servizi digitali anche durante il viaggio e l’offerta si adegua. I dati dell’Osservatorio Innovazione Digitale nel Turismo del Politecnico di Milano Il digitale abilita nuovi servizi, migliorando quelli tradizionali al punto da cambiare usi e costumi delle persone: è il caso del turismo. L’e-commerce, in questo senso è stato un forte driver dell’innovazione, così come i servizi a portata di smartphone e tablet, che hanno cambiato le abitudini degli italiani: dall’informazione alla prenotazione, infatti, il turista digitale compie tutta una serie di operazioni on line, e lo fa sempre più in mobilità. A questo proposito, gli analisti della School of Management del Politecnico di Milano hanno segmentato la spesa digitale nei tre prodotti oggetto di indagine, ovvero Strutture Ricettive, Trasporti e Pacchetti Viaggio, evidenziando una crescita positiva.

Consumatori in viaggio, anzi prosumer Il turista digitale italiano è Mobile: crescono gli acquisti da smartphone (oltre +70%) e da tablet (quasi +20%). Interessante notare come i nuovi device fungano da touch point, favorendo sempre più anche gli acquisti durante il viaggio. Il Turista Digitale italiano è particolarmente attivo su Internet in tutte le macro-fasi del viaggio: nei momenti pre-viaggio, l’88% ricerca informazioni e l’82% prenota o acquista qualcosa (alloggio, mezzo di trasporto o attività da fare a destinazione); durante il viaggio il 44% acquista su Internet qualche attività e l’86% utilizza applicazioni in destinazione a supporto dell’esperienza; il 61% fa attività digitali nel post-viaggio.

il digitale a supporto del turismo I dati aggiornati dell’Osservatorio Innovazione Digitale nel Turismo, che comprendono anche la spesa dei turisti stranieri, evidenziano un aumento del 2% passando dal 17% del 2014 al 19%. Cresce del 5% rispetto al 2014 anche la spesa turistica riconducibile ai viaggi domestici, del 14% la spesa per viaggi di Italiani all’estero (outgoing) e, ancora, del 14% la spesa degli stranieri in Italia (incoming), pari al 20% del totale digitale.

Il Digital Tourist Journey si sta articolando sempre più e sta spingendo conseguentemente l’offerta a seguirlo nelle proprie azioni, soprattutto durante il viaggio e nelle fasi successive. Una dinamica che può quindi rivelarsi un’ottima opportunità per le aziende. Insomma, da una dimension consumer a quella di prosumer, cioé di produttore di contenuti, di commenti, di consigli e di experience, il turista digitale dice la sua e contribuisce a partecipare a un’esperienza di viaggio sempre più condivisa e condivisibile.

Anche le agenzie di viaggio italiane confermano i trend positivi: quasi due terzi del campione (800 agenzie) stima una crescita del fatturato per il 2015. Il dato è trasversale se consideriamo le dimensioni delle agenzie, sebbene più accentuato per le grandi, che nel 2014 avevano sofferto i maggiori cali e che perciò hanno probabilmente beneficiato maggiormente del recupero complessivo del mercato turistico. Una seconda nota positiva evidenziata delle agenzie è l’elevata adozione di strumenti digitali in tutte le diverse attività: l’86% delle Agenzie utilizza strumenti digitali per la promozione; il 68% effettua la ricerca dei viaggi attraverso software o Internet; il 73% utilizza canali digitali per l’assistenza durante il viaggio e il 70% nel post-viaggio. L’89% delle Agenzie gestisce tramite supporti elettronici vari dati sulla clientela, anche se vi è ancora ampio margine di miglioramento per un efficace utilizzo delle informazioni raccolte. Le strutture ricettive stanno imparando molto bene a usare tutto l’orizzonte applicativo digitale: dalla gestione delle relazioni esterne (si va dall’89% di utilizzo dei social network al 16% di invio di email pubblicitarie a pagamento) sia nei processi interni (dall’82% dei sistemi di pagamento elettronici al 14% dei sistemi di CRM).

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Looking to the Future I business, le aziende e i leader di domani

From Strategy to Excution

Top Management Forum Il punto annuale su scenari, strategie e strumenti per competere

Milano, 26 novembre 2015 www.topmanagementforum.it

Condizioni di iscrizione agevolate per i lettori di Digital4Executive - Informazioni al n° 0575.352475 - info@knowità .it


RU B |RICA | n o mine rubrica nomin e

Andrea Guerra Direttore Esecutivo, Eataly Andrea Guerra, ex Amministratore Delegato di Luxottica e consulente del governo Renzi, è stato nominato Direttore Esecutivo di Eataly, il gruppo alimentare fondato da Oscar Farinetti. Nel nuovo ruolo Guerra avrà l’obiettivo, come ha indicato al Financial Times, di gestire con ancora maggior successo il programma di sviluppo nel mondo: raddoppiare il fatturato del gruppo (l’anno scorso Eataly ha registrato un giro d’affari di 350 milioni, dei quali oltre 10 milioni fatturati negli Stati Uniti) nel giro di due anni e aiutare la società a entrare in Borsa.

Andrea Guerra, classe ‘65, inizia la sua attività professionale in Marriott Italia, dove ricopre incarichi di responsabilità crescente, fino a essere nominato Direttore Marketing. Nel 1994 arriva in Merloni Elettrodomestici, dove per sei anni occupa ruoli manageriali all’interno dei settori commerciali, produttivi e dei servizi centrali. Nel 2000 viene nominato Amministratore Delegato del gruppo, carica fino a quel momento ricoperta da Francesco Caio, diventando così il più giovane Amministratore Delegato di una società quotata. Nel 2004 sbarca in Luxottica, dove

rimarrà per dieci anni. Da dicembre 2014 è stato consigliere strategico del Presidente del Consiglio Matteo Renzi per le politiche industriali e relazioni con la business community.

