Franco Albini. La sostanza della forma - Istituto italiano di cultura Paris

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Franco

sostanza della forma Albini Istituto Italiano di Cultura Paris



Franco Albini La sostanza della forma

Istituto Italiano di Cultura Paris direzione/direction Marina Valensise


Istituto Italiano di Cultura Paris 3 marzo/mars – 30 maggio/mai 2016 esposizione a cura di/exposition sous la direction de Giampiero Bosoni, Marco Albini Fondazione Franco Albini organizzata da/organisée par Istituto Italiano di Cultura direttore/directrice Marina Valensise in collaborazione con/en collaboration avec Fondazione Franco Albini – Paola Albini allestimento espositivo/scénographie Studio Albini Associati, Milano con/avec Giulia Bifronte, Elena Albricci testi/textes Carlo Olmo Giampiero Bosoni Marco Albini Beppe Finessi traduzioni/traductions Jérôme Nicolas editing Gaetana D’Arrigo

con il contributo di


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Marina Valensise

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Carlo Olmo Il visitatore va alla mostra… e trova un inatteso Franco Albini. Le visiteur se rend à l’exposition… et trouve un Franco Albini inattendu.

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Giampiero Bosoni L’architettura è come la coscienza L’opera di Franco Albini attraverso una storia di incontri L’architecture est comme la conscience L’œuvre de Franco Albini à travers une histoire de rencontres

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Marco Albini Evoluzione di una poetica Évolution d’une poétique

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Beppe Finessi Franco Albini. Nitore, chiarezza, sostanza e verità Franco Albini. Pureté, clarté, susbtance et vérité

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biografie/biographies



Marina Valensise Istituto Italiano di Cultura de Paris direttore/directrice Uno dei più grandi architetti italiani del XX secolo, “in assoluto, il più grande maestro dell’architettura moderna italiana” come lo definisce Alessandro Mendini, meritava la sua mostra all’Hôtel de Galliffet. Dopo quelle dedicate a Gio Ponti che ne fu il primo mentore, a Vico Magistretti e a Carlo Mollino che ne furono i contemporanei, la nostra quadrilogia novecentesca si conclude con questa piccola mostra “dotta, raccolta e sintetica”, come scrive Carlo Olmo, su una figura chiave della cultura italiana contemporanea. Franco Albini (1905-1977) inizia a progettare durante il fascismo, a metà degli anni Trenta, coi prototipi di edilizia pubblica. Grazie a Edoardo Persico, attinge all’esperienza mitteleuropea, e intraprende la via della sperimentazione che farà di lui uno dei maestri del razionalismo italiano. Dalle case popolari agli edifici pubblici, dalle installazioni effimere agli allestimenti permanenti, che inaugurano la museografia contemporanea e continuano ad essere un riferimento essenziale, la sua ricerca testimonia di un metodo originale, fondato su variazioni infinite a partire da un modulo fisso che subisce cambiamenti minimi. Rivela un controllo severo sul processo creativo e le tecnologie di costruzione. Esprime una dedizione piena all’arte del fare e alla perfezione artigiana. Genio schivo, sobrio, silenzioso, parco di scritti, benché impegnato nell’insegnamento universitario e nell’editoria, Albini era convinto che solo l’opera dovesse parlare. Così, a quarant’anni dalla sua scomparsa, i suoi progetti e le sue creazioni continuano a sorprenderci per la purezza delle linee, l’economia di mezzi, il rigore dei materiali, l’estrema semplicità della forma che per Albini è sostanza astratta, immateriale, assoluta, mai manierista e però soggetta a continuo rinnovamento. Che sia un maestro influente di allievi eminenti, un caso esemplare o uno dei fari nell’architettura contemporanea è quanto questa mostra consente di scoprire grazie alla guida di Carlo Olmo, Marco Albini, Giampiero Bosoni e Beppe Finessi, per mezzo dei molti documenti e materiali d’archivio messi a disposizione dalla Fondazione Franco Albini, e attraverso lo stile e i mobili Albini che prodotti oggi da Cassina sembrano ancora creature viventi.

