Digital4executive 27

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. Mariano Corso: una People Strategy per la digital transformation . Martin Lindstrom: l’importanza degli Small Data nel Marketing . Morgante, Trenitalia: la rivoluzione copernicana dell’analisi predittiva . Generali: il piano per la semplificazione e l’innovazione . Gruppo OTB (Diesel): più efficienza e trasparenza con il portale acquisti


INSIEME. PER DARE PIĂ™ FORZA AL DIGITALE

Emil Abirascid

Mauro Bellini

Gildo Campesato

Mariano Corso

Gianni Dominici

Direttore Startupbusiness

Direttore Portali Verticali

Direttore CorCom

ScientiďŹ c Director Partners4Innovation

Direttore FPA

Mila Fiordalisi

Stefano Uberti Foppa

Manuela Gianni

Giovanni Iozzia

Direttore ZeroUno

Direttore Digital4Executive

Direttore EconomyUp

Gabriele Faggioli CEO Partners4Innovation

Responsabile editoriale Economia Digitale CorCom

Alessandro Longo Direttore Agenda Digitale

Marco Lorusso

Carlo Mochi Sismondi

Andrea Rangone

Direttore Digital4Trade

Presidente FPA

CEO Digital 360


editoriale

AT&T-Time Warner, la sfida dell’integrazione e il brutto ricordo di AOL

di

umberto bertelè presidente advisory board digital4executive autore di “strategia”

@umbertobertele

Non è la prima volta che Time Warner è protagonista di un’operazione di M&A. Gli 85,4 miliardi di dollari messi sul tavolo da AT &T per acquisirla sono circa la metà del valore che le fu attribuito - poco prima dello scoppio della bolla Internet - in occasione della fusione fra il 2000 e il 2001 con AOL-America On Line: il più grande merger della storia (350 miliardi il valore combinato delle due società), ma anche uno di quelli più studiati nelle business school per l’esito fallimentare. L’obiettivo del merger di allora era in parte simile a quello dell’acquisizione di oggi. AOL, all’epoca società leader per l’accesso a Internet con una capitalizzazione che arrivò vicina ai 230 miliardi di dollari, era interessata a Time Warner per la possibilità di integrarsi sia a monte sia a valle: a monte per i cavi di cui essa disponeva; a valle per i contenuti, per la sua forte presenza nei film e nella televisione. I cavi ora non ci sono più, perché scorporati nel 2009 con la quotazione separata della TWCTime Warner Cable (acquisita lo scorso anno dalla Charter Communications per 78,7 miliardi di dollari), ma i contenuti sì. E sono i contenuti l’oggetto del desiderio di AT&T, la motivazione - come lo ha definito il suo CEO - del “vertical merger”. Se gli obiettivi sono almeno in parte simili, quali sono le condizioni per un esito più favorevole? Un po’ di storia. Le fortune di AOL, parte forte del merger di allora (i suoi azionisti ebbero il 55 per cento della società nata dalla fusione), furono meteoriche, come in Italia quelle di Tiscali. Nata nel 1983, essa arrivò al successo nei secondi anni ’90, quando la metà degli americani collegati a Internet passavano per il suo portale. Ma non resse alla transizione tecnologica da dial-up (collegamento via modem) a broadband (collegamento continuo) e questo provocò – insieme con lo scoppio finale della bolla Internet nel frattempo verificatosi – il crollo della capitalizzazione a 20 miliardi di dollari. Ma, come spiega Rita Gunther McGrath della Columbia Business School in una sua interessante analisi del 2015 su Fortune, il fallimento del disegno strategico alla base della fusione ebbe anche altre cause profonde: “Merging the cultures of the combined companies was problematic from the get go. The aggressive and arrogant AOL people “horrified” the more staid and corporate Time Warner side. Cooperation and promised synergies failed to materialize as mutual disrespect came to color their relationships”. AT&T, a differenza di AOL, è una società molto più strutturata e con una lunga storia alle spalle. Alle sue origini c’è l’AT&T creata da Bell nel 1885, ma la sua vita recente ha origine nel 1983 – l’anno di nascita di AOL - come uno dei sette “spezzoni regionali” in cui Reagan aveva diviso, in un’ottica di liberalizzazione del mercato telecom, la società originaria. Insieme con Verizon, cresciuta a partire da un altro “spezzone”, domina il mercato telecom statunitense e ha una capitalizzazione di 230 miliardi di dollari: per un’altrettanto curiosa coincidenza, circa la stessa di AOL allora. Perché AT&T vuole comprare Time Warner, così come Verizon sta trattando le attività core di Yahoo? Credo che le grandi telecom provino un notevole senso di frustrazione nel vedere come le grandi del mondo Internet siano capaci – passando attraverso le loro infrastrutture - di creare molto più valore. AT&T e Verizon hanno sì raddoppiato il loro valore negli ultimi 10 anni. Ma nel frattempo Alphabet-Google è passata da 80 a 540 miliardi di dollari, Apple da poco più di 50 a oltre 600 e Amazon da 15 a quasi 400. Facebook addirittura, che allora aveva solo 2 anni, ne vale 370. Mentre la nostra povera Telecom Italia, che allora ne valeva 55 (più di Apple), è scesa a poco più di 15. Riuscirà AT&T, ma lo stesso discorso vale per Verizon, ad avere successo con questa operazione? Non ho ovviamente una risposta, ma credo che la vera sfida sia la stessa che dovettero affrontare (allora fallendo) AOL e Time Warner: trovare il modo per far convivere e integrare fra loro culture a priori molto lontane.

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Top Management

Forum 2016 l’incontro annuale del Club Knowità

scoprilo su www.topmanagementforum.it

executing your vision

Milano, 30 novembre 2016 Vodafone Theatre Condizioni di iscrizione agevolate per i lettori di Digital4Executive - Informazioni al n° 0575.352475 - info@knowità.it


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cover storyY

Una people strategy per guidare la trasformazione digitale

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Polimi: Smart Working sempre più diffuso in Italia

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Smart Working, le regole d’oro e gli errori da non fare per evitare le “false partenze” 12

Mariano Corso, Politecnico di Milano Fiorella Crespi, Politecnico di Milano

Emanuele Madini, Associate Partner, P4I - Partners4Innovation

“Nativo digitale” è un mindset, non una generazione

Marco Planzi, Associate Partner, P4I - Partners4Innovation

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MANAGEMENTK

Perché i leader non dovrebbero dipendere solo dai Big Data

di Martin Lindstrom, autore

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Design Thinking: favorire l’innovazione in azienda stimolando il pensiero creativo 20 Per fare impresa serve una strategia precisa. Anche nell’era della disruption 23 intervista a Umberto Bertelè, autore di “Strategia”

Normative - Regolamento sulla Protezione dei Dati di Andrea Reghelin e Guglielmo Troiano, P4I - Partners4Innovation

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digital transformationK

Procurement - OTB (Diesel), un portale acquisti per far crescere il successo del “made in Italy” nel mondo

intervista a Marco Ottelli, Gruppo OTB

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Manufacturing - Industria 4.0, ecco il Piano Nazionale Manufacturing - In Ducati la trasformazione digitale è rendere la moto “smart”, abbattere i silos e guardarsi intorno

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Marketing - Una “marketing machine” al cuore delle imprese

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Finance - Rivoluzione digitale, parlano i CFO italiani Supply Chain - Multicanalità e logistica in Italia, 4 modelli per produttori e retailer

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Piergiorgio Grossi, Ducati

Giuliano Noci, Politecnico di Milano

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intervisteK

Advisory Board Umberto Bertelè Presidente Advisory Board Mariano Corso Politecnico di Milano Carlo Alberto Carnevale Maffè Università Bocconi Maurizio Dècina Politecnico di Milano Giuliano Noci Politecnico di Milano Paolo Pasini SDA Bocconi Alessandro Perego Politecnico di Milano Francesco Sacco Università dell’Insubria - SDA Bocconi Raffaello Balocco Segretario Advisory Board

Generali, un piano di innovazione da 150 milioni. Obiettivo: semplificazione

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Trenitalia, con Big Data e IoT la manutenzione diventa predittiva

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Wind Business: Sherif Rizkalla Hewlett Packard Enterprise: Carlo Arioli Oracle Italia: Fabio Spoletini Pres: Giovanni De Giovanni Intesa, Gruppo IBM: Emilio Baselice MIP Politecnico di Milano: Raffaello Balocco, Greta Maiocchi

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Roberto Burlo, Generali Business Solutions

Barbara Morgante e Danilo Gismondi, Trenitalia

reportageK

Noovle: così la rivoluzione digitale cambia i giochi Tesisquare: trasformazione digitale, la difficile arte di misurare i benefici Fujitsu: una Digital Transformation dal volto umano Sap Forum: interpretare i dati di IoT e clienti per reimmaginare il business Top Consult: Collaboration 3.0, scenari di scambio e comunicazione nell’era digitale

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rubrica | ricerche e studi

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rubrica | nomine

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cov e r s tory di

manuela gianni

intervista a

una people strategy per guidare la trasformazione digitale

Mariano corso

school of management politecnico di milano

Gli Executive HR possono dare un contributo determinante all’innovazione delle imprese, affiancando le Line of Business nella ricerca di nuove competenze e professionalità, progettando percorsi di cambiamento organizzativo e Smart Working, esercitando una leadership nella creazione di una cultura del lavoro orientata al digitale. Ecco come affrontare questa sfida, per non restare imbrigliati in schemi rigidi e obsoleti

La digital transformation è una sfida che coinvolge tutto il capitale umano. Può sembrare un fatto scontato, ma la verità è che molte aziende lo dimenticano: l’innovazione digitale, che con il dilagare degli smartphone ha trasformato la vita quotidiana e amplificato enormemente i canali per comunicare e fruire delle informazioni, paradossalmente rallenta nel contesto lavorativo. Come se varcando i cancelli dell’azienda si tornasse indietro nel tempo: orari rigidi, tecnologie obsolete, regole e procedure antiquate, soprattutto se confrontate con quelle delle giovani e agili start up hi-tech. Ecco perchè per le Direzioni HR è tempo di giocare in prima linea, sostiene Mariano Corso, Ordinario di Organizzazione e Risorse Umane al Politecnico di Milano. Quale ruolo deve avere oggi la Direzione HR per supportare al meglio il percorso di digital transformation che le aziende stanno oggi affrontando? | 6 |

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Anche la Direzione HR deve necessariamente trasformarsi: oggi serve giocare in prima linea e supportare le Line of Business, ad esempio nel riconoscere e sviluppare nuove competenze e professionalità. E serve ripensare profondamente processi e modelli di organizzazione del lavoro, per renderli adeguati alle nuove esigenze di un mondo digitale. In sintesi, credo che il compito degli Executive HR sia quello di definire una nuova People Strategy che fonda le proprie radici su cultura e strumenti digitali. La digital transformation non può essere ricondotta solo a una questione tecnologica o strategica: è una sfida che coinvolge tutto il capitale aziendale. Molte imprese vivono oggi un paradosso: mentre da una parte sono alla disperata ricerca di nuove competenze e professionalità necessarie per interpretare al meglio le nuove opportunità di innovazione, dall’altra rimangono imbrigliate in rigidi e obsoleti modelli di organizzazione del lavoro che


c ov e r s tory | un a p e o p l e st rat e g y p e r g uida re l a t ra sf o rma z io n e dig ita le

«È necessario sia investire sullo sviluppo di nuove competenze e nuove figure professionali, sia ripensare in chiave digitale le tradizionali soft skill, che sono comuni e trasversali ai diversi ruoli. L’approccio deve essere però strategico»

non permettono di cogliere i benefici del digitale, in termini di maggiore flessibilità e produttività generati dall’adozione di nuove tecnologie di comunicazione e collaborazione. Da dove si può partire? Per sviluppare nuove competenze si deve necessariamente partire dalla mappatura e analisi dei bisogni. Serve capire quali nuovi ruoli sono necessari a supportare la strategia aziendale o la riorganizzazione di alcune direzioni. Bisogna anche ripensare le modalità di attraction, recruitment e sviluppo interno. Serve poi innovare i modelli di lavoro, creando nuove condizioni di flessibilità che aumentino la responsabilità e l’autonomia dei dipendenti nel raggiungimento dei loro obiettivi. Il tema delle competenze è centrale: sono nate in pochi anni nuove professionalità che sono difficili da reperire sul mercato, e si sono trasformati rapidamente anche i ruoli più tradizionali. Come gestire questa trasformazione? È necessario sia investire sullo sviluppo di nuove competenze e nuove figure professionali, sia ripensare in chiave digitale le tradizionali soft skill, che sono comuni e trasversali ai diversi ruoli. L’approccio deve essere però strategico, ovvero deve partire dai livelli più alti dell’impresa, dopo una riflessione su come la digitalizzazione impatti sul business model e sugli obiettivi che si intendono raggiungere per rimanere competitivi. Pensando al piano industriale, è necessario chiedersi: quali sono le capability che come impresa dobbiamo costruirci per essere leader nel nostro settore, per garantire vantaggi competitivi? Una volta trovata la risposta, si può avviare una fase di scouting, con la definizione di competenze e job innovativi, e una revisione delle job attualmente presenti in azienda, in termini di obiettivi, responsabilità e competenze. Ma non basta: bisogna pensare a come gestire il cambiamento, come accogliere le nuove figure, avere un piano di riorganizzazione. L’obiettivo è quindi di definire il framework di competenze digitali distintive per la propria azien-

da per poi colmare i gap. È molto importante in questa fase svolgere un assessment sulla popolazione aziendale: il più ampio possibile. Perché questa fase di assessment sulle persone dell’organizzazione è così importante? Quali risultati ci si deve attendere? L’assessment è di grande valore e ha un duplice obiettivo: coinvolgere tutti i dipendenti nel percorso di cambiamento, sensibilizzandoli al tema del digitale; e in secondo luogo creare una prima clusterizzazione di dipendenti più o meno “digital ready”, per poi valorizzarli. L’esperienza conferma che spesso le aziende non sanno di avere in casa un tesoro, ovvero dipendenti che per loro interesse personale hanno competenze specifiche: sviluppatori, appassionati di hi-tech, blogger e via dicendo. In altri casi, abbiamo individuato persone con elevate conoscenze digitali che per vari motivi non avevano avuto modo di sfruttarle appieno. Il coinvolgimento delle persone nei progetti apre poi il tema delicato della cultura delle organizzazioni e del clima interno. Come creare un terreno favorevole e un atteggiamento non solo positivo ma proattivo verso l’innovazione? Ancora una volta è alla Direzione HR che spetta esercitare una leadership nella creazione di questa cultura. Ci sono molti casi di successo a cui ispirarsi. Ad esempio sviluppando percorsi formativi o vere e proprie “digital academy” per trasferire conoscenze e principi digitali a tutta la popolazione attraverso un mix di workshop, community virtuali, alimentati periodicamente da contenuti mirati; o ancora i programmi di “reverse coaching”, dai più giovani ai senior, per colmare i gap generazionali. Senza dimenticare un piano di coaching specifico per il Top Management, che più di altri deve sviluppare competenze e capacità per comprendere e interpretare i trend tecnologici che influenzano il business della propria azienda. Di fondamentale importanza in molte di queste iniziative di “evangelizzazione” è risultata essere anche l’identificazione e la valorizzazione di “digiwww.digital4executive.it

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cover story | un a pe opl e s t r at e gy pe r gu i dar e l a t ra sf o rma z io n e dig ita l e

tal champions” interni, che mettono a disposizione dei colleghi la propria competenza ed energia positiva. Va detto che le persone con forti competenze digitali hanno in molti casi anche capacità imprenditoriali e un’attitudine alla sperimentazione che può essere difficile incanalare all’interno di modelli aziendali tradizionali. Percorsi di empowerment & engagement realizzati tramite Innovation Lab interni favoriscono l’individuazione di prospettive innovative per la soluzione dei problemi di business. Tutto questo si può fare applicando metodologie innovative mutuate dal mondo delle startup digitali. Per chi invece dimostra di avere anche competenze specifiche di coding (sviluppo), è possibile prevedere anche vere e proprie maratone di sviluppo (hackathon) che hanno come obiettivo sia comprendere le reali capacità sia favorire la generazione di concept e prototipi innovativi per l’impresa. Un altro trend ormai inarrestabile è quello dello Smart Working, che riguarda un numero sono sempre maggiore di aziende italiane. Qual è in sintesi la motivazione? Per una Direzione HR lo Smart Working è un’occasione da non perdere. Da una parte abbatte vincoli e rigidità di modelli di gestione delle persone ormai non più coerenti con le esigenze dei lavoratori e, dall’altra parte, accelera il percorso di profondo cambiamento della cultura e degli stili manageriali, con il risultato di migliorare produttività e qualità del lavoro mettendo le persone nelle condizioni di soddisfare le proprie esigenze e di valorizzare le proprie capacità e caratteristiche personali. I vantaggi sono per tutti. Lo Smart Working è “semplicemente” questo: significa ripensare il lavoro in un’ottica più intelligente, mettere in discussione i tradizionali vincoli legati a luogo e orario lasciando alle persone maggiore autonomia nel definire le modalità di lavoro a fronte di una loro maggiore responsabilizzazione sui risultati. Come ogni funzione aziendale, anche l’HR ha oggi a disposizione un ampio ventaglio di soluzioni digitali che possono agevolare il lavoro e migliorare l’efficacia dei processi. Quali strumenti sono prioritari e come introdurli? Ormai sono largamente disponibili strumenti in grado di aiutare le Direzioni HR a liberare risorse interne da attività a basso valore aggiunto e, al contempo, innovare le attività di gestione e sviluppo delle risorse umane migliorandone la qualità e | 8 |

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l’efficacia. Ad oggi le priorità riguardano in particolar modo i processi di Talent Management: grazie al digitale è possibile per esempio riprogettare gli approcci di performance management attraverso sistemi che rendano più efficace e robusto il processo di review, definendo e monitorando in modo più trasparente e misurabile il contributo di ciascuno e ampliando le possibilità e la frequenza di feedback in ottica 360 gradi: si generano così maggiori stimoli per il miglioramento e il self-development delle persone. Anche la Formazione sta cambiando radicalmente strumenti e approcci. Un mix coerente di attività di aula e modalità di apprendimento digitali (elearning, social network, webinar…) consente di rispondere meglio alle necessità di formazione continua delle persone, con modalità di apprendimento più compatibili con le esigenze lavorative e più simili all’esperienza di fruizione di informazioni cui siamo abituati in ambito “consumer”. Si sta trasformando anche il processo di selezione e recruiting, che in molti casi è rimasto ancorato ad approcci tradizionali, complice anche la congiuntura economica che ha immobilizzato il mercato del lavoro. Non solo per rispondere alla richiesta di nuove professionalità digitali, ma anche per aggiornarsi rispetto a nuovi canali di interazione che riguardano soprattutto i Millenials: Social Employer Branding, Social Network professionali e sistemi di gestione dei CV digitali sono tra le iniziative che stanno avendo una maggiore diffusione all’interno delle aziende. Un tema emergente è quello dell’analisi dei Big Data a supporto della direzione HR. Che cosa ci aspetta? L’ambito degli HR Analytics & Big Data rappresenta la sfida tecnologica delle Direzioni HR dei prossimi 5 anni. La crescente digitalizzazione dei processi e delle modalità di relazione con le persone sta provocando uno sviluppo esponenziale di dati e informazioni a disposizione della Direzione HR: performance delle persone, tassi di redemption e turnover, contributi sui social media, risultati delle survey di clima, leadership and competence assessment... Questa mole di dati crea sicuramente delle opportunità per supportare al meglio i processi decisionali delle Line of Business, ma richiederà altresì uno sforzo alla Direzione HR nell’ampliare le proprie competenze, sia in termini di conoscenza delle tecnologie disponibili sia delle modalità e dei casi d’uso di tali strumenti a supporto del business.


PERCORSO EXECUTIVE IN

GESTIONE STRATEGICA DELLA DIGITAL INNOVATION www.mip.polimi.it/ICT

Il Percorso Executive in Gestione Strategica dell’Innovazione digitale di MIP Politecnico di Milano affrontano i temi chiave dell’innovazione digitale nelle Imprese e nella Pubblica Amministrazione, come leva di innovazione strategica e fonte di differenziali competitivi. Si rivolge a manager e . La formula interaziendale consente il confronto tra professionisti con esperienze diverse che operano in svariati settori, favorendo attraverso discussioni, testimonianze e lavori di gruppo uno scambio di esperienze volto ad un arricchimento reciproco.

KEY FACTS

Il Percorso Executive permette di: >

strutturare una visione ampia e strategica del ruolo delle tecnologie digitali nelle imprese e del loro impatto sul business

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8 moduli + Project Work

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accrescere le competenze manageriali di governance e di gestione dell’Innovazione digitale orientata al business

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Formato part-time verticale

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comprendere le molteplici opportunità di innovazione del business che possono derivare dalle nuove tecnologie

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Marzo 2017 - Novembre 2017

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sviluppare un’ampia e critica panoramica sulle principali tecnologie e soluzioni applicative, con particolare riferimento agli scenari tecnologici emergenti

CONTACTS MIP Management Academy: 02 2399 4896 - scazzosi@mip.polimi.it

Ranking 2016

Ranking 2015


cov e r s tory

Polimi: Smart Working sempre più diffuso in Italia. 3 grandi imprese su 10 hanno progetti in corso

Fiorella Crespi osservatori Digital innovation Politecnico di Milano

Si rafforza l’interesse verso le iniziative di lavoro agile, che finalmente non è più un’utopia o una nicchia: i progetti maturano, e cresce anche la consapevolezza a livello istituzionale, sottolinea l’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano. Luci e ombre per le piccole e medie imprese: solo il 5% ha progetti strutturati, ma la quota di realtà non interessate a questi paradigmi crolla dal 48% al 18%

Il 2016 sarà ricordato come l’anno di svolta per lo Smart Working. Oggi, infatti, nel nostro Paese il 30% delle grandi imprese (un numero cresciuto del 17% rispetto all’anno scorso) ha realizzato progetti strutturati di lavoro agile, con pluralità di leve utilizzate e supporto del management. Se poi si prende in considerazione il solo lavoro subordinato, sono già 250mila (circa il 7% del totale di impiegati, quadri e dirigenti) gli “Smart Workers”, cioè coloro che possono definire a propria discrezione dove, quando e con quali strumenti lavorare. A formare questo gruppo sono per lo più uomini (69%) con età media di 41 anni, residenti al Nord (52%, contro il 38% al Centro e il 10% al Sud), che apprezzano particolarmente i benefici nello sviluppo professionale, nelle prestazioni lavorative e nel work-life balance di questa nuova modalità di lavoro rispetto a quelle tradizionali. Sono questi i risultati più notevoli della ricerca 2016 dell’Osservatorio Smart Working della School | 10 |

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of Management del Politecnico di Milano, che ha coinvolto 339 manager delle funzioni IT, HR e Facility, oltre a un panel rappresentativo di 1004 lavoratori, sentiti in collaborazione con Doxa per “fotografare” le modalità di lavoro delle persone. «Il lavoro agile in Italia non è più un’utopia o una nicchia, il 2016 è stato un anno di crescente popolarità nell’opinione pubblica. A dimostrarlo sia la diffusione e maturazione dei progetti delle imprese, sia la maggiore consapevolezza anche a livello istituzionale, come dimostra il Disegno di Legge del Governo approdato in Parlamento», sottolinea Mariano Corso, il Responsabile scientifico dell’Osservatorio. «Sicuramente questi sono segnali positivi. Ma non bisogna mai dimenticare che per rendere il cambiamento reale è necessario usare l’intelligenza e il pensiero critico nell’organizzazione del lavoro: dare alle persone la possibilità di pensare significa dare loro maggiore autonomia nel realizzare il proprio lavoro. Non è soltanto


cover story | Poli mi : S m ar t Wor k i ng s e m p r e p i ù d i f f us o in I ta l ia . 3 g ra n di imp re s e s u 1 0 h a n n o p ro g e t t i in c o r so

possibile e giusto, ma è anche conveniente e porta valore a tutti». Ma, come sottolinea Corso, «il cantiere è ancora aperto e attivo». Ad esempio, la percentuale di piccole e medie imprese che ha adottato iniziative strutturate è rimasta ferma al 5%, con un altro 13% che sostiene di lavorare già in modalità ‘Smart’ pur in assenza di progetti strutturati. Questo scarso interesse delle PMI dipende da una limitata convinzione del management e dalla poca consapevolezza dei benefici di queste iniziative. La ricerca mette però in luce anche un messaggio positivo: rispetto allo scorso anno è aumentato il numero di PMI interessate, o per lo meno a priori non contrarie, all’introduzione dello Smart Working. Infatti, se nel 2015 il 48% dichiarava di non avere interesse a introdurlo in azienda, quest’anno il numero si è ben più che dimezzato (18%) dimostrando una maggiore consapevolezza e apertura. «Per le PMI - rileva Fiorella Crespi, Direttore dell’Osservatorio Smart Working - persiste una barriera culturale, anche se l’aumento di consapevolezza fa ben sperare per il futuro». Ci sono poi altri “cantieri” su cui sarà necessario un lavoro congiunto di aziende, istituzioni, sindacati e mondo della ricerca. «Innanzitutto c’è la PA, per cui l’obiettivo di diffusione di modelli flessibili introdotto nella riforma Madia è una nota positiva, ma non ancora sufficiente – continua Crespi -. C’è poi la necessità di rendere i progetti più pervasivi nel superamento degli orari di lavoro, nel ripensamento degli spazi, e nella creazione di sistemi di valutazione per obiettivi. Ma sarà altrettanto importante evi-

denziare che lo Smart Working può abilitare la Digital Transformation introducendo nuove tecnologie in azienda. Infine c’è la declinazione e reinterpretazione di questo nuovo modo di lavorare nei settori manifatturieri anche alla luce dell’emergere di nuove professionalità, come quelle che scaturiranno dalle trasformazioni di Industria 4.0». Da un lato, quindi, la ricerca ha ribadito come l’interesse e l’adozione dello Smart Working nelle imprese sia ancora molto influenzato dalla dimensione aziendale, dall’altro ha messo in luce che anche nella maggior parte delle organizzazioni di grandi dimensioni è ancora in fase di crescita. Solo nel 25% delle imprese la diffusione viene considerata a regime, mentre nel 40% si trova nella fase di estensione dell’iniziativa, che prevede il coinvolgimento di una popolazione più numerosa. Ad avere ancora in corso una prima sperimentazione su un limitato numero di persone è il 35% delle aziende. I risultati mostrano anche come le aziende siano consapevoli che lo Smart Working non si possa improvvisare: la quasi totalità (97%) delle organizzazioni che non ha ancora iniziative, ma che le introdurrà in futuro, sta conducendo un’analisi di fattibilità, con la definizione del modello da introdurre, della dotazione tecnologica necessaria e della popolazione target dell’iniziativa. Gli elementi più considerati durante questa fase sono la dotazione tecnologica di partenza, la predisposizione delle persone e le caratteristiche dei compiti: tre elementi fondamentali per poter definire non solo la fattibilità, ma anche le caratteristiche del modello di Smart Working adottabile in termini di policy e target potenziali.

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cov e r s tory

di

Smart Working, le regole d’oro e gli errori da non fare per evitare le “false partenze”

Emanuele Madini

Associate Partner P4I - Partners4Innovation

Il cambiamento non va mai affrontato in modo superficiale, seguendo una moda e sottovalutando gli impatti strategici potenziali. Ecco alcuni preziosi consigli, scaturiti dall’esperienza sul campo, per avviare con successo un’iniziativa e far sì che il progetto non si incagli dopo pochi mesi, ma che, al contrario, diventi fonte di un cambiamento organizzativo e culturale profondo, in grado di coinvolgere tutti i collaboratori di un’impresa

Un progetto di Smart Working è un processo di cambiamento complesso che richiede di agire contemporaneamente su più leve e che deve partire da un’attenta considerazione degli obiettivi, delle priorità e delle peculiarità tecnologiche, culturali e manageriali dell’organizzazione. La nostra esperienza, maturata affiancando importanti aziende come Barilla, Enel, BNL, Subito, unita all’analisi dei casi di successo nazionali e internazionali, ha consentito di mettere in evidenza alcuni fattori critici di successo, elementi determinanti per impostare fin da subito un’iniziativa di Smart Working che non rimanga una sperimentazione o un modello confinato ad alcune funzioni aziendali, ma possa essere fonte di un cambiamento profondo e pervasivo per l’intera organizzazione. Evitare banalizzazioni e conquistare il Commitment del vertice La prima lezione fondamentale che si può trar| 12 |

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re dall’esperienza è quella che occorre evitare di approcciare il cambiamento in modo superficiale sottovalutando gli impatti strategici potenziali. Occorre esplicitare gli obiettivi fondamentali che si vogliono ottenere con l’introduzione dello Smart Working riferendoli direttamente alle priorità ed alle sfide del business. Da questo punto di vista è fondamentale il coinvolgimento da parte del vertice aziendale che deve sentirsi owner e vedere l’iniziativa come un’occasione per modificare modelli di comportamento e stili di leadership. Definire un approccio multidisciplinare Lo Smart Working è un progetto intrinsecamente multidisciplinare, occorre resistere alla tentazione che singole funzioni aziendali possono avere di “appropriarsi” dell’iniziativa, creando fin da subito una governance multidisciplinare integrata. Lo Smart Working richiede una governance condivisa tra attori coinvolti che controllano leve diverse ciascuna


c over story | s m ar t Wor k i ng, l e r e gol e d’ o ro e g l i e rro ri da n o n fa re p e r e v ita re l e “fa l se pa rt e n ze”

delle quali, singolarmente, risulterebbe inefficace. Lavorare soltanto sulle policy organizzative, sulla formazione, sulle tecnologie digitali o sulla riprogettazione degli spazi fisici, infatti, non consente di creare il giusto “momento” del cambiamento facendo perdere un’occasione di fare la differenza. Personalizzare il modello Bisogna superare il concetto “one size fits all”, la definizione del posizionamento di un’azienda rispetto alle leve di progettazione deve tener conto delle specificità dell’organizzazione in termini di settore di appartenenza, tipologia di attività prevalentemente svolte ed esigenze delle persone che, all’interno di una stessa azienda, possono essere anche molto diverse. Da questo punto di vista, sebbene il confronto con l’esperienza di altre organizzazioni costituisca un utile benchmark, il modello di Smart Working deve essere “cucito sull’azienda” e non può limitarsi ad essere un’imitazione e un tentativo di replica di iniziative di altri. L’azienda deve considerare che ciascuna funzione aziendale possiede differenti livelli di readiness rispetto ai modelli di Smart Working, deve quindi mettere nuovamente al centro l’individuo con le sue esigenze personali e professionali. Partire velocemente con una sperimentazione Per diminuire le resistenze, specie laddove la consapevolezza diffusa e il mandato da parte del

vertice non sono molto forti, è spesso opportuno partire da una sperimentazione pilota da utilizzare per mettere a punto il modello e dimostrare i benefici in previsione di una estensione all’intera organizzazione. A questo proposito occorre identificare alcuni target pilota e partire velocemente con la sperimentazione anche se la tecnologia non è perfetta introducendo il cambiamento in modo graduale attraverso approcci “perpetual beta” di diffusione incrementale. Contemporaneamente è importante diffondere i risultati e le storie di successo all’interno dell’azienda. Investire in formazione e coaching manageriale Occorre affiancare i manager nel cambiamento culturale e nell’adozione di nuovi stili di leadership affinché diventino i veri protagonisti dello Smart Working. Misurare e comunicare sistematicamente i risultati Per “proteggere” il cambiamento occorre curarne la comunicazione e promozione non soltanto nella fase iniziale, ma anche e soprattutto durante e dopo la sperimentazione per evitare che, quando l’entusiasmo iniziale e il committment da parte del vertice si affievoliscono, i comportamenti possano “scivolare” verso quelli tradizionali.

