"Poesía de la Reina" | Alberto Corbino

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ALBERTO CORBINO

Poesía de la Reina



«Ammettiamolo: ci siamo persi. Dal primo giorno». Lo smarrimento, una deviazione dal sentiero conosciuto: condizioni indispensabili per reinventarsi una vita, Alberto Corbino lo sa bene. Lo scatto d’orgoglio che sospinge verso un altrove dove riscrivere la propria esistenza è possibile solo se tempo e spazio non hanno più nome e si è perduto l’orientamento. Soprattutto se lo splendente e misterioso Sudamerica in cui è ambientata la storia è una terra martoriata, tra gente affamata e guerre tra bande per il dominio del mercato della droga: «I resti dello scontro erano ancora lì, sul campo, una decina di corpi ammucchiati ai bordi della strada. Il sangue di uno si mescolava a quello degli altri rigando la terra e già richiamava al banchetto le formiche rosse. Erano tutti giovani, alcuni giovanissimi. Tutti mandati a morire per pochi pesos o una striscia di coca». E allora non è strano che il tuo corpo reagisca, affranto dal dolore e reso circospetto: «Siamo sempre stanchi. Sarà per il caldo umido che ci tormenta già all’alba e acuisce le mie paranoie: diffido della gente che incontriamo, del cibo che mangiamo». Anche questo predispone al cambiamento: una spossatezza che abbassa le difese e rende sensibili alla sorpresa, al sentimento, alla poesia. Quella in cui i protagonisti si imbattono casualmente: «Un graffio inciso a 5


sangue nella pelle di un vecchio muro soffocato da intricate vene», all’ingresso di un villaggio che è solo un puntino invisibile sulla carta geografica. A partire dai motivi della poesia e dei racconti dentro i racconti incessantemente narrati dagli abitanti di Ventanillas, i nostri protagonisti progressivamente si trasformano. Una coppia con «i volti da primer mundo», che proviene da una realtà di cui riconosce limiti e storture, ma succube e impigrita dagli automatismi confortevoli dell’occidente, con troppe certezze e troppi punti di riferimento, troppo qui e troppo poco altrove. Due occidentali alla ricerca, che soggiacciono alla malia della narrazione, a un tempo dilatato scandito da albe e tramonti, lo sguardo illanguidito dall’orizzonte dell’oceano. Inevitabilmente, si perdono. E nel perdersi, fatalmente, si ritrovano. Uguali e diversi. Sorprendentemente uguali a donne e uomini che vivono un’esistenza completamente diversa, come se in ogni terra e in ogni luogo ci fosse sempre la possibilità di riconoscersi simili e fratelli; e diversi, rinnovati, capaci di immergersi con serenità in un altro luogo, in un altro tempo e anche in se stessi. Non diciamo nulla del plot del romanzo sudameritaliano di Alberto Corbino: per non rovinare il piacere di un’architettura narrativa a prima vista priva di direzione e che invece, scandisce un proprio tempo, con passo sapientemente rallentato e incessante. Un racconto, lo si intuisce alla fine, con una struttura definita e perfettamente padroneggiata, che intaglia i ritratti dei personaggi principali, la fascinosa Reina e il Poeta su tutti, con evidente senso di felicità e piacere del narrare. Come se stessimo intorno al fuoco a 6


raccontarci le storie dell’alba del tempo, per sentire ancora di appartenere a qualcosa e a qualcuno. Il senso dell’appartenenza è un collante importante del modo di narrare di Corbino: perché le ferite del primo mondo – che sono diventate le ferite di ogni mondo – si agitano sempre sullo sfondo della vicenda, con il loro individualismo sfrenato, la mancanza di pietas, il disinteresse per il destino degli altri. E quindi ritrovare il sapore perduto della comunità diventa determinante. Ritrovarlo anche nel modo di narrare, nel ritmo di un racconto che ama accendersi di poesia, come dichiara sin dal titolo, con una lingua che si ammorbidisce in accenti autentici di commozione e partecipazione. In un altrove che, se fossimo in grado di ascoltare fino in fondo queste storie, potrebbe diventare il nostro qui, il nostro presente. Ma l’altrove – la consapevolezza tragica affiora sottotraccia in Poesía de la Reina – rischia sempre di diventare come il nostro qui, un ennesimo malinconico luogo dell’identico, ossessivamente uguale a tutti gli altri. E allora la parola ammutolisce e le fantastiche storie intrise di poesia diventano opache e lontane: «Leggende. Queste ormai sono solo favole per i bambini».