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L’un des plus grands architectes italiens du XXe siècle, « sans conteste, le plus grand maître de l’architecture moderne italienne » dixit Alessandro Mendini, méritait son exposition à l’Hôtel de Galliffet. Après celles consacrées à Gio Ponti, qui fut son premier mentor, à Vico Magistretti et à Carlo Mollino qui furent ses contemporains, notre quadrilogie du XXe siècle s’achève avec cette petite exposition « dense, synthétique et savante », comme l’écrit Carlo Olmo, consacrée à une figure centrale de la culture italienne contemporaine. Franco Albini (1905-1977) commence à travailler pendant le fascisme, au milieu des années Trente, sur des projets de logements sociaux. Grâce à Edoardo Persico, il puise dans l’expérience de la Mitteleuropa, et il s’adonne à l’expérimentation, qui fera de lui l’un des maîtres du rationalisme italien. Des logements sociaux aux édifices publics, des installations éphémères aux aménagements permanents qui fondent la muséographie contemporaine et n’ont cessé de constituer un point de repère incontournable, sa recherche témoigne d’une méthode originale, fondée sur de variations infinies à partir d’un module fixe qui subit des changements minimes. Elle atteste un contrôle sévère sur le processus de la création et sur les technologies de construction. Elle exprime une adhésion complète à l’art du faire et à la perfection artisane. Génie réservé, sobre, silencieux, avare d’écrits, bien qu’engagé dans l’enseignement et dans l’édition, Albini était persuadé que seule l’œuvre doit parler. Aussi, quarante ans après sa mort, ses projets et ses créations continuent de nous surprendre par la pureté des lignes, l’économie des moyens, la rigueur des matériaux, l’extrême simplicité de la forme, qu’il traite comme la substance, et donc abstraite, immatérielle, absolue, jamais maniériste et cependant soumise à un renouveau incessant. Qu’il soit un maître influent d’éminents élèves, qu’il soit un archétype ou l’une des figures de proue de l’architecture contemporaine, ce sont ses multiples facettes que cette exposition nous permet de découvrir grâce aux lumières de Carlo Olmo, Marco Albini, Giampiero Bosoni et Beppe Finessi, mais aussi par le biais des nombreux documents et matériaux d’archives que la Fondazione Franco Albini nous a mis à disposition, et à travers son style et ses meubles, aujourd’hui produits par Cassina, qui ressemblent encore à des créatures vivantes.




Carlo Olmo Il visitatore va alla mostra… e trova un inatteso Franco Albini. Cosa può trasmettere al pubblico francese una mostra, dotta e raccolta, su un architetto talmente immerso nella cultura e nella società italiana come Franco Albini, quasi 40 anni dopo la sua morte? La passione per quel mondo è stata di recente riproposta, con accenti in parte melanconici, in parte autocritici, da Jean-Louis Cohen nella prefazione alla ristampa del suo libro Enseignements de l’Italophilie. E forse proprio dall’oblio è necessario partire. Quella società e quella cultura architettonica sono state dimenticate anche in Italia e per ragioni non così diverse dalla rimeditazione portata avanti da Cohen. Sono mutati attori, contesti, valori, forse soprattutto sono mutati anche i valori che reggevano il mondo di Franco Albini. Certo è possibile (e tanti artisti e architetti lo stanno facendo) trasformare quella rottura tra architettura e élites intellettuali in feticci di un modernariato, per altro sempre a caccia di idoli e nuovi culti. E in particolare gli oggetti di design – ma già il termine appare impreciso – progettati da Franco Albini, e prodotti da Cassina, indubbiamente lo faciliterebbero. Allora è ancora più necessario tornare all’assunto iniziale: cosa può dire oggi una mostra così a un pubblico francese? La prima riflessione, e forse più immediata e bruciante, riguarda il rapporto tra architettura e fascismi, tema oggi rilanciato in Francia dalla congiuntura politica, ma anche da testi come quelli di François Chaslin e di Xavier de Jarcy su Le Corbusier e il regime di Vichy. La formazione e le prime opere di Franco Albini – quelle antecedenti la seconda guerra mondiale – testimoniano in realtà quanto potesse essere complesso il rapporto tra architettura e potere, soprattutto se totalitario. I legami tra fascismo e architettura moderna furono contradditori e segnati da una serie di rotture e riavvicinamenti tra intellettuali e potere. È quanto è stato evidenziato dai lavori di Paolo Nicoloso e di Vittorio Vidotto. E ancora oggi la Milano degli anni Trenta costituisce il laboratorio più interessante in Italia per studiare quell’intreccio complesso e sfuggente, e i modi assai diversi del suo concretizzarsi. Basti penare, per esempio, a Giuseppe Terragni, Gio Ponti, Pietro Maria Bardi, Luigi Figini e Gino Pollini e soprattutto a Albini. Chi voglia prendere spunto da questa piccola mostra, troverà grazie a Albini almeno due piani di riflessione. E cioè, la traduzione in espressioni pubbliche del suo lavoro che