Quanto è smart il lavoro nella tua azienda? Te lo dice Ready4Smartworking.it, il tool interattivo sviluppato dagli esperti di p4i READY4SmartWorking.it è il nuovo tool interattivo sviluppato dalla società di advisory P4I - Partners4Innovation che consente di progettare il percorso della propria azienda verso lo Smart Working. Nato dall’esperienza maturata sul campo e dall’analisi delle best practice internazionali, il tool si basa su una metodologia messa a punto in questi anni che prevede un framework costituito da quattro dimensioni di analisi: HR Practice, Tecnologia, Spazi fisici, Cultura. All’interno di ciascun ambito di analisi sono stati declinati i principali elementi che contraddistinguono le aziende che adottano i modelli più avanzati di Smart Working. Policy di remote working, autocertificazione degli orari lavorativi, tecnologie di Smart Collaboration integrate con gli spazi fisici, ridisegno dei modelli e processi di perfomance management sono solo alcune delle iniziative mappate nel tool e che possono comporre una possibile roadmap di sviluppo verso una Smart Organization, partendo da un’analisi del profilo di “readiness” della propria azienda. www.digital4executive.it

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“Nativo digitale” è un mindset, non una generazione Molte imprese oggi capiscono l’importanza di diventare più attrattive per i giovani talenti, che portano energia e competenze innovative. Ma la vera sfida è costruire e diffondere una cultura digitale, senza dividere il personale in gruppi generazionali separati. Una soluzione sempre più diffusa è la creazione di digital community Le parole “nativo digitale” e “millennial” nelle imprese suscitano sensazioni contrastanti. Quando vengono pronunciate, spesso si percepisce ottimismo, legato all’energia che i giovani possono trasmettere sul luogo di lavoro con la propria voglia di fare, ma anche un latente senso di inadeguatezza da parte delle imprese che trovano difficile attrarre giovani talenti. Nella vecchia Europa, gestire la presenza di nativi digitali e di millennial all’interno della forza lavoro rappresenta una sfida. I millennial, infatti, sono una parte minoritaria della popolazione (in Italia sono meno del 19%, il valore più basso tra i principali paesi UE). L’età pensionabile in aumento e un numero di lavoratori sostanzialmente stabile (circa 23 milioni di persone in Italia da ormai 15 anni) completano il quadro di un mercato del lavoro in cui per i millenial è difficile sia entrare sia ritagliarsi uno spazio di crescita personale. Le imprese che oggi affrontano un percorso di digital transformation spesso percepiscono l’importanza di inserire forze fresche, millennial o nativi digitali, perché portano entusiasmo, hanno dimestichezza con le tecnologie e aiutano a crescere i colleghi più esperti, che devono così esercitare le proprie doti di mentoring. Per questo motivo, la sfida è spesso quella di diventare attrattive come laboratorio di innovazione (anche rispetto alle technology company americane). Ma se il problema non fosse solo inserire forze fresche e competenze nuove in azienda reclutando i nativi digitali? Se il problema fosse quello di diffondere un “mindset digitale” tra i dipendenti che aiuti l’impresa nel proprio percorso di digital transformation? Se fosse

di

marco planzi

Associate Partner P4I - Partners4Innovation

davvero possibile costruire una cultura digitale che aiuti l’azienda a diventare più attrattiva per i giovani talenti? La strada che le imprese oggi stanno percorrendo è la creazione di digital community. Ogni impresa agisce in modo leggermente diverso, ma tutte le iniziative nascono dal l’impegno del senior management e da un gruppo di collaboratori che rendono la community una realtà. Tutti i percorsi seguiti hanno alcuni tratti simili. In primo luogo, vengono individuati e ingaggiati i dipendenti che hanno più capacità creativa e imprenditoriale all’interno dell’impresa. I membri della community dovrebbero provenire da tutti i livelli aziendali, e tutte le business unit dovrebbero essere rappresentate. Successivamente si dovrebbero creare momenti focalizzati di collaborazione interfunzionale (digital workshop, hackathon interni, innovation lab) in cui i dipendenti sono chiamati a risolvere problemi di business in modo creativo, con un orizzonte temporale definito, sperimentando metodologie come design thinking e lean startup, potenzialmente adottabili anche nel day-by-day. Infine è indispensabile coinvolgere tutti, trovando per ciascuno un ruolo nel percorso di cambiamento che l’impresa sta affrontando. Il coinvolgimento deve riguardare anche i colleghi più esperti, la cui conoscenza del business, del mercato e delle procedure è indispensabile per innovare senza perdere di vista i risultati aziendali. Anzichè pensare alla propria forza lavoro come gruppi generazionali separati, si dovrebbe quindi pensare a ogni collaboratore come un protagonista della digital transformation, con le sue peculiari aspettative, preferenze e abitudini. www.digital4executive.it

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management - world of business ideas in collaborazione con

di Martin Lindstrom autore del libro: “Small Data: The Tiny Clues That Uncover Huge Trends”

L’importanza degli Small Data: quei piccoli indizi che svelano grandi trend L’analisi dei Big Data non basta: per capire davvero i clienti è necessario uscire dagli uffici, cogliere le emozioni, i desideri reali. Occorre un nuovo equilibrio tra correlazione e causalità. Nascono così intuizioni che possono cambiare il destino di un’azienda, come è successo a Lego: invece di soccombere sotto l’avanzata del digitale, ha saputo conquistare i bambini delle nuove generazioni con i tradizionali mattoncini

Che vi piaccia o no, le aziende si stanno allontanando dal consumatore. Poco tempo fa, quando ho preso la parola a una convention di top executive nella città di New York, ho chiesto quanti di loro nell’ultimo anno avessero passato anche pochi minuti a casa di un cliente. Dei 3.000 executive in platea, solo due hanno alzato la mano. È come se tutti gli altri mi avessero risposto: «E perché dovrei andare a casa di un cliente? Tutto quello che mi serve è accendere il computer e troverò flussi interminabili di tabelle e grafici che mi illustrano la percezione che i consumatori hanno del mio brand». Ma questo non equivale forse a descrivere la persona che più amate nella vostra vita con dei numeri? Sono sicuro che non mi direste che adorate la vostra fidanzata perché è alta 1 metro e 80, ha i capelli del color Pantone 39134 e le ultime quattro | 16 |

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cifre del suo numero di telefono vi mandano in visibilio. Il punto è che siamo arrivati a basarci in tutto e per tutto sui dati, i Big Data, per capire le emozioni di chi conta di più per noi: il cliente, il nostro asset più importante. Ma il rivestimento scintillante dei Big Data sta già mostrando qualche crepa: le aziende cominciano a capire che i Big Data rischiano di lasciarle all’oscuro su alcuni degli aspetti più importanti dei desideri e delle esigenze dei loro clienti. Le banche e i motivi del churn Non molto tempo fa, uno dei maggiori istituti bancari degli Stati Uniti ha erroneamente interpretato il dato sull’aumento del churn. Il termine è noto a tutti, si riferisce ai clienti che cominciano a trasferire i loro soldi verso


management - world of b us i ne s s i d e a s | L’ i m por ta n z a de g l i sma ll data : p ic c o l i in diz i c h e sv e l a n o g ra n di t rend

Dopo il fallimento dei mattoni giganti lanciati nel 2003, Lego è tornata ai suoi classici mattoni mini, seguendo una via opposta alla precedente: ha aumentato enormemente il numero di pezzi inclusi nella stessa scatola

altri istituti, rifinanziano il mutuo e mandano una serie di segnali che indicano che potrebbero presto abbandonare quella banca per un concorrente. Di conseguenza, la banca in questione ha cominciato a preparare delle lettere per i clienti chiedendo loro di riflettere meglio sulla decisione di chiudere il loro conto, di tornare sui propri passi. Tuttavia, prima di inviare le lettere, i dirigenti della banca hanno scoperto qualcosa di sorprendente. Sì, certo, i Big Data avevano portato alla luce le prove del churn, ma non avevano “guardato” nelle vite delle persone e quindi non potevano risalire alla causa. Il churn non si verificava perché i clienti non erano soddisfatti della banca: il vero motivo era che molti stavano divorziando e questo spiegava perché spostassero il denaro su conti diversi. La banca si era fondata sulle correlazioni generate dai Big Data, ma mancava una tessera fondamentale per comporre il mosaico. Aveva visto sì la correlazione, ma le era sfuggita la causalità. In pratica, non aveva controbilanciato i Big Data con qualcos’altro: ciò che chiamo Small Data.

mati in pezzi giganti. Mentre costruire un castello Lego in passato richiedeva giorni, ora bastavano poche ore, forse anche solo minuti. Ma la decisione ha prodotto l’effetto opposto rispetto a quanto sperato e, a Natale 2003, i ver-

Come Lego è tornata al successo nell’era digitale Ecco un altro esempio. Nel 2002, la Lego era vicina al fallimento. Per anni, l’azienda simbolo dell’industria dei giochi era stata attanagliata da un preoccupante calo delle vendite. I bambini della nuova generazione erano diversi, preferivano i giochi digitali. I clienti giovanissimi erano entrati in una nuova era e l’universo Lego apparteneva al passato. I Big Data sono intervenuti per insegnare qualcosa di utile alla Lego: la nuova generazione cercava la gratificazione immediata, i bambini del futuro non avevano la pazienza per giochi fisici che richiedono tempo e dedizione. Perciò nel 2003, fatto tesoro di quanto appreso dai Big Data, la Lego ha preso una decisione epocale: ha cambiato le dimensioni dei piccoli mattoncini e li ha trasfor-

Nel 2002, la Lego era vicina al fallimento: i bambini sembravano attratti solo dai videogiochi. Oggi è la più grande azienda di giocattoli al mondo www.digital4executive.it

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management - wor l d of b us i ne s s i d e a s | L’ i m p o rta n z a de g l i sma ll data : p ic c o l i in diz i c h e sv e l a n o g ra n d i t r end

Chi è Martin Lindstrom Martin Lindstrom è autore di “Small Data: The Tiny Clues That Uncover Huge Trends” (“Small Data, piccoli indizi che svelano grandi trend”), il suo ottavo libro. È considerato uno dei più importanti esperti mondiali di branding ed è stato eletto dalla rivista TIME fra le 100 persone più influenti al mondo. I suoi libri sono stati tradotti in 47 lingue e hanno venduto più di 1 milione di copie ed è consulente di importanti aziende. Nel 2016, Thinkers50 lo ha inserito tra i primi 20 business thinkers del mondo.

tici della Lego hanno dovuto fare i conti con risultati shock: una perdita operativa di 240 milioni di dollari, con vendite di 1 miliardo, e debiti per 747 milioni di dollari. L’azienda stava affondando. Fu allora che arrivò, proprio “in corner”, il salvataggio. Un team della Lego decise di andare a far visita nelle case dei consumatori in Europa. Mentre si trovavano in una casa in Germania, i rappresentanti della Lego chiesero a un ragazzino di 11 anni qual era la cosa a cui teneva di più e lui indicò un vecchio paio di scarpe da ginnastica logore, che aveva messo in bella mostra su uno scaffale. Il bambino spiegò che quelle sneakers erano la prova che lui era il migliore in città sullo skateboard. Un lato delle scarpe era completamente consumato, è ciò dimostrava in modo incontrovertibile a tutti gli amici che lui era capace di inclinarsi con un angolo perfetto sullo skateboard. Le sneakers erano diventate il suo trofeo. La storia era a dir poco sorprendente, perché questa osservazione diretta sul consumatore, apparentemente insignificante, questo dato minuscolo (uno Small Data, appunto), in contrasto con i Big Data della ricerca corporate, mostrava con enorme chiarezza che, quando si lasciava che fossero i bambini a parlare e decidere, non era più vero che il tempo era l’elemento discriminante. Con la giusta motivazione, anche i ragazzi delle nuove ge-

L’intuizione arrivò quando un team della Lego decise di andare a far visita nelle case dei clienti e parlare con i ragazzi: con la giusta motivazione, anche i nativi digitali sono disposti a dedicarsi con pazienza a ciò che amano | 18 |

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nerazioni sono disposti a dedicarsi con pazienza a ciò che amano, passando ore e ore a perfezionare la loro abilità sullo skateboard. O a costruire un fantastico castello di mattoncini Lego. La Lego è così tornata ai suoi classici mattoni mini, seguendo una via opposta alla precedente: ha aumentato enormemente il numero di pezzi inclusi nella stessa scatola. E poi ha deciso di girare un film, che ha aiutato a infondere nuova passione nel modo di giocare dei bambini. L’azienda si è rapidamente ripresa e oggi, a dieci anni di distanza, la Lego è il più grande produttore di giochi al mondo. Un equilibrio fra Big e Small Data Io non sono contrario ai Big Data. Tuttavia, credo fermamente che occorra raggiungere un equilibrio tra correlazione e causalità. Non importa quanto siano intelligenti gli analisti e i data miners: seduti comodamente nei loro uffici con l’aria condizionata, le ipotesi che testano su quantità di dati restano quello che sono ipotesi astratte. Negli Small Data, invece, si trovano - e sarà sempre così - le prove più evidenti di chi siamo e di che cosa vogliamo, anche se, come hanno scoperto gli executive della Lego più di dieci anni fa, ciò è rappresentato da un paio di vecchie sneakers Adidas consumate sui lati.


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management di

annalisa casali

Design Thinking: favorire l’innovazione in azienda stimolando il pensiero creativo Daniel Jackson del MIT e Gianluca Secondi di Accenture spiegano cos’è e quali sono i vantaggi del metodo utilizzato in aziende di ogni dimensione e settore alle prese con la trasformazione digitale, anche per lo sviluppo software. Il cliente è il fulcro del processo innovativo e nessuna idea, anche quella in apparenza meno attinente, viene scartata

Il Design Thinking è un modello di gestione aziendale particolarmente adatto a trattare problemi complessi, che analizza e risolve grazie alla visione creativa e fuori dagli schemi tipica del design. È stato il professore d’ingegneria della Stanford University Rolf Faste a coniare l’espressione Design Thinking negli anni 80, anche se si deve al collega David Kelley la sua adozione per scopi manageriali, negli anni 2000. Il concetto si è poi rapidamente diffuso in Canada, Asia e Australia. e da diversi anni anche in Europa, prima in Germania, Regno Unito e Olanda e poi in Francia, Spagna e Italia. Il metodo non solo favorisce una maggior “democratizzazione” dell’innovazione in azienda, stimolando la partecipazione dei singoli al raggiungimento degli obiettivi, ma riduce fortemente pure i rischi associati all’innovazione, introducendo preziosi strumenti di verifica delle soluzioni prima che queste siano implementate. | 20 |

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i tre criteri: gradimento, fattibilità, sostenibilità Processo e strumenti di generazione delle idee si ispirano a quelli adottati dai designer per lo sviluppo creativo. Obiettivo del metodo è individuare una soluzione innovativa a un problema che soddisfi tre criteri fondamentali: gradimento degli attori coinvolti (personale, clienti…), fattibilità (tecnica e organizzativa) e sostenibilità economica. Il DT si focalizza sull’utente per generare il valore e trasferirlo all’offerta, e si basa sul lavoro di un team, un team di progetto che si attiva quando è necessario sotto la guida di un project leader, e comprende tutte le persone coinvolte nel processo di creazione del valore, dal manager all’operaio, ma anche clienti, fornitori o consulenti. Ciascuno è chiamato a contribuire con idee e suggerimenti, cercando di trovare intuizioni creative e fuori dagli schemi. Nessuno spunto, anche quello all’apparen-


manag e m e nt | D e s i gn T hi nk i ng: favo rire l’ in n ova z io n e in a z ie n da st imo l a n d o il p e n sie ro c re at i vo

prio interno il Design Thinking per allineare al meglio le proprie soluzioni applicative con le esigenze dei clienti alle prese con le sfide della digital disruption. Il software diventa un abito sartoriale L’idea è quindi applicare il DT allo sviluppo software. Un mondo che – spiega Daniel Jackson, fondatore del Computer Science and Artificial Intelligence Lab del MIT di Boston, recentemente ospite di Accenture per una lecture – sta subendo una “deprofessionalizzazione”. Gli sviluppatori hanno tempi sempre più stretti per rilasciare nuovi programmi o funzionalità, e le applicazioni sono sempre più visual e “gestural”, perché gli utenti richiedono interfacce più accattivanti, spesso anche a scapito dell’usabilità. «L’approccio sposato da Accenture, che condivido in pieno - dice Jackson -, è il “design from the inside out”, dove l’utente è parte integrante del processo di sviluppo e le sue esigenze sono il fulcro di tutte le fasi di progettazione e realizzazione». Tre sono gli aspetti chiave del DT applicato allo

Perché conviene il Design Thinking... Ecco alcuni tra i principali vantaggi del Design Thinking.

za meno attinente, viene scartato a priori. La varietà all’interno del team è cruciale, perché coinvolgere persone dal diverso background permette di sfruttare molteplici punti di vista, sensibilità e abilità. Nel processo di generazione delle idee, il team vaglia le criticità affrontandole non come ostacoli ma come opportunità, e verifica rigorosamente l’efficacia della soluzione e la sua fattibilità economica prima dell’introduzione sul mercato. Il DT prevede ampio uso di tecniche di brainstorming, schizzi, mappe concettuali e post-it per migliorare la visualizzazione delle idee, stimolare la creatività e l’allineamento del singolo all’obiettivo del team. Si tratta di un modello di management che si adatta alle esigenze delle organizzazioni di qualsiasi dimensione, dalle PMI alle multinazionali, con esempi famosi come Coca Cola, Philips, Vodafone, Auchan, TomTom, Apple e Allianz. Negli ultimi anni, grazie anche alla decennale collaborazione con il MIT di Boston, Accenture ha implementato al pro-

• Migliora la capacità decisionale e la qualità delle decisioni prese • Favorisce l’innovazione pervasiva • Riduce i costi e ottimizza i processi aziendali • Favorisce la creazione di un ambiente organizzativo positivo e proattivo • Stimola l’emersione spontanea delle leadership naturali e l’empowerment dei singoli • Si rivela eccezionale per il team building e lo sviluppo di sentimenti di affezione e lealtà verso l’organizzazione

... e quando applicarlo Esistono alcuni ambiti per i quali il Design Thinking si rivela particolarmente efficace. Questi i principali. • Definizione della strategia aziendale di medio/lungo termine • Ideazione e lancio di nuovi prodotti, servizi o processi • Progetti di organizzazione e riorganizzazione aziendale • Progetti di acquisizione o spin-off societari • Avvio di startup • Gestione delle risorse umane

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management | De s i gn T hi nk i ng: favor i r e l’ i nnova z io n e in a z ie n da st imo l a n d o il p e n sie ro c re at ivo

Le fasi del processo creativo Scopo del Design Thinking è individuare soluzioni innovative a un problema, anche complesso. Tutte le proposte che si generano con l’applicazione della metodologia devono soddisfare tre criteri fondamentali. 1. Desiderabilità da parte del mercato o degli attori interni all’azienda 2. Fattibilità tecnologica, tecnica e organizzativa 3. Redditività economica Le fasi del DT sono una decina, ma spesso uno specifico problema richiede solo alcuni step e non altri. Inoltre possono essere svolte in contemporanea o ripetute. Queste sono le cinque più rilevanti. • Empathize: in questa fase si cerca di mettersi “in sintonia” con il cliente, con il suo modo di pensare,

con le sue esigenze. Fondamentali sono gli esercizi di immedesimazione e i giochi di ruolo. • Define: si tratta del vero e proprio brief, verbale o scritto, contenente l’indicazione dell’obiettivo da raggiungere. • Ideate: vengono identificati i bisogni e le motivazioni degli end user e si generano le idee, spesso attraverso il brainstorming. • Prototype: si verifica la reale funzionalità dell’idea, che viene presentata al vaglio dei gruppi di stakeholder prima di essere portata al cliente. • Select: si tratta della revisione e test delle soluzioni proposte rispetto al “define”. Alcune potranno rivelarsi pratiche ma potranno non essere le migliori. Altre soluzioni, invece, pur se centrano l’obiettivo della soluzione del problema si rivelano all’atto pratico non fattibili.

sviluppo software, continua Jackson. «Primo: il coinvolgimento empatico dell’azienda con il cliente. Secondo: il deployment incrementale, perché il Design Thinking non è un processo rigido ma agile, che può prendere strade non pianificate per giungere alla soluzione migliore. Infine una forte attenzione, quasi ossessiva, ai piccoli dettagli che possono fare la differenza nell’esperienza utente, con casi famosi come la progettazione degli ultimi prodotti Apple». Dalle business application al business of application Da una recente ricerca Forrester emerge che solo il 17% dei responsabili IT ritiene di essere in grado di soddisfare le esigenze del business alla velocità del business, commenta Gianluca Secondi, Managing Director, Accenture Advanced Technology & Architecture Platform Lead. «Chi aspira a essere leader deve quindi reinventare lo sviluppo delle applicazioni per avvantaggiarsi dell’innovazione tecnologica in un mondo sempre più connesso e veloce. Ormai non si parla più di business application, ma di business of application, soluzioni che combinano business e software in un unicum tecnologico di sicura efficacia. Il software avrà un ruolo sempre più importante. In alcuni casi, come Uber, è già il cuore pulsante del business. In altre invece contribuisce ad ampliarne i confini fisici. In un modo o nell’altro il Design Thinking oggi permette di allineare le esigenze commerciali del business con quelle tecniche dell’IT». Addio, quindi, alla “tecnologia in scatola” che molte organizzazioni hanno sposato per decenni, addio ai silos di dati, e spazio a un nuovo approccio | 22 |

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che prevede una collaborazione stretta tra chi sviluppa e chi usa il software. Per Secondi le applicazioni business devono avere tre caratteristiche per essere “a prova di digital disruption”. Devono essere “liquide”, nativamente progettate per cambiare con facilità, scalabili nel cloud e negli ambienti mobile, basate su moduli e microservizi facilmente riassemblabili e su metodologie come DevOps. I software di questo tipo possono supportare nuove funzionalità di business in modo continuo, assicurando l’agilità oggi necessaria per competere. Ancora, devono essere “intelligenti”. Le aziende hanno bisogno di integrare l’intelligenza a livello software in ogni aspetto della loro attività, applicazione o processo. Si tratta di un’intelligenza “seamless”, basata sugli ultimi sviluppi - natural language processing, machine learning e cognitive computing in particolare – che dà origine a software che si autogovernano. Insomma applicazioni nativamente dotate di funzionalità di automazione dei compiti e programmi che migliorano i processi aziendali attraverso le capacità analitiche integrate. Infine devono essere software “connessi”. Per difendere le posizioni di mercato, oggi le aziende devono spostare un po’ più in là le frontiere competitive, sposando un nuovo modello multidimensionale di connettività software, che includa nelle attività quotidiane anche clienti e fornitori. Le applicazioni connected sono progettate per essere eseguite ovunque, non solo su server, PC e smartphone ma anche nei macchinari industriali, nelle auto e nei dispositivi wearable, per trasformare i prodotti in soluzioni ibride, altamente modulari, che combinano a vario titolo prodotti e servizi.


management di

intervista a

manuela gianni

umberto bertelè

Professore Emerito, Politecnico di Milano autore di “ strategia ”

Per fare impresa serve una strategia precisa. anche nell’era della disruption Come Tesla e Amazon, anche le nostre PMI devono sempre porsi la domanda se la business idea che le ha fatte nascere e crescere sia ancora sostenibile, e avere un occhio vigile a quelle che potranno essere le ricadute domani e dopodomani delle decisioni che si assumono oggi. Lo spiega Umberto Bertelè, intervistato in occasione della pubblicazione della seconda edizione del libro “Strategia”, focalizzato sulla digitalizzazione

La digital disruption distrugge anche la strategia? In un mondo volatile e imprevedibile, dove giovani imprese digitali sono in grado di mettere in ginocchio, nell’arco di pochi mesi, interi settori dell’economia, ha ancora senso parlare di strategia aziendale? Parte da questa domanda l’analisi svolta da Umberto Bertelè, Professore emerito di Strategia al Politecnico di Milano e tra i fondatori del corso di studi di Ingegneria Gestionale, per la seconda edizione del libro “Strategia”, edito da Egea”. Un testo che oltre a presentare i pilastri fondamentali della strategia di impresa, affianca ai concetti teorici decine di esempi reali scelti fra i più recenti e innovativi, perlopiù nel mondo digitale. E che dimostra che si tratta di un esercizio necessario: tutte le imprese di successo perseguono sin dalla nascita una strategia precisa. Professore, perché nell’era dell’innovazione disrup-

tive è ancora necessario per le nostre imprese dedicare tempo a impostare la strategia? Le imprese disrupter - così chiamate per la loro capacità di rivoluzionare interi comparti dell’economia - sono tra le prime ad avere una strategia precisa. Nella mia visione, la strategia è il filo che lega fra loro le decisioni dell’impresa - è pure il titolo di un capitolo del libro -, che le colloca in una prospettiva temporale e dà loro un senso in funzione delle mete che l’impresa stessa si prefigge di raggiungere. Come la bussola che permette di allineare i comportamenti di chi opera all’interno e che può dare rassicurazioni sul futuro a chi guarda all’impresa dall’esterno (agli investitori, alle banche, ai fornitori e ai clienti, agli stakeholder in genere). Diversa è invece la mia risposta se si identifica la strategia con la pianificazione strategica di lungo termine (long range planning), che effettivamente obbliga le imprese a “dedicare (molto) tempo per impostare la strategia”, per mettere a punto www.digital4executive.it

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management | P e r far e i m p r e s a s e r v e u na s t r at e g ia p re c isa . A n c h e n e l l’ e ra de l l a disrup t io n

piani molto dettagliati, proiettati su un orizzonte temporale lungo, che presumono una elevata prevedibilità del contesto. La pianificazione strategica intesa in questo senso, che tanto successo aveva avuto nei primi decenni del dopoguerra (caratterizzati da una crescita continua dell’economia), è a mio avviso morta già da molto prima che si iniziasse a parlare di disruptive innovation, anche se le sono sopravvissute per parecchi anni, predisponendo piani sempre più inutili, le corpose direzioni strategiche presenti soprattutto nelle imprese maggiori. È morta perché vittima del clima di crescente turbolenza e imprevedibilità, innescatosi agli inizi degli anni ’70 - con la fine del sistema dei cambi fissi e lo scoppio della prima crisi petrolifera - e proseguito poi fino ai giorni nostri. Può fare qualche esempio di strategie di successo? Le faccio due esempi. Tesla, l’impresa della Silicon Valley nata nel 2003 che più spesso viene paragonata alla Apple di Steve Jobs e che ha al vertice un leader carismatico come Elon Musk (co-fondatore di PayPal), ha seguito nella sua crescita una strategia precisa, preannunciata da Musk stesso - e all’epoca presumibilmente accolta con scetticismo per la sua totale mancanza di esperienza nel mondo dell’auto - già dieci orsono. Una strategia precisa, ma capace di ridefinirsi

La strategia d’impresa nell’era della digitalizzazione, con decine di esempi reali, nella nuova edizione del libro “Strategia”

continuamente (in una prospettiva però sempre proiettata nel tempo) in funzione delle reazioni del mercato e dell’evoluzione del contesto esterno, che ha portato Tesla a diventare il simbolo dell’auto elettrica e ha proiettato la sua capitalizzazione di Borsa a livelli impensabili: con ricavi pari a 4 miliardi di dollari e 1 di perdita, essa “vale” oltre i due terzi di GM, che ha oltre 12 miliardi di utile e 215mila addetti, e quasi quattro volte la nostra FCA, che occupa 230mila persone. Amazon, che in poco più di 20 anni è diventata una delle top-5 imprese ai vertici mondiali per capitalizzazione, ha seguito anch’essa - sotto la guida di un leader altrettanto carismatico come Jeff Bezos - un copione ben preciso. È decollata come e-retailer di libri, avendo già in mente (come sottolineato in un articolo del McKinsey Quarterly di qualche tempo dopo) l’idea di allargarsi progressivamente a un insieme di prodotti sempre più ampio; una volta acquisita una dimensione rilevante, l’ha sfruttata diventando anche un marketplace e offrendo agli espositori una serie di servizi diversi; con la stessa logica, ha sfruttato (come ha fatto peraltro anche Alphabet-Google) la sua enorme rete di server per offrire servizi di cloud computing attraverso AWS-Amazon Web Services, attualmente leader mondiale nel comparto; resasi conto dell’importanza della velocità di consegna come differenziale competitivo, ha infine deciso di accrescere il suo grado di integrazione verticale a monte entrando nella logistica e offrendo servizi anche in questo ambito. Una strategia di crescita nel complesso molto coerente e attenta al contesto, seppur con qualche mossa esplorativa non andata a buon fine: quale il tentativo di entrare con Fire nel mercato dei tablet, sulla scia del grande successo ottenuto con il lancio (strategicamente più coerente) di Kindle. Tesla e Amazon sono due multinazionali poco confrontabili con le nostre imprese. La strategia è importante solo per i grandi o anche per le PMI? Nelle grandi imprese è ovviamente più rilevante la valenza della strategia - accennata in precedenza - come strumento organizzativo, come collante, come guida per rendere coerenti i comportamenti delle diverse strutture - talora anche molto decentrate - in cui si articola l’impresa stessa e dei singoli individui, che si ritrovano a dovere dare risposte veloci ai problemi continuamente emergenti. Ma, come visto nei casi di Tesla e Amazon, la strategia da seguire era già nelle teste dei fondatori quando le imprese erano ancora startup allo stato embrionale. E il problema non si pone solo per le start-up innovative, ma anche per le

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m a nage m e nt | Pe r far e i m p r e s a se rv e un a st rat e g ia p re c isa . A n c h e n e l l’ e ra de l l a disrup t ion

PMI più tradizionali (la larga maggioranza in Italia), con una vita più o meno lunga alle spalle, che devono sempre porsi la domanda se la business idea che le ha fatte nascere e crescere sia ancora sostenibile, in un contesto a forte variabilità, e quali siano - nel caso di risposta negativa - le opzioni per sopravvivere e possibilmente per ridecollare. Una domanda importante in un mondo caratterizzato, come ho sottolineato nel libro, da una continua riduzione dell’aspettativa di vita delle imprese a fronte della crescita viceversa di quella delle persone. Avere una strategia non significa necessariamente avere successo, perché può non essere buona l’idea di business che ne sta alla base o cattiva l’execution, ma non averla – muovendosi senza un filo che dia coerenza alle decisioni - porta con elevata probabilità al declino e alla morte dell’impresa. Quali dovrebbero essere gli obiettivi di una buona strategia? “La regola d’oro per una qualunque impresa è di puntare alla massimizzazione del valore per gli azionisti (shareholder’s value) in un’ottica di rispetto delle regole e di sostenibilità del valore stesso nel tempo”. È questa la mia convinzione espressa a chiare lettere nel libro, convinto come sono che altri obiettivi più buonisti, che mirino apparentemente al benessere di tutti gli stakeholder (di tutti coloro cioè che hanno interessi nell’impresa), non diano indicazioni operativamente utili e possano al limite indebolire l’impresa con danni per gli stakeholder stessi. È importante però che tutti e tre i punti – massimizzazione del valore, sua sostenibilità nel tempo e rispetto delle regole – siano rispettati contemporaneamente. Massimizzare il valore significa essere più bravi degli altri, non solo dei competitori in senso stretto (GM per FCA o P&G per Unilever) ma della media di chi opera nell’economia, nel combinare extraprofittabilità e crescita. Puntare alla sostenibilità del valore nel tempo significa evitare i picchi effimeri nel profitto e nella capitalizzazione, ottenibili ad esempio attraverso il taglio di attività (quali la ricerca o la formazione) vitali per il futuro, ma operare in una prospettiva che bilanci le esigenze di breve termine con quelle più prospettiche. Rispettare le regole significa trattare con rispetto le persone e l’ambiente e adeguarsi ai valori delle collettività in cui si opera, non solo per paura delle punizioni ma anche come imperativo etico. In termini meno formali, una buona strategia deve mettere insieme sogno (nelle mete che si vogliono raggiungere) e razionalità (nel valutare la sostenibilità economica e finanziaria e la rischiosità del sogno) e deve infondere senso di appartenenza in

chi opera nella struttura. Deve essere accompagnata da una altrettanto buona execution. Deve essere continuamente riesaminata e ricalibrata, con un processo che raccolga i segnali provenienti dai livelli più direttamente a contatto con la realtà, li integri con le visioni più in grande del CEO e del top management e ritrasmetta le correzioni di rotta – motivandole perché diventino parte integrante della cultura di impresa – a tutta l’organizzazione. L’innovazione e la crescita giocano un ruolo determinante. Sono per loro natura un fattore di squilibrio, perché mettono in forse – generando resistenze anche forti – gli equilibri esistenti. Ma sono allo stesso tempo un fattore di vita, contro la burocratizzazione dell’organizzazione, e un fattore di attrazione per le risorse umane più valide. Viviamo un’era di grande accelerazione, dove la rapidità e il time to market sono spesso la priorità. È facile in questo contesto perdere di vista la visione di lungo periodo. Ha qualche consiglio pratico? È assolutamente vero, ma le imprese di successo sono quelle – come accennavo in precedenza – che sanno muoversi rapidamente, ma con un occhio sempre vigile con quelle che potranno essere le ricadute domani e dopodomani delle decisioni che si assumono oggi. È più facile che l’approccio sia questo nelle imprese di nascita recente, specialmente se con business model centrati sulla digitalizzazione. È più difficile nelle imprese più tradizionali, dove l’imprenditore o il CEO professionale hanno avuto successo con strategie anch’esse tradizionali, dove operazioni potenzialmente a forte valenza strategica – quali l’introduzione di un CRM o l’adozione di servizi di cloud computing – vengono spesse qualificate come tecniche e affidate con deleghe in bianco agli “esperti della materia”, invece che costituire uno stimolo per un ripensamento complessivo. Il consiglio, banale ma meno di quello che può sembrare: che l’imprenditore o il CEO professionale abbiano un coinvolgimento diretto in tutte le trasformazioni che hanno a che fare con la digitalizzazione, facendosi ovviamente assistere – con un processo di apprendimento progressivo – non solo dagli “esperti digitali” ma anche da chi dispone di una fotografia più ampia delle trasformazioni in atto. Il budget che un’impresa tradizionale dedica agli investimenti ICT dovrebbe dunque essere frutto di una decisione strategica? La mia risposta non può che essere in linea con quanto ho appena detto. Il budget non può essere definito sulla base di quello degli anni precedenti, ma guardando alle esigenze complessive di trasformazione dell’impresa. www.digital4executive.it