Stefano Fedele

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Fermiamoci, ogni tanto, a prender fiato e stelle

A Fernanda, che mi regalò un sogno e questo racconto Napoli, 14 giugno 2003



Quelli come noi che hanno gli occhi gonfi di romanzi, di eroi e di libertà conquistate nella penombra della foresta; quelli come noi che amano troppo, avidi di tutto, ingordi per spirito di sopravvivenza; quelli come noi che non abbassano lo sguardo incontrando gli occhi di un bambino, la mattina davanti allo specchio; quelli come noi, che hanno letto il Don Quijote, ma continuano a sfidare i mulini a vento; quelli come noi, che scovano vecchie foto e ridono del tempo che segna il volto e colora di grigio i capelli. A quelli come noi, la vita può far male. Click. Un giorno o l’altro arriva il punto di non ritorno. Qualcosa si rompe, forse il precario equilibrio tra sopportazione ed entusiasmo, inquietudine e appagamento. Click. Capita. Capita allora di dire basta. Capita di cercare rifugi. Spazi di sopravvivenza, vie di comprensione. Capitò così anche a me. Il perché non serve raccontarlo. Fu la somma di tanti piccoli perché, minuscole gocce cadute giorno dopo giorno, che fanno traboccare il mare che sommerge le città e le anime smarrite. 11


La cura furono due biglietti per Città del Messico. Ritorno: qualche mese più tardi, ventimila chilometri più a sud, pinguino più, tempio maya meno. Scontato forse. Ma comunque eccitante. E, a quel tempo, necessario. “Ciao, speriamo di non tornare e che ci verrete a trovare”. La segreteria telefonica fu custode del nostro laconico testamento. Narrerò qui di una regina e di un poeta, che incontrammo per caso in riva al Pacifico e che non fummo mai più capaci di lasciare. Narrerò della loro storia, un assoluto cui nessuno vorrà credere, forse neanche noi. Ma è solo la pura verità del poeta bugiardo.

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Centro America, a un posto di confine. 42° giorno di viaggio, ma questo poco importa.

A che serve segnare i giorni che passano e i luoghi che si attraversano, quando ci si è persi? Perché, ammettiamolo: ci siamo persi. Dal primo giorno. Colpa di queste città di oro e cartone che appaiono tutte uguali, di questa foresta tutt’intorno, che reclama il suo diritto di preesistenza minacciando di soffocare ogni cosa. Colpa di questa terra, rossa e dura come il cuore dei suoi tiranni, dei campi incolti a perdita d’occhio, ovunque. Colpa delle montagne senza strade, di questi posti di confine in mezzo al nulla, teatri senz’anima nei quali si spengono, veloci come la speranza, superstrade dritte come i destini già segnati. Guardie armate, monumenti di prepotenza e corruzione; orde, gruppuscoli, molliche di disperati che silenziosamente si arrampicano verso nord, incrociando colonne di luccicanti trucks che strisciano in direzione opposta con le stive traboccanti di felicità infiocchettata a poco prezzo. 13


Ovunque la stessa messa in scena, tragicamente uguale in ogni paese. Cambiano le bandiere e le divise. Non gli uomini, non i soprusi, né i soldi insanguinati di sudore che passano di mano in mano come virus di una malattia che non conosce cura. Non la disperazione degli sfollati, dei braccianti, dei sognatori, dei cercatori di dignità. Questi posti di confine sono il loro purgatorio: chi riesce a passare raggiungerà il paradiso, al nord. Forse. Chi viene fermato è restituito al suo inferno, al sud. E ogni fiume di confine ha i suoi piccoli, tollerati caronte, che per pochi soldi si spugnano gambe e anima nella melma velenosa, spingendo senza sosta né respiro zattere improvvisate tra le due sponde. Per loro ogni giorno è uguale al giorno precedente e al giorno che forse verrà. Anche per noi che giorno sia non importa più. Da tempo. Ormai questo diario serve solo a porsi domande dalle risposte tanto ovvie da trasformarle in un dolore insopportabile: perché tanta fame in mezzo a tanta terra? Perché tanta miseria umana, in mezzo a tutto sto creato? Infinita come i tramonti del sertão brasiliano, la risposta sta lì, semplice e sotto gli occhi di tutti, giudici, preti e turisti, abbarbicata al filo spinato che circonda arrogante le fincas, colpevoli deserti di terra grassa a riposo da decenni sugli stomaci vuoti di inermi bambini. I nostri bambini. 14


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