avviene alla Triennale di Milano; con la sua partecipazione a concorsi e a dibattiti; con la sua apertura all’incontro di personaggi allora alquanto scomodi in Italia, come ricorda Giampiero Bosoni nel suo saggio. Albini testimonia come il fatto di dare per scontato il rapporto tra architettura e opinione pubblica sia in realtà un riflesso quasi condizionato dell’oggi: ed è questo il lato urtante della riflessione offerta da Xavier e Chaslin nei loro testi. Anche in un regime totalitario, le vie che un architetto può scegliere per far emergere il proprio punto di vista non sono mai banali e non implicano che l’architettura sia necessariamente “un’opera di regime” o il tramite più visibile del rapporto tra potere e opinione pubblica. Si sottolinea sempre il rapporto di Albini con Persico. Marco Albini offre nel catalogo di questa mostra una traccia diversa di quel rapporto, una traccia familiare rappresentata dalla sorella del padre, Carla Albini. Forse, nella Milano che Albini frequenta in quegli anni, gli indizi sono anche altri e la mostra evidenzia infatti anche altre tracce. Ma ciò che questa mostra dell’Istituto italiano di cultura soprattutto dice al pubblico francese di oggi è quanto la risposta alla complessità delle relazioni che legano al potere un linguaggio architettonico, un mestiere, una produzione (quella edilizia) non stia nella condivisione delle retoriche che i diversi regimi si portano dietro e di cui spesso vivono. Il quadro muta profondamente nel secondo dopoguerra. Non solo per il fondamentale incontro con Franca Helg, ma perché Albini vive la ricostruzione attraverso le sue opere. Ed è questa una seconda traccia che la mostra parigina può offrire ai suoi visitatori francesi. Anche su un terreno tanto scivoloso, Albini sceglie una forma di dialogo particolare: quella dell’architetto che parla quasi esclusivamente attraverso le sue opere e non ne legittima l’appartenenza con le armi della retorica. E sarebbe davvero interessante, misurare le scelte degli architetti francesi e italiani rispetto a una parola chiave, engagement, che Jean Prouvé, Bernard Huet, Claude Parent condividono con Albini, Piero Bottoni, Luigi Figini e Gino Pollini. Nonostante quanto è stato scritto su di lui, Albini rifiuta infatti due piani essenziali che segnano il ruolo dell’architetto pure nella Francia della contemporanea ricostruzione: l’appartenenza e l’identità. Le sue opere toccano quasi tutti i piani del rapporto tra architettura, società e produzione di simbologie e di immaginari. Ma ciò avviene col rifiuto da parte di Albini di legittimare le sue posizioni attraverso gli scritti.L’assenza della parola e l’assenza 10


Carlo Olmo Le visiteur se rend à l’exposition… et trouve un Franco Albini inattendu. Quarante ans après sa mort, que peut apprendre au public français une exposition aussi dense et savante sur Franco Albini, un architecte qui était complètement immergé dans la culture et dans la société italienne ? La passion pour ce monde a été récemment évoquée, avec des accents à la fois mélancoliques et autocritiques, par Jean-Louis Cohen dans la préface à la réédition de son livre Enseignements de l’Italophilie. Et c’est d’ailleurs sans doute de l’oubli qu’il faut partir. En Italie aussi, cette société et cette culture architecturale ont été oubliées, et pour des raisons qui ne sont pas si différentes de celles dont parle Jean-Louis Cohen. Les acteurs, les contextes et les valeurs ont changé, certes, mais est-ce que ce ne sont pas surtout les valeurs sur lesquelles reposait le monde de Franco Albini qui ont changé ? Il est certainement possible – et beaucoup d’artistes et d’intellectuels sont d’ailleurs en train de s’y atteler – de transformer cette rupture entre l’architecture et les élites intellectuelles en fétiches d’un modernariato, d’une « antiquité de la modernité », toujours en quête d’idoles et de nouveaux cultes. Les objets de design – mais ce terme n’est-il pas déjà imprécis ? – projetés par Franco Albini et produits par Cassina faciliteraient indéniablement cette opération. Il est donc d’autant plus nécessaire de revenir à notre question de départ : que peut apprendre aujourd’hui une telle exposition à un public français ? La première réflexion, et sans doute la plus immédiate et la plus urgente, concerne le rapport entre l’architecture et les fascismes. Cette question est relancée actuellement en France par la conjoncture politique, mais aussi par des livres comme ceux de François Chaslin et Xavier de Jarcy sur Le Corbusier et le régime de Vichy. Mais la formation et les premières œuvres de Franco Albini, (celles qui précèdent la Deuxième Guerre mondiale) montrent en réalité toute la complexité du rapport entre l’architecture et le pouvoir, surtout lorsqu’il s’agit d’un pouvoir totalitaire. Les travaux de Paolo Nicoloso et Vittorio Vidotto ont montré que les rapports entre le fascisme et l’architecture moderne furent contradictoires et marqués par une série de ruptures et de rapprochements entre les intellectuels et le pouvoir. Le Milan des années Trente est aujourd’hui encore le laboratoire le plus intéressant en Italie pour étudier ces relations complexes et fuyantes, ainsi que les modalités extrêmement variées de leur concrétisation. 11