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intervista

intervista a

Generali, un piano di innovazione da 150 milioni. Obiettivo: semplificazione

Roberto Burlo

Responsabile IT Generali Business Solutions

Conclusa in anticipo la fusione che ha riunito sotto un unico brand le attività di Generali, Ina-Assitalia e Gruppo Toro (Augusta, Lloyd), prende il via un grande progetto di trasformazione digitale che punta sul ridisegno dei processi chiave e sulla customer experience. Allineamento IT-business e coinvolgimento dei dipendenti sono due ingredienti cruciali per il successo

20 processi chiave da riprogettare entro tre anni, un investimento di 150 milioni di euro, 11 cantieri funzionali trasversali e 500 persone coinvolte. Sono i numeri del “Progetto Semplificazione” avviato da Generali Italia, un piano di digital transformation che rappresenta la “fase due” del rilancio della storica compagnia assicurativa. Non a caso, l’avvio di questa seconda fase (20162018) ha conciso con la nomina ad Amministratore Delegato di un manager con forti competenze sui temi dell’innovazione digitale, Marco Sesana, che aveva seguito insieme a Roberto Burlo - ora Responsabile IT in Generali Business Solutions (GBS, il consorzio che fornisce servizi IT alle Società del Gruppo Generali in Italia), nonché appunto Responsabile IT del Progetto di Integrazione - il complesso processo di roll-out dei sistemi informatici della “fase uno”, conclusa (in anticipo) lo scorso anno, che ha portato all’adozione di un’unica piattaforma applicativa e un unico modello operativo per la nuova società. | 26 |

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Negli ultimi due anni Generali ha infatti realizzato il più grande piano di integrazione nel settore assicurativo in Europa, riunendo sotto un unico brand le attività di Ina-Assitalia e le società del Gruppo Toro (Augusta, Lloyd), e dando vita così a un colosso con oltre 13 miliardi di premi raccolti nel 2015, 1500 agenzie e 6 milioni di clienti tra imprese e famiglie. E ora il colosso finanziario accelera nell’inevitabile corsa alla digitalizzazione, con l’obiettivo di diventare il leader di mercato puntando da un lato sul ridisegno dei processi più importanti, e dall’altro su una customer experience in linea con le nuove aspettative dei clienti. In tutto questo lungo e articolato percorso, la chiave del successo è stata la stretta collaborazione fra il team IT e il business, con una «piena convergenza degli obiettivi», come ci ha spiegato Roberto Burlo. L’integrazione avviata nel 2013, che ha comportato anche la grande sfida di riunire sistemi informativi


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diversi e di grande complessità, si è conclusa, in anticipo rispetto ai piani. Quali sono state le leve che hanno portato a raggiungere con successo questo risultato? In primo luogo metterei la piena convergenza degli obiettivi di IT e business. Ogni ostacolo ci ha visti seduti assieme attorno al tavolo, al fine di individuare la miglior soluzione. Ed è importante sottolineare il fatto che alla voce “business” fanno capo non solo la componente direzionale, ma anche le reti agenziali, che hanno lavorato duramente assieme a tutti noi per conseguire questo successo. Oltre a ciò, tutti i colleghi IT hanno dato il massimo, con un impeigno di intensità straordinaria lungo tutto l’arco temporale, avendo ben chiaro quanto l’IT potesse essere un autentico propulsore nei confronti del progetto di integrazione e quanto alla fine la riduzione della complessità a livello IT ci avrebbe consentito di avere maggiori risorse da destinare a tematiche innovative e, in generale, più stimolanti dal punto di vista professionale. Indubbiamente ha pesato anche l’esperienza che, negli anni precedenti, avevamo fatto lavorando assieme all’interno del consorzio GBS (in cui erano confluite le componenti IT di Generali e Ina sin dal 2001 e quelle del Gruppo Toro dal 2006), sviluppando una comune profonda conoscenza delle architetture IT a supporto del business. Ma anche quello “spirito di squadra” che ha fatto sì che ci fosse piena disponibilità da parte di tutti ad abbandonare le proprie attività sui sistemi “in dismissione” per portare le proprie competenze a beneficio dei sistemi individuati come “target”. Aggiungerei inoltre una macchina progettuale che per tutto il periodo ha gestito con attenzione “maniacale” tutti gli aspetti collegati alla pianificazione e al rispetto delle milestone previste, anticipando regolarmente eventuali problemi e consentendo così di indirizzarli per tempo. In più occasioni è stato ribadito che innovazione e digitalizzazione rivestono un ruolo chiave nella strategia futura di Generali Italia. Che cosa significa in

concreto? Quali investimenti e quali iniziative avete messo in campo? Con quali obiettivi? Per quanto concerne l’innovazione, nel consueto approccio “push pull” lavoriamo costantemente fianco a fianco con il business per monitorare, spesso attraverso POC (Proof of Concept), le tematiche IT che sembrano più promettenti e, laddove la POC dia risultati interessanti, includendo la soluzione in qualche pilota effettivo in produzione. Per quanto riguarda la digitalizzazione, noi preferiamo parlare di semplificazione, alla quale sono stati destinati fino a 150 milioni in 3 anni. In entrambi i casi l’obiettivo è migliorare sempre più i servizi che offriamo alla nostra rete di vendita e ai nostri clienti, capitalizzando il fatto che, avendo effettuato la convergenza su un’unica filiera applicativa grazie al Progetto di Integrazione, gli investimenti possono essere molto più focalizzati rispetto al passato. Sono stati di recente avviati sei “laboratori di semplificazione” per ripensare i processi, un lavoro che sarà portato avanti nei prossimi 18 mesi. In che modo la digitalizzazione può contribuire alla semplificazione dei processi? Può fare qualche esempio? Pensiamo alla denuncia di un sinistro attivabile da smartphone (allegando magari già la foto), oppure alla possibilità di concludere una vendita vita a casa dei cliente, tramite firma elettronica e pagamento in mobilità (laddove in passato era necessario ripassare una seconda volta dal cliente per concludere la transazione). Sono soltanto due degli innumerevoli esempi che fanno capire come la digitalizzazione sia alla base della semplificazione, a beneficio sia della rete di vendita che del cliente finale. Ma potremmo spingerci anche oltre, parlando di RPA (Robot Process Automation) o delle potenzialità che ci vengono oggi offerte da ambiti quali machine learning e cognitive computing per migliorare i flussi di lavoro, magari interagendo in modalità innovative con la tecnologia. Un altro obiettivo dichiarato è di migliorare la custo-

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intervista | Generali, un piano di innovazione da 150 milioni. Obiettivo: semplificazione

«L’attenzione alla “customer experience” è massima. Un presidio centrale garantisce che questo tema sia sempre adeguatamente valutato e che vi sia omogeneità di approccio tra i diversi laboratori. Per “customer” intendiamo qualsiasi utilizzatore del sistema»

mer experience, per una più semplice, chiara ed efficace relazione con il cliente nell’acquisto, nei servizi post-vendita e nell’assistenza. A che punto siete in questo percorso e quali nuove soluzioni state sviluppando? Nel ripensamento dei processi che ha luogo all’interno dei “laboratori della semplificazione” l’attenzione alla “customer experience” è massima. Un presidio centrale garantisce infatti che questo tema sia sempre adeguatamente valutato e che vi sia omogeneità di approccio tra i diversi laboratori. Credo sia opportuno sottolineare che per “customer” intendiamo qualsiasi utilizzatore del sistema e quindi, in particolare, la nostra rete di vendita. L’obiettivo è di fare un vero salto di qualità nell’operatività dei nostri agenti (ad esempio mettendoli in grado di operare sia in agenzia che in mobilità utilizzando le medesime soluzioni) e nella percezione che i clienti hanno oggi dell’ambito assicurativo. Il piano di integrazione che vi ha visti impegnati in questi anni ha coinvolto da vicino i dipendenti, a cui avete dedicato nuovi servizi e un grande piano di formazione. Sono stati introdotti allo scopo anche nuo-

vi strumenti digitali? È previsto lo Smart Working? Anche sul fronte dei dipendenti la volontà di proporre nuove modalità di dialogo ha portato a cambiamenti molto importanti. Sono stati introdotti strumenti di collaboration e di corporate social network, consapevoli di quanto ormai ciascuno di noi si aspetti di trovare anche in ambito lavorativo strumenti che usa frequentemente nella propria vita di ogni giorno. Per quanto riguarda lo Smart Working, sta partendo un progetto pilota sul polo di Milano e l’avvio di questo progetto beneficerà del lavoro fatto negli ultimi anni sulla virtualizzazione della postazione di lavoro, quindi l’impatto dal punto di vista IT sarà piuttosto contenuto, limitandosi prevalentemente alle dotazioni hardware necessarie per utilizzare servizi già precedentemente virtualizzati. Lo scorso febbraio i dipendenti sono stati coinvolti in un hackathon mirato all’ideazione di soluzioni assicurative innovative e tecnologicamente all’avanguardia. Qual è il bilancio di questa iniziativa e quali ricadute concrete ha avuto? La ripeterete? L’iniziativa è stata estremamente positiva sia in termini di coinvolgimento ed engagement delle persone

L’evoluzione dell’offerta: le nuove polizze telematiche Generali ha già introdotto sul mercato italiano due polizze telematiche innovative e personalizzabili, basate sui comportamenti e costruite attraverso l’analisi dati e il T-NPS (Transactional Net Promoter Score), uno strumento di indagine mirato e sistematico per ascoltare e identificare azioni sulla base dei feedback di clienti e distributori, in grado di effettuare la prevenzione dei rischi. “Sei in Auto con Stile” è la prima assicurazione auto che interagisce con il guidatore grazie al Real Time Coaching, una black box a parabrezza - con connessione satellitare - in grado di segnalare in tempo reale al conducente, tramite un segnale luminoso, i comportamenti rischiosi alla guida, e prevenire situazioni di pericolo. Grazie a un LED multicolore, interagisce con il guidatore classificando il suo stile di guida: temerario, equilibrato o evoluto. In caso di forti accelerazioni o di brusche frenate il LED si illumina di viola per 4 secondi durante la guida. Il costo è calcolato in base ai chilometri percorsi e su cinque parametri monitorati dal dispositivo. “Sei a Casa in Touch” è invece un’offerta casa basata sulla telematica, in fase di lancio, che sarà in grado di segnalare tempestivamente situazioni di pericolo e prevenire eventuali rischi, attivando servizi di assistenza dedicati. | 28 |

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La strategia digital passa anche dai social network Presente sui social network dal 2015 con contenuti dedicati a clienti e agenti, a luglio Generali ha annunciato di avere superato i 100.000 fan su Facebook, aggiudicandosi così il primato della Compagnia assicurativa italiana più seguita sul social network. La pagina Facebook presenta contenuti editoriali dedicati a temi assicurativi, di cultura, arte, campagne social e iniziative territoriali realizzate con la partecipazione attiva degli agenti. Non è dedicata al servizio clienti ma risponde in tempi molto rapidi ai commenti e ai messaggi privati. Oltre la metà delle Agenzie ha oggi una pagina Facebook con fan base in costante crescita. La Compagnia ha messo a disposizione percorsi formativi articolati, dedicati a chi per la prima volta si affaccia al mondo dei social fino ad arrivare a contenuti più specifici come personal branding e reputation. Anche gli agenti hanno a disposizione assistenza e supporto nella gestione ed alimentazione dei contenuti. Generali Italia è inoltre su Youtube e, con account specifici, su Twitter, Instagram e Linkedin. Nel febbraio 2016 è stato, inoltre, lanciato il nuovo sito www.generali.it oltre ai siti agenziali, anch’essi completamente ridisegnati rispetto ai precedenti.

che in termini di idee scaturite nelle 24 ore grazie a un cocktail perfetto di elementi: l’energia dei 120 partecipanti, che con il loro entusiasmo hanno permesso di generare tante idee interessanti (alcune delle quali stanno entrando in una fase pilota), il coinvolgimento del Country Manager e di tutta la sua prima linea che ha fatto sentire l’importanza del evento a tutti e, infine, una location “stimolante” come la sede di H-Farm. Tutto ciò ha permesso di portare idee, energia ed engagement ma anche una nuova modalità di lavoro, i Minihackaton (hackathon su temi specifici delle durata di 8 ore), che permettono, lavorando in modo agile e valutando il contributo di tutti, di accelerare i processi decisionali e di semplificazione interni all’azienda. È già a piano per l’inizio del 2017 un nuovo Hackathon legato al progetto Semplificazione. Le grandi assicurazioni iniziano a guardare con interesse al mondo dei wearable per innovare la propria offerta e competere nell’affollato mercato dell’Health Insurance. Quali cambiamenti vi attendete in questo ambito, in generale e sul mercato italiano? Avete piani per il lancio di nuovi prodotti? Senza dubbio, sia in generale che per quanto riguarda il mercato italiano, si tratta di un settore in crescita sul quale vogliamo investire facendo leva sia sull’innovazione tecnologica che su una gestione evoluta nel network di provider, con l’obiettivo di diventare progressivamente un “partner” dei nostri clienti anche nella fase di prevenzione. Per conseguire ciò verranno studiati nuovi prodotti, capaci di integrare le componenti di servizio abilitate da questa tecnologia. In parallelo al diffondersi dei wearable, cresce il settore dell’Internet of Things e degli oggetti connessi. Le assicurazioni auto stanno evolvendo verso un

nuovo modello di polizze basate sull’uso, grazie alla black box, e su questo Generali è all’avanguardia, così come sulle polizze per la casa basate sull’uso di sensori. Cosa ci dobbiamo aspettare in futuro? Il trend sembra abbastanza evidente. L’IoT consente di rendere più frequenti le interazioni con il cliente, sviluppando così la possibilità di proporgli soluzioni più ritagliate sulle sue effettive esigenze e caratteristiche, di poter agire tempestivamente in caso di sinistro in modo tale da minimizzare l’impatto dello stesso nonchè, come già detto, di collaborare anche in ottica preventiva. In futuro quindi non potremo che assistere sempre di più a un’integrazione di queste componenti tecnologiche all’interno delle soluzioni assicurative che verranno via via proposte sul mercato. Si possono facilmente ipotizzare e realizzare scenari fino a qualche anno fa inimmaginabili, in cui, ad esempio, tramite la domotica è possibile abbassare da remoto le tapparelle di casa anche in assenza del proprietario a seguito della notifica di una probabile grandinata, in modo tale da prevenire i possibili danni. E come vi state attrezzando per estrarre valore e conoscenza dai Big Data che queste soluzioni generano? Durante l’integrazione, nonostante la focalizzazione sul progetto, siamo comunque riusciti a introdurre al nostro interno l’utilizzo della piattaforma Big Data ed iniziare quindi a familiarizzare con la stessa. Parallelamente, anche grazie alla collaborazione con alcune università, abbiamo iniziato a sviluppare le competenze necessarie per estrarre valore dalla stessa, competenze tipiche di quella nuova figura aziendale nota come “data scientist”. Oggi stiamo avendo i primi riscontri legati alle enormi potenzialità di questi strumenti, sui quali continueremo ovviamente a investire. www.digital4executive.it

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intervista di

Trenitalia, con Big Data e IoT la manutenzione diventa predittiva. «Un passo verso una cultura digitale»

daniele lazzarin

Barbara Morgante amministratore delegato Trenitalia

Il monitoraggio in tempo reale di locomotive e vagoni permette di individuare i componenti ad alto rischio di guasto evitando disservizi. «Investiti 50 milioni di euro, stimiamo una riduzione dell’8-10% nei costi di manutenzione, ma i benefici si estenderanno ad altre aree, come il CRM». Un sistema basato su tecnologie SAP e algoritmi messi a punto con il Politecnico di Milano e la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa

Il gruppo FS (Ferrovie dello Stato) è una delle realtà che più stanno puntando sull’innovazione, vedi treni ad alta velocità, e sulla trasformazione digitale, per coniugare due obiettivi difficilmente compatibili fino a poco tempo fa: il miglioramenteo dell’efficienza e quello del livello di servizio ai clienti. A fine settembre, il gruppo ha dato due segnali forti in questo senso. Prima presentando un piano decennale molto ambizioso, con cui punta a diventare operatore di mobilità nel senso più ampio: un unico punto d’accesso per tutti i tipi di trasporto, dai treni ai bus (trasporto pubblico locale ma anche lunga percorrenza) fino al car sharing, grazie a una piattaforma digitale che accompagnerà il cliente “da porta a porta”, dalla pianificazione degli spostamenti all’acquisto di un unico titolo di viaggio. E poi facendo il punto su un grande progetto che riguarda Trenitalia, e che dimostra concretamente l’impegno sul digitale per cambiare profondamente i propri approcci operativi e competitivi. Un progetto | 30 |

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partito nel 2014, con cui Trenitalia vuole sviluppare un modello di manutenzione dinamico e predittivo, basato su tecnologie di Internet of Things e Big Data analytics di SAP. Il concetto è semplice: intervenire sui componenti di locomotore e carrozze solo nel momento in cui i dati raccolti dai sensori (tra 500 e 1000 per ogni treno), e opportunamente analizzati, anticipano che sta per verificarsi un problema. Una “rivoluzione copernicana” rispetto al modello classico, basato su interventi a scadenze fisse per numero di chilometri, o di anni di servizio. «Un sistema che aiuterà un profondo cambiamento culturale» In sintesi, i dati rilevati e trasmessi da sensori piazzati sui componenti a più alto costo di manutenzione (motori, batterie, sistemi frenanti, ecc.), sono elaborati in tempo reale con l’applicativo SAP Predictive Maintenance and Service, basato su piattaforma SAP


intervista | Trenitalia, con Big Data e IoT la manutenzione diventa predittiva. «un passo verso una cultura digitale»

Hana, attraverso appositi algoritmi, messi a punto con SAP e con due università italiane, il Politecnico di Milano e la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. Questo sistema, chiamato DMMS (Dynamic Maintenance Management System), permette il monitoraggio in tempo reale dello status dei veicoli da remoto, ma ha anche capacità predittive. Rilevando il superamento di valori soglia di determinati parametri di comportamento, che indicano un guasto imminente, può innescare interventi prima che tale guasto provochi fermi e disservizi. Come si diceva all’inizio, quindi, lli obiettivi quindi sono sia di ridurre i costi di manutenzione e di servizio, sia di migliorare la disponibilità e l’affidabilità del servizio per i passeggeri. «Trenitalia dispone di circa 30mila locomotive, treni elettrici e leggeri, veicoli per trasporto passeggeri e merci, con oltre 8000 treni in viaggio ogni giorno, di cui 141 convogli ad alta velocità Frecciarossa. Il fatturato 2015 è stato di 5,3 miliardi di euro, con 1,4 miliardi di utile prima di ammortamenti e tasse (EBITDA), i dipendenti sono 32mila», ha spiegato Barbara Morgante, amministratore delegato di Trenitalia, a un evento al Museo Nazionale Ferroviario di Pietrarsa, dove sono state dimostrate alcune funzionalità di DMMS. L’azienda ferroviaria è impegnata in un processo continuo di innovazione di servizi e modalità operative, anche grazie agli investimenti nelle tecnologie digitali, per rendere i viaggi più efficienti, sostenibili e veloci, e migliorare l’esperienza dei clienti, ha continuato Morgante. «Questo nuovo sistema di manutenzione dinamica e predittiva con SAP - già in uso sui Frecciarossa, ma che sarà gradualmente esteso a tutta la nostra flotta - fa parte di questa strategia, e darà un contributo fondamentale non solo nell’offrire servizi migliori, riducendo fortemente nel contempo i costi industriali, ma soprattutto nel profondo cambiamento culturale che la trasformazione digitale del settore trasporti ci richiede».

a partire dallo stato d’avanzamento. «Nel giro di un anno e mezzo abbiamo reso operativa la telediagnostica per tutti i 4000 materiali rotabili (locomotive e vagoni, ndr): la raccolta dei dati già avviene, e così il monitoraggio dello stato di salute dei treni. Quanto alla parte predittiva, abbiamo completato il progetto pilota per la flotta di locomotori e464, che traina convogli regionali (medio e corto raggio) e conta circa 700 locomotive». Tale progetto pilota ha comportato l’analisi dei dati scaricati dalla telediagnostica della locomotiva, la definizione del modello dati e ricerca di algoritmi per la predizione di guasti, degli algoritmi per batterie e pantografi, e degli indici di vita per i sistemi frenanti. Questi algoritmi correlano le variazioni dei parametri misurati (temperatura, consumo, ecc.) allo stato di salute del componente. «Per la batteria per esempio abbiamo individuato i parametri critici e i loro valori di soglia, superati i quali, dopo un numero preciso di giorni, si verifica la rottura. Possiamo così prevenire le sostituzioni complete, che richiedono di smontare e rimuovere questo componente molto grande e sono molto più costose di una semplice revisione del pezzo “in loco”». In questo modo, per lo specifico componente batteria si ottengono risparmi in doppia cifra, quindi anche superiori alla media generale dell’8-10% citata prima, «ma soprattutto

«l’obiettivo non è intervenire meno. È intervenire meglio» Qualche dato del progetto, che sarà completato nel 2019, è stato fornito da Danilo Gismondi e Marco Caposciuti, rispettivamente CIO e CTO di Trenitalia. «Per IT e telediagnostica sono stati investiti 50 milioni di euro, come benefici stimiamo un 8-10% di risparmi nei costi di manutenzione totali (che sono di 1,3 miliardi l’anno), un aumento medio del 6,5% nella disponibilità degli asset rotabili, e 10-20 milioni l’anno di minori costi di disservizio, tra i quali per esempio i rimborsi ai passeggeri». A margine dell’evento di Pietrarsa, Gismondi ci ha spiegato qualche particolare in più del progetto, www.digital4executive.it

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intervista | Trenitalia, con Big Data e IoT la manutenzione diventa predittiva. «un passo verso una cultura digitale»

Danilo Gismondi

intervenire meno: è intervenire meglio». Al di là dei risparmi sulle attività operative, sottolinea Gismondi, una grande opportunità nascerà dall’integrazione dei dati del sistema DMMS con gli altri grandi sistemi aziendali, tipo Finance o CRM.

CIO di Trenitalia «Conoscere in tempo reale lo stato di salute del materiale rotabile ci permette applicazioni ben al di là della manutenzione. Per esempio l’integrazione del sistema DMMS con il CRM ci permetterà di dare servizi diretti al cliente e avviare azioni correttive»

«Benefici ben oltre la manutenzione, per esempio nel customer care»

abbiamo scoperto che i modelli statistici di analisi delle serie storiche, su cui era basata prima la manutenzione della batteria, portava a comportamenti assolutamente inefficienti». Altra scoperta inaspettata riguarda i sistemi frenanti, in cui la variabile critica è risultata l’energia dissipata. A questo punto Trenitalia per il prossimo anno e mezzo continuerà a cercare modelli matematici analoghi per tutti i componenti più critici, quelli a più alto costo di manutenzione. «L’obiettivo non è

«Abbiamo circa 6 milioni di clienti fidelizzati, un asset di immenso valore. Il fatto di conoscere in tempo reale lo stato di salute del materiale rotabile ci permette applicazioni ben al di là della manutenzione. Una banalmente è l’informazione al cliente. Se so che sta per verificarsi un problema al condizionamento, prevenire questo problema è dare un servizio diretto al cliente. Ma più in generale potremo associare le principali motivazioni di giudizio negativo del singolo cliente, espresse sui social o sui nostri punti di contatto, con le determinanti, e intraprendere azioni correttive». Per esempio, precisa Gismondi, se il motivo del malcontento di un cliente è un ritardo su un treno a lunga percorrenza, Trenitalia potrà contattarlo spiegandogli cos’è successo, ed eventualmente fare delle azioni di rewarding personalizzato per recuperare. «Tutto questo si potrebbe ottenere integrando il DMMS con il CRM, ma altri sviluppi di grande portata potrebbero venire dall’interazione con tutti i grandi sistemi informativi di Trenitalia».

Dalla Mobile App acquisti di biglietti per oltre 150 milioni di euro «Siamo stati tra i primi operatori di trasporto a sviluppare un’app per iPhone che già nel 2008 accedeva a informazioni, orari, acquisto e cambi. Oggi il Mobile è un touch point importante, che col tempo diventerà quello preponderante, almeno per alcune operazioni. In un certo senso è già così, più della metà degli accessi web viene da Mobile». Così Gianluca Palmieri, Head of E-commerce, New Digital Channels and Contact Center di Trenitalia, fa il punto sul Mobile all’interno della strategia distributiva di Trenitalia. «Il nostro cliente è mobile, spesso in viaggio, e preferisce sempre più il mobile al “desktop”, perché è più comodo. Per questo stiamo arricchendo sempre più le funzionalità dell’app, fino a raggiungere quelle del sito web, e manteniamo il “Mobile site”, per i clienti che non hanno scaricato l’app» Per Trenitalia quindi gli accessi da Mobile hanno raggiunto quelli da web. «Anzi durante il weekend si vede in modo chiaro il sorpasso del Mobile. In termini di acquisti invece il web prevale ancora, perché si compra al termine della fase di pianificazione del viaggio, che si svolge tipicamente su desktop. In tutte le altre situazioni, più legate alla mobilità, è il Mobile che vince». Anche questo però sta gradualmente evolvendo. «In generale sul digitale abbiamo circa 30 milioni di transazioni l’anno e un fatturato che supera il miliardo di euro, in continua crescita, e il Mobile rappresenta oggi un 15% di questa cifra, mentre soltanto due anni fa era al 3%».

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Regolamento sulla Protezione dei Dati: cosa significa “accountability” e cosa cambia per le imprese Il testo “RGPD” recentemente approvato dal Parlamento Europeo delinea un quadro normativo tutto incentrato sui doveri e sulla responsabilizzazione (accountability) del titolare del trattamento, rovesciando la prospettiva: la normativa precedente si basava infatti sui diritti dell’interessato. Ecco in dettaglio cosa comporta il nuovo approccio e come va affrontata la gestione dei dati di

Andrea Reghelin

legale, Associate Partner di P4I Partners4Innovation

Guglielmo Troiano

e

Senior Legal Consultant di P4I Partners4Innovation

Con il Regolamento UE 2016/679 definito anche “Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati” (RGPD), il Legislatore europeo ha rovesciato la prospettiva della disciplina di riferimento concependo un quadro normativo tutto incentrato sui doveri e la responsabilizzazione del titolare del trattamento (“accountability”). Il testo del RGPD si sviluppa essenzialmente su processi, attività, misure tecniche e organizzative, sanzioni e obblighi rivolti a titolare (e responsabile) del trattamento, mentre la Direttiva 95/46 era invece tutta incentrata sui diritti dell’interessato. La responsabilità e la protezione dati: le origini La responsabilità come “motore per l’attuazione efficace dei principi di protezione dei dati” è stata presa in esame già dal Gruppo di lavoro ex art. 29 nel Parere 3/2010, nel quale si suggeriva l’attuazione di misure e procedure volte a rendere effettivi i principi di protezione dei dati esistenti, assicurandone l’efficacia e introducendo al contempo l’obbligo di dimostrarne il rispetto qualora le autorità di protezione dei dati ne facciano richiesta. Nel medesimo parere il Gruppo di lavoro, anticipando concetti che ora sono chiaramente formalizzati all’interno del RGPD, indicava una serie di misure volte al perseguimento del principio di “accountability” tra le quali l’implementazione di tutta una serie di procedure e regolamenti interni per garantire l’effettività della gestione degli aspetti fondamentali legati al trattamento di dati personali, quali, a titolo meramente esempli-

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ficativo, la pianificazione di nuovi trattamenti per garantire il soddisfacimento dei requisiti normativi (privacy by design nel RGPD), l’inventariazione delle operazioni di trattamento (registro delle attività di trattamento nel RGPD), l’individuazione dei soggetti con responsabilità rispetto alla protezione dei dati personali (si pensi all’introduzione nel RGPD della figura del “Data Protection Officer”), la gestione dei diritti di accesso, rettifica e cancellazione da parte degli interessati (rafforzati all’interno del RGPD con l’introduzione del concetto parzialmente nuovo del “diritto all’oblio”), nonché la notificazione delle violazioni e l’effettuazione di valutazioni di impatto in specifici casi (obblighi specificamente disciplinati nel RGPD). Nel parere, infine, il Gruppo di lavoro ha correttamente sottolineato che le misure adottate non debbano costituire solo un adempimento formale, ma essere effettivamente applicate all’interno dell’organizzazione e tale applicazione debba essere verificata attraverso l’effettuazione di attività di verifica sia da parte di soggetti interni (“internal audits”) che esterni (“external audits”). Nonostante, come detto sopra, i suggerimenti del Gruppo di lavoro ex art. 29 trovino ora pieno riscontro all’interno del RGPD, vi sono all’interno del medesimo dei riferimenti espliciti al concetto di “accountability” (“responsabilizzazione” nella traduzione italiana) che devono essere presi in considerazione. Il primo è contenuto nell’art. 5 dove non solo si individua nel titolare del trattamento il soggetto competente a garantire il rispetto dei principi applicabili al trattamento di dati personali (ovvero i principi di “liceità, correttezza e trasparenza”, “li-


mitazione della finalità”, “minimizzazione dei dati”, “esattezza limitazione della conservazione” e “integrità e riservatezza”) ma si stabilisce che il medesimo debba essere altresì “in grado di comprovarlo”. L’impatto sulle organizzazioni Alla luce delle precedenti considerazioni emerge come il concetto di “accountability” comporti necessariamente un cambiamento di prospettiva nella gestione della protezione dei dati da parte delle organizzazioni. Il RGPD lascia maggiore discrezionalità ai titolari di decidere, quali soggetti che determinano le finalità e i mezzi del trattamento di dati personali, le modalità attraverso le quali conformarsi alle sue disposizioni, ma tale maggiore libertà è gravata dall’onere di essere in grado di dimostrare le ragioni che hanno portato a tali decisioni e le motivazioni per cui si ritiene che le medesime abbiano consentito di raggiungere la conformità normativa. Assume quindi particolare rilevanza anche la documentabilità delle scelte effettuate dal titolare del trattamento. Senza poter in questa sede essere esaustivi, sarà necessario essere in grado di documentare il processo che ha portato alla definizione del registro dei trattamenti, alla valutazione di un determinato rischio in materia di sicurezza, alla decisione di notificare o meno agli interessati un “data breach” e di aver attuato in relazione ad un nuovo trattamento le valutazioni legate alla “data protection by design”.

È tempo di Data Protection: una guida in pdf sul sito digital4executive Sul sito Digital4Executive è possibile scaricare gratuitamente il Report “Oltre la Privacy: è tempo di Data Protection”, un breviario che copre tutto quello che c’è da sapere sul nuovo Regolamento UE. Il Report affronta diversi temi di interesse: che cosa cambia per imprese e PA, che cosa significa “accountability” e perché è un concetto così importante nella nuova norma, come si affronta l’analisi del rischio richiesta dal Regolamento, che ruolo svolge la digitalizzazione a supporto dei processi della Data Protection e perché imprese e PA è opportuno che si “muovano subito”.

Il re è morto !