Virginia Magliulo General Manager, ADP Italia

Virginia Magliulo è il nuovo General Manager di ADP Italia, società che fa parte della multinazionale americana fonitrice di servizi di Gestione del Capitale Umano (HCM). Entrata in ADP a febbraio 2015 con il ruolo di Customer Service Director, in que-

sti mesi ha gestito con successo un team di oltre 400 dipendenti per un giro d’affari di circa 70 milioni di dollari. Quarantasette anni, laureata in Ingegneria Elettronica presso il Politecnico di Milano con specializzazione in Automazione Industriale, Virginia comincia nel 1995 la sua carriera presso la multinazionale Air Products, dove partecipa alla realizzazione di diversi progetti ricoprendo ruoli di responsabilità crescente. Nel 1999 entra in IBM con il ruolo di Project Manager, occupandosi di progetti strategici internazionali di outsourcing all’interno della divisione Customer Ser-

vice. Nel corso dei successivi sedici anni le affidano incarichi sempre più prestigiosi fino a diventare nel 2013 Director Strategic Outsourcing Sales and Business Development e, successivamente, Director Delivery Client Excellent per l’Italia, con la responsabilità dello sviluppo di tutte le attività strategiche di outsourcing. Nel nuovo incarico Virginia avrà la responsabilità di consolidare il posizionamento di ADP Italia nel mercato delle soluzioni in outsourcing per la gestione delle Risorse Umane, facendo leva sulla continua innovazione di prodotto e sulle persone.

Francesco Canè Amministratore Delegato, F.lli Polli Francesco Canè è il nuovo Amministratore Delegato di F.lli Polli, con il compito di guidare la crescita dell’azienda nel settore italiano e internazionale delle conserve di verdura e salse vegetali. Canè, laureatosi in Chimica Industriale all’università degli Studi di Bologna con successivi master in Sales and Marketing Management e Business Administration presso la Business School “Stogea”, conta su una significativa esperienza raccol-

ta nei settori del food, della cosmetica e della detergenza, dove ha perfezionato le proprie competenze in tutte le aree aziendali. Prima di approdare in Polli ha, infatti, ricoperto numerosi incarichi con importanti responsabilità in aziende di rilevanza internazionale. Dopo gli esordi nel campo della cosmetica con Athena’s Bologna, ha lavorato in Cannamela (Gruppo Montenegro), con responsa-

bilità nell’ambito della gestione delle politiche di qualità, dei team di lavoro e del laboratorio di analisi. Ha, poi, sviluppato le proprie competenze a livello internazionale in Reckitt Benckiser in qualità di Corporate GQA Manager e di Project Planning. In Polli arriva dopo aver ricoperto la carica di Amministratore Delegato della compagnia belga di piatti pronti Mamma Lucia, acquistata nel 2007 dal Pastificio Rana di Verona.

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RUBRI C A | no mi ne

Danilo Cattaneo Amministratore Delegato, Infocert

InfoCert ha nominato Amministratore Delegato Danilo Cattaneo, che conserva anche la precedente carica di Direttore Generale. Dopo la laurea con lode in Informatica presso l’Università di Salerno, prima dell’ingresso nel mondo aziendale, Cattaneo è stato per circa due anni Ricercatore presso la Middlesex University di Londra. In seguito ha lavorato in Andersen Consulting (oggi Accenture), Sintel Consulting (Finmatica Group) e Magaldi Ricerche e Brevetti, per poi approdare

in Oracle, dove è rimasto per oltre 12 anni,con incarichi di responsabilità crescente. In Infocert è entrato nel 2010 come Direttore Generale. Nato a Nocera Inferiore (SA) nel 1968, Danilo Cattaneo al ruolo di Amministratore Delegato e Direttore Generale di InfoCert affianca le cariche di Presidente del DTCE Digital Trust and Compliance Europe (dal 2013) e di Vicepresidente del Consiglio di Amministrazione di Sixtema, il partner tecnologico per il comparto artigianale e le PMI del mondo CNA (dal 2011).

Mauro Meanti General Manager, Avanade Italia Da metà settembre Mauro Meanti è il General Manager della sede italiana di Avanade. Nella sua nuova carica guida un team composto da oltre 700 professionisti, ed è chiamato a garantire lo sviluppo dell’azienda nei diversi settori di attività del nostro Paese e a consolidare i rapporti con la clientela. Cinquantasei anni, laureato in Matematica all’Università degli Studi di Milano, Meanti vanta una forte esperienza nel settore dell’informatica e delle nuove tecnologie, sia in Italia che a livello internazionale. Il suo percorso professionale inizia in Olivetti, come Software Development Lead, e continua in Microsoft, dove ha lavorato per 23 anni prima in Italia, come consulente nella divisione Microsoft Consulting Services, poi come Business Ma-

nager, fino a diventare responsabile della filiale italiana tra il 1997 e il 2002. Con la nomina a General Manager del Server and Tools Business Group per l’area EMEA comincia la sua attività a livello internazionale che continua con la carica di General Manager, Business & Marketing per la regione Central & Eastern Europe e lo spostamento in Russia, dove ricopre la carica di Chief Operating Officer. Dopo tre anni arriva la promozione a Vice President del gruppo di Business Strategy per Microsoft International. Al termine della lunga esperienza al servizio del colosso americano dell’informatica, Meanti passa in Parallels nel maggio 2013 dove ricopre la carica di Senior Vice President and General Manager, Worldwide Service Providers Business fino all’attuale nomina in Avanade.

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Il 10 ottobre è nata la figlia dei nostri colleghi Mara Perego

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