Songeons par exemple à Giuseppe Terragni, Gio Ponti, Pietro Maria Bardi, Luigi Figini et Gino Pollini. Et surtout à Franco Albini. Cette petite exposition sur Franco Albini peut servir de point de départ à au moins deux niveaux de réflexion. D’abord, la traduction de son travail en expressions publiques, qui se produit à la Triennale de Milan ; avec sa participation à des concours et à des débats ; et dans ses rapports avec des personnes très dérangeantes en Italie à cette époque, comme nous le rappelle Giampiero Bosoni dans son texte. Franco Albini nous montre que le fait de tenir pour évident le rapport entre l’architecture et l’opinion publique est en réalité un réflexe quasi conditionné de l’époque actuelle – tel est d’ailleurs le côté irritant de la réflexion menée par Xavier de Jarcy et François Chaslin. Même dans un régime totalitaire, les moyens que peut choisir un architecte pour exprimer son point de vue ne sont jamais banals et ils n’impliquent pas que l’architecture soit nécessairement « une œuvre officielle », ni l’intermédiaire le plus visible du rapport entre le pouvoir et l’opinion publique. On insiste toujours sur le rapport de Franco Albini avec Edoardo Persico. Marco Albini offre dans le catalogue de cette exposition une trace différente de ce rapport, une trace familière représentée par la sœur de son père, Carla Albini. Le Milan que Franco Albini fréquente à cette époque offre peut-être encore d’autres indices, et l’exposition nous révèle en effet d’autres traces. Mais ce que cette exposition de l’Institut culturel italien montre surtout au public français d’aujourd’hui, c’est que la réponse à la complexité des relations qui lient au pouvoir un langage architectural, un métier ou une production – le bâtiment – ne consiste pas dans l’acceptation des rhétoriques que les différents régimes totalitaires véhiculent et dont ils se nourrissent bien souvent. La situation change profondément après la Deuxième Guerre mondiale. Non seulement en raison de la rencontre fondamentale de Franco Albini avec Franca Helg, mais aussi parce que l’architecte vit la reconstruction à travers ses œuvres. Telle est la seconde trace que l’exposition parisienne peut offrir aux visiteurs français. Même sur un terrain si glissant, Albini choisit une forme de dialogue particulière : celle de l’architecte qui parle presque exclusivement à travers ses œuvres et qui ne légitime pas leur appartenance en recourant aux armes de la rhétorique. Il serait vraiment intéressant de mesurer les choix des architectes français et italiens par rapport à l’ « engagement », un mot clé qui s’applique aussi bien à Jean Prouvé, Bernard Huet et Claude