VIVA IL RE ! La fattura cartacea è finita è in arrivo la fatturazione elettronica

R

INFORMATION & PROCESS MANAGEMENT Dal 1° di Gennaio ogni azienda potrà inviare e ricevere fatture solo in formato elettronico. Il servizio di Invoice Xchange di ARXivar vi permette di gestire automaticamente tutto il flusso e la relativa conservazione a norma. ARXivar è una piattaforma completa per la gestione delle informazioni e dei processi. Scopri perchè più di duemila clienti in Italia e all’estero hanno già scelto ARXivar. Il calendario degli eventi lo trovi su:

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intervista

Sherif Rizkalla Direttore business Marketing Wind

Wind Business: un CRM a misura di PMI, per prendersi cura del cliente Un’offerta in collaborazione con Microsoft per aiutare le piccole e medie imprese a crescere, puntando soprattutto sulla relazione con i clienti esistenti. «Lo usiamo anche noi da due anni: abbiamo migliorato le performance, e ridotto della metà la durata media della trattativa di vendita, fornendo nel contempo ai clienti un customer care di livello superiore»

La tecnologia può diventare un prezioso alleato per gestire la relazione con i clienti. E una migliore gestione dei clienti attiva un circolo virtuoso che consente di raggiungere risultati positivi nel business. In un contesto competitivo difficile come quello che si trovano a fronteggiare ogni giorno le nostre aziende, concentrare l’attenzione sulla customer base è quindi una mossa vincente. Occorre operare per rafforzare la relazione, mantenere la fiducia dei clienti, approfondire la conoscenza e anticipare le esigenze, per arrivare al momento giusto con la soluzione giusta. Parte da queste considerazioni la nuova soluzione di CRM online che Wind Business propone alle PMI, le piccole e medie imprese italiane: un’offerta nata in collaborazione con Microsoft. Ne abbiamo parlato con Sherif Rizkalla, Direttore Business Marketing di Wind, società guidata da Maximo Ibarra. Quali motivi hanno spinto Wind a proporre una soluzione CRM alle PMI? | 36 |

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Vogliamo aiutare i nostri clienti business a crescere. Quello che osserviamo è che le PMI si trovano ad operare in un mercato difficile, dove la competitività è sempre più spinta e globale. Per questo, l’attenzione si sta concentrando verso i clienti già esistenti piuttosto che sulle nuove acquisizioni, ossia verso attività di upselling e cross selling. Oggi serve dare un servizio a valore, avere cura dei clienti, diventare un loro interlocutore di fiducia. E per fare ciò è necessario capire nel dettaglio quali esigenze non sono state ancora indirizzate e come soddisfarle al meglio. Per aiutare i clienti abbiamo introdotto nell’offerta di Wind Business la soluzione Microsoft Dynamics CRM Online, che riguarda tre ambiti: le Vendite, il Customer care e il Marketing. Ad oggi in Italia solo il 30% delle PMI utilizza uno strumento CRM, tutte le altre si appoggiano a fogli excel o scambiano documenti in formato cartaceo. Malgrado la grande diffusione degli smartphone, in Italia sono ancora troppo poche le piccole e medie imprese che fanno un uso avanzato


intervista | Wind Business: un CRM a misura di PMI, per prendersi cura del cliente

«Tre fattori fanno la differenza: la flessibilità verso i sistemi già presenti in azienda, in particolare Office; l’architettura Cloud, che facilita la fruizione in mobilità da qualsiasi device e sistema operativo; e la facilità d’uso»

delle tecnologie digitali e, in particolare, delle soluzioni di Mobile Business. È questa un’opportunità per essere più incisive nel mercato. Le PMI hanno bisogno di soluzioni semplici: quali sono i prerequisiti necessari per attivare questo CRM? Servono pochi prerequisiti di infrastruttura, Wind Business si occupa di fornire tutto il necessario. In circa 2-3 giorni è possibile avviare il CRM, con la base dati dei clienti già inserita, importata da excel o da altre fonti, e l’eventuale integrazione con gli altri sistemi. Per i commerciali basta scaricare un’App sul proprio device. La soluzione è in Cloud, e tutti i dati transitano sulla nostra rete e sui nostri Data Center, che garantiscono sicurezza, qualità e continuità del servizio: l’affidabilità della soluzione è fondamentale, tanto che oggi è ritenuta quasi scontata. È necessario offrire agli utenti la stessa esperienza d’uso, indipendentemente dal tipo di connessione, fisso o mobile: questo è possibile grazie all’offerta Wind Business che nasce proprio convergente. Inoltre, per chi ha esigenze di personalizzazione, ad esempio per la creazione di report ad hoc o di interfacce specifiche, forniamo supporto tramite un system integrator specializzato e certificato, “React”, con esperienza pluriennale nell’implementazione di Microsoft Dynamics CRM. Quali risultati, in concreto, possono ottenere le piccole e medie imprese? Il CRM permette di migliorare il processo di vendita, di avere una visione a 360 gradi del cliente, di capire ad esempio se in passato ha già avuto la stessa tipologia di problematica per cui sta chiamando e come era stata risolta, o creare campagne marketing mirate. Abbiamo scelto Microsoft Dynamics CRM Online perché è una delle soluzioni più evolute disponibili sul mercato, che Wind Business usa internamente già da un paio d’anni. Mettiamo la nostra esperienza a servizio dei clienti. Si tratta, infatti, di una soluzione che abbiamo testato con successo al nostro interno. E i risultati sono stati notevoli: abbiamo migliorato le performance, ridotto della metà la durata media della trattativa e fornito ai clienti un customer care di

livello superiore. Durante la trattativa di vendita, un commerciale può avere accesso al catalogo prodotti sul tablet o sul notebook, può disegnare l’offerta direttamente sul posto, negoziare il prezzo e anche stampare e firmare il contratto. Quali sono i punti di forza della soluzione? Evidenzio tre fattori che fanno la differenza. Il primo è la flessibilità nell’interazione con tutti i sistemi aziendali che sono già presenti e mi riferisco, in particolare, a Office: email, fogli excel, word, agenda di Microsoft sono molto diffusi nella grande maggioranza delle PMI. Questo significa che popolare la base dati è semplice: il sistema può ricavare i dati leggendo le mail, i contatti o i documenti word delle offerte. Ma c’è di più: il CRM si può anche collegare con il mondo social e raccogliere, ad esempio, le informazioni che i clienti hanno inserito su Linkedin. Questa possibilità non esiste in nessun altro CRM sul mercato. Il secondo aspetto è l’architettura Cloud, che facilita l’utilizzo in mobilità. Il CRM può essere infatti fruito da qualsiasi device, pc, smartphone o tablet, qualunque sia il sistema operativo. Gli agenti e, in generale, i commerciali possono avere, in real time, una visione completa delle informazioni dei clienti, indipendentemente da dove si trovano. Il terzo aspetto, fondamentale, è la facilità d’uso. Facilità d’uso significa che non servono corsi di formazione per utilizzarlo? No, perché l’interfaccia è davvero intuitiva e molto semplice: per cercare le informazioni si usa un motore di ricerca come su Internet. Se, ad esempio, un’autofficina meccanica vuole individuare i clienti che hanno fatto la revisione due anni fa, basta cercare con le parole chiave “revisione ottobre 2014”. A quel punto si può mandare loro una email per, ad esempio, sollecitare la prenotazione: questo è possibile con il modulo Marketing, che è molto innovativo e include anche i Big Data. Un altro ambito è quello del customer care: grazie a questo strumento si crea un circolo virtuoso che permette di trasformare anche le eventuali problematiche in opportunità di business. Ciò rappresenta un beneficio indiscutibile per il segmento Business. www.digital4executive.it

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OTB (Diesel), un portale acquisti per far crescere il successo del “made in Italy” nel mondo

MANUELA GIANNI

intervista a

Marco Ottelli

Group Controller, Facility e Indirect Purchase Officer gruppo otb

Processi di sourcing ridisegnati con BravoSolution in chiave digitale, per guadagnare efficienza, trasparenza e uniformità a livello globale. Un progetto nato per gestire gli acquisti indiretti anche a livello internazionale del gruppo di moda fondato da Renzo Rosso, a cui oggi fanno capo, oltre a Diesel, noti brand come Marni e Maison Margiela, per un fatturato di circa un miliardo e seicento milioni di euro

Individuare aree di riduzione dei costi e ottimizzazione della spesa di beni e servizi indiretti, mantenendo livelli di servizio garantiti e in linea con le attese, in coerenza con il codice etico e di Corporate Social Responsibility del Gruppo. Questa la sfida raccolta da Marco Ottelli, Group Controller, Facility e Indirect Purchase Officer, al suo ingresso nel gruppo OTB un anno e mezzo fa, in un contesto di forte presenza al di fuori dei confini nazionali. Nato dal successo del brand Diesel, creato dal vulcanico imprenditore Renzo Rosso, OTB (Only The Brave) è diventato in questi ultimi anni un Gruppo molto diversificato, con un fatturato - in crescita anche nell’ultimo esercizio - di 1,59 miliardi di euro. Oltre a Diesel, a OTB fanno capo i marchi Maison Margiela, Marni e Viktor&Rolf e due società, Staff International e Brave Kid, che producono e distribuiscono in licenza altri brand. Per quanto riguarda gli acquisti di beni indiretti la scelta è stata di puntare sull’innovazione tecno| 38 |

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logica, digitalizzando il processo di sourcing attraverso un Portale acquisti, ovvero una piattaforma web dove i fornitori si registrano inserendo tutte le informazioni necessarie per poter partecipare ai tender, che vengono pubblicati online. È partito così un progetto di grande valenza, un passo ritenuto necessario per supportare la presenza internazionale del gruppo e favorire, oltre all’ottenimento di risparmi nella spesa, anche la crescita di una identità aziendale. Perché, come ci spiega Marco Ottelli, digitalizzare il processo di acquisto significa anche «implementare procedure e applicare regole uguali in tutti i paesi. Insomma, è come parlare la stessa lingua, riconoscersi in una cultura comune, la cultura di Gruppo». Come ha affrontato la sfida di rivedere il processo di sourcing di tutto il gruppo? Ci siamo mossi su due direttrici. Da un lato, in modo più tradizionale, la ricerca di efficienza fin da


digital transformation - procurement | OTB (DIESEL), un portale acquisti per far crescere il successo del “made in Italy” nel mondo

«Digitalizzare il processo d’acquisto significa anche applicare procedure e regole uguali in tutti i paesi. Insomma, è come parlare la stessa lingua, riconoscersi in una cultura comune di Gruppo. Sotto questo profilo la tecnologia è un mezzo per coinvolgere nel processo tutti gli stakeholder» subito, ovvero individuare aree di riduzione sostenibile dei costi, partendo da analisi strutturate della spesa nelle diverse merceologie. I risultati ottenuti sono soddisfacenti anche in relazione ai tempi di lavoro che ci siamo dati. Dall’altro lato abbiamo intrapreso una revisione organizzativa, dove definiamo responsabilità chiare sugli acquisti e le modalità di coinvolgimento nel processo di acquisto di tutte le funzioni residenti nelle aziende del gruppo, in Italia, in Europa e nel resto del mondo. Per garantire il primo degli obiettivi, quello dell’efficienza, la prima decisione è stata quella di dotarsi di una piattaforma online per gestire i processi di sourcing, un Portale acquisti che permette di gestire centralmente la relazione con tutti i fornitori. È stato effettuato uno scouting sul mercato in collaborazione con la direzione ICT per trovare la tecnologia più adatta, e la scelta è ricaduta sulla piattaforma di BravoSolution. Quali spese rientrano in questo ambito? Il progetto riguarda i costi indiretti, tra cui le spese di facility, ovvero i servizi agli immobili e alle per-

sone, come le pulizie o la gestione del verde; gli acquisti ICT, dalle stampanti alla telefonia; alcune tra le spese marketing, ad esempio quelle per le vetrine; i materiali utilizzati nei negozi; per finire con le categorie di indiretti più tradizionali quali ad esempio la cancelleria, i gadget, i cataloghi, le auto, gli imballi, i corrieri espressi, e così via. Stiamo progressivamente includendo anche altre categorie mano a mano che l’organizzazione va consolidandosi. Digitalizzare un processo delicato come gli acquisti significa anche consolidare la strategia del Gruppo a livello internazionale… Certamente, perché rende necessario implementare procedure e applicare regole uguali in tutti i paesi, sempre tenendo conto delle peculiarità che i mercati di fornitura presentano. Significa “parlare la stessa lingua” e riconoscersi come Gruppo nei comportamenti. Da questo punto di vista la tecnologia è un veicolo per il coinvolgimento nel processo di tutti gli stakeholder e per la valorizzazione delle competenze di ciascuno, in ottica collaborativa. Il progetto è molto in linea con il codice etico del Gruppo,

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digital transformation - procurement | OTB (DIESEL), un portale acquisti per far crescere il successo del “made in Italy” nel mondo

«Abbiamo gestito da subito gare nazionali e internazionali, ad esempio per la cancelleria, con un tender globale, e per la telefonia, con una gara italiana e altre per macro-area su scala mondiale, coinvolgendo i colleghi ICT delle varie regioni, che prima si muovevano con logiche proprie» orientato alla responsabilità sociale e alla sostenibilità ambientale, nel rispetto dei fornitori. Ma punta anche alla continua ricerca di efficienza. Quali vantaggi avete riscontrato dopo l’avvio del portale fornitori? L’adozione della piattaforma tecnologica ci ha permesso di ottenere da subito risultati positivi. Innanzitutto il processo è diventato più trasparente, e questo rappresenta una garanzia sia per i fornitori, sia per chi gestisce gli acquisti. Abbiamo potuto poi allargare il numero di fornitori che lavorano con noi, offrendo la possibilità a nuove aziende di accedere alle gare. Nel caso del tender sulle categorie del Facility un altro vantaggio è stato quello di offrire visibilità sulle esigenze di servizio non solo della sede principale, o di quelle più conosciute, ma di tutte le sedi distribuite sul territorio. Inoltre, digitalizzare il processo agevola l’attuazione di nuovi modelli organizzativi e aiuta a sviluppare e disegnare nuove competenze: stiamo portando a bordo del nuovo processo di sourcing i colleghi di molte funzioni e i fornitori, sia sul territorio nazionale sia all’estero, governando il processo dall’Italia. Tutti possono partecipare come se avessero al loro fianco la direzione acquisti. Tutto questo porta efficienza e maggiore velocità nella gestione del processo decisionale. Può fare qualche esempio di utilizzo del portale? Abbiamo potuto da subito gestire gare nazionali e internazionali, ad esempio per la cancelleria, con un tender a livello globale, e per la telefonia, con una gara italiana e altri tender per macro-area geografica a livello mondiale, coinvolgendo i colleghi ICT delle diverse region, che hanno dato un contributo determinante, e che in precedenza si muovevano con logiche proprie. Un altro esempio è la gara per le auto a noleggio per il Centro Europa, che abbiamo gestito a quattro mani con i colleghi in Germania. E ora stiamo aprendo un processo sulle spese facility in Europa, partendo da Francia, Germania e Regno Unito, aree molto importanti. Il tutto in pochi mesi dall’implementazione della piattaforma. | 40 |

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Quali saranno i prossimi passi? Intendiamo portare avanti un’attività di alfabetizzazione digitale, con l’obiettivo di coinvolgere non solo la direzione acquisiti ma anche i process owner interni all’azienda, per promuovere una collaborazione strutturata, attraverso il portale, nei processi decisionali del procurement. Il passo successivo sarà quello di sfruttare le funzionalità più avanzate della piattaforma: spend analysis continuativa per verificare i saving preventivati e per individuare nuove opportunità di ottimizzazione dei costi, processi di valutazione dei fornitori, e incremento della governance di spesa attraverso l’adozione di cataloghi elettronici. Quali sono state le reazioni degli utenti interni? L’introduzione di nuovi processi genera entusiasmo in alcuni e qualche resistenza in altri. Ma questa è la storia di tutti i cambiamenti. I risultati ottenuti aiutano poi a fare la differenza. Penso di poter affermare che le persone coinvolte nel progetto hanno avuto la percezione di lavorare in modo più efficiente e efficace anche grazie anche alla facilità di utilizzo della piattaforma. Inoltre è apprezzata la possibilità di valorizzare le singole competenze di acquisto attraverso la creazione di modelli di gara “best practice” facilmente replicabili. Le funzioni che sono state coinvolte nel processo hanno reagito nel complesso bene, sentendosi comunque ancora protagonisti del processo di acquisto che, prima del cambiamento organizzativo, era completamente delegato, e al contempo di un progetto di innovazione. Anche in questo il supporto delle persone di BravoSolution è stato rilevante. E le reazioni dei fornitori? Alcuni erano già abituati ad avere a che fare con i portali web di acquisti e le procedure online, altri no. In questi casi il servizio di help desk e assistenza fornito da BravoSolution e che ora faremo direttamente dalla Direzione Acquisti, si è rivelato molto efficace, perché i fornitori vengono accompagnati e guidati passo passo. Questo vale a livello mondiale, con un supporto multilingua che si è rivelato uno dei rilevanti fattori di successo.


> INTERNET OF THINGS 18 e 19 ottobre > MOBILE ENTERPRISE: innovare il business con le più avanzate soluzioni Mobile & Wireless 8 e 9 novembre > CANALI DIGITALI E NUOVI PARADIGMI DI MARKETING 28 e 29 novembre


digital transformation - manufacturing

Industria 4.0, ecco il Piano Nazionale. «Riprendiamoci il posto che ci spetta» I dettagli sui 4 cardini della strategia governativa, presentata dal ministro Calenda: agevolazioni per gli investimenti innovativi, strumenti pubblici di supporto, sviluppo di competenze ad hoc e di infrastrutture abilitanti. «Un programma ben articolato e finanziato che, se velocemente implementato, farà recuperare il ritardo rispetto ai grandi Paesi europei», commenta Alessandro Perego, Direttore Scientifico degli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano

Il Governo ha annunciato a settembre l’atteso piano per Industria 4.0, al quale sono affidate molte delle speranze di far ripartire il settore manifatturiero italiano, da sempre il principale traino dell’economia del nostro Paese. Il piano è stato presentato al Ministero dello Sviluppo Economico dal titolare del dicastero, Carlo Calenda, che ne è il principale “regista”, alla presenza di sei ministri, del presidente di Confindustria Vincenzo Boccia e dell’AD di Cassa Depositi e Prestiti Fabio Gallia. E poi è stato ribadito in una conferenza stampa a Milano con protagonista il Presidente del Consiglio Matteo Renzi. «La manifattura è il centro vitale del Paese – ha detto Renzi – e questo è un progetto concreto: non deve perdersi nell’esecuzione. Ora c’è solo da fare una cosa: mettersi al lavoro». Il piano nazionale Industria 4.0, ha continuato il premier, «è un’esplosione di novità: questa fase creerà nuovi vincenti e nuovi perdenti. È normale che ci siano preoccupazioni a livello politico e tra i cittadini, ma bisogna scegliere se avere paura o avere | 42 |

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coraggio». In estrema sintesi, i cardini del piano, che si proietta su quattro anni (2017-2020) sono quattro: agevolazioni per gli investimenti innovativi, sviluppo di competenze specialistiche di digital manufacturing a partire dalla scuola (definite “direttrici chiave”), infrastrutture abilitanti, e strumenti pubblici di supporto (direttrici “di accompagnamento”). Cosa si intende per investimenti “Industria 4.0” Sul primo punto, il Governo si aspetta un incremento degli investimenti privati di ben 10 miliardi (da 80 a 90) nel solo 2017, e per il periodo 2017-2020 aumenti di 11,3 miliardi delle spese private di ricerca e sviluppo, e di 2,6 miliardi negli investimenti privati “early stage”. In dettaglio, Calenda ha definito investimenti innovativi I4.0 (cioè Industria 4.0) le seguenti tipologie di investimenti: Advanced Manufacturing Solution, Additive Manufacturing, Augmented Reality, Simulation,


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fondi di investimento e di venture capital dedicati, sotto l’egida di Cassa Depositi e Prestiti. 3000 manager specialisti di Digital Manufacturing

Horizontal/Vertical Integration, Industrial Internet, Cloud, Cybersecurity, Big Data & Analytics, nonché investimenti in tecnologie Agrifood, bio-based economy, e ottimizzazione dei consumi energetici. Per incentivare questi investimenti, il Governo propone un incremento dell’aliquota di “superammortamento” dall’attuale 140% al 250% (la nuova aliquota è stata battezzata “iperammortamento”), e una proroga di un anno del superammortamento del 140% (per gli altri investimenti industriali), tutte applicabili a beni, tecnologie e macchinari in consegna entro il 30 giugno 2018. Inoltre il credito d’imposta alla ricerca vede l’aliquota per la spesa interna salire dal 25% al 50% (quella per la spesa esterna resta al 50%), e il credito massimo per ciascun contribuente da 5 a 20 milioni di euro. Inoltre è prevista tutta una serie di altre agevolazioni tra cui detrazioni fiscali fino al 30% per investimenti fino a un milione di euro in startup e piccole e medie imprese innovative, detassazioni sui capital gain, e per le startup I4.0 un programma “acceleratori d’impresa”,

Quanto alle competenze, sempre nei quattro anni indicati gli obiettivi sono 200mila studenti universitari e 3000 manager specializzati sui temi industria 4.0, un raddoppio degli studenti iscritti a istituti tecnici superiori con specializzazioni I4.0, 1400 dottorati di ricerca sul tema e la nascita di pochi selezionati Competence Center nazionali di Industria 4.0. Tutto ciò grazie a investimenti di 355 milioni (pubblici) per l’implementazione del piano nazionale Scuola Digitale, 100 milioni (30 privati e 70 pubblici) per specializzazione di corsi universitari e Istituti Tecnici su temi I4.0, 240 milioni (70 privati e 170 pubblici) per i cluster tecnologici “Fabbrica Intelligente” e “Smart Agrifood” e i dottorati di ricerca, e 200 milioni, metà pubblici e metà privati, per la creazione dei Competence Center. Per le infrastrutture abilitanti, gli obiettivi sono coprire tutte le aziende italiane con connessioni a 30Mbps e la metà con connessioni a 100Mbps entro il 2020 (con investimenti di 12,7 miliardi, di cui 6,7 pubblici), nonché costituire e presidiare 6 consorzi di standardizzazione in ambito internet of things. Infine per gli strumenti pubblici di supporto sono previsti 0,9 miliardi dalla riforma e rifinanziamento per il 2016 del Fondo Centrale di Garanzia, un miliardo da contratti di sviluppo focalizzati su investimenti I4.0, e 100 milioni di investimenti sulle catene digitali di vendita. Una ulteriore parte del piano prevede la diffusione dei concetti di Industria 4.0 sul territorio, e conta – oltre ovviamente ai Competence Center – su roadshow Carlo Calenda Ministro dello Sviluppo Economico «L’Italia è il Paese della non-governance. Un piano di questo genere deve invece evitare di generare energie centrifughe e soprattutto rispettare le peculiarità del nostro tessuto imprenditoriale»

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digital transformation - manufacturing | Industria 4.0, ecco il Piano Nazionale

Sono definiti Industria 4.0 gli investimenti nei campi Advanced e Additive Manufacturing, Augmented Reality, Simulation, Horizontal/ Vertical Integration, Cloud, Industrial Internet, Cybersecurity, Big Data & Analytics, Agrifood, Bio-based Economy, Energy optimization sul territorio, assistenza individuale al top management delle startup ad alto potenziale, e un piano nazionale di comunicazione a mezzo stampa, web e social media, incentrato sulle imprese industriali. una “cabina di regia” per l’attuazione Quanto al “non perdersi nell’esecuzione” dichiarato da Renzi, l’attuazione del piano sarà controllata da una “cabina di regia a livello governativo”, con governance pubblico-privata che vede coinvolti la Presidenza del Consiglio, sei Ministeri (Economia, Sviluppo Economico, Istruzione, Lavoro, Politiche agricole, Ambiente), quattro università (i Politecnici di Bari, Milano e Torino, Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa) con la Conferenza dei Rettori Universitari (CRUI), e poi Centri di ricerca, Cassa Depositi e Prestiti, e rappresentanti dei mondi economico, imprenditoriale e sindacale. Il Ministro Calenda ha definito la cabina di regia “una sorta di consiglio d’amministrazione” che valuterà a intervalli regolari lo svolgimento dei lavori e il conseguimento degli obiettivi, apportando le eventuali correzioni di rotta: «L’Italia è il Paese della non-governance, un piano di questo genere deve invece evitare di generare energie centrifughe e soprattutto rispettare le peculiarità del nostro tessuto imprenditoriale. Non possiamo imporci il modello tedesco, americano o francese, ma cogliere il meglio degli altri approcci e continuare a utilizzare gli strumenti che hanno già dimostrato di funzionare».

Perego: piano trasversale, non tocca solo la manifattura Tra i molti commenti al piano, particolarmente significativo è quello di Alessandro Perego, Direttore Scientifico degli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano, che da qualche anno ne hanno dedicato uno a questi temi: l’Osservatorio Smart Manufacturing, intorno al quale si è creata una community che più volte ha sollecitato un programma nazionale sulla falsariga di altri grandi Paesi come USA, Germania e Francia. «Il Piano Industria 4.0 è ben articolato e finanziato, e armonizza bene azioni di breve e medio termine: se velocemente implementato, farà recuperare al Paese il ritardo che oggi ci separa dalle grandi manifatture europee, in primis la Germania», dice Perego. «Il piano ha portata trasversale: non tocca solo la manifattura, ma ha il potenziale di rilanciare ampi comparti dell’economia italiana perché attorno all’industria c’è un indotto enorme di servizi di base, di ricerca e innovazione che tocca l’intero Paese. Perciò monitoreremo l’efficacia con cui verrà recepito dalle imprese e misureremo se gli obiettivi di crescita e rilancio saranno raggiunti». Intanto, conclude Perego, «ci godiamo questa bella giornata per l’industria Italiana e il paese, che aspettavamo da oltre un anno. Ci restituisce ottimismo, stimola tutte le parti a fare il proprio lavoro, in primis l’università. Riprendiamoci, come Paese industriale, il posto che ci spetta».

Boccia (Confindustria): condividiamo l’agenda Sono stati moltissimi i commenti al piano Industria 4.0 delle parti coinvolte., largamente positivi. Un parere ovviamente fondamentale è quello del Presidente di Confindustria Vincenzo Boccia, secondo cui «la quarta rivoluzione industriale è una grande occasione che deve cavalcare l’industria italiana, condividiamo il percorso dell’agenda di medio termine, ora occorre lavorare insieme». Boccia ha ricordato che su industria 4.0 le medie di settore non sono significative. «Abbiamo una fascia avanzata di imprese che è molto avanti e una fascia molto indietro: dobbiamo accompagnare quelle più indietro a fare questo salto di qualità che è culturale più ancora che tecnologico, e cavalcare la quarta rivoluzione industriale. Siamo un grande paese industriale, possiamo farcela con le nostre potenzialità».

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Il punto di riferimento

per l’aggiornamento professionale sull’Innovazione Digitale Gli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano sono una fonte unica di informazioni, dati e conoscenza sui temi chiave dell’Innovazione Digitale. Attraverso una piattaforma multimediale e interattiva, WWW.OSSERVATORI.NET, è possibile accedere al know-how e agli eventi sui temi chiave dell’Innovazione Digitale per essere costantemente aggiornati in qualsiasi luogo e con qualsiasi dispositivo. Gli Osservatori elaborano strategie e modelli per molteplici ambiti b2c, b2b e PA: finance, insurance, export, gioco online, risorse umane, sanità, beni e attività culturali, retail, turismo, media, banking, agrifood, manufacturing, supply chain finance. Scopri l’abbonamento che fa per te – Full Premium Pass o Premium Pass – e le tutte le offerte riservate alle aziende

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intervista di

HPE: The New Idea Economy per trasformare in business l’intelligenza dell’IoT

mauro bellini

intervista a

Carlo Arioli

EMEA Big Data Marketing Manager Hewlett Packard Enterprise

A colloquio con Carlo Arioli, EMEA Big Data Marketing Manager di Hewlett Packard Enterprise, sulle soluzioni per passare dai dati dell’Internet delle Cose alle azioni di business. «Stiamo investendo sull’evoluzione in chiave Big Data di tutti i tipi di informazioni in ogni contesto, da quelli “umani” come mail, video, audio, testi, a quelli che provengono dalla sensoristica»

La grande sfida dell’Internet of Things non è tanto di dimostrare che le cose “parlano” e che dalle cose possiamo apprendere nuove informazioni. La grande sfida oggi è permettere alle imprese di trasformare la conoscenza acquisita dalle cose e dagli ambienti in nuove azioni con effetto immediato sul business. Le aziende guardano all’IoT con l’obiettivo di arricchire la relazione con i clienti, fornire servizi a minor costo e definire nuovi modelli di business da sperimentare, correggere e “mandare in produzione”. Per garantire alle aziende e alle Pubbliche Amministrazioni di poter cogliere queste opportunità, è necessario disporre prima di tutto di una visione d’insieme, con soluzioni che permettano di controllare e gestire tutta la filiera della conoscenza in modo integrato con strumenti per “passare” velocemente dall’idea all’azione in tutti i contesti: dalla manutenzione predittiva dell’Industry 4.0, all’efficienza del Facility Management nello Smart Building, dall’intelligenza delle connected car all’integrazione con le logiche di | 46 |

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Smart Mobility delle Smart City. Carlo Arioli, EMEA Big Data Marketing Manager di Hewlett Packard Enterprise, sottolinea che HPE punta a leggere e interpretare la logica di sviluppo dell’IoT in continuità e in coerenza con la strategia che la vede da anni attiva per aiutare le aziende a estrarre tutto il potenziale di conoscenza dei loro dati e integrarlo nei loro processi di business. «I Big Data sono importanti - afferma Arioli - ma il vero valore va costruito sulle azioni che la conoscenza estratta dai Big Data e dai Real Time Analytics permettono di attivare e di portare direttamente sui progetti e sul business. Siamo interessati agli effetti delle decisioni: non ci fermiamo alla gestione dei dati». HPE ha avviato da tempo una strategia che prevede l’evoluzione in chiave Big Data degli asset esistenti, e sta investendo per aumentare la capacità di gestione di tutti i tipi di dati in ogni contesto, da quelli “umani” come mail, video, audio, testi, a quelli che provengono dalla sensoristica dell’IoT, continua Arioli. Parliamo


intervista | HPE: The New Idea Economy per trasformare in business l’intelligenza dell’IoT

«L’obiettivo è interpretare le informazioni che arrivano dalle cose per metterle in relazione con quelle che sono generate dalle persone che le usano o che vivono negli ambienti in cui agiscono “cose” intelligenti»

dunque di dati strutturati e destrutturati, dati legati al monitoraggio degli ambienti, così come parliamo di dati che arrivano da componenti di sistemi di automazione o da azioni di apparati gestiti con la robotica, o ancora da wearable che misurano il comportamento umano. Tutto questo con l’obiettivo di interpretare le informazioni che arrivano dalle cose per metterle in relazione con le informazioni che sono generate dalle persone che usano quelle cose o che vivono negli ambienti in cui agiscono “cose” intelligenti. il passaggio da conoscenza ad azione L’esperienza HPE con i clienti mostra che questa trasformazione attiene di fatto a tre grandi aree. La prima riguarda le modalità di ingaggio degli utenti finali, dove è decisivo personalizzare la relazione e usare i dati per arricchire o semplificare prodotti e servizi grazie ai dati raccolti. La seconda area riguarda la riduzione dei costi dei modelli operativi. Questo è il driver più rapido di ritorno dell’investimento per l’azienda e con queste informazioni si può ad esempio cambiare radicalmente il concetto di manutenzione o accelerare e ottimizzare la produzione. La terza grande area rappresenta per certi aspetti una conseguenza delle prime due ed è alla base della grande rivoluzione dell’Internet of Things. Si tratta, sottolinea Arioli, di una opportunità totalmente nuova che mette a disposizione delle aziende una conoscenza, una velocità decisionale e la possibilità di gestire “un passaggio all’azione” prima assolutamente impraticabili, ovvero le basi che consentono di trasformare concretamente nuove idee in nuovi modelli di business. Siamo arrivati a quella che può essere definita come “The New Idea Economy”. Stiamo parlando del passaggio dalla teoria delle potenzialità IoT alla efficacia concreta sul business che ha bisogno di una piattaforma di analytics avanzata. E’ qui che si colloca HPE Vertica, il motore per i progetti IoT (e non solo IoT), nella forma di un database analitico avanzato concepito per applicazioni Big Data ad altissime performance e come strumento decisionale che permette di passare dalla conoscenza dei dati all’azione in tempo reale. «I Big Data hanno raccolto molti consensi in molti settori e sono fondamentali per il mondo Internet of Things soprattutto nel momento in cui sono in grado

di unire la grande capacità di esecuzione con analitiche avanzate adatte a gestire i dati che arrivano dal territorio, da ambienti diversi ed eterogenei». il caso uber: un vero decision support system per gli autisti Big Data e Analytics sono cruciali per tutte le attività strategiche che devono essere in presa diretta con il business. «Un esempio significativo è Uber, che ha scelto HPE Vertica iniziando con l’analisi dei rating di soddisfazione dei clienti sul servizio forniti con l’app mobile, ha proseguito estendendo l’analisi anche ai dati relativi al comportamento degli autisti, e ha poi allargato l’analisi al traffico e al meteo, per ottimizzare le opportunità e aumentare i ricavi. In concreto Uber intendeva offrire ai suoi autisti uno strumento di lavoro intelligente in grado di prevedere le decisioni migliori su dove e come cercare i clienti in funzione delle chiamate, per poi valutare se accettare la richiesta di un cliente lontano o attendere una nuova chiamata. In funzione di una serie di variabili e analisi storiche legate agli orari di punta, al traffico, al meteo, alla frequenza di chiamate da una certa area, e così via». La piattaforma basata su Vertica ha quindi permesso di fornire risposte che si sono trasformate in oggettivi vantaggi di business per ciascun autista e, naturalmente, per Uber. Ma questo è solo una delle applicazioni possibili. «Pensiamo - conclude Arioli - alla opportunità per le assicurazioni di definire una tariffa in tempo reale in funzione dei comportamento di guida, sul reale utilizzo della vettura, sui dati legati al contesto nel quale viene utilizzata l’auto in correlazione ai dati degli utenti che possono agire, istantaneamente, sulle variabili di marketing dell’offerta». Anche per queste opportunità e l’accessibilità della piattaforma, Vertica è molto usato da startup e aziende del mondo retail legate alla gestione del rapporto con i clienti. Startup, eCommerce e aziende retail usano Vertica perché le necessità di analisi complesse sui comportamenti di acquisto dei clienti deve coniugarsi con un Total cost of ownership competitivo per far fronte alla pressione dei margini nei loro mercati di distribuzione fisici e online. E questa competitività si può gestire solo con strumenti che permettono di capire, valorizzare e dominare lo straordinario patrimonio di informazioni che arriva dai clienti». www.digital4executive.it

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digital transformation - Manufacturing di

annalisa casali

In Ducati la trasformazione digitale è rendere la moto “smart”, abbattere i silos e guardarsi intorno Piergiorgio Grossi, da sei mesi Chief Information & Digital Transformation Officer della casa motociclistica emiliana, spiega il lavoro fatto per spianare la strada alla digitalizzazione pervasiva in azienda. Che coinvolge clienti, manutentori e personale interno. «L’IT? Solo un abilitatore, non il fulcro dell’innovazione, che si fa soprattutto uscendo e andando a confrontarsi con quello che fanno gli altri»

Piergiorgio Grossi approda in Ducati lo scorso maggio, nel momento in cui il colosso delle due ruote su strada ha deciso di estendere il ruolo del CIO anche alla digital transformation. «Quando sono arrivato ho trovato un terreno fertile per il mio lavoro, perché già il board aveva deciso di virare in maniera decisa verso l’universo digital e social. Il perché è presto detto. Ormai l’80% delle decisioni d’acquisto viene preso sui social, ed entro il 2025 l’80% dei ruoli aziendali per come li conosciamo oggi sarà sparito, per far spazio a professioni legate alla gestione delle community, dei social, degli oggetti IoT e dei dati che ne derivano».