della ricerca di una legittimazione, al di fuori delle opere, sembrano delineare la figura di un artista solitario, estenuato e romantico: quasi uno straniero alla Camus, il quale, anziché vivere in Algeri o a Orano, vive a Milano. Forse però così non è. E per chi voglia sfruttare l’occasione per capire Albini, o anche solo per leggere le differenze e le discontinuità di un mondo tutt’altro che omogeneo, come fu quello della ricostruzione, vale la pena di non fermarsi a uno slogan. Cosa significa, in architettura, rifiutare l’appartenenza e l’identità? Il piano forse più complesso sul quale esercitare tale rifiuto è quello dell’edilizia pubblica. Albini lavora sui progetti e sulle opere di edilizia pubbliche dal 1935 a tutto il primo settennio dell’INA Casa. Lo fa prima del piano INA Casa. Ma è proprio il suo rapporto con l’INA Casa a offrire al visitatore di questa mostra parigina alcune chiavi di lettura privilegiate. I piani di edilizia pubblica portano – e vieppiù porteranno attraverso l’industrializzazione della costruzione in Francia – a privilegiare la ripetizione e la ricerca di riproducibilità, ancor più che la risposta ai bisogni sociali di abitazione. Sin dal padiglione permanente del 1935, ma ancor più a cavallo del 1945-46 e sino alla fine degli anni Cinquanta, Franco Albini sceglie la strada della sperimentazione. E lo fa anche quando due condizioni sembrano imporre vincoli assai rigidi all’attività progettuale, vale a dire le norme che l’Istituto Nazionale delle Assicurazioni, sotto la guida di Renato Bonelli, fornisce ai suoi progettisti, il considerare la variante su una base tipologica l’incipit della vera ricerca architettonica, che proprio a Milano la fortuna degli scritti di Irenio Diotallevi e Francesco Marescotti doveva enfatizzare. È impossibile ripercorrere in poche righe un cammino di ricerca tanto meditato da diventare in certi contesti addirittura ossessivo. Se un osservatore francese volesse guardare ai progetti e alle architetture di Albini per l’edilizia pubblica, potrebbe utilmente ricorrere a tre parole chiave: trascrizione, variazione, distribuzione. La trascrizione non è solo quella di modelli. Albini è un architetto fortemente internazionalizzato e indubbiamente nelle sue piante e nei suoi disegni si riscontrano evidenti trascrizioni mitteleuropee. Ma ancor più si riscontrano trascrizioni da esperienze artistiche. E per accorgersene è sufficiente guardare a alcuni particolari essenziali del lavoro di Albini, come le tavole di progetto, autentiche narrazioni che seguono una composizione che ha al centro la pianta, e come controcanto i particolari costruttivi. Trascrizioni esistono anche nel continuo elogio della cura che Albini mette proprio nei particolari. La lettura di questi

aspetti essenziali del suo lavoro di progettista è stata quasi sempre quella del grande artigiano e della bottega dell’artista. Forse però questa non è l’unica lettura possibile. L’elogio che Albini fa della cura nei particolari – come la lampada in cima a alcuni allestimenti che illumina un soffitto nero e toglie il limite allo spazio, per fare solo un esempio – corrisponde alla trascrizione dell’ossessione surrealista del vuoto. E questo è l’indizio più difficile, ma forse anche più autentico, per capire attraverso quali termini e quali scelte culturali si definisca l’appartenenza di Albini all’universo comunista, clandestino prima e post-resistenziale dopo. Anche in questo caso, la cultura architettonica francese negli anni della ricostruzione percorre altre strade. Albini (con Franca Helg) salva la sperimentazione che aveva segnato il suo incipit progettuale, e lo fa esaltando la variazione e la distribuzione, che costituiscono le altre due tracce essenziali del suo lavoro. La variazione a partire da un elemento che caratterizzerà una data opera la si ritrova nelle piante dell’edificio INA di Parma, come in quelle dei magazzini della Rinascente di Milano, negli allestimenti delle ville (dalla Pestarini alla Neuffer, per restare agli anni 1938-40), come in quello degli appartamenti dell’INA casa nei primi anni Cinquanta, o persino nella straordinaria ricerca distributiva degli spazi interni del Pirovano. È una sperimentazione guidata dalla regola del rendere leggibile il modulo da cui è parte, e di riportare la variazione al modulo con cambiamenti minimi, quasi fosse una variazione di tono musicale. Si tratta di un atteggiamento se si vuole fenomenologico, che trova peraltro importanti echi nella cultura filosofica milanese di quegli anni da Enzo Paci a Dino Formaggio. La variazione ha come obiettivo essenziale di esaltare le capacità dell’architetto di esercitare una creazione controllata e non anarchica della composizione spaziale e funzionale, che viene verificata in primo luogo attraverso il disegno e dalla grafica del progetto. Se il visitatore di questa mostra volesse entrare nel cuore del lavoro architettonico di Franco Albini, dovrebbe partire dal disegno e dalla presentazione grafica del progetto, dall’uso delle matite e delle chine, dalla capacità di esplorare le diverse soluzioni, a cominciare sempre dalla loro rappresentazione spaziale. Di nuovo una bottega artigiana, portata all’esasperazione quando il disegno interessa un mobile? Forse no. L’autocontrollo sul processo progettuale, con tutti i sistemi interni di verifica del percorso compiuto, sono stati quasi tutti distrutti dall’autore. E anche questa è una particolarità che andrebbe indagata. A noi resta solo l’opera e quel che l’autore vuole sia 12


Parent, qu’à Franco Albini, Piero Bottoni, Luigi Figini et Gino Pollini. Malgré ce que l’on a pu écrire sur lui, Albini refuse en effet deux plans essentiels qui caractérisent également le rôle de l’architecte en France à l’époque de la reconstruction : l’appartenance et l’identité. Ses œuvres touchent pratiquement tous les niveaux du rapport entre l’architecture, la société et la production de symbolismes et d’imaginaires. Mais Franco Albini refuse de légitimer ses positions à travers des textes. L’absence de parole et l’absence de recherche d’une légitimation, en dehors des œuvres, sembleraient renvoyer à l’image d’un artiste solitaire, décadent et romantique : presque un étranger à la manière de Camus, mais qui vivrait à Milan plutôt qu’à Alger ou à Oran. Mais sans doute n’est-ce pas le cas. Et ceux qui voudraient profiter de l’occasion pour comprendre Albini, ou peut-être simplement pour comprendre les différences et les discontinuités d’un monde aussi hétérogène que le fut celui de la reconstruction, feraient mieux de ne pas s’en tenir à un slogan. Que signifie, en architecture, refuser l’appartenance et l’identité ? Le niveau sans doute le plus complexe sur lequel exercer ce refus, c’est celui des logements sociaux. Franco Albini travaille sur des projets et des réalisations de logements sociaux à partir de 1935 et jusqu’au premier septennat de l’INA casa (Istituto Nazionale delle Assicurazioni). Il le fait donc avant le plan de l’INA casa. Ce sont pourtant ses rapports avec l’INA casa qui offrent plusieurs clés de lecture privilégiées aux visiteurs de l’exposition parisienne. Les plans de logements sociaux amènent, et amèneront de plus en plus, à travers l’industrialisation de la construction en France, à privilégier la répétition et la recherche de reproductibilité, plus que la réponse aux besoins sociaux des habitants. Dès le pavillon permanent de 1935, mais davantage encore à la charnière des années 1945-1946 et jusqu’à la fin des années Cinquante, Franco Albini choisit la voie de l’expérimentation. Il le fait même quand deux conditions semblent imposer des limites rigides à l’activité du projet architectural : d’abord, les règles que l’Institut National des Assurances, sous la direction de Renato Bonelli, fournit à ses architectes ; ensuite, le fait que la variante sur une base typologique était considérée comme la base de la véritable recherche architecturale, que devait exalter la fortune des textes d’Irenio Diotallevi et Francesco Marescotti, à Milan précisément. Il est impossible de retracer en quelques lignes un parcours de recherche si réfléchi qu’il en devient même obsessionnel dans certains contextes. Si un observateur