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Abbattere i silos e creare sinergie

una strategia digitale in un’azienda come Ducati? Grossi non ha una ricetta da suggerire: «Posso solo dire quello che ho fatto io in questi mesi, non ho la bacchetta magica ma so che la digital innovation in azienda implica l’agire a tre livelli». Anzitutto, “cucire”, rompere col passato, abbattere i silos e girare di più negli uffici, cercando di capire cosa fanno le persone e aiutandole a parlare tra loro anche se non si conoscono. In definitiva, quindi, creare sinergie. «Questo in Ducati mi è venuto piuttosto facile perché il clima organizzativo è caratterizzato da un bassissimo tasso di conflittualità. L’ambiente è sano e tutti cercano di darsi da fare, collaborare, mettere a fattor comune la propria esperienza e le proprie competenze».

Il ruolo di Grossi è gestire il team IT e, soprattutto, di definire la direzione della digital transformation della casa motociclistica di Borgo Panigale (Bologna). Ma cosa comporta l’implementazione di

L’altro compito di Grossi è “allenare la squadra”: «Faccio sì che le persone che lavorano nel mio team capiscano che c’è tutto un mondo fuori, che il digitale e la modernità non sono legate solo alle demo

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digital transformation - manufacturing | In Ducati la trasformazione digitale è rendere la moto “smart”

«Quando sono arrivato ho trovato terreno fertile per il mio lavoro: il board aveva già deciso di virare decisamente verso l’universo digital e social. Ormai l’80% delle decisioni d’acquisto viene preso sui social, ed entro il 2025 l’80% dei ruoli aziendali di oggi sarà sparito» sformation, non se la cali come valore dall’alto». Ecco perché la cura delle ricadute organizzative della digital transformation è un elemento chiave che, secondo il manager, influisce pesantemente sul suo successo. «La prima domanda da porsi è chi sono i clienti di questa trasformazione digitale?». L’80% degli utenti, nel caso specifico di Ducati, è esterno all’azienda ed è un fan. Occorre, quindi, creare un brand che sia attrattivo, accattivante, che stimoli a “fare community”. Il valore del tempo libero (dalle tecnologie) L’altro tipo di cliente sono le persone dell’azienda, che vanno sostenute e aiutate a metabolizzare, anzi se possibile incoraggiare l’innovazione in chiave digital. «Non si possono – spiega – dare ai dipendenti smartphone e notebook obsoleti, costringendo le persone ad avere sempre in tasca e in borsa un device personale e uno aziendale». Il manager ha anche presentato un progetto, che verrà attivato a breve, battezzato Free App Time. Si tratta di uno spazio per promuovere eventi corali, gite e momenti di incontro all’interno dell’organizdei vendor ma che bisogna uscire e confrontarsi con le altre aziende, cercando di imparare dalle loro esperienze. Ecco perché incoraggio i miei a visitare le fabbriche e le aziende dei loro amici e conoscenti. Nessuno mi deve chiedere di firmare un permesso per recarsi in un’azienda a vedere, toccare con mano gli effetti dell’innovazione digitale».

Piergiorgio Grossi Chief Information & Digital Transformation Officer di Ducati

L’IT non deve essere mai un ostacolo La terza direttrice d’intervento è stata quella che il manager ha battezzato “IT 4 people”. «Io sono, in definitiva, il capo dell’help desk IT e devo fare in modo che le tecnologie informatiche non siano mai un ostacolo nella quotidianità ma piuttosto un elemento abilitante». Agendo su questi tre assi secondo Grossi si può generare trasformazione, non innovazione. «Il volano dell’innovazione digitale si crea, però, solo se lavori con le persone e le coinvolgi nella digital tranwww.digital4executive.it

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digital transformation - manufacturing | In Ducati la trasformazione digitale è rendere la moto “smart”

«L’utilizzo di stampanti 3D ci permette di ottimizzare la gestione dei pezzi di ricambio, con un miglioramento deciso delle performance di tutta l’assistenza post vendita»

zazione Ducati. Si tratta di eventi in cui ci si ritrova “liberi” dall’ansia di postare, controllare l’e-mail e quant’altro sia legato alle tecnologie digitali perché «bisogna lavorare sul tempo libero, non si può pensare solo a cosa si deve fare ma a come farlo bene. Il cambiamento avviene solo se sono le persone a volerlo e un buon equilibrio tra lavoro e svago è fondamentale». Come “digitalizzare” una moto? La terza dimensione della digitalizzazione è il prodotto. Su questo Grossi ha lavorato parecchio, cercando di capire come digitalizzare un asset che, per sua natura (si parla di moto) è, invece, decisamente fisico. «Come posso estendere l’esperienza del ducatista, allargandone i confini anche a quando non è fisicamente in sella alla sua moto? Il mio sogno è destinato ad avverarsi presto, quando Facebook permetterà di creare un account legato non solo all’individuo ma anche all’oggetto smart». Una moto connessa all’ecosistema di oggetti IoT potrà dialogare con le altre moto presenti nel circondario e accordarsi per una “scampagnata” di gruppo sulle due ruote Ducati. «Il nostro cliente avrà presto un suo account sul portale MyDucati, che raccoglie tutte le informazioni che lui stesso inserisce, ma anche quelle pro-

venienti dai social media, dalle community online e dalle moto smart». Analizzando questi record sarà possibile spingere eventi, favorire la creazione di sottocommunity e, in definitiva, migliorare la customer experience, a tutto vantaggio del fatturato. Altre aree su cui Grossi ha investito parecchio per spingere l’innovazione digitale sono la supply chain e il configuratore online. «Nel primo caso l’utilizzo di stampanti 3D ci permette di ottimizzare la gestione dei pezzi di ricambio, con un miglioramento deciso delle performance di tutta l’assistenza post vendita». Quanto al configuratore, è disponibile per tutte le piattaforme (pc, tablet, notebook e smartphone), e permette di scegliere tra le diverse versioni, vecchie e nuove, dei più noti modelli di Borgo Panigale, come Diavel, Hypermotard, Monster e Multistrada. «I nostri clienti si sentono parte di una community – conclude – e lo sono anche quando non vanno in moto. Quello che vogliamo è far vivere l’esperienza Ducati attraverso tutti i canali e gli strumenti digitali. Siamo seguitissimi sui social e abbiamo un’ampia community sui nostri profili aziendali Facebook, Instagram, Twitter e sul canale YouTube che abbiamo inaugurato di recente». Ora il lavoro prosegue sul fronte delle moto “smart”, che in futuro popoleranno i social e le community dei ducatisti.

Nel curriculum anche l’IT della Formula 1 con Ferrari, «con le mani nel database» Il background di Piergiorgio Grossi è tecnologico, con laurea al Politecnico di Milano in Ingegneria Informatica e, per sua ammissione, «una forte vocazione allo sviluppo software». Nonché un passato in Ferrari, dove si è occupato di gestire il team IT della Formula 1, letteralmente «con le mani nel database», lavorando alle applicazioni statistiche che fanno leva sul supercalcolo matematico delle performance in pista. A seguire, un’esperienza triennale in una realtà specializzata nei Big Data. «Mi occupavo – spiega – di creare piccole startup interne, non business unit parte integrante dell’organizzazione ma strutture agili, che io seguivo per i primi 6/12 mesi e che poi erano in grado di camminare sulle proprie gambe».

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Marta, 31 anni, CRM Manager, lavora a Torino, prende 41.000 ¤/anno

Marco, 39 anni, Digital Project Manager, lavora a Firenze, prende 43.000 ¤/anno

Michele, 30 anni, Help Desk Coordinator, lavora a Roma, prende 30.000 ¤/anno

Anna, 29 anni, DATA Manager, lavora a Milano, prende 33.000 ¤/anno

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digital transformation - marketing di

domenico aliperto

Giuliano Noci Professore ordinario di Marketing Politecnico di Milano

Una “marketing machine” al cuore delle imprese Ora che i dati sono la nuova materia prima delle imprese, il marketing diventerà il nuovo pilastro e sostituirà la centralità della produzione manifatturiera, grazie alle tecnologie digitali. Giuliano Noci evidenzia le nuove sfide che i Marketer devono affrontare per vincere la battaglia della rilevanza, dell’attenzione e dell’ingaggio: «Analisi real time, rilevazioni biometriche e nuovi modelli di segmentazione»

«Competence, people e network sono gli elementi su cui costruire il futuro del sistema d’impresa». È questa la vera essenza della digital transformation per Giuliano Noci, Professore ordinario di Marketing al Politecnico di Milano. «Le imprese sono sempre meno asset fisici e sempre più asset immateriali. Ed è un bene, visto che gli asset fisici si deprezzano, tendono all’obsolescenza tecnologica, mentre il capitale umano e l’informazione mantengono uno straordinario valore in termini di potenziale. Il problema, però, è che molte aziende ancora non lo hanno compreso». Noci è intervenuto come relatore e moderatore a “Change the Game”, evento organizzato a Milano da Noovle, gruppo specializzato in consulenza ICT e Cloud Computing e tra i top premium partner a livello globale di Google for Work. Evento in cui imprenditori e innovatori – oltre a una schiera di top manager della stessa Google – si sono confrontati sui temi della disruption. In particolare, Noci ha appro| 52 |

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fondito il modo in cui analisi dei dati e nuovi paradigmi organizzativi possono sostenere l’evoluzione del business in funzione di ciò che è ormai l’elemento centrale della catena del valore: il consumatore. «O meglio ancora: la relazione con la persona». Internet of Things? Ha più senso Internet of People «Gli analytics avranno un ruolo chiave nei processi operativi e decisionali delle imprese», continua Noci. «Ma non è questione di Big Data! Prima di tutto di Big Data si può parlare fin da quando Esselunga ha introdotto la Fidaty card, e per ora hanno un impatto modesto: quando si tratta di informazione, ‘big’ significa prima di tutto entropia. Ciò che può generare vero vantaggio competitivo è la capacità di trasformare giacimenti di dati in informazioni utili per le decisioni di business». Si calcola che con lo sviluppo dell’Internet of


digital transformation - marketing | una “marketing machine” al cuore delle imprese

«Smettiamo di parlare di Internet enabled company: Internet è un abilitatore, come la corrente elettrica. Non attiene al comparto tecnico, ma coinvolge in primis il board. Per fortuna, lo stiamo capendo anche in Italia» Things, nel 2020 avremo 20 miliardi di dispositivi connessi. Il punto focale non sarà il traffico prodotto dai device, ma il modo in cui questa enorme mole di informazioni verrà trasformata in qualcosa di utile per gli individui. In quest’ottica avrebbe più senso parlare di Internet of Me, o di Internet of People». D’altra parte non ci si può basare solo sui dati prodotti dalle interazioni tradizionali: servono nuove rilevazioni e nuove discipline per studiarle e comprenderle, a partire dal biomarketing. la segmentazione cambia marcia con i dati biometrici «Utilizzare wearable per compiere rilevazioni biometriche è una delle sfide chiave per affermare modelli di segmentazione che vadano al di là dell’approccio socio-demografico, con strumenti funzionali ad accompagnare il consumatore in customer journey personalizzati, basati sul concetto di real time marketing». Vincere la battaglia della rilevanza, dell’attenzione e dell’ingaggio significa infatti sviluppare la capacità di lavorare sempre più in presa diretta nell’analisi del processo di acquisto, combinando contenuto («non dimentichiamo che i media sono importanti, ma sono prima di ogni altra cosa infrastrutture nate per veicolare contenuti!»), contesto e canale, coinvolgendo attraverso l’interazione con il cliente tutti i touch point aziendali. Per Noci i dati sono la vera nuova materia prima delle imprese, e quindi bisogna saperli trasformare bene. «Un’attenta gestione del dato ci deve portare a riflettere su nuovi modelli di business, su nuove interazioni col cliente, su nuovi processi. Credo anzi che la marketing machine diventerà il nuovo pilastro delle imprese, e sostituirà la centralità della produzione con sistemi di intelligence, modellistica e tecnologia capaci di abilitare meccanismi di raccolta e interpretazione dei dati funzionali allo sviluppo di processi decisionali efficaci. Con l’avvento di paradigmi in cui il cliente è davvero al centro delle attività aziendali, la competizione non sarà più tra singole organizzazioni, ma tra network di imprese, e verterà tutta sulla semplificazione dell’output». Questo perché sta nascendo una differente vi-

sione del mondo. Non una crisi come spesso si dice, ma un cambiamento strutturale dei mercati e del modo di fare business. «Bisogna riscrivere il sistema operativo, le regole del fare impresa, e le strategie competitive sfruttando i cambiamenti pervasivi e rapidissimi degli assetti geopolitici, dei paradigmi di consumo, e delle modalità di distribuzione che il digitale sta provocando». Un esempio? Noci cita il mercato automotive, che tra vetture connesse e veicoli autonomi sviluppati in collaborazione con gli “Over The Top” sta affrontando la trasformazione più significativa da quando Henry Ford introdusse la catena di montaggio. «Le case automobilistiche non venderanno più automobili, venderanno servizi d’uso dell’automobile in chiave contestuale, e l’auto sarà un pretesto attraverso cui proporre nuovi servizi aggregati. Come Politecnico stiamo sostenendo grandi investimenti per accompagnare i costruttori lungo questa rivoluzione, con il passaggio dall’approccio di scalable efficiency, che da sempre caratterizza l’industria (e che si è accentuato negli ultimi trent’anni con la globalizzazione), a quello di “scalable learning”, cioè la capacità di processare la materia prima dei dati per portare consistenza e rilevanza sul piano della multicanalità». La digitalizzazione è competenza del board L’ultimo elemento sottolineato da Noci è il coinvolgimento del top management delle imprese: per affermare all’interno dell’organizzazione una vera cultura di centralità del cliente e trasformazione delle informazioni occorre che le competenze tecnologiche non siano concentrate solo nella divisione IT. «La tecnologia è solo una faccia della medaglia della digital transformation. Smettiamo di parlare di Internet enabled company: Internet ormai è un abilitatore di base, come lo è la corrente elettrica. È una spina dorsale imprescindibile di tutte le strategie e i processi aziendali. Non si tratta più di una serie di attività che attengono al comparto tecnico, è un fenomeno di cambiamento che coinvolge in primis il board. Per fortuna, si tratta di una consapevolezza che sta diffondendosi anche in Italia». www.digital4executive.it

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reportage di

domenico aliperto

Noovle, così la rivoluzione digitale cambia i giochi All’evento «Change the game» organizzato a Milano dallo specialista della consulenza ICT e Cloud Computing si sono confrontati gli esperti internazionali dell’ecosistema che ruota intorno all’innovazione di Google rivolta al settore Enterprise. Dal machine learning alla creazione di una user experience a tutto tondo, ecco come le nuove tecnologie trasformeranno il business. A patto di integrarle in un cambiamento prima di tutto culturale e organizzativo

La vera essenza della digital transformation? L’incontro tra l’essere umano, le sue esigenze e le nuove tecnologie, a cavallo di esperienze d’uso efficaci, che sappiano generare reale valore e, sommandosi, migliorare l’intero scenario economico e sociale. Per le imprese questo significa imparare a conoscere a fondo – tramite i dati – l’individuo, orientando i propri obiettivi di business alla costruzione di una relazione reciprocamente soddisfacente. Più facile a dirsi che a farsi, specialmente in un Paese poco incline all’innovazione come l’Italia. Ma esistono realtà che hanno già adottato questo cambio di paradigma e stanno sfruttando il digitale per costruire nuovi modelli di interazione all’interno di network di consumatori e imprese. Questi i temi al centro di “Change the game”, l’evento milanese che Noovle ha organizzato il 5 ottobre a Milano. Una convention che grazie al ruolo privilegiato che lo specialista della consu| 54 |

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lenza in ICT, Cloud Computing e Change Management ricopre sulla scena internazionale (è infatti tra i 50 top Premier partner di Google Cloud a livello globale) ha calamitato le figure apicali di molte delle aziende impegnate ad aiutare le aziende a cavalcare la digital transformation. «Che ormai non è una scelta o un’opportunità, ma una necessità assoluta», ha detto Giuliano Noci, Professore ordinario di Marketing al Politecnico di Milano, aprendo i lavori della sessione plenaria. «Per beneficiarne, però, bisogna pensare in modo differente rispetto al passato: dobbiamo renderci conto che le aziende vanno considerate sempre meno per i propri asset fisici, e che questa nuova prospettiva è un bene. Gli asset fisici si deteriorano e si deprezzano, mentre invece il capitale umano aumenta il proprio valore in termini di potenziale: competence, people e network sono gli asset per il futuro del sistema di impresa, mentre dati e informazioni


r e po rtag e | N o ov l e , c o sì l a rivo l uz io n e dig ita l e c a mb ia i g io chi

condivisione e organizzazioni aperte

sono la nuova materia prima delle imprese». «Ma i big data significano entropia, ha concluso Noci. Bisogna andare oltre, e creare un sistema di intelligence funzionale allo sviluppo di processi decisionali efficaci».

A fare gli onori di casa c’erano i due fondatori di Noovle: Paolo Vannuzzi, che ricopre il ruolo di CSMO, e Piergiorgio De Campo, CTO del gruppo. Entrambi, dopo aver ribadito il concetto di una trasformazione che è prima di tutto culturale e organizzativa, e in seconda istanza tecnologica, hanno parlato delle immediate conseguenze che il digitale ha generato nelle realtà più ricettive. «Cambiamento oggi significa prima di tutto condivisione, il che implica l’abbattimento dei silos e l’addio alle organizzazioni chiuse», ha spiegato De Campo. In particolare, soprattutto marketing e IT devono lavorare gomito a gomito per gestire l’impatto che le nuove tecnologie hanno generato rispetto alle abitudini del consumatore. «La mobilità ha di fatto cancellato gli spazi tradizionali, rivoluzionando le modalità di interazione, che non avvengono più solo negli store. Mentre la popolarità di applicazioni come Pokemon Go ha finalmente sdoganato le prossime frontiere della user experience: gamification e realtà aumentata. Senza contare il tema della sicurezza, che pone nuove sfide a chi vuole ingaggiare i clienti sui canali digitali», ha continuato il manager. «Non si possono più immaginare architetture statiche», e soprattutto gli architetti devono essere preparati sui temi di business, testando e interpretando le soluzioni in funzione delle esigenze del mercato. «La digital transformation riguarda anche l’ambito sociale», ha confermato Vannuzzi, «e per questo è I fondatori di Noovle: Paolo Vannuzzi, CSMO, e Piergiorgio De Campo (a destra), CTO

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reportage | No ovl e , cos ì l a r i vol u z i on e d i gi ta l e c a mb ia i g io c h i Da sinistra: Nicola Buonanno, Territory Sales Manager Google Cloud, e Brad Kilshaw, Head of Google Cloud SI Partnership, EMEA

necessario coinvolgere i soggetti legati ai processi che stanno modificando user e work experience. I software sono ciò che abilitano la trasformazione, ma le persone ne sono al centro - anzi, sono elementi attivi del sistema - e la nostra sfida è far sì che grazie alle tecnologie ciascun individuo possa vivere meglio ogni aspetto della propria vita». De Campo e Vannuzzi hanno poi definito gli ambiti di sviluppo più interessanti per Noovle in base anche a questi assunti: Retail e Pubblica Amministrazione. Cloud e machine learning, l’impegno di Google Alla convention era presente una folta rappresentanza della divisione di Mountain View che sviluppa prodotti per il business: Google for Work ha recentemente cambiato nome e assetto trasformandosi in Google Cloud. «Non è un semplice rebranding, ma una riorganizzazione basata su quello che col tempo è diventato il nostro punto di forza», ha detto Nicola Buonanno, Territory Sales Manager, che si è dichiarato ottimista rispetto alla digitalizzazione degli italiani: «La Nuvola libera nelle imprese alcune delle nostre caratteristiche peculiari: creatività, centralità della persona, circolazione delle idee. È vero, abbiamo sempre un po’ di ritrosia al cambiamento. Ma quando partiamo, siamo più veloci degli altri nel recuperare terreno». Nel definire le imprese smart, Brad Kilshaw, Head of Google Cloud SI Partnership, EMEA, ha invece

De Campo, Noovle: «Cambiamento oggi significa prima di tutto condivisione, il che implica l’abbattimento dei silos e l’addio alle organizzazioni chiuse. Soprattutto marketing e IT devono lavorare gomito a gomito». | 56 |

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parlato di organizzazioni che hanno «la capacità di capire esigenze di business e del consumatore e trarne vantaggio competitivo. L’evoluzione in Google Cloud ci permette di sostenerle, grazie a nuovi investimenti e all’unificazione dell’offerta di suite, prodotti e data center». Kilshaw ha annunciato che nel corso del 2017 saranno inaugurate tre nuove strutture in Europa, in UK, Germania e Finlandia, a sostegno anche di una delle tecnologie con cui Google Cloud intende supportare il mondo Enterprise, specialmente sul fronte del marketing: il machine learning. «È più facile programmare un computer perché impari a essere intelligente, piuttosto che fornirgli la capacità di calcolare infinite possibilità», ha spiegato Bret McGowen, Developer advocate. «Grazie al linguaggio naturale diventa possibile comprendere il modo in cui le persone parlano e si esprimono, aprendo nuove opportunità per attuare, per esempio, strategie di churn prevention e cross-selling automaticamente». A vincere non è la singola soluzione, ma l’ecosistema Ciò che è emerso con chiarezza dall’evento organizzato da Noovle è che la vera digital transformation può avvenire solo se si gioca su un terreno condiviso, sul quale si vince intersecando abilità e specializzazioni complementari. Impossibile attuare un’interazione con i clienti se non si prevedono anche opportuni strumenti per il CIAM (Customer


r e po rtag e | N o ov l e , c o sì l a rivo l uz io n e dig ita l e c a mb ia i g io chi

Il machine learning è per Google la nuova frontiera. «Si aprono nuove opportunità per attuare, per esempio, strategie di churn prevention e cross-selling»

Identity ad Access Management ) e per rendere la user experience univoca, ubiqua e d’impatto, a prescindere dal canale utilizzato. Ben Jackson, Managing Director di Gigya (specializzata in soluzioni per il Customer identity management), ha per l’appunto spiegato che i sistemi di registrazione degli utenti oggi sono la chiave di volta delle relazioni digitali, sia per il tema della sicurezza e della compliance normativa, sia perché ormai identità, dati, marketing e vendite sono tutti elementi strettamente correlati all’interno di una strategia omnichannel. Carolina Moreno, General Manager South Europe di Liferay, multinazionale che supporta le imprese con soluzioni per la creazione di esperienze digitali per i clienti, ha invece sottoline-

ato l’importanza dell’approccio mobile first. «Se la user experience sullo smartphone risulta negativa, rischia di tramutarsi in disaffezione per il brand anche su altri canali Internet e addirittura off line. Ma la prima raccomandazione è offrire al consumatore ciò che si aspetta, non quello che l’azienda vorrebbe proporre». Capire cosa interessa davvero al mercato e veicolare contenuti - specialmente video - che aiutino i marchi ad allacciare relazioni emozionali col proprio pubblico e monitorare reazioni e ripercussioni sul piano dei risultati di business è il mestiere di Mark Blair, Vice President EMEA di Brightcove. «Dalle vendite alla fedeltà di marca, passando per l’aumento del traffico sui canali digitali, il video è fondamentale», ha concluso Blair.

Da sinistra: Bret McGowen, Developer advocate, e Ben Jackson, Managing Director di Gigya

Da sinistra: Carolina Moreno, General Manager South Europe di Liferay, e Mark Blair, Vice President EMEA di Brightcove

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daniele lazzarin

Rivoluzione digitale, parlano i CFO italiani: Prada, FS, Chiesi e Fiat Chrysler Il Chief Financial Officer oggi è forse la figura con la visione più trasversale e completa dell’azienda, e di conseguenza un osservatore privilegiato sugli impatti della digitalizzazione. Ne hanno discusso quattro manager che ricoprono questo ruolo in altrettante primarie realtà dell’industria italiana all’evento “Digital Finance Imperative” organizzato da SDA Bocconi e Oracle

Per l’evoluzione del suo ruolo negli ultimi anni, il Chief Financial Officer (CFO) è forse il manager con la visione più completa dell’azienda, e un osservatore privilegiato sugli impatti della digitalizzazione. Significativo quindi su questi temi è il punto di vista dei CFO di quattro realtà primarie dell’industria italiana, protagonisti di una tavola rotonda all’evento “Digital Finance Executive” organizzato da SDA Bocconi e Oracle: Alessandra Cozzani, CFO Gruppo Prada; Roberto Mannozzi, Direttore Centrale Amministrazione Bilancio e Fiscale Gruppo FS Italiane; Danilo Piroli, Group CFO Chiesi Farmaceutici; e Andrea Striglio, CFO EMEA Fiat Chrysler Automobiles. «Cogliere i cambiamenti per non rimanere irrimediabilmente indietro» «Il settore lusso sembra agli antipodi del digitale: è conservatore, con valori intangibili molto tradizionali: stile, design, identificazione nel marchio», ha | 60 |

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detto Cozzani. «Lo scetticismo iniziale però è stato superato, avendo compreso che l’online non è solo un canale di vendita ma anche di servizio e comunicazione del brand». Nel lusso, continua la CFO di Prada, l’eCommerce è il 6% del fatturato, e si prevede arriverà al 18-20%: il negozio fisico quindi rimarrà dominante nel rapporto col cliente, ma già oggi il 70% degli acquisti si decide online. «Il consumatore “digitale” sta sgretolando diversi capisaldi del settore. Per esempio la domanda non è più totalmente anelastica al prezzo, ora che sul web si possono confrontare prezzi in tutto il mondo. Quindi è un momento di forte evoluzione in cui è cruciale cogliere i cambiamenti per non rimanere indietro senza rimedio». Il digitale è uno stimolo molto forte al cambiamento per chi eroga servizi, ha detto Mannozzi di FS Italiane, «e per noi in particolare l’esigenza è uscire da un modello ancorato all’asset fisico: questo ha innescato tanti progetti innovativi che stanno cambiando profondamente il Gruppo, come il palmare


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basata su rigidi protocolli, richiedeva molto tempo e costi, che il digitale ha tagliato fortemente, con effetti profondi sul business, per esempio sulla vita utile del brevetto: più è breve la sperimentazione, maggiore è il tempo di sfruttamento». Infine l’automotive, da molti considerato “il” modello della rivoluzione digitale: «Gli impatti sono già forti, diventeranno enormi, con nuovi modelli di mobilità, autonomous driving, guida assistita», conferma Striglio di Fiat Chrysler. «Ma come esempio cito un impatto in apparenza “collaterale”: partendo dal fatto che circa il 90% dei clienti si orienta all’acquisto sul web, abbiamo riallocato il budget pubblicitario dai media tradizionali a quelli digitali, imparando che questi sono punti di contatto decisivi per “catturare” il cliente e capire in che fase del processo d’acquisto è. Oggi ottenendo un certo numero di lead da una campagna o un evento, possiamo calcolare quanti andranno dal concessionario e quanti compreranno, cioè misurare con precisione il ritorno di un investimento pubblicitario. E questo è solo il primo passo: possiamo accompagnare il cliente nell’intero percorso dalla ricerca di informazioni all’assistenza dopo l’acquisto». Misurare l’intangibile e farsi partner del business

del personale di bordo, un collegamento diretto al sistema di biglietteria e alla sala di controllo; oppure la manutenzione, in cui con un grande progetto basato su big data e sensori sta rivoluzionando il nostro approccio, dalla pianificazione degli interventi a scadenze prefissate alla manutenzione predittiva». Nel farmaceutico la rivoluzione digitale sta colpendo su più fronti, sottolinea Piroli di Chiesi. Uno è l’interazione con il cliente. «Nel modello tradizionale, dall’individuazione del principio attivo alla dimostrazione al medico, noi il paziente non lo “vedevamo” mai. Ora invece si fa sentire e chiede di essere interpellato, favorendo la tendenza verso una medicina più personalizzata e pronta a modificarsi attraverso i suoi feedback, che arrivano tramite device e app che misurano i parametri sanitari e supportano l’uso del farmaco». Poi cambiano profondamente il rapporto con il medico («ora può essere diretto, via internet»), e il ciclo di sviluppo dei prodotti. «La sperimentazione, articolata su diversi paesi e gruppi di pazienti e

Il digitale sta impattando quindi su tutti i settori e su gran parte dei processi, sia di front end che di back end. Ma tutto ciò come si ripercuote sulla funzione Finance? A livello internazionale due tendenze spiccano negli ultimi anni. Da un lato il Finance deve superare l’approccio concentrato solo sui consuntivi finanziari, e misurare anche KPI di crescita del fatturato e creazione di valore. Dall’altro, a proposito di valore aziendale, la componente intangibile – brand, customer satisfaction, ecc. – incide sempre più e occorre imparare a misurarla, introducendo appositi indici e cambiando le logiche di valutazione delle performance, definizione degli obiettivi e così via. «Il tema degli intangibles è cruciale per il farmaceutico, a partire dai brevetti – osserva Piroli -. La ricerca viene interamente spesata, e sulla possibilità di ottenerne dei ritorni c’è incertezza totale fino all’ultimo. Però fin dalle prime fasi di sviluppo proviamo a stimare costi, vendite, fatturato, e quindi il possibile ritorno del prodotto, aggiornando periodicamente il tutto». Un punto critico è che per misurare gli asset intangibili spesso occorre lavorare su informazioni di fonte esterna, «su cui, non avendo la ownership, mi sento meno sicuro rispetti ai dati dell’ERP aziendale». Un altro è “farsi partner” del business, restando www.digital4executive.it

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Roberto Mannozzi

comunque certificate, per esempio dalle società di revisione, quindi è inutile fare gli innovatori se poi gli standard setter e le authority rimangono indietro. Anche qui serve un gioco di squadra perché queste nuove informazioni siano autorevoli per tutti».

Direttore Centrale Amministrazione Bilancio e Fiscale del Gruppo FS Italiane, è anche Presidente di Andaf, l’associazione nazionale dei direttori amministrativi e finanziari, che conta 1700 soci

La visibilità dell’ERP oggi non basta più

allineati sulle sue esigenze, «altrimenti il Finance rischia di rimanere tagliato fuori e confinato sui consuntivi tradizionali». Il progetto di manutenzione predittiva di Trenitalia già citato, spiega Mannozzi di FS Italiane, è un buon esempio d’impatto del digitale anche sul Finance. «I dati in arrivo dai sensori sui treni ci daranno elementi cruciali per gestire asset la cui manutenzione costa più di un miliardo l’anno, con ripercussioni su vari driver di valore aziendale anche intangibili, come la customer satisfaction». Quanto all’alleanza con il business, il Finance deve cercare un difficile equilibrio. «Da una parte, come tutte le altre funzioni, deve riuscire a superare la mentalità “a silos”. Dall’altra non può rinunciare al proprio ruolo “terzo” rispetto alle business line». Equilibrio più che mai necessario, continua Mannozzi, anche sul tema intangibles: «È vero che sta diventando decisivo, che gli investitori non si accontentano più delle informazioni “statutory”, e che il CFO è l’unico in azienda capace di aggregare le informazioni e renderle leggibili agli interlocutori interni ed esterni. Ma queste devono essere

Dopo aver lottato per anni per ampliare la copertura del sistema ERP, osserva Cozzani di Prada, il CFO ha una visibilità sull’azienda impensabile pochi anni fa, ma ciò non basta più. «In un mercato sempre più volatile occorre sfruttare i dati da tutte le interazioni fisiche e digitali con i clienti. Dati che di solito affluiscono al sistema CRM, che ha sempre avuto ownership commerciale. Ma molti di essi possono servire anche per fare previsioni di vendita, scelte d’acquisto e molto altro. Ciò permetterebbe al CFO di fare davvero il partner del business e dare valore aggiunto». Infine Striglio cita due progetti che dimostrano l’impatto del digitale sul Finance in Fiat Chrysler. «Un problema tipico nell’automotive è che riceviamo dati da vari canali di vendita, ma ce ne sono altri che il concessionario ha a sua volta, e che fino a poco tempo fa “vedevamo” solo a consuntivo. Il digitale ci ha aiutato a tracciare meglio i clienti nei vari sottocanali, controllare gli sconti, e dare informazioni più dettagliate ai sales manager». Il secondo progetto, a cui il Finance di FCA sta pensando insieme al marketing, è un centro di monitoraggio dei prezzi sul mercato. «Il pricing per noi è un processo complesso, con moltissime variabili, ma ora i clienti possono confrontare in un attimo i prezzi tra i vari paesi, quindi è cruciale adeguarli rapidamente mercato per mercato. Nell’era dei big data, l’idea è osservare più attentamente i competitor, con una “central intelligence” a livello EMEA che analizzi basi dati enormi che abbiamo già – prezzi reali, promozioni, eccetera, per tutti i 28 mercati europei - restituendo aggiornamenti frequenti sulle mosse dei competitor, e quindi reattività molto maggiore sul singolo mercato».