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français voulait définir les projets et les architectures de Franco Albini dans le domaine des logements sociaux, il pourrait recourir à trois mots clé : transcription, variation et distribution. Transcription ne veut pas dire uniquement transcription de modèles. Franco Albini est un architecte fortement internationalisé et ses plans et ses dessins contiennent indéniablement des transcriptions de la Mitteleuropa. On y trouve cependant encore plus de transcriptions d’expériences artistiques. Il suffit pour s’en rendre compte d’examiner quelques détails essentiels de son travail, comme les planches réalisées en cours de projet : ce sont de véritables récits qui suivent une composition ayant pour centre le plan et pour pendant les détails de la construction. On reconnaît aussi des transcriptions dans le soin qu’Albini apporte continuellement aux détails. Ces aspects essentiels de son travail d’architecte ont presque toujours été interprétés comme relevant du grand artisan et de l’atelier de l’artiste. Mais ce n’est peut-être pas la seule interprétation possible. Chez Franco Albini, l’éloge du soin apporté aux détails – comme la lampe placée en haut de certains aménagements, qui éclaire un plafond noir et supprime la limite de l’espace, pour ne donner qu’un exemple – correspond à la transcription de l’obsession surréaliste du vide. Tel est l’indice le plus difficile, mais peut-être aussi le plus authentique pour comprendre les termes et les choix culturels à travers lesquels se définit l’appartenance de Franco Albini à l’univers communiste, d’abord clandestin, puis après l’expérience de la Résistance. La culture architecturale française a suivi là aussi d’autres voies pendant les années de la reconstruction. Franco Albini (avec Franca Helg) conserve l’expérimentation qui avait caractérisé ses débuts comme architecte, et il le fait en exaltant la variation et la distribution, qui constituent les deux autres traces essentielles de son travail. On trouve la variation à partir d’un élément qui caractérisera une œuvre donnée dans les plans du bâtiment de l’INA de Parme, mais aussi dans ceux des grands magasins La Rinascente à Milan, dans les aménagements des villas (la villa Pestarini et la villa Neuffer, pour rester dans les années 1938-1940), comme dans ceux des appartements de l’INA casa au début des années Cinquante, ou même dans l’extraordinaire recherche pour la distribution des espaces intérieurs de l’Hôtel-refuge Pirovano. Cette expérimentation est guidée par une règle précise : rendre lisible le module dont elle fait partie et ramener la variation au module avec des changements minimes, comme s’il s’agissait d’une variation de ton musical.


conservato come memoria. Il lavoro si conclude con l’opera ed è l’opera sola a dover parlare. Trattasi di un atteggiamento quasi faustiano che infatti poco si concilia con l’immagine di un Albini calvinista e rigidamente moralista proposta dalla storiografia ufficiale. Del resto, anche gli due altri topoi della ricerca di Albini suscettibili di maggior interesse per il pubblico francese, fuoriescono dall’immaginario storiografico e dai suoi canoni. Lungo tutta la sua vita, Franco Albini lavora sul confine tra architetture effimere e installazioni. Lo fa soprattutto negli allestimenti, alcuni permanenti come quelli dei musei genovesi, altri per mostre, a cominciare dal padiglione permanente INA alla Fiera di Milano del 1935, esempio davvero a cavallo dei diversi generi che l’effimero in architettura può esprimere. A segnare questa lunga stagione è la ricerca di ambientare il visitatore, più e prima che l’opera. Un umanesimo colto utilizza ogni materiale – dalla moquette alla riquadratura di pitture e oggetti esposti, dalle scale sospese dalle quali poter ottenere prospettive diverse sulle opere, a vere macchine tutt’altro che sterili per illuminare una scultura o un mobile – per rendere leggibile da parte del visitatore la mise en intrigue del progetto. Certo, nei trent’anni e oltre delle opere realizzate, gli allestimenti rispondono a politiche espositive, culturali e identitarie al tempo stesso; raccontano l’evolversi delle idee di mostre e di musei, e per questo costituiscono testimonianze ancor più delicate. Insieme agli allestimenti di Carlo Scarpa, gli allestimenti di Albini segnano la stagione dell’apertura del museo e delle mostre oltre la collezione e l’evento élitario. E per questo pongono un problema che la cultura francese, museale e storico-artistica, avverte oggi in maniera quasi drammatica. Come conservare queste testimonianze senza congelare una lettura che la diacronia degli allestimenti racconta? Quali sono o quali possono essere le tecniche, i materiali, le competenze e le conoscenze che si devono mobilitare per non compiere autentici falsi storici? In un universo contemporaneo che fa un business quasi infinto della fabrique de la mémoire, come costruire una cultura del restauro e della conservazione di opere tanto delicate e per altro significative? In Francia come in Italia, è la stessa cultura del restauro a essere in ritardo su temi e oggetti tanto delicati, quando denunzia la debolezza teorica che la attraversa e il suo dipendere, ancora quasi del tutto, dalla dimensione monumentale degli interventi chiamati a legittimare la sua scientificità. L’effimero è stato, almeno a partire dalle feste barocche e dal mondo ottocentesco delle Esposizioni universali,