«Anche gli analisti oggi contano “like” e “follower”» «I social, facendo circolare con enorme velocità le informazioni, hanno un effetto dirompente sul valore del brand: se su una camicia si scuciono i bottoni lo sa tutto il mondo in pochi attimi, e anche gli analisti finanziari oggi tengono conto di like e follower». Così Alessandra Cozzani, CFO di Prada, sintetizza il grande potere diretto e immediato sull’immagine dei marchi che oggi il consumatore ha grazie ai commenti sul web. «Anche il trasporto è un settore molto delicato per questo aspetto –

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aggiunge Roberto Mannozzi di FS Italiane -: noi facciamo circolare 8000 treni al giorno, ma ne basta uno in ritardo e le segnalazioni negative sono potenzialmente centinaia». Il rovescio della medaglia in positivo è la misurabilità, come rimarca Striglio di Fiat Chrysler Automobiles: «Abbiamo attività di social listening per analizzare cosa si dice di noi sui principali network, e sui blog specializzati sull’automobile: possiamo capire il livello di gradimento di un brand, di un modello di auto, o il riscontro di campagne di marketing».


intervista

«Il Cloud? Un treno in corsa». Oltre 200 i clienti Oracle in Italia «L’80% del fatturato application viene dal Software-as-a-Service. Dopo la fase di efficienza le aziende italiane iniziano a fare Transformation». Tra le imprese già a bordo Generali, Galbusera, Samsung, Tivùsat, e anche TRS ed Enav nell’Infrastructure-as-a-Service

Fabio Spoletini Country Manager Oracle Italia

«Oggi il Cloud è un treno in corsa, impossibile capire tutti gli impatti che avrà, ma è decisivo essere già a bordo». Così Fabio Spoletini, Country Manager in Italia, spiega perché Oracle punta tutto sul Cloud, con un’offerta dall’IaaS (infrastructure-as-a-service) al SaaS (software-as-a-service). E questo vale anche per l’Italia, dove per Assinform il mercato Cloud vale 1,5 miliardi di euro e cresce del 23%. Nell’ultimo esercizio Oracle ha incassato con il Cloud 2,9 miliardi di dollari nel mondo (+40% in un anno), mentre in Italia è cresciuta a tre cifre, superando i 200 clienti. «Nel percorso verso il Cloud le aziende italiane stanno concludendo la fase 1 dell’efficienza e agilità, con diverse esperienze già di fase 2, con uso del cloud per innovare e trasformare i processi». Gli elementi su cui punta Oracle nel Cloud, spiega Spoletini, sono completezza della piattaforma, hybrid cloud («qualsiasi prodotto che gira in Cloud gira anche on premise»), open standard, livello “enterprise grade” dei servizi, e sicurezza a vari livelli: applicativo, di rete e hardware. In particolare in ambito applicativo Oracle vede decollare sul mercato un approccio per processi, perciò propone una suite di SaaS con componenti di Marketing/Customer Experience (CX), ERP, Enterprise Performance Management, HCM e Supply Chain Management. Suite che nell’ultimo esercizio in Italia ha portato l’80% del fatturato in area application. Gli ambiti più sviluppati sono HCM, «dove nell’ultimo anno abbiamo acquisito oltre 20 clienti», e marketing/CX, «ma sta partendo l’onda dell’area Finance,

che porterà al rinnovo di sistemi gestionali ormai troppo rigidi e personalizzati». Tra i clienti ci sono Generali nell’HCM, Galbusera nel Finance, Danieli, Marazzi, FCA, e poi Illy, Samsung e Tivùsat nell’area marketing/CX, «dove abbiamo oltre 30 clienti». Quanto agli “strati” più infrastrutturali, «la nostra piattaforma IaaS è pensata per ogni tipo di workload, abbiamo funzioni “commodity” come open source, devops, container, elastic virtualization, ed elementi differenzianti come managed Java extension, bare metal, high performance computing per elaborazione e networking». Inoltre con Oracle Cloud Machine, annunciata qualche mese fa, «portiamo “un pezzo” di Public Cloud a casa del cliente, con IaaS e PaaS, per sviluppare applicazioni e trasferire in cloud sistemi mission critical: si paga come servizio, gestione e aggiornamento sono a cura nostra. La consideriamo la “killer application” del cloud, anche perché azzera i timori su sicurezza e localizzazione del dato». La differenza con l’hosting, precisa Spoletini, è sottile ma c’è: «Hardware e software sono quelli del nostro Public Cloud, non c’è niente di specifico del singolo cliente». Tra i casi italiani di IaaS e PaaS ci sono TRS ed Enav. «TRS fa piattaforme software di gestione del car sharing, con clienti come ENI Enjoy ed Enel, e trasferirà nel Cloud di Hitachi Systems CBT, basato su Oracle Private Cloud Appliance, tutto il parco applicativo; Enav ha portato in cloud gli ambienti di sviluppo, compresi quelli del sistema ERP, e anche backup e recovery, con risparmi in conto economico del 28%». www.digital4executive.it

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Multicanalità e logistica in Italia, 4 modelli per produttori e retailer L’Osservatorio Contract Logistics del Politecnico di Milano ha approfondito con un’indagine gli approcci con cui le imprese italiane conciliano la distribuzione dei prodotti venduti via eCommerce con quella dei beni destinati ai negozi fisici. Emergono scelte diverse, dalla netta separazione alla condivisione di molte fasi e attività, sia tra gli operatori manifatturieri che tra quelli commerciali

Con la diffusione dell’eCommerce, ll termine “multicanalità” ricorre ormai spesso: l’online è un canale di vendita in più, ma porta anche criticità di gestione e integrazione con i canali tradizionali. In particolare nel suo ultimo rapporto l’Osservatorio Contract Logistics del Politecnico di Milano ha approfondito gli impatti della multicanalità sulla logistica aziendale, con studi di caso e un’indagine su 85 Direttori Supply Chain, Logistica, Vendita e Acquisti di imprese manifatturiere con network logistico consolidato, o retailer con rete di punti vendita, operanti in diversi settori, fra cui grocery, abbigliamento, arredamento, beauty & personal care, no-food. I retailer online puri non sono stati inclusi nell’analisi. A fianco di aziende (38% dei produttori e 47% dei retailer) ancora al primo tentativo di eCommerce B2c, esistono sempre più casi (18% dei produttori e 16% dei retailer) in cui l’online apporta già più del 4% del fatturato. Oltre il 70% vede nella | 64 |

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multicanalità una leva per migliorare il rapporto con il consumatore, più che per ridurre i costi. Ad esempio molti produttori ritengono utile l’eCommerce B2c per coprire anche le aree geografiche non raggiunte con canali tradizionali, o per fornire prodotti/servizi “speciali”. Produttori: dalla rete per l’eCommerce al network di depositi locali L’approccio più classico dei produttori si basa su un deposito centrale (di seguito DC), rifornito dagli stabilimenti, che serve il mercato direttamente o attraverso depositi di secondo livello (depositi periferici con scorta o Transit Point). Il DC ha generalmente un’area di stoccaggio significativa, picking a collo e un limitato numero di ordini al giorno. In alcuni casi vengono poi creati Picking Warehouse (PW) con quantità minima di stock, capacità di picking a pezzo, e alta capacità


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di confezionamento, all’interno del DC o in una struttura separata. In questo quadro, dall’indagine emergono 4 diversi approcci dei produttori per distribuire i prodotti venduti online: 1. una rete logistica dedicata all’ecommerce B2c, che serve i clienti tipicamente tramite corriere; 2. un PW all’interno del Dc, sempre con consegna tramite corriere; 3. una rete di PW, con eventualmente alcuni servizi di consegna ad hoc; 4. una rete di depositi locali (con o senza scorte), sfruttando anche le sinergie in fase di trasporto della rete tradizionale verso l’area di consegna al cliente. Il modello 1 garantisce autonomia nello sviluppo del canale online, assenza di conflitti col canale tradizionale, e alti livelli di servizio ai clienti online.

Però ha costi alti (occorrono strutture logistiche dedicate) e nessuna sinergia con il canale tradizionale nelle fasi d’approvvigionamento, stoccaggio e distribuzione. Sinergie che invece si generano introducendo una PW all’interno del DC (modello 2) o una rete di PW (modello 3). La condivisione riguarda l’attività di approvvigionamento e lo stoccaggio intensivo. Il picking è tipicamente eseguito in un’area dedicata nel deposito (PW nel DC) o in un edificio separato (rete di PW). Nei settori in cui il magazzino è già predisposto per il picking di pezzi (ad esempio Beauty & Personal Care), anche l’attività di allestimento ordini può essere gestita congiuntamente al canale tradizionale. Il modello 3, rispetto al 2, comporta più costi legati all’investimento in strutture dedicate e all’attività di rifornimento delle PW dal DC. Di contro, permette di avvicinarsi al mercato, se il numero di PW è maggiore di 1, e sviluppare soluzioni multiproduttore. Infine il modello 4 prevede l’utilizzo della rete di depositi locali (depositi con scorta o transit point) per evadere gli ordini online. Non richiede investimenti in strutture dedicate e facilita le sinergie, oltre che in approvvigionamento e stoccaggio, nell’attività di distribuzione. Ma richiede la riorganizzazione di flussi e attività e lo sviluppo di una capacità di consegna locale al consumatore finale. La soluzione oggi più in uso (66% dei casi) è la PW interna al DC o in una struttura separata. In prospettiva invece l’interesse sembra convergere verso una rete logistica condivisa (39% dei casi), modificando i processi esistenti nei canali tradizionali e cercando di ottenere sinergie fra questi e l’online. Anche per i retailer quattro modelli: uno sfrutta i punti vendita Nel contesto base definito dall’Osservatorio per i retailer, i centri distributivi (di seguito CeDi) vengono riforniti dai fornitori e servono i punti vendita, spesso con consegne dirette e in taluni casi passando per depositi di secondo livello (depositi periferici con scorta o transit point). Anche per i retailer si può parlare di Rete logistica dedicata, PW nel CeDi, Rete di PW, con alcune differenze nelle caratteristiche dei CeDi. Esiste poi un quarto modello in cui la consegna al cliente avviene tramite il punto vendita, creando ovvie sinergie con la rete di vendita. Questa soluzione non richiede investimenti in strutture logistiche dedicate e garantisce sinergie in fase di distribuzione con trasporto a carico completo verso l’area www.digital4executive.it

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A fianco di aziende (38% dei produttori e 47% dei retailer) ancora al primo tentativo di eCommerce B2c, esistono sempre più casi (18% dei produttori e 16% dei retailer) in cui l’online apporta già più del 4% del fatturato

geografica del cliente. Nessuno dei 4 modelli è nettamente prevalente: il primo è adottato dal 21%, il secondo dal 35%, il terzo dal 21% e il quarto dal 41% dei casi, e quindi alcuni retailer utilizzano più modelli logistici allo stesso tempo. Ad esempio alcuni distributori di beni di largo consumo operano con PW nelle aree ad alta penetrazione delle vendite online, mentre nelle altre sfruttano in prevalenza la rete di negozi. il ruolo logistico dei negozi Quanto al ruolo “logistico” del punto vendita, le discriminanti sono il luogo dove viene allestito l’ordine e la modalità di consegna al cliente. Un primo modello (Consolidation strategy) è l’uso del punto vendita come punto di consolidamento degli ordini, allestiti presso un deposito a monte, e di ritiro da parte del cliente. Consente di offrire sull’online l’intero assortimento a deposito e richiede un basso grado di modifica del punto vendita. Una variante è il modello Consolidation and delivery strategy: l’allestimento resta nel deposito a monte e il consolidamento in negozio, ma è prevista la

consegna a domicilio per tutta la zona geografica di competenza del negozio stesso. Un terzo modello è il Picking and packing strategy, con scorte per il canale online nel punto vendita. L’ordine è allestito in negozio e ritirato dal cliente finale, quindi c’è coinvolgimento di personale del punto vendita, e uno spazio per lo stoccaggio degli ordini in attesa di ritiro, con rischi però di interferenze tra canale fisico e online. Infine il punto vendita può fare da punto d’allestimento degli ordini online e di partenza per la consegna a domicilio. È il modello Full fulfillment strategy, che richiede una revisione della struttura del punto vendita, ma permette di scegliere dinamicamente il punto di evasione degli ordini online, in base allo stock nei diversi nodi della rete e della vicinanza geografica al cliente finale. Si usa soprattutto in grandi catene no-food, per esempio profumerie e make-up. A oggi il modello più diffuso è la consolidation strategy (59% dei casi), ma in prospettiva si pensa di affiancare (e non sostituire) a questo modello anche gli altri, fino ad arrivare al 23% di casi che intendono attivare anche la Full fullfilment strategy.

Gli scenari per i prossimi anni L’Osservatorio ha anche delineato i più probabili sviluppi per la logistica multicanale nei prossimi anni. Per quanto riguarda le strutture logistiche, oggi i resi sono gestiti principalmente con ritorno al DC, con alta incidenza dei costi logistici. Si potrebbero sviluppare dei “returns hub”, piattaforme locali di consolidamento, ricondizionamento e re-indirizzamento dei prodotti resi. I PW, che attualmente hanno bassi livelli di automazione, potrebbero evolversi al crescere dei volumi e incrementare il livello tecnologico. Ma i cambiamenti più radicali potrebbero riguardare punti vendita e depositi locali. I primi, ove la dimensione lo consente, potrebbero trasformarsi in “dark store” (già una realtà in Francia e Regno Unito), strutture distribuite sul territorio per l’allestimento degli ordini online. I depositi regionali potrebbero diventare il punto di contatto con il consumatore finale, anche se ciò richiede profonde trasformazioni strutturali. Quanto ai servizi offerti emergono due grandi tendenze: l’aumento della capacità di personalizzare il prodotto nel magazzino, e un crescente bisogno di reattività nella risposta al mercato. Il punto di convergenza si può chiamare “omnicanalità”: il consumatore è al centro del processo e – a seconda delle modalità d’acquisto/consegna scelte – viene servito tramite circuiti logistici diversi. È una sfida che occuperà i direttori logistici per anni, visto che oggi più del 70% delle aziende lavora con un’allocazione statica degli ordini ai possibili punti di allestimento ed evasione.

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Il Servizio CBILL: uno strumento per la digitalizzazione dei pagamenti

La digitalizzazione dei pagamenti rappresenta uno degli obiettivi primari nel processo di ammodernamento del nostro paese. Le imprese bancarie italiane, che lavorano da tempo in questa direzione, stanno investendo fortemente nella digitalizzazione e offerta di strumenti di pagamento innovativi, e stanno supportando imprese e Pubblica Amministrazione nel delicato passaggio dell’innovazione dei processi. Uno di questi strumenti è il CBILL, il servizio realizzato dal Consorzio CBI e offerto in modalità competitiva dagli Istituti Finanziari Consorziati, che consente la consultazione e il pagamento online in modalità multicanale e multibanca di utenze domestiche, ticket sanitari, multe, tributi, tasse ed altro ancora. Con il CBILL la carta è “preistoria”. Sono oltre 500 gli Istituti Finanziari che offrono il Servizio CBILL nei propri Internet Banking, e alcuni di questi permettono già ai propri clienti di consultare e pagare bollette e avvisi di pagamento con CBILL attraverso altri canali (ATM, mobile, sportello fisico). A settembre 2016 sono già state effettuate circa 4 milioni di operazioni di pagamento, per un controvalore complessivo di circa 800 milioni di euro, verso gli oltre 300 fatturatori attivi tra privati e Pubblica Amministrazione. Numeri in continua crescita grazie ai vantaggi per utenti debitori, imprese e Pubbliche Amministrazioni. Il Servizio CBILL infatti è già applicabile anche al pagamento dei servizi offerti dalla Pubblica Amministrazione tramite il Nodo PagoPA dell’AgID. I vantaggi del Servizio CBILL risultano molteplici. Innanzitutto, mentre con gli altri servizi di pagamento online i clienti possono pagare online solo i bollettini

Sono oltre 500 le banche che offrono il Servizio nei propri Internet Banking. A settembre 2016 le operazioni di pagamento gestite (utenze domestiche, ticket sanitari, multe, tributi, tasse) hanno raggiunto quota 4 milioni, per un controvalore di 800 milioni di euro, verso oltre 300 fatturatori tra privati e PA

Liliana Fratini Passi Direttore Generale Consorzio CBI

delle aziende o delle PA che hanno sottoscritto specifici accordi con il proprio Istituto di credito, con il CBILL basta collegarsi al proprio Internet banking per consultare e pagare bollettini e conti spesa di qualsiasi azienda e PA che abbia adottato il Servizio. CBILL inoltre consente il calcolo automatico dell’importo dovuto, anche dopo la scadenza del bollettino, funzionale ad esempio per chiudere la propria posizione debitoria relativa a un avviso di pagamento emesso da Equitalia (avvisi e cartelle di pagamento in caso di tributi, contributi e tasse non pagate). Il cittadino può quindi beneficiare di un servizio “intelligente” che gli consente in tutta autonomia di visualizzare e saldare l’esatto importo che risulta dovuto alla data dell’operazione. Numerosi anche i vantaggi per i Fatturatori, che con CBILL possono garantire maggiore valore all’utente, con una nuova modalità di pagamento semplice, veloce e sicura, migliorando anche la tempestività e la trasparenza delle informazioni erogate ai cittadini. E ancora, semplificazione dei processi di riconciliazione contabile, riduzione degli errori, riduzione dei tempi di riscossione, possibilità di raggiungimento di un maggior numero di utenti online, e infine di personalizzazione del servizio in funzione delle proprie specifiche esigenze.

p er u lt er i o r i i n f o rma zioni...

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Trasformazione digitale, la difficile (ma necessaria) arte di misurare i benefici Con un evento sul tema della valutazione degli investimenti tecnologici, Tesisquare ha inaugurato il ciclo di incontri Digital Performance Lab, che coinvolge clienti, esperti di settore e la società di advisory P4I. «L’obiettivo è discutere gli effetti della digitalizzazione sul business, divulgando casi di successo e distinguendo le vere best practice dai falsi miti», spiega il CEO Giuseppe Pacotto

La trasformazione digitale dei processi porta sicuramente benefici, ma come quantificarli, per giustificare gli investimenti in tecnologie, da parte sia dell’azienda utente sia del vendor che le propone? Per approfondire questo tema, TESISQUARE ha organizzato con il supporto di P4I-Partners4Innovations, società di consulenza e coaching, un percorso di incontri trimestrali riservati ai suoi clienti, chiamato “Digital Performance Lab”, che ha preso il via nella Tenuta di Eataly a Fontanafredda con l’evento “Metodi e strumenti per misurare i benefici dell’innovazione digitale”. «Progettando la giornata del ventennale di TESISQUARE, l’anno scorso, abbiamo pensato di confrontarci con clienti, esperti accademici e operatori con un ciclo di eventi sui temi oggi più sentiti nel settore ICT, come supply chain finance, digital factory, multicanalità nel Retail, collaborazione nelle supply chain», ha spiegato Giuseppe Pacotto, CEO della società. «L’obiettivo è discutere gli effetti | 68 |

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della digitalizzazione sul business, divulgando casi di successo, e distinguendo le vere innovazioni dai “rebranding” di tecnologie disponibili da anni, e le vere best practice dai falsi miti». Nel suo intervento di scenario, Raffaello Balocco, membro del Comitato Scientifico degli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano e docente dello stesso ateneo, ha poi ricordato che storicamente l’IT è sempre stata considerata attività di staff, cioè centro di costo non associato al valore generato dall’impresa. «Per questo è molto difficile progettare efficaci sistemi di MBO e Performance Management per quest’area». D’altra parte le tecnologie digitali sono sempre più pervasive e strategiche, «così da qualche anno negli Osservatori abbiamo iniziato a studiare come le aziende più avanzate, italiane e internazionali, misurano il valore di questi progetti e della funzione IT, scoprendo che si usano 4 tipi principali di KPI, Key Performance Indicator».


r e p or tage | T r as f or m az i one dig ita l e , l a dif f ic il e ( ma n e c e ssa ria ) a rt e di misura re i b e n e f ici

4 tipi di KPI: dalla disponibilità agli impatti sul business Il primo tipo è “basico” e si concentra sulla disponibilità dei sistemi per gli utenti finali. Il secondo, più evoluto, impiega metriche economiche di costo e investimento sia prima del progetto (ex ante) sia quando il sistema è operativo (ex post). Il terzo misura la qualità dei sistemi percepita dagli utenti finali, e infine il tipo di KPI più avanzato misura gli impatti dell’IT sul business, per esempio la crescita in un’azienda retail del tasso di rotazione scorte con un nuovo sistema di gestione del magazzino. «Questi KPI non sono totalmente sotto il controllo del CIO, ma lo allineano con gli altri manager su obiettivi di business. Per i CIO è un cambiamento epocale essere valutati non più solo sul rispetto di scadenze e costi, ma anche su indici legati ai risultati aziendali». Il problema è che non

è sempre facile definire relazioni causali affidabili tra progetti digitali e performance di business. «E non sempre la cultura aziendale facilita la collaborazione tra manager, soprattutto se questa non è promossa dal vertice». Oltre a valutare i sistemi digitali quando sono già operativi, occorre cercare di quantificarne i possibili benefici prima di implementarli. Per farlo si usano tecniche di valutazione “ex ante”, finanziarie o non finanziarie. Le prime si basano su attualizzazione dei flussi di cassa (DCF, per esempio il NPV) e calcolo della creazione di valore (EVA), le seconde (approcci strategici, metodi multi-attributo, ROI) si soffermano sugli impatti qualitativi. Le tecniche finanziarie sono oggettive e quantificano il valore economico, ma hanno il grande problema di tradurre in numeri i benefici intangibili («per esempio il fatto che l’amministratore delegato con un sistema di business intelligence decide prima e in modo più informato») o fortemente variabili a causa di scenari poco prevedibili. Sintetizzando, continua Balocco, in situazioni di bassa prevedibilità e rilevanza dell’investimento si preferiscono tecniche non finanziarie. Invece ogni volta che è possibile, soprattutto per progetti rilevanti, si usano tecniche DCF (in particolare NPV), preferibilmente modificate per tener conto degli aspetti qualitativi. Solo in alcuni casi si usa l’EVA, mentre è più diffusa la valutazione basata solo su stime dei costi, magari confrontata con benchmark. La “trappola del caso-base”: e se il progetto non si fa? È importante però che anche del “caso-base” la decisione di non investire e mantenere la situazione attuale - siano valutati costi e benefici: cosa succederà a tre anni se non introduco, per esempio, un sistema CRM o di Logistic Management? Le performance possono anche peggiorare fortemente. È un grave errore dare per scontato che tutto continuerà come ora, soprattutto nell’era della digitalizzazione, in cui le regole della competizione cambiano rapidamente. «Come Osservatori constatiamo che nella realtà quotidiana le misure, sia ex ante sia ex post, sono www.digital4executive.it

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reportage | Trasfor m az i one d i gi tal e , l a d i ffi cil e ( ma n e c e ssa ria ) a rt e di misura re i b e n e f ic i

Confrontare “sul campo” il sistema vecchio e il nuovo con test POC (“proof of concept”) fa percepire le differenze direttamente all’utente finale, propagando la consapevolezza dei benefici del digitale “dal basso”

poco diffuse, e la valutazione degli impatti dell’investimento sul business è limitata e coinvolge poco la direzione ICT, perché svolta per lo più dall’ufficio Amministrazione/Finanza e/o dagli utenti. Questa è anche una perdita di opportunità: provare a stimare l’impatto sul business di un sistema digitale obbliga a un processo che genera consapevolezza e collaborazione tra business e IT, il che è un ritorno “culturale” cruciale». «Per la prima volta un progetto IT può anche aumentare i ricavi» Nella fase finale dell’incontro, dedicata al dibattito, diversi interventi di clienti hanno evidenziato la prassi di valutare costi e benefici solo per gli investimenti innovativi “di business”, distinti da quelli “tecnici” per la continuità dei sistemi informativi. Gestire in modo diverso l’IT “di mantenimento” e l’IT “per l’innovazione”, pur con le

criticità di governance connesse, è un’esigenza sentita. È stata citata da molti anche la difficoltà di definire benefici direttamente connessi ai nuovi sistemi, rispetto ai risparmi ottenibili anche con i sistemi attuali, ottimizzando i processi. Una best practice in questo senso è “confrontare sul campo” il sistema vecchio e il nuovo grazie a test POC (“proof of concept”) che fanno percepire le differenze direttamente all’utente finale, diffondendo la consapevolezza dei benefici del digitale “dal basso”. L’opinione condivisa, comunque, è che nonostante le difficoltà vale la pena di impegnarsi a fondo per evidenziare i benefici del digitale. Come ha detto un cliente TESISQUARE del settore Retail, «con la digitalizzazione forse per la prima volta nella storia un progetto IT può produrre non solo riduzioni di costi, ma anche aumenti di ricavi, e questo davvero mette il CIO sul piano del business».

Nel secondo workshop, focus sul Supply Chain Finance Tra i molti benefici, la digitalizzazione consente alle PMI nelle supply chain industriali di accedere più facilmente al credito. Questo il principio del Supply Chain Finance (SCF), tema del secondo workshop dei Digital Performance Lab di TESISQUARE, tenutosi a Milano in settembre. «Per una PMI è difficile finanziarsi ricorrendo alle banche, che valutano la solvenza basandosi solo sui bilanci della singola impresa – ha detto Paolo Catti, Associate Partner di P4I -. Il SCF affronta il problema facendo leva sul digitale: da una parte la digitalizzazione dei processi mette a disposizione dati (operativi, di relazione con fornitori e clienti) che permettono rating più realistici, dall’altra le soluzioni SCF più avanzate, come Reverse Factoring evoluto o Dynamic Discounting, si basano su piattaforme digitali». Groupama ha poi raccontato la sua esperienza di fornitore di servizi SCF. «Abbiamo unito finanza e

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tecnologia per far interagire investitori istituzionali non bancari con le imprese del Made in Italy», ha spiegato Alberico Potenza, Managing Director Groupama Asset Management SGR. Così è nata Fifty che, come ha raccontato il Managing Partner Michele Ronchi, propone soluzioni SCF tramite una piattaforma digitale su tecnologie TESISQUARE che gestisce i processi di abilitazione delle imprese in cerca di fondi, e di finanziamento. Ma quali sono in numeri i benefici del SCF? Nell’ultima parte del workshop Daniele Marazzi, SCF Evangelist di Diemmenetwork, ha mostrato il caso vero di un fornitore tier 1 dell’automotive che ha proposto a 20 suoi fornitori un programma SCF con varie opzioni. Questi ultimi ricevono i pagamenti in tempi brevi, pagando tali “anticipi” a tassi molto minori di quelli bancari, mentre chi finanzia (l’assemblatore o un fondo di SCF) può ottenere rendimenti anche in doppia cifra.


reportage di

loris frezzato

Fujitsu: una Digital Transformation dal volto umano La tappa milanese del roadshow internazionale della multinazionale è stata l’occasione per fare il punto su strategie attuali e vision per il futuro. «La tecnologia è importante, ma l’innovazione deve tener conto delle esigenze delle persone, per restare “human centric”»

Bruno Sirletti presidente e amministratore delegato Fujitsu Italia

Anche quest’anno Milano è stata scelta come tappa per il roadshow internazionale di Fujitsu, che ha toccato 17 Paesi coinvolgendo 10.000 fra clienti e partner. La multinazionale nipponica ha condiviso la propria vision sul futuro, fatto il punto sul presente e definito gli ambiti delle proprie tecnologie, tutte mirate ad accompagnare le aziende in percorsi di Digital Transformation. «Siamo nel mezzo di una rivoluzione, che coinvolge aziende clienti, noi come vendor e i nostri partner - ha detto Bruno Sirletti, da qualche mese presidente e amministratore delegato Fujitsu Italia -. E la tecnologia è oggi in grado di dare tutta l’innovazione utile ai cambi di business model. È un percorso inarrestabile, le aziende devono intraprenderlo o rischiano di entrare in difficoltà. Fujitsu è tra i principali protagonisti del cambiamento, essendo sempre stata caratterizzata dall’innovatività e da un’innata capacità di rinnovarsi, grazie anche alla sua struttura, sempre più globale, con compartecipazione di competenze da tutto il mondo». Trasformazione di metodo focalizzata sulle persone Ma se la tecnologia è importante, l’innovazione deve continuare a tener conto delle esigenze delle persone, per ottenere quella “human centric innovation” che da tempo il vendor va professando. Una sfida che però non affronta da solo: a Milano è stata evidente la presenza dei partner, a partire da Intel, Partner Sponsor, seguita da altri brand tra cui NetApp, VMware, Cisco, Red Hat, ServiceNow, oltre a Microsoft, APC e Suse. «Nessuna

azienda può iniziare un percorso di innovazione da sola: molto meglio insieme», spiega Sirletti. «È un percorso che richiede tempi di risposta veloci, con i dati che diventano informazioni, utili per cambiare rotta rapidamente tramite processi gestiti da software». Fujitsu sta investendo molto in ricerca e sviluppo orientata all’innovazione: 2 miliardi di dollari su 40 di fatturato, che promuovono soprattutto la vocazione ai servizi, anche se sul fronte hardware, come ha evidenziato Emanuele Baldi, Channel Sales Director di Fujitsu Italia, «il giro d’affari degli Storage Eternus è cresciuto del 71%, quello delle workstation del 15% in valore, e quello dei server x86 del 9%. E per quest’anno vogliamo continuare nella crescita nei prodotti per il data center, attraverso le nostre piattaforme, da Primequest, sempre più in mano al canale, a Cloud for you». D’altronde il vendor ritiene ancora server e storage cruciali per la stabilità e e flessibilità stessa delle aziende, per ambiti come disaster recovery, sicurezza del cloud, protezione e analisi dei dati, virtualizzazione server. Altra priorità è il miglioramento della mobilità delle imprese, attraverso soluzioni capaci di valorizzare lavoro e produttività dei dipendenti in ogni momento e ovunque. Non è un caso che oggi gli interlocutori del vendor nipponico non siano più solo i CIO: «Le decisioni sulle infrastrutture, oggi, coinvolgono il dipartimento IT, le Line of Business, il livello direzionale – puntualizza Baldi - e i concetti di Software Defined e Hybrid Cloud ci offrono modalità nuove di arrivare alle aziende, perché toccano ambiti fuori dall’IT che sono coinvolti sempre più nella creazione e condivisione della conoscenza». www.digital4executive.it

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speciale “Managed Services”

PRES, Managed Services avanzati per un’IT sempre allineata al business

I sistemi IT e le infrastrutture di rete sono diventati ormai la spina dorsale del business. L’aspettativa comune è che piattaforme e connessioni siano sempre disponibili, come avviene ormai da un paio di secoli con la corrente elettrica. In caso di disservizi, infatti, la maggior parte delle organizzazioni non è più in grado di fornire i propri servizi ai clienti, non riesce a vendere i propri prodotti, non può fornire l’informazione richiesta, perché le applicazioni non sono accessibili. E quando questo accade, spesso la notizia sale alla ribalta della cronaca. Ecco perché le direzioni IT sono sempre più sotto pressione e hanno assunto un ruolo ormai strategico in azienda. «Un cambiamento che abbiamo vissuto in questi anni lavorando al fianco dei nostri clienti», conferma Giovanni De Giovanni, AD e fondatore di PRES, System Integrator che da oltre 25 anni progetta sistemi e infrastrutture ICT e si occupa della loro gestione ed evoluzione, un’azienda con oltre 100 dipendenti, più della metà tecnici, che continua a crescere a due cifre anno su anno. «Sempre di più siamo coinvolti nei progetti sin dalle fasi iniziali. Le competenze tecniche per l’integrazione delle tecnologie e le configurazioni di rete restano importantissime, ma la richiesta ora è di una consulenza per individuare le migliori soluzioni digitali che permettano ai clienti di raggiungere i propri obiettivi di business». Alcuni esempi? Le soluzioni di collaboration e telepresence, ovvero di videocomunicazione avanzata e ad alta definizione, o ancora progetti Internet of Things, dove vengono gestite reti di sensori di monitoraggio.

p er u lt er i o r i i n f o rma zioni...

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Sono sempre più numerose le aziende che affidano al System Integrator le attività di monitoraggio da remoto delle performance delle applicazioni e la gestione della sicurezza

giovanni de giovanni AD e fondatore PRES

Non solo: se in passato era importante la tempestività dell’intervento, per far sì che i sistemi fossero rapidamente “up&running” quando emergevano problemi, ora è fondamentale prevenire. Serve monitorare con costanza la situazione, analizzare i trend di consumo delle risorse, comprendere in anticipo gli interventi da effettuare affinché le tecnologie digitali possano seguire l’evoluzione del business senza creare intoppi. Per questo, PRES ha sviluppato un’articolata e modulare offerta di Managed Services, attraverso un NOC (Network Operating Center) ubicato a Rivoli (TO) da cui vengono forniti da remoto servizi di Monitoring avanzati, pensati per supportare i dipartimenti IT nell’attività quotidiana e liberare loro tempo da dedicare alle attività più strategiche, con il vantaggio di razionalizzare i costi, ridurre la complessità, garantire sicurezza e ottimizzare la user experience. Cresce la complessità dei data center «I sistemi IT sono diventati sempre più semplici dal punto di vista dell’utilizzatore finale, ma molto più complessi da gestire - prosegue De Giovanni -. Le aziende, e tanto più i colossi che sono sul mercato da molti anni, si ritrovano in casa tecnologie legacy e


speciale “Managed Services”

«Grazie all’analisi dei dati e alla conoscenza approfondita dei sistemi, siamo in grado di anticipare i trend e fornire una visione di lungo periodo»

data center progettati per essere utilizzati all’interno dell’organizzazione. Oggi questi sistemi vanno aperti al mondo esterno, per permettere che le informazioni siano disponibili in tempo reale ai clienti, attraverso il Web e le App: è un fattore competitivo importantissimo, ma comporta una grande sfida, che presenta rischi che vanno valutati attentamente. E tutto ciò sta avvenendo in tempi brevissimi: adeguare i Sistemi Informativi è un’operazione tipicamente pluriennale, mentre l’innovazione degli smartphone è velocissima». In questi anni, PRES ha aiutato molte importanti aziende ad affrontare questo percorso di trasformazione, supportandole sin dalla fase di definizione degli obiettivi strategici e di project management, fino alla fase di installazione e configurazione. Un punto d’eccellenza di PRES è l’intensa attività di formazione e certificazione, che vede i progettisti impegnati anche come docenti dei Learning center di PRES, a garanzia di un costante aggiornamento sulle nuove tecnologie. Monitoraggio costante di performance e sicurezza «Sempre più clienti ci chiedono di supportarli nella gestione dell’operatività quotidiana, quelle attività

day to day che sono fondamentali per mantenere il totale controllo della rete e monitorare le performance. Questa attività di remote monitoring negli anni è molto cresciuta. Oggi, grazie all’analisi dei dati e alla conoscenza approfondita dei sistemi, siamo in grado di anticipare i trend e le evoluzioni future, fornendo una visione di lungo periodo e una previsione dell’impatto sulle risorse: riusciamo cioè a essere proattivi. Al cliente forniamo una dettagliata reportistica mensile e trimestrale, che permette di prendere decisioni tempestive e focalizzare gli investimenti laddove si rende necessario. È importante valutare la situazione anche quando va tutto bene, non solo quando ci sono emergenze da affrontare». La security, in particolare, è fra i servizi più richiesti, perché i rischi sono in aumento e l’apertura dei sistemi informativi verso l’esterno ha cambiato radicalmente il concetto di protezione. «L’epoca dell’antivirus, del firewall e della sicurezza perimetrale è finita: i sistemi di attacco sono sempre più sofisticati. Per prevenirli servono persone in grado di comprendere quello che sta succedendo nella rete e intervenire in modo mirato. PRES supporta e accompagna le aziende nella trasformazione digitale e la security ne è un elemento centrale».

L’IT, il vero motore del business Chi si occupa di IT in azienda ricopre un ruolo sempre più strategico. I progetti di crescita hanno alla base piattaforme e servizi innovativi in grado di informatizzare processi e migliorare la produttività. Per questo i CIO siedono ai tavoli decisionali e sono protagonisti del successo di imprese e organizzazioni. Mai come oggi è fondamentale consentire al personale IT di liberarsi delle attività operative per contribuire al raggiungimento degli obiettivi di business. I Managed Services PRES rispondono a queste esigenze e consentono di accrescere le performance, ottimizzare i costi, abbattere i rischi e liberare risorse. In totale sicurezza. • Monitoring & Alerting (Infrastracture maps, Visualizzazione traffico, Correlazione eventi) • Device Management (Configuration, Version, Change, Statistics, Accounting) • Application Management (Application performance control) • Security Management (Security compliance, Risk management, Event and log management)

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intervista

Emilio Baselice

La trasformazione digitale nel B2B: come, quando e perché secondo Intesa

direttore generale Intesa, Gruppo IBM

Per distinguersi nell’offerta di soluzioni per la digitalizzazione, l’impresa del Gruppo IBM punta su 30 anni di gestione elettronica delle supply chain, che hanno generato competenze su una vasta gamma di processi. «Supportiamo i progetti digitali dei clienti in modo operativo, ma non tocchiamo i sistemi legacy: creiamo un substrato che acquisisce le informazioni e le restituisce dopo averle elaborate»

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Moltissime organizzazioni private e pubbliche sono alle prese con la trasformazione digitale, e hanno quindi bisogno di partner a cui appoggiarsi in questo complesso percorso. Intesa, azienda del Gruppo IBM, si distingue dal gran numero di operatori che offrono tecnologie e servizi a supporto della trasformazione, puntando su un’esperienza trentennale nella digitalizzazione dei processi end to end. «Intesa è partita nel 1987 dall’EDI, dalla gestione degli scambi nelle supply chain di tutti i principali documenti dall’ordine fino alla fattura - spiega il direttore generale Emilio Baselice -. Con il tempo poi abbiamo sviluppato competenze su una vasta gamma di processi, e quindi la capacità di supportare i clienti in tutte le fasi della trasformazione digitale».

ma anche i processi interni, perché le persone, sia come consumatori sia come utenti aziendali, si aspettano appunto di partecipare ai processi e ricevere servizi tramite pc, smartphone, tablet e software. Inoltre il digitale ha abbattuto le barriere all’ingresso in molti mercati, e cresce fortemente per i fornitori il problema di proteggere la base clienti. 15 anni fa sarebbe stato impossibile per una startup sottrarre rapidamente grandi fette di mercato ai player consolidati. Invece negli ultimi tempi abbiamo visto tanti casi del genere, un esempio è Whatsapp, che di fatto si è appropriata del mercato SMS sottraendolo alle Telco. Per questi motivi moltissime imprese sono soggette in tutti i settori a forti pressioni per avviare la trasformazione digitale.

Perché le organizzazioni devono muoversi subito nell’avviare un percorso di digitalizzazione? Siamo in piena trasformazione, l’accesso ai servizi e la loro fruizione ormai avviene in modalità digitale e le imprese devono adeguare le offerte verso l’esterno,

Quali sono gli elementi più importanti di cui tenere conto in questo percorso? Un primo punto di attenzione è il contesto di norme a cui occorre essere conformi. Sempre più queste normative hanno origine a livello europeo e poi validità au-

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intervista | La trasformazione digitale nel B2B: come, quando e perché secondo Intesa

«Uno dei fattori decisivi nella trasformazione digitale è quello umano. In un passaggio epocale come questo, è cruciale che le persone siano predisposte per i cambiamenti, li interpretino e li sostengano: in particolare chi nelle aziende è a capo dei processi» tomatica nei singoli paesi, si pensi per esempio a eIDAS. Poi è necessario avere un approccio per processo: i processi tradizionali vanno reingegnerizzati uno a uno, per sfruttare tutte le potenzialità del digitale. Ma il tutto va condotto con una regia coordinata, per capitalizzare le sinergie e gli automatismi tra l’uno e l’altro. E questo non solo per i processi di back-end, ma anche per quelli rivolti all’esterno, verso l’ecosistema di partner, fornitori e clienti. Altro elemento decisivo è il capitale umano. In un passaggio epocale come questo, è cruciale che le persone siano predisposte per i cambiamenti, che se ne rendano interpreti e che li sostengano, in particolare le persone che nelle aziende sono a capo dei processi. Ogni settore ha le sue peculiarità, ma ci sono dei benefici della trasformazione digitale che sono percepibili da tutte le organizzazioni? Innanzitutto c’è il controllo in real time, che diventa possibile grazie alla disponibilità di informazioni a loro volta in tempo reale e alla velocità dei sistemi di analytics, sempre più proiettati verso il cognitive computing, cioè l’interpretazione dei dati con capacità addirittura predittive. Ciò chiaramente permette decisioni molto più consapevoli, e anche più veloci. Altro vantaggio è il time-to-market, cioè la capacità di intercettare in anticipo le esigenze dei clienti e tradurle in nuovi prodotti e servizi, o in modifiche di quelli esistenti. Ma anche quello che si può definire l’“how-to-market”. Nel momento in cui trasformo l’azienda e i processi, e sono in grado di erogare servizi in modalità digitale, posso metterli a disposizione del cliente nelle modalità che preferisce e si aspetta. Infine, ovviamente, c’è un impatto economico primario: il digitale semplifica la struttura dei costi e abbatte la componente “capex”. Quali sono i punti di forza su cui fa leva Intesa per distinguersi nel panorama dell’offerta di servizi e soluzioni per la digitalizzazione? La storia di Intesa inizia con l’EDI e poi evolve nel tempo con lo sviluppo di servizi e soluzioni per abilitare l’interscambio e la digitalizzazione in sicurezza di tutti i documenti e processi in molti settori: Manifatturiero, Automotive, Distribuzione, Utility, Trasporti, Banche e Assicurazioni, Sanità. Eroghiamo i servizi attraverso la nostra infrastruttura in modalità as-a-service, anche in Cloud. Come dicevo, avendo sviluppato competenze su

una vasta gamma di processi, il nostro approccio prevede di supportare i clienti in modalità molto operativa in tutte le fasi della trasformazione digitale. Guardiamo i processi del cliente, e li ridefiniamo in modalità digitale, con un approccio molto “light”. Non interveniamo sui sistemi legacy del cliente, ma creiamo un substrato che acquisisce le informazioni da tali sistemi e a loro li restituisce dopo averli elaborati. In questo modo si riesce a supportare la trasformazione digitale in tempi molto rapidi e con modalità molto granulare. Inoltre altri due elementi cruciali del posizionamento di Intesa. Il primo è la garanzia del rispetto della normativa: tutti i nostri servizi e soluzioni si basano su un’infrastruttura conforme alle più recenti normative europee. L’altro è la conoscenza e la competenza nella gestione delle nuove tecnologie, che negli anni ci ha consentito di sviluppare e offrire ai nostri clienti soluzioni innovative basate sulle tecnologie di firma, conservazione, gestione e trasformazione dei flussi informativi, e gli elementi legati al workflow documentale. Può fare degli esempi concreti di progetti in cui avete aiutato i clienti nella digitalizzazione dei processi? Un esempio è la digitalizzazione del documento di trasporto (DDT), dove l’elemento a valore che portiamo è la certificazione del tracciamento, in modo che ogni parte del processo di trasporto sia portata in conservazione e opponibile anche di fronte alla legge. La merce viaggia senza documenti cartacei, e sempre geo localizzata. Un altro esempio è la digitalizzazione delle officine nel settore auto. Intesa sta aiutando un cliente importante ad acquisire l’ordine di lavorazione nell’officina in modalità totalmente digitale. Questo consente un controllo e un’organizzazione del lavoro ottimale e anche una trasparenza nei confronti del cliente finale rispetto alle lavorazioni effettuate. Anche in ambito bancario siamo molto presenti, aiutiamo le principali banche italiane nella digitalizzazione della filiale e nel rapporto con l’utente finale. Altro progetto applicabile in diversi settori – banche, assicurazioni, utility - è la contrattualizzazione in modalità digitale, cioè via web, con tecnologie avanzate di riconoscimento dell’utente. Praticamente si azzera il gap tra il momento in cui il cliente accetta un servizio e quello in cui lo formalizza con la firma, e quindi si elimina il fenomeno della caduta dei contratti rispetto alle adesioni. www.digital4executive.it

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reportage di

Domenico Aliperto

Sap Forum: interpretare i dati di IoT e clienti per reimmaginare il business All’evento milanese dedicato ai clienti e ai partner del colosso del software sono andate in scena le soluzioni che aiuteranno le aziende ad affrontare gradualmente la trasformazione digitale. L’AD Luisa Arienti: «Arricchiremo il portafoglio sia con alleanze strategiche, sia con acquisizioni mirate. Come quella, appena conclusa, dell’italiana Plat.One»

A riflettere il pay off dell’edizione 2016 del SAP Forum - intitolato “Reimagine business for the digital economy” – sono le decine di imprese che hanno partecipato all’evento e che con le soluzioni del colosso tedesco e dei suoi partner stanno attivando processi di trasformazione. Uno dei messaggi chiave dalle varie sessioni è la gradualità del cambiamento, che deve andare di pari passo con l’adozione dei nuovi strumenti e funzionalità, a partire da aree specifiche per poi contaminare tutta l’organizzazione. un Piano da 2 miliardi per l’IoT L’altra parola d’ordine dell’evento è stata Internet of Things. SAP non può prescindere da ciò che sta diventando il cuore di qualsiasi strategia industriale e commerciale basata sull’analisi dei dati. «Sull’IoT abbiamo un piano di investimenti quinquennale da due miliardi di euro», spiega la numero uno di SAP Italia Luisa Arienti alla conferenza stampa dell’even| 76 |

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to. «L’obiettivo è trarre il massimo beneficio dalla mole di dati che sta per travolgerci. BCG prevede un giro d’affari da 250 miliardi di dollari entro il 2020, ma parliamo di un mercato i cui confini sono difficili da immaginare, con potenzialità incredibili. La piattaforma Hana è il fulcro della nostra strategia, che passerà comunque dallo sviluppo di nuove soluzioni in area IoT e da una serie di proposizioni cross-industry ma ben radicate negli oltre 40 anni di esperienza maturati nei singoli settori». SAP sta anche dando vita a una rete di 6 centri di innovazione in tutto il mondo, che ci permetteranno di lavorare con clienti, partner, startup e università. Arricchiremo il nostro portafoglio con alleanze strategiche e con acquisizioni mirate, anche in Italia: nel nostro Paese ci sono straordinari esempi di innovazione». Uno di questi è Plat.One, startup genovese fondata da Filippo Muroni la cui specializzazione nelle piattaforme Machine-to-machine (M2M) ha fatto breccia nella divisione SAP che fa scouting in Cali-


r e p or tage | S ap F or u m : in t e rp re ta re i dat i di I o T e c l ie n t i p e r re immag in a re il b us in ess

Muroni. «Connettere le nuove sorgenti IoT di dati darà ulteriori possibilità di ottenere informazioni cruciali per migliorare le decisioni». Occorre creare una “gemella digitale” dell’impresa

fornia. «Plat.One, a differenza di molte startup, ha alle spalle una storia dianni, ma soprattutto un prodotto già disponibile, costruito sull’esperienza fatta anche nell’ambito del CAD e della robotica e in grado di adattarsi a protocolli e macchine legacy», spiega Muroni. Una soluzione evoluta da semplice connettore di device e applicazioni a stack IoT completo, cioè una piattaforma end-to-end che abilita la trasformazione di dati grezzi in informazioni utili per monitorare le attività – dagli stabilimenti, alle flotte, fino alle smart city – e individuare nuovi modelli di business o modalità di efficientamento di produzione, logistica e organizzazione. «Andiamo verso un mondo in cui alla produzione di massa si sostituiranno referenze customizzate: scalare velocemente questi processi può portare a sbagliare e quindi un altro tema cruciale è lo sviluppo della capacità di predire o contenere gli errori. La tecnologia di SAP è inserita nei processi e nella gestione dei sistemi backend di una base clienti importante», sottolinea

Ma non di solo IoT vivono le imprese. Conoscere il contesto in cui si opera è la base del successo di qualsiasi modello di business. Un esempio citato da Carlos Diaz, VP Innovation EMEA South di SAP, è il contributo dell’analisi delle variazioni climatiche e della combinazione degli effetti del meteo sul territorio nel settore assicurativo per ottimizzare l’offerta su una specifica area geografica. «Occorre dar vita a un vero e proprio gemello digitale dell’impresa che monitori elementi fino a poco tempo fa considerati imponderabili nel business», spiega Diaz. Parlando di Customer behaviour, invece, Ivano Fossati, Director EMEA Center of Excellence Customer Engagement & Commerce di SAP Hybris, ha raccontato come contestualizzare l’esperienza del consumatore in base al modello delle “4 P”. «Un’impresa deve sapere come ha interagito in passato con i clienti, ascoltare cosa dicono pubblicamente dei suoi marchi, adottare modelli predittivi per capire come predisporre l’offerta, e soprattutto agire tenendo conto della situazione presente». Fossati cita per esempio Blue Tomato, distributore di articoli sportivi, che ha puntato su gamification e social network per spingere i clienti a coinvolgere gli amici in attività che si traducono in voucher da spendere in negozio. «Il risultato? Le presenze sono aumentate del 17%», continua Fossati. «Aggiungendo le competenze di upselling di un bravo store manager, le vendite possono aumentare molto di più. Under Armour invece punta a superare Nike nello sportswear anche grazie all’acquisizione di MyFitnessPal (portale per il monitoraggio dell’attività fisica, ndr) per accedere a una miniera di dati che servono a conoscere meglio i clienti e abilitare nuove alleanze e modelli di business in ambito assicurativo: in base allo stile di vita, le compagnie possono definire offerte personalizzate anche nel prezzo». Per Fossati l’elemento differenziante tra chi ha già compiuto il salto e chi è ancora in attesa è la maturità digitale delle organizzazioni. «Ma sconsigliamo in ogni caso un approccio Big bang al cambiamento, che rischia di produrre più danni che benefici. Meglio procedere con dei trial, coinvolgendo pochi silos alla volta, e utilizzarli per capire come l’organizzazione reagisce ai nuovi strumenti». www.digital4executive.it

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reportage di

Laura zanotti

Collaboration 3.0: scenari di scambio e comunicazione nell’era digitale La totalità delle imprese usa l’email per inviare e ricevere informazioni e documenti, ma il 44% è interessato a valutare soluzioni alternative all’insegna del social business e di una nuova dimensione della cooperazione sul lavoro. Lo rivela un’indagine condotta da NetworkDigital4 in collaborazione con Top Consult

Condivisione e collaborazione tra le aziende: a che punto siamo in Italia? Visto che per il 99% delle aziende oggi l’email è lo strumento principale per scambiare informazioni, la risposta sembra ovvia. Eppure sono molte le aziende pronte a immaginarsi senza posta elettronica. È una delle principali evidenze di un’indagine esclusiva condotta da NetworkDigital4 in collaborazione con Top Consult, presentata a Milano in un evento intitolato proprio “Immagina un’azienda senza email”. A partecipare un nutrito pubblico di manager, interessati a capire come gestire in modo più funzionale i workflow aziendali che si ramificano in tali e tanti canali e soluzioni da rendere difficile il controllo, ma anche e soprattutto lo sviluppo di modelli allineati all’evoluzione del lavoro e della comunicazione. Le tecnologie digitali, infatti, stanno favorendo una nuova cultura del dato: velocità, accessibilità, fruibilità e condivisione sono i quattro assi da cui nessun tipo di comunicazione può prescindere. | 78 |

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«Trainata dai consumatori, la digital trasformation delle aziende è un processo in atto da tempo - ha spiegato Stefano Mainetti, Responsabile Scientifico dell’Osservatorio Application Governance del Politecnico di Milano -. Fino all’arrivo dei millennial, i dipendenti usavano la tecnologia fortemente spronati dall’azienda, che sceglieva gli strumenti e faceva formazione. Non solo: il lavoro era organizzato in silos in cui ciascuno gestiva le proprie attività in modo indipendente, con una logica ad alveare e una gerarchia intrinseca. Oggi questi e altri retaggi organizzativi sono in discussione, perché non corrispondono più a ciò che succede dentro e fuori il business». Come e perché la collaboration è la chiave per il successo aziendale Oggi la collaborazione è un nuovo “abito mentale”: riguarda ormai svariati ambiti ed è entrata


r e p or tage | Col l abor at io n 3 . 0 : sc e n a ri di sc a mb io e c o mun ic a z io n e n e l l’ e ra dig itale

dotto in azienda una varietà di flussi comunicativi di difficile tracciabilità e capitalizzazione. Oggi è quasi impossibile misurare e rendere efficienti i processi, e c’è uno scarsissimo livello di comunicazione e condivisione delle informazioni tra diverse unità organizzative. Dalle indagini degli Osservatori del Politecnico di Milano emerge come le aziende perdano moltissimo tempo a ricercare o ricreare informazioni già presenti e accusino serie difficoltà nel monitorare lo stato di avanzamento dei processi». Le 3 T della condivisione: trasparenza, tracciabilità, tecnologia

a far parte di un nuovo approccio al lavoro. La produttività individuale è potenziata da un’esperienza d’uso amplificata dai mobile device, in primi smartphone e tablet, che hanno portato nelle aziende una multicanalità “dal basso”. La consumerizzazione e la pervasività dell’IT da un lato hanno velocizzato il business, dall’altro hanno cambiato il modo di lavorare. Sono nate nuove applicazioni che hanno rinnovato le modalità di scambio, a seguito del proliferare dei social media come Whatsapp o Skype, per citare solo i più noti. La mail, però, rimane lo strumento principe della comunicazione, con il doppio ruolo di contatto e repository per qualsiasi tipo di file. Il tutto, in modo alquanto destrutturato e, soprattutto, chiuso nel computer di ogni utente. «L’uso indiscriminato dell’email ha un impatto significativo sulle aziende - ha proseguito Mainetti -. Uno dei driver che ha condotto le organizzazioni a questo punto è il lavoro in mobilità, che ha intro-

In questo contesto, prendere decisioni non è facile perché manca un coordinamento informativo. Chi gestisce l’IT si trova a un bivio: come favorire la comunicazione e la collaborazione, riuscendo a gestire processi strutturati e organizzati in modo gerarchico dall’inizio alla fine? Come favorire l’intelligenza collettiva aziendale, stimolando il lavoro e la produttività dei singoli evitando ridondanze, confusione e perdita di informazioni? In ogni azienda, infatti, ci sono processi decisionali e attività non predefinibili, che dipendono dal singolo caso e sono difficilmente standardizzabili. Sempre più spesso alcuni flussi di lavoro prevedono il contributo di specialisti di diverse LOB (Line of Business) che, comunque, prevedono intense relazioni collaborative, spesso trasversali alle diverse unità. In ogni azienda c’è quindi una metacomunicazione fatta di sottoprocessi decisionali e collaborativi che, non essendo tracciati, portano a un’opacità nella filiera. Basti pensare al caso di un processo di vendita in cui, per un malinteso in una telefonata tra il commerciale e il cliente, la pratica rimanga bloccata: il ciclo non si conclude per un motivo che sfugge alla direzione. Collaborazione significa organizzazione, condivisione e, soprattutto, massima trasparenza informativa. Occorre predisporre soluzioni tecnologiche adeguate in cui convergano office automation, gestione documentale, sistemi gestionali e tutto l’insieme di strumenti di comunicazione e di collaborazione utilizzati da colleghi, dipendenti, collaboratori, partner e clienti. «I processi decisionali oggi sono legati alla cowww.digital4executive.it

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reportage | Coll abor at i on 3 .0 : s c e nar i d i s c am b io e c o mun ic a z io n e n e l l’ e ra dig ita l e Da sinistra: Stefano Mainetti, Responsabile Scientifico dell’Osservatorio Application Governance del Politecnico di Milano, e Pier Luigi Zaffagnini, CEO di Top Consult

noscenza. Sviluppare conoscenza è il risultato di un processo collaborativo - ha sottolineato all’evento Pier Luigi Zaffagnini, CEO di Top Consult -. Condividere informazioni e connettersi con i colleghi è cruciale per supportare il business. La nostra lunga esperienza nella gestione documentale non solo ci ha permesso di affiancare in questo percorso centinaia di realtà ma ci ha dato la capacità di capire l’evoluzione degli utenti e anticipare il maturare di nuove esigenze. Grazie a questo abbiamo messo a punto una soluzione di Collaboration 3.0. TopMedia Social NED, che mette a fattor comune tutti gli aspetti di condivisione delle informazioni e dei contenuti legati alla nuova dimensione multicanale della comunicazione. Il punto di forza è la possibilità di centralizzare i workflow strutturati e destrutturati, introducendo funzionalità di office automation che includono coediting, self service analytics, archiviazione personale e integrazione con i sistemi gestionali, il tutto con un approccio molto intuitivo, con scambio drag & drop dei file condivisi». L’impostazione in chiave social della piattaforma prevede una bacheca principale e una serie di funzionalità attivabili creando gruppi di lavoro che includono gli interlocutori di uno o più processi aziendali, interni ed esterni all’azienda. Il tutto evitando la moltiplicazione dei messaggi, la ridondanza dei documenti, la dispersione delle informazioni, la mancanza di visibilità su aspetti chiave della comunicazione strutturata o destrutturata. «Così la Collaboration diventa davvero 3.0, guadagnando in flessibilità e velocità, favorendo la conoscenza collettiva aziendale», osserva Zaffagnini. Ma le aziende sono pronte alla Collaboration 3.0? Il passaggio a una nuova forma di collaborazione in chiave social risponde alle esigenze del mercato. Lo confermano i dati della survey condotta dagli analisti di NetworkDigital4, in collaborazione con | 80 |

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Top Consult, su un campione di 80 aziende di medie e grandi dimensioni operanti in tutti i settori, e mirata a capire quali strumenti si usano per lo scambio delle informazioni in azienda e quali invece si usano per la condivisione di documenti, immagini, file audio e video e progetti. Il cardine della comunicazione aziendale è la mail, con il 99% delle risposte, seguito dalla riunione classica (63%), dal telefono (40%) e da servizi di chat interni (25%). Solo il 23% del campione utilizza una piattaforma di video-collaboration e solo il 9% fa call online con soluzioni tipo Skype. Un altro tema emerso dall’indagine è il problema dell’accessibilità ai documenti aziendali. La multicanalità sembra ancora un miraggio: solo il 17% delle imprese intervistate consente l’accesso ai contenuti da pc o da notebook aziendale e/o personale, così come da smartphone e tablet. Questo, a fronte del fatto che per tutti gli utenti poter accedere a dati e informazioni da qualsiasi dispositivo, che si tratti di pc, notebook, smartphone o tablet, resta tuttora difficoltoso. La ricerca evidenzia come le imprese italiane si trovino a un bivio, con dipendenti e collaboratori che portano soluzioni e le diffondono “dal basso”, generando trend come l’utilizzo promiscuo di soluzioni tipo WeTransfer per lo scambio di documenti più pesanti (35% delle aziende). Solo il 23% del panel utilizza una piattaforma collaborativa più evoluta. A fronte di questo, il 34% delle aziende esprime l’esigenza di rimuovere la rigidità dei workflow aziendali per sostituirli con soluzioni collaborative che bypassino la posta elettronica. L’esigenza degli utenti di essere veloci, ma anche di poter intervenire in modo tempestivo e proattivo in progetti e comunicazioni che sono sempre più spesso lavori a più mani, porta quindi le organizzazioni dal non poter più fare a meno di soluzioni di collaborazione capaci di ridurre drasticamente la quantità di mail generate dallo scambio di informazioni aziendali. Lo conferma il 44% delle imprese intervistate. A fronte di un 15% di no, il 40% del panel ri-


r e p or tage | Col l abor at io n 3 . 0 : sc e n a ri di sc a mb io e c o mun ic a z io n e n e l l’ e ra dig itale

sponde di non aver mai valutato questa opzione. La risposta ha una sua chiave di interpretazione: i CIO, infatti, sono alle prese con una pluralità di cambiamenti tecnologici, e con budget sempre più contenuti. Nella scala delle priorità, la complessità dei workflow non sembra ancora una criticità. Valutare la possibilità di centralizzare e razionalizzare i workflow informativi, tramite un’unica piattaforma, fa parte di un percorso di maturità a livello di governance. Da sempre infatti l’IT si è mosso attraverso una crescita addizionale di soluzioni e sistemi (sia hardware che software) preposti a svolgere una o più attività. Solo quando l’azienda arriva alla soglia critica di un’eterogeneità tale da rendere difficile il governo, si innesca un processo di centralizzazione e di razionalizzazione. Con la comunicazione e lo scambio delle informazioni si sta prendendo coscienza del fatto che si è arrivati a un punto critico della governance. La collaboration 3.0 raccontata da chi la fa «C’è un’energia che va liberata all’interno dell’azienda - ha commentato Adriano Braghieri, General Manager di GEA, società specializzata in sistemi di disinfestazione e monitoraggio degli infestanti delle derrate e degli ambienti -, e per farlo è fondamentale contare su una piattaforma di comunicazione di nuova concezione. Abbiamo introdotto un sistema di collaborazione per gestire le informazioni in modo snello e veloce. Grazie alla soluzione di Top Consult, oggi i dati sono di proprietà dell’azienda ed è più immediato capire quello che succede. Questo ci ha costretti a scardinare antiche abitudini, ma la contropartita è stata l’efficienza e velocità nella gestione dei progetti (in gran parte gestione delle commesse). In più c’è il fatto che, lavorando anche come subfornitori di grandi aziende multinazionali, avevamo necessità di comunicazione e trasparenza. Proprio per questo abbiamo deciso di passare a una

nuova modalità di gestione in chiave 3.0. Oggi non vedo alternative: il futuro del business è questo». Grazie ai sistemi di collaborazione di nuova generazione, chi fa parte del gruppo può lavorare su un unico documento sempre aggiornato, contando su meccanismi che tengono conto del work in progress delle revisioni e di nuove modalità di sicurezza che risolvono il problema delle password ed eliminano le code delle notifiche per dare da un unico cruscotto condiviso il quadro delle attività, oltre alla sezione delle chat per lo scambio delle informazioni e degli aggiornamenti. «Per la nostra organizzazione il percorso è stato analogo - ha raccontato Angelo Cantoni, Consulente Informatico di DIGILAN, società che gestisce 27 cooperative per un totale di oltre 4500 dipendenti -. Spesso avevamo il problema del filtering per cui non si ricevevano email importanti, e l’abuso della posta elettronica ci ha obbligato a imporre una policy che prevede l’inserimento per ogni invio al massimo di 3 o 4 persone per conoscenza. In media ognuno di noi riceveva 150 email al giorno: eravamo arrivati a una situazione ingestibile. La piattaforma di Top Consult non solo ha risolto la gestione di moltissimi workflow ma, per le attività trasversali in cui è fondamentale il brainstorming, ha portato massima trasparenza e condivisione delle informazioni». Ieri il problema della conoscenza implicita e di quella esplicita faceva parte dei problemi del knowledge management aziendale. Oggi, grazie alle tecnologie digitali, a nuovi livelli di integrazione e a una maturità degli utenti verso forme di comunicazione innovative, è possibile integrare il social business all’interno delle aziende e favorire la produttività individuale attraverso uno Smart Working di nuova generazione. E a conferma di questo, il 29% del campione intervistato conferma di voler valutare l’utilizzo di una piattaforma collaborativa che elimini l’uso delle mail attraverso la creazione di gruppi di lavoro che condividono qualsiasi tipo di informazione e di file in modalità multicanale. Da sinistra: Adriano Braghieri, General Manager di GEA, e Angelo Cantoni, Consulente Informatico di DIGILAN

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intervista

Al MIP un MBA fuori dagli schemi. Ed è boom di studenti La Business School del Politecnico di Milano ha ideato un nuovo format per il Master in Business Administration, coinvolgendo oltre 30 imprese prestigiose nel percorso formativo, che comprende bootcamp, eLearning e modelli di engagement accattivanti per i giovani talenti. Risultato: 58 iscritti da 28 paesi, in crescita del 60%

In un mondo sempre più globale e digitale, anche la formazione manageriale deve ripensare il suo ruolo. Non fanno eccezione i Master in Business Administration, corsi post laurea frequentati da giovani di talento che ambiscono ad accelerare la carriera professionale. Il percorso è impegnativo, e non solo per le ore di studio e per l’investimento economico: frequentare un MBA implica un periodo di sospensione dell’attività lavorativa e, sempre più spesso, il trasferimento in una nuova città o in un’altra nazione. In questi ultimi anni, la scarsa crescita economica nei Paesi occidentali ha causato un calo di studenti, come evidenza un recente articolo del Financial Times, un trend che lascia illesi solo gli atenei più prestigiosi, ai primi posti nei ranking internazionali. In questo quadro spicca il successo del Master MBA Full Time di MIP Politecnico Milano, che quest’anno ha registrato una crescita del 60%. La Business School, che sin dalla nascita ha puntato sui temi dell’innovazione, ha saputo rinnovarsi e superare il modello tradizionale dell’aula e della lezione frontale, creando un forte | 82 |

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legame con le aziende, interpretando le nuove esigenze e incontrando così il gradimento degli studenti, che arrivano da tutto il mondo. Ne parliamo con Raffaello Balocco, direttore del Master, e Greta Maiocchi, Head of Marketing & Recruitment. Questo è un anno da record per la Business School. Chi sono i manager del futuro che hanno scelto il Politecnico? Greta Maiocchi: la nuova edizione del Master parte con 58 iscritti, selezionati come idonei fra le candidature: hanno in media 30 anni, il 40% sono donne e il 60% uomini. Solo 18 sono italiani: gli altri provengono da 26 Paesi, tra i quali Brasile, Canada, Cina, Costa Rica, India, Perù, Russia, Stati Uniti , Svezia e Turchia. Siamo molto soddisfatti: siamo riusciti a creare un nuovo programma molto diverso dal precedente, più aderente alle attese delle aziende e degli studenti manager del futuro, a cui vogliamo offrire gli strumenti per affrontare problemi trasversali, multidimensionali e complessi che


intervista | Al MIP un MBA fuori dagli schemi. Ed è boom di studenti

Raffaello Balocco

caratterizzano gli attuali contesti di business. Abbiamo ripensato il format in un’ottica esperienziale, quasi come se dovessimo lanciare una startup, coinvolgendo da subito un nutrito gruppo di imprese nel percorso formativo, e alleggerendo il carico delle trasferte grazie a una piattaforma di eLearning. Quali novità caratterizzano il nuovo format? Raffaello Balocco: l’elemento più innovativo è sicuramente il coinvolgimento delle imprese partner prima della partenza del programma. Abbiamo ribaltato l’approccio tradizionale, che vede gli studenti entrare in contatto con le aziende quando devono preparare il project work finale. La ricerca è iniziata un anno prima dell’inizio del corso e grazie alla vasta rete di relazioni che abbiamo creato in questi anni abbiamo siglato partnership con 30 prestigiose aziende, fra le più innovative, fra cui Allianz, Amazon, Barilla, Enel, IBM, Microsoft, OTB-Diesel, Pirelli, Telecom-TIM, Boston Consulting Group, vente-privee, Vodafone, Whirlpool, solo per citarne alcune. Il loro early involvement ha aumentato l’attrattività del corso. Le aziende partner sono parte attiva del programma sin dall’inizio attraverso eventi di networking, business seminar, attività di mentorship e progetti sviluppati in collaborazione con i partecipanti al Master. Inoltre abbiamo ridotto la durata del corso da 15 a 12 mesi, e nei primi due le lezioni possono essere seguite da casa grazie alla piattaforma di smart learning che MIP ha sviluppato tre anni fa con Microsoft. In questo modo il corso diventa meno oneroso per gli studenti, che riducono il periodo di allontanamento dal lavoro e il costo della trasferta. Un’altra significativa novità sono i management bootcamp: un format innovativo, molto esperienziale, sui temi di frontiera che saranno le sfide future delle aziende: per esempio smart manufacturing, lusso e design, sostenibilità ed etica nel business, globalizzazione. Ai bootcamp partecipano le aziende partner e portano le loro testimonianze. Non va poi dimenticata la partnership con WOBI, che permette ai nostri studenti di partecipare gratuitamente all’evento annuo di due giorni che si tiene a novembre a Milano, e, in alcuni casi, anche di incontrare personalmente gli speaker, personaggi di primo piano nel panorama mondiale, interagendo con loro grazie al ruolo di assistant Quali sono i vantaggi per le aziende partner? Raffaello Balocco: innanzitutto migliorano l’Employer branding, diventano cioè più attrattive per i talenti, e oggi avere in azienda persone competenti e brillanti è un grandissimo valore. Più in generale, i partner hanno un beneficio di immagine perché associano il loro brand a una scuola di management focalizzata

direttore del Master

Greta Maiocchi Head of Marketing & Recruitment

sull’innovazione. C’è poi un secondo importante vantaggio: partecipando agli incontri in aula, i manager delle aziende hanno un contatto diretto con gli studenti, possono approfondire la conoscenza e avere più elementi per scegliere se assumerli o meno. Quali canali avete utilizzato per far conoscere il nuovo MBA e raccogliere le application? Greta Maiocchi: abbiamo sperimentato con successo un modello innovativo di engagement degli studenti di talento, usando come canale principale per la promozione un blog: growingleader.com. Sono stati sviluppati contenuti mirati, in particolare una serie di video e articoli molto originali per comunicare i nostri valori e stimolare così l’interesse dei ragazzi. Il tutto amplificato da un’attenta attività di promozione sui social. www.digital4executive.it

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Prossime presentazioni dei risultati delle Ricerche LA SCHOOL OF MANAGEMENT

La School of Management del Politecnico di Milano, con oltre 240 docenti, e circa 80 fra dottorandi e collaboratori alla ricerca, dal 2003 accoglie le molteplici attività di ricerca, formazione e alta consulenza, nei campi del management, dell’economia e dell’industrial engineering che il Politecnico porta avanti attraverso le sue diverse strutture interne e consortili. Fanno parte della Scuola il Dipartimento di Ingegneria Gestionale, le Lauree e il PhD Program di Ingegneria Gestionale e il MIP, la business school del Politecnico di Milano. La School of Management ha ricevuto nel 2007 l’accreditamento EQUIS. Dal 2009 è nella classifica del Financial Times delle migliori Business School d’Europa. 14 NOVEMBRE 2016

Centro Congressi Roma Piazza di Spagna Via Alibert 5A, 00187 Roma

GLI OSSERVATORI DIGITAL INNOVATION Gli Osservatori Digital Innovation della School of Management del Politecnico di Milano (www.osservatori.net) vogliono offrire una fotografia accurata e continuamente aggiornata sugli impatti che le tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) hanno in Italia su imprese, pubbliche amministrazioni, filiere, mercati, ecc. Gli Osservatori sono ormai molteplici e affrontano in particolare tutte le tematiche più innovative nell’ambito delle ICT, classificate secondo 3 macro categorie. 1) Digital Transformation: Agenda Digitale, Digital Innovation Academy, Startup Hi-tech, Startup Intelligence; 2) Digital Solutions: Big Data Analytics & Business Intelligence, Cloud & ICT as a Service, eCommerce B2c, Enterprise Application Governance, Fatturazione Elettronica e Dematerializzazione, Gestione Progettazione e PLM (GeCo), Information Security & Privacy, Internet of Things, Mobile B2c Strategy, Mobile Payment & Commerce, Smart Working; 3) Verticals: Cloud nella PA, Digital Finance, Digital Innovation in Arts & Cultural Heritage, Digital Insurance, eGovernment, Export, Gioco Online, HR Innovation Practice, Innovazione Digitale nel Retail, Innovazione Digitale in Sanità, Innovazione Digitale nel Turismo, Internet Media, Mobile Banking, Professionisti e Innovazione Digitale, Smart Agrifood, Smart Manufacturing, Supply Chain Finance. OSSERVATORIO AGENDA DIGITALE Convegno di presentazione dei risultati della Ricerca 2016 Nell’ambito della Ricerca 2016 l’Osservatorio si è proposto di studiare e approfondire le seguenti tematiche, pensate per supportare le progettualità messe in atto dall’Agenzia per l’Italia Digitale e dare un contributo fattivo al processo di digitalizzazione del Paese: nuovi mercati abilitati dalle infrastrutture immateriali, attuazione dell’Agenda Digitale, acquisti come driver di attuazione dell’Agenda Digitale, infrastrutture fisiche ed ecosistemi interoperabili. La presentazione dei risultati sarà seguita da due Tavole Rotonde a cui parteciperanno esponenti della Politica, del Governo, dell’AgID, delle Regioni e delle imprese Partner dell’Osservatorio. Al termine del Convegno saranno consegnati i Premi Agenda Digitale 2016. Per maggiori informazioni:

www.osservatori.net/it_it/convegni/convegno-di-presentazione-dei-risultati-della-ricerca-dell-osservatorio-agenda-digitale

22 NOVEMBRE 2016

Istituto Mario Negri Sala Conferenze Via Privata Giuseppe La Masa, 19 20156 Milano

OSSERVATORIO INNOVAZIONE DIGITALE NEL RETAIL Convegno di presentazione dei risultati della Ricerca 2016 La Ricerca si è articolata nelle seguenti aree: stima della diffusione delle innovazioni digitali nei processi di back-end e di front-end tra i top e i medio-piccoli retailer italiani; studio dei modelli omnicanale che prevedono l’utilizzo congiunto e integrato dei canali fisico, Online e Mobile; stima del livello di investimento in innovazione digitale dei top e dei medio-piccoli retailer italiani; analisi critica delle startup italiane e internazionali in ambito Retail; studio dei modelli di governance e dei processi di gestione dell’innovazione digitale tra i top e i medio-piccoli retailer italiani; modellizzazione e approfondimento, mediante studi di caso, delle possibili soluzioni di customer journey in store; analisi delle abitudini e dei comportamenti (digitali e non) dei consumatori italiani nelle diverse fasi del processo di relazione con i retailer (pre-vendita, vendita e post-vendita). Le presentazioni dei risultati della Ricerca, da parte del Politecnico di Milano saranno intervallate da sondaggi in real time sottoposti alla platea, testimonianze dei retailer più innovativi e tavole rotonde con i principali player dell’offerta. Per maggiori informazioni:

www.osservatori.net/it_it/convegni/convegno-di-presentazione-dei-risultati-della-ricerca-dell-osservatorio-innovazione-digitale-nel-retail 28 NOVEMBRE 2016

Politecnico di Milano Aula Rogers Via Andrea Maria Ampère, 2 20133 Milano

OSSERVATORI: STARTUP INTELLIGENCE / STARTUP HI-TECH / DIGITAL TRANFORMATION ACADEMY Open Digital Innovation: imprese e startup insieme per ridisegnare il futuro Il programma del Convegno prevede la presentazione delle evidenze emerse dalle ricerche degli Osservatori: Startup Intelligence che attraverso confronti diretti, scouting e analisi di best practice analizza le trasformazioni organizzative delle imprese per la gestione dell'Innovazione in un'ottica di Open Innovation; Startup Hi-tech, che analizza le dinamiche imprenditoriali e lo scenario delle startup hi-tech finanziate in Italia, fornendo il dato esclusivo sugli investimenti complessivi in Italia e creando cultura sugli impatti e sulle opportunità del fenomeno; Digital Tranformation Academy che attraverso la Survey CIO 2016 analizza l'andamento del budget per l'Innovazione Digitale per il 2017 e le relative priorità di investimento. Faranno seguito le testimonianze di alcuni autorevoli esponenti del panorama economico nazionale e un dibattito a cui prenderanno parte alcuni dei protagonisti degli Osservatori Digital Innovation. Per maggiori informazioni:

http://www.osservatori.net/it_it/convegni/open-digital-innovation-grandi-imprese-e-startup-insieme-per-ridisegnare-il-futuro Informazioni aggiornate al 12 ottobre 2016 - Per dettagli completi visitare il sito web: www.osservatori.net


HR Innovation & Smart Working Practice: il Percorso di Aggiornamento Executive Ottobre 2016 – Novembre 2017 La diffusione delle nuove tecnologie digitali ha attivato un importante processo di trasformazione della Direzione HR e delle competenze necessarie per la gestione e lo sviluppo delle Risorse Umane. Gli Osservatori Digital Innovation della School of Management del Politecnico di Milano organizzano un percorso di Workshop e Webinar, con l'obiettivo di supportare i professionisti che si occupano delle Risorse Umane nella comprensione degli aspetti più importanti di questa trasformazione. PERCORSO

HR Innovation & Smart Working Practice

I Webinar possono essere seguiti in diretta web e on demand (successivamente alla diretta)

Webinar

Performance Management: nuovi approcci e principali trend di evoluzione per una Results Based Organization

Webinar

Sicurezza e controllo sui lavoratori nello smart working

Webinar

Come fare Professional Branding sui Social Network

Webinar

Smart People: professionalità e soft skill dello Smart Worker

Webinar

Le best practice dello Smart Working: modelli, iniziative e fattori di successo

Webinar

Talent Acquisition ed Employer Branding su LinkedIn

Webinar

Dalla strategia all’attuazione: la governance delle iniziative di Smart Working

Webinar

Come le tecnologie digitali supportano le iniziative di Smart Working

Webinar

Smart working: la normativa per impostare nuovi modelli di lavoro

Webinar

Il controllo sull'utilizzo delle strumentazioni informatiche: i poteri ed i limiti del datore di lavoro

Webinar

Smart working incentivi alla produzione e welfare aziendale

Webinar

HR Digital Application: come usare Social, Mobile e Big Data

Webinar

La formazione digitale fra Adaptive e Continuos Learning

Webinar

Come ingaggiare e motivare i dipendenti attraverso le iniziative di Welfare

Webinar

New Capabilities: le competenze e le professionalità emergenti nella Digital Era

Per maggiori informazioni contattare: Dott. Matteo Castiglioni matteo.castiglioni@osservatori.net tel. +39 02 2399 9590 cell. +39 392 3821952

www.osservatori.net

Workshop

Webinar

I Workshop e Webinar possono essere acquistati singolarmente o a condizioni agevolate sottoscrivendo uno degli abbonamenti Premium Pass. Per gli abbonamenti aziendali è possibile utilizzare i fondi della formazione finanziata.


rubrica | ricerche e studi a cura di

paola capoferro ronchetta

eCommerce in Italia a quota 20 miliardi, sale del 63% la spesa da smartphone Lo shopping online dei consumatori italiani cresce del 18% ed è ormai il 5% del totale della spesa Retail. 3,3 i miliardi incassati dal Mobile Commerce. Ma resta un certo ritardo rispetto ai grandi Paesi europei. Il Turismo si conferma il primo comparto per volume di spesa, l’arredamento è quello che cresce di più Anche nel 2016 l’eCommerce B2c in Italia segna una confortante crescita (+18%), che fa salire il valore degli acquisti online a 19,6 miliardi di euro. Di questi, gli acquisti da smartphone aumentano addirittura del 63%, raggiungendo 3,3 miliardi: il 17% del totale dell’eCommerce. I web shopper italiani (consumatori che hanno effettuato almeno un acquisto online nell’anno) nel 2016 sono cresciuti del 7%, e ora sono 19 milioni: circa il 60% degli internet user. Gli acquirenti abituali (almeno un acquisto online al mese) sono 12,9 milioni e generano il 91% della domanda totale eCommerce (a valore), spendendo online mediamente 1382 euro all’anno ciascuno. Sono i dati più indicativi del report 2016 dell’Osservatorio eCommerce B2c della School of Management del Politecnico di Milano e di Netcomm. «L’eCommerce rappresenta ormai quasi il 5% del totale acquisti Retail in Italia, ma questo

ci soddisfa solo in parte, poiché non riusciamo a recuperare terreno rispetto ai principali mercati stranieri comparabili al nostro (UK, Francia e Germania), dove l’eCommerce ha penetrazioni da 2 a 4 volte superiori», sottolinea Alessandro Perego, Direttore Scientifico degli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano. Il turismo è il settore più grande, l’arredamento il più dinamico «Nel 2016 l’acquisto di servizi, e cioè Assicurazioni, Couponing di servizi, Ricariche, Ticketing per eventi, Turismo e trasporti, vale 10,6 miliardi di euro, contro 9 miliardi di prodotti, ossia Abbigliamento, Beauty, Arredamento, C2c, Couponing di prodotto, Editoria, Merchandising, Giocattoli, Food&Grocery, Informatica ed elettronica. Un ordine medio di prodotti vale 75 euro, uno di servizi 236 euro»,

spiega Riccardo Mangiaracina, Direttore dell’Osservatorio. Il Turismo (+10%) trascina ancora la crescita dei servizi soprattutto grazie a trasporti e prenotazione di alloggi: con 8,6 miliardi di euro vale il 44% dell’eCommerce italiano e se ne conferma il primo comparto. L’Informatica ed elettronica di consumo, con 2,9 miliardi, vale il 15% del mercato e si conferma il primo comparto di prodotto con una crescita del 28%. L’Abbigliamento, con 1,9 miliardi, vale il 10% degli acquisti online e cresce del 27% rispetto al 2015. L’Editoria, con 687 milioni di euro, cresce del 16% grazie agli acquisti di libri (anche scolastici). L’Arredamento è il comparto che cresce di più in assoluto (+48%), raggiungendo 652 milioni di euro. Gli acquisti in tutti gli altri comparti di prodotto valgono insieme 2,3 miliardi nel 2016, in crescita del 44% rispetto al

+8%

SERVIZI 10,6 miliardi

54%

46%

PRODOTTI 9 miliardi

Fonte: Politecnico di Milano

gli acquisti online degli italiani su siti nazionali e internazionali

+32%

19,6 mld E +18%

ASSICURAZIONI 1.225 mln E +0%

ALTRO (servizi) 807 mln E +5%

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TURISMO 8.561 mln E +10%

arredamento 652 mln E +48%

informatica e elettronica 2.932 mln E +28%

ALTRO (prodotti) 2.312 mln E +44% www.digital4executive.it

abbigliamento 1.898 mln E +27% FOOD&GROCERY 575 mln E +30% EDITORIA 687 mln E +16%


RU B RICA | ric e rc h e e st u di

2015. Si tratta soprattutto di profumeria e cosmetica, giocattoli, articoli da bazar, e merchandising sportivo e musicale. Le vendite di prodotti sono cresciute 4 volte di più di quelle di servizi (+32% contro +8%). Il fatturato online complessivo quindi ora proviene per il 46% da prodotti e per il 54% da servizi, avvicinando l’eCommerce italiano alla media europea, che vede incidenze dei prodotti in-

torno al 70%. Gli acquisti da Mobile (63% prodotti, 37% servizi) sono molto più vicini alla media europea: per i prodotti giocano ruoli importanti sia i siti di vendita temporanea sia quelli, marketplace in primis, che puntano su customer experience semplici sul Mobile. Per i servizi invece prevale l’acquisto di biglietti aerei e ferroviari, e la prenotazione di alloggi in hotel e case private.

L’Export (valore delle vendite da siti italiani a consumatori stranieri) cresce nel 2016 del 17% e supera 3,4 miliardi di euro. Turismo e Abbigliamento sono i comparti più incisivi. Il Turismo, spinto soprattutto dagli operatori di trasporto, vale il 42% delle esportazioni online, l’Abbigliamento vale il 36%, e realizza oltre confine quasi la metà delle vendite online.

L’automazione mette al rischio il lavoro? Uno studio McKinsey fa il punto Sono poche le professioni che spariranno totalmente, ma robot e tecnologie di machine learning trasformeranno, in modalità diverse, tutte le mansioni e i settori. Un’analisi su 800 attività sul mercato americano mostra dove le macchine possono sostituire gli uomini e dove questo non succederà I robot e i software che autoapprendono ci ruberanno il lavoro? Sì, no, dipende. La risposta, spiega uno studio McKinsey, è quanto mai sfaccettata: le tecnologie per l’automazione impatteranno molti settori e ruoli, ma in misura diversa. La questione è molto dibattuta e riscuote grande interesse mediatico. Ma è spesso mal posta: solo alcuni (pochi) lavori scompariranno del tutto, ma quasi tutti saranno in parte trasformati. Un forte impatto si avrà anche su settori ad alta percentuale di Knowledge worker, come sanità e finanza, dove sono molte le attività automatizzabili da robot e sistemi di machine learning. Gli analisti hanno analizzato in dettaglio 800 lavori e 2mila attività, per ora nell’economia USA, ma lo studio verrà esteso ad altri Paesi. I fattori che rendono l’automazione “fattibile” Emerge che la tecnologia può, teoricamente, automatizzare il 45% di tutte

le attività lavorative e in gran parte dei lavori, il 30% delle mansioni si può automatizzare. Ma, spiega McKinsey, c’è poi una “fattibilità pratica” dell’automazione che dipende da fattori di grande rilevanza come: costo dello sviluppo e dell’impiego degli hardware e software per l’automazione; disponibilità e costo della forza lavoro (se la manodopera abbonda, automatizzare non conviene); reale incremento della produttività e qualità del lavoro che si ottengono; peso delle normative e accettazione sociale (i pazienti accetteranno di essere assistiti da una macchina al posto di un infermiere in carne e ossa?). Alla luce di questi fattori, ci sono settori e professioni più passibili di automazione ed altri che lo sono meno. Per esempio, da un punto di vista tecnico, il 59% delle attività del manufacturing si può automatizzare, ma con forti oscillazioni: si può affidare a un robot la saldatura, non il servizio clienti (dove la

fattibilità pratica scende sotto il 30%). Il settore più automatizzabile nell’economia USA è quello dei servizi di food service e accomodation (73% delle attività). Alto potenziale di automazione (oltre il 60%) anche per le attività che includono raccolta ed elaborazione di dati: i settori più impattati sono finanza e assicurazioni. Dove servono ancora addetti in carne e ossa Restano difficili da automatizzare, almeno con le tecnologie disponibili al momento, tutte le attività che richiedono di gestire o formare il personale (potenziale di automazione del 9%) o di prendere decisioni, pianificare, “creare” (18%): sviluppare software, ideare menu o inventare slogan pubblicitari restano lavori solo per umani. Basso il potenziale di automazione anche nei settori basati sul l’interazione tra persone, come sanità (36%) e istruzione.

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RUBRICA | ri cerch e e s t u d i

Il cliente al centro? Solo teoria per molte imprese. 4 consigli da BCG Meno della metà delle decisioni chiave di business si basa su customer insight, malgrado tutti i top manager si pongano come priorità i clienti. Uno studio evidenzia il ruolo delle tecnologie digitali e i passi fondamentali per interpretare i cambiamenti e reagire tempestivamente. Gli esempi di Alibaba e Amazon I clienti rappresentano una finestra eccezionale per osservare quello che succede sul mercato e quali sono i cambiamenti in atto. Non basta però guardare le loro preferenze, i comportamenti o le emozioni perchè i clienti possono suggerire anche altro, per esempio i fattori che possono influenzare la competizione o i cambiamenti tecnologici davvero rilevanti. Diventare customer-centric è dunque oggi un must per le aziende che vogliono restare competitive. Eppure, svela uno studio di Boston Consulting Group (BCG) basato su interviste a business executive e sull’analisi di 90 organizzazioni, sono ancora troppo poche quelle che, nel concreto, usano correttamente gli insight del cliente per cogliere tempestivamente i segnali di cambiamento sul mercato e adattarsi velocemente. Molti dei top manager intervistati da BCG (in America e in Europa) indicano infatti il “cliente” come priorità strategica, ma solo il 47% delle decisioni chiave di business riflette gli input che arrivano da loro. In aree strategiche come pianificazione, gestione del portafoglio,

investimenti di capitale, fusioni e acquisizioni, solo il 35% delle decisioni tiene conto di queste informazioni. La maggior parte delle aziende usa i customer insights per decisioni che riguardano il marketing e le vendite; ma solo una su cinque è in grado di tradurre questi dati in strategia. Come rimediare? Si tratta non tanto di spendere di più in soluzioni, ma di selezionare meccanismi capaci di interpretare i customer insights e tradurli in azione. Quattro i passi fondamentali da seguire, secondo BCG. Uno: esplorare tecnologie avanzate (come biometria o analisi neurale) per la raccolta di dati granulari, real-time, impliciti su tendenze e preferenze. Bisogna scandagliare fonti non ovvie, come i social media o vari dati di utilizzo di prodotti e soluzioni. E farlo meglio dei concorrenti, per interpretare prima i segnali esterni. Due: dai dati va estratta conoscenza con sistemi altrettanto avanzati, dall’elaborazione del linguaggio naturale al machine learning, per isolare i segnali dal rumore di fondo. Tre: le conoscenze ottenute

vanno rese facilmente accessibili a tutti i dipartimenti aziendali e integrate nei processi decisionali, soprattutto quelli legati all’innovazione e all’assegnazione delle risorse. Quattro: le aziende devono diventare “estroverse”, aumentare la superficie che viene esposta all’esterno, facendo conoscere struttura, cultura, management. Esempi da emulare Ci sono riuscite perfettamente Alibaba e Amazon, secondo BCG. Il colosso cinese dell’eCommerce ha una struttura estremamente flessibile che adatta continuamente il rapporto tra interno e esterno. Anche per il colosso americano il cliente è top priority o, come dice il CEO Jeff Bezos, «i clienti di Amazon sono come ospiti che abbiamo invitato a una nostra festa. Facciamo di tutto per migliorare ogni giorno la loro esperienza». Quasi l’80% dei parametri per misurare le performance in Amazon è centrato sul cliente e fa leva su sistemi IT integrati che catturano, studiano e condividono in tutta l’organizzazione i customer insights.

Solo un’azienda su 5 usa le analisi sui clienti

Ruolo dei customer insight

1

Service Provider

2

Business contributor

• focus tattico

• focus tattico-strategico

• funzioni di supporto

• contributo al business

• ambito: marketing

• ambito: commerciale

20% delle aziende 3

Strategic partner • focus largamente strategico

• consigliere strategico per il business • ambito: cross-funzionale

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Fonte di vantaggio competitivo • focus predittivo

• supporto decisionale ai top manager • ambito: intera impresa

Fonte: BCG Henderson Institute

80% delle aziende


RU B |RICA | n o mine rubrica nomin e

Urbano Cairo Presidente e Amministratore Delegato, Rcs mediagroup Urbano Cairo è il nuovo Presidente e Amministratore Delegato di RCS MediaGroup. Prende il posto di Maurizio Costa e di Laura Cioli, la manager che è riuscita in soli dieci mesi a riportare la società all’utile nel secondo trimestre. Urbano Cairo, classe ’57, laureato presso l’Università Bocconi di Milano, nel 1981 è diventato assistente personale di Silvio Berlusconi, e nel 1982 è stato il responsabile dell’acquisizione di Italia 1 da parte di Fininvest. Licenziato dal gruppo, alla fine del 1995 ha dato vita a “Cairo Pubblicità” e dopo poche settimane ha ottenuto in

esclusiva la concessione dal gruppo RCS della vendita di spazi pubblicitari per i periodici “TV Sette”, “Oggi” e “Io Donna”. Gli Anni Duemila sono stati caratterizzati dalla quotazione al Nuovo Mercato della Borsa italiana di Cairo Communication (2000) e dall’acquisto della società calcustica del Torino (2005). Nel 2013 poi Cairo Communication ha acquistato dal gruppo Telecom Italia la rete televisiva La7 e a maggio 2016 ha lanciato un’OPAS (offerta pubblica di acquisto e scambio azioni) su RCS MediaGroup, proprietario tra l’altro del Corriere della Sera, il maggiore quotidiano italiano.

Il 15 luglio, con il 48,8% dei titoli, Cairo ha acquisito il controllo del gruppo e pochi giorni dopo Cairo Communication ha superato la soglia del 59,69% delle azioni RCS grazie alla consegna delle azioni che avevano aderito all’OPA perdente.

Nicola Drago Direttore Generale, De Agostini Editore, e Amministratore Delegato, De Agostini Publishing Nicola Drago sale ai vertici di De Agostini Editore, diventandone il Direttore Generale, e di De Agostini Publishing come Amministratore Delegato. Classe 1978, dopo essersi laureato in Economia Aziendale all’Università Bocconi di Milano, Drago ha completato un Master in Business Administration alla Columbia University di New York e iniziato la sua carriera come investment banker in Sonenshine Partners e poi come consulente in McKinsey. Entrato a far parte del Gruppo Zodiak

Media nel 2008, inizialmente come M&A Manager e Business Controller, è stato poi promosso a CEO di Zodiak America Latin, e nel maggio 2012 si è unito al team di Zodiak Active come Senior Vice President, Strategy & New Business, con la responsabilità dello sviluppo strategico e la supervisione di tutte le attività internazionali. Da gennaio 2014 Drago è CEO di Zodiak Active, poi trasformata in Zodiak Advertising: una responsabilità che continuerà a mantenere anche dopo aver assunto il nuovo incarico in De Agostini.

Marco Patuano Amministratore Delegato, Edizione Holding

Marco Patuano è il nuovo Amministratore Delegato di Edizione Holding, la società che controlla le partecipazioni della famiglia Benetton. Nato ad Alessandria il 6 giugno 1964, Patuano si laurea in economia aziendale all’università Bocconi di Milano. Inizia la sua carriera professionale nel maggio 1990 in SIP - Direzione Generale. Fra il 1990 e il 2002 opera in diversi settori dell’Area Amministrazione Finanza e Controllo, con incarichi di crescente responsabilità all’in-

terno della Direzione Finanza tra il 1998 e il 2002. Nell’aprile 2003 è nominato CFO di Tim Brasil e di Telecom Italia America Latina S.A., società partecipata dal Gruppo, con sede in Brasile. Dal 2004 al 2006 è General Manager di Telecom Italia Latam, per passare poi in Telecom Argentina, assumendo la posizione di Direttore della Telefonia Fissa. Da maggio 2007 a luglio 2008 è Direttore Generale Operativo della stessa Telecom Argentina. In Telecom Italia ricopre dall’agosto del 2008 la carica di Chief Fi-

nancial Officer, e nel novembre 2009 assume il ruolo di Direttore di Domestic Market Operations, per diventare infine Amministratore Delegato nell’aprile 2011.

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RUBRICA | nomine

Matteo Catani Amministratore Delegato, Grandi Navi Veloci

Il Cda di Grandi Navi Veloci (GNV) ha promosso Matteo Catani da Direttore Commerciale e Marketing ad Amministratore

Delegato, nell’ambito nei piani di rafforzamento della struttura. Catani, 37 anni, è entrato in GNV nel 2007 dopo l’esperienza in Danone-Saiwa, dove ha ricoperto dal 2004 i ruoli di Customer Service Account e Sales & Marketing Jr. Controller, per poi approdare in Danone Group – Biscuit Division come Assistant to VP Finance Southern Europe & Balkans Business Controller. In GNV ha

assunto ruoli di crescente responsabilità, spaziando dal settore finanziario al revenue management e sviluppo, per poi acquisire la direzione commerciale e marketing. Genovese di adozione, ha conseguito una laurea in Economia e Commercio presso l’Università di Genova e un master in Business Administration (MBA) alla Booth School of Business della Chicago University.

(Francia) e ha poi completato la sua esperienza nella consulenza di direzione in Bain & Co. Entrato in Vodafone nel settembre 1999, ha ricoperto le posizioni di Direttore Pianificazione Strategica e Business Development, e poi di Direttore della funzione Dati-VAS e Multimedia, ottenendo la Direzione Commerciale Consumer nel 2005. Nel febbraio 2006 è passato al ruolo di Direttore Generale Commercial Operations, e nel luglio 2007 a quello di Direttore Generale di Vodafone Italia. Tra 2006 e 2016 è stato

membro del Consiglio d’Amministrazione, CEO e Chief Commercial and Operations Officer di Vodafone Italia, e CEO della Regione Sud Europa del Gruppo Vodafone.

Paolo Bertoluzzo Amministratore Delegato, ICBPI Paolo Bertoluzzo è il nuovo Amministratore Delegato e Direttore Generale dell’Istituto Centrale delle Banche Popolari Italiane (ICBPI) e contestualmente anche Amministratore Delegato di CartaSi. Dopo la laurea in Ingegneria Gestionale al Politecnico di Milano nel 1990, Bertoluzzo ha iniziato la carriera nel Management Consulting in Monitor Company, lavorando sia in Italia che negli USA. Nel 1994 ha conseguito il Master in Business Administration presso l’INSEAD di Fontainebleau

Giovanni Mannucci Amministratore Delegato, Forall Confezioni (Pal Zileri)

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è una testata di ICT and Strategy S.r.l. Via Copernico, 38 - 20125 Milano Iscrizione presso il R.O.C. Registro degli Operatori di Comunicazione al n. 16446 Testi e disegni: riproduzione vietata.

Mayoola Group ha nominato Giovanni Mannucci Amministratore Delegato di Forall Confezioni, cui fa capo il brand Pal Zileri, per guidare l’azienda verso una nuova fase di sviluppo e di consolidamento globale con una visione strategica a lungo termine. Mannucci ha così lasciato Boglioli, la sartoria maschile nota in tutto il mondo, di cui

era Presidente e Amministratore Delegato, a partire dal 2013. In precedenza dal 2007 al 2013 ha ricoperto la stessa carica in Isaia, altro marchio noto nel mondo del fashion. Vanta esperienze significative in Marzotto e Hugo Boss negli Stati Uniti, ed è stato partner di Deloitte Consulting a capo della Divisione Beni di Lusso a Londra e a Milano.

hanno collaborato

progetto grafico

Domenico Aliperto, Mauro Bellini, Annalisa Casali,

Stefano Mandato

Loris Frezzato, Laura Zanotti

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Direttore responsabile

impaginazione ADM Studio Sas - Cologno Monzese (MI)

Manuela Gianni (redazione@digital4.biz)

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Redazione

immagini

Stampa

Paola Capoferro Ronchetta, Daniele Lazzarin

Illustrazioni di Fabio Margarita

Pagani - Passirano (BS)

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