il laboratorio delle più straordinarie sperimentazioni, di anticipazioni che poi, in forme spesso semplificate, diventano pratiche diffuse. Gli allestimenti di Albini costituiscono le chiavi fondamentali per capire quasi tutta la cultura dell’allestimento italiano dagli anni Trenta agli anni Sessanta, e restano in quanto tali le chiavi fondamentali per capire la ricezione di quelle opere che appaiono irriproducibili da parte di tanti architetti che successivamente si sono misurati con l’allestimento. A volerla davvero interrogare, una mostra raccolta e sintetica come questa all’Hôtel de Galliffet pone anche alcuni problemi chiave nella riflessione critica e storiografica di oggi. Un architetto schivo e silenzioso come Franco Albini ha lasciato non solo allievi importanti, come Biagio Garzena, Fredi Durgman e Corrado Levi, fra gli altri – ma ha anche influenzato, metafora purtroppo infelice, generazioni di professionisti e di intellettuali. Come misurare dunque la fama e la ricezione di un architetto che parla con le opere e con l’insegnamento a Milano, Venezia, Torino? La risposta non è facile. Esistono copie, citazioni, per parti, rivendicazioni di una possibile genealogia – la più famosa è quella di Renzo Piano –­ , esistono tesi di laurea ed esercizi didattici quasi infiniti. Sono tutti strumenti utili, ma la derivazione da un’opera e non da un testo è tema che questa mostra parigina sottintende e che varrebbe la pena di lasciare in eredità al suo visitatore. L’ultimo topos è forse il più delicato per un architetto che si vuole razionalista. Ed è rappresentato da opere e frammenti di opere davvero singolari: il rifugio Provano a Cervinia, le scale della casa Marcenaro o di Palazzo Rosso o dell’edificio INA a Parma. Sono tutte opere o particolari di opere che vengono riassunti quasi sempre nel rapporto con la tradizione. Ma è davvero così? Il fuori scala dei monoliti (chiamarle colonne sarebbe arduo) del rifugio Pirovano, l’aggetto libero da vincoli della scala di casa Marcenaro, la fuga espressionista della scala di Parma, sollevano molti dubbi sulla possibilità di riunificare queste soluzioni architettoniche sotto un name without necessity. Si tratta di partiti architettonici portati all’estremo, deformazioni destinate a sorprendere e in parte a stupire. Non appartengono certo a una cultura architettonica che la fortuna di formule come “l’altra modernità” ha finito per spaesare e ricondurre a immagini e immaginari sostanzialmente devianti. Le ricerche del fuori scala, come quelle dello spaesamento stanno tutte dentro la cultura della modernità novecentesca, e fanno parte delle eclissi di una ragione normativa e prescrittiva che l’estenuazione della cultura funzionalista

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Il s’agit d’une attitude en quelque sorte phénoméno­ logique, dont on trouve d’ailleurs des échos dans la culture philosophique milanaise de cette période, avec Enzo Paci et Dino Formaggio. La variation a comme objectif essentiel d’exalter la capacité de l’architecte de réaliser une création contrôlée et non anarchique de la composition spatiale et fonctionnelle, qui est vérifiée en premier lieu à travers le dessin et par le graphisme du projet. Si le visiteur de cette exposition veut pénétrer au cœur du travail architectural de Franco Albini, il doit partir du dessin et de la présentation graphique du projet, de l’utilisation des crayons et des encres, de la capacité d’explorer les différentes solutions en commençant toujours par leur représentation spatiale. Est-ce bien encore une fois un atelier d’artisan, porté à ses extrêmes conséquences quand le dessin concerne un meuble ? Peutêtre pas. Les systèmes internes de vérification du parcours accompli, en vue d’exercer un autocontrôle sur le processus d’élaboration du projet, ont presque tous été détruits par l’auteur. Il s’agit là encore d’une particularité qu’il faudrait examiner. Il ne nous reste que l’œuvre et ce que l’auteur a voulu que soit conservé comme mémoire. Le travail s’achève avec l’œuvre et seule l’œuvre doit parler. Il s’agit d’une attitude presque faustienne, qui ne se concilie guère avec l’image d’un Franco Albini calviniste et rigidement moraliste, telle que la propose l’historiographie officielle. Les deux autres topoi de la recherche de Franco Albini susceptibles d’intéresser le public français échappent d’ailleurs à l’imaginaire historiographique et à ses règles. Pendant toute sa vie, Albini travaille à la frontière entre les architectures éphèmères et les installations. Il le fait surtout dans les aménagements, certains permanents – comme ceux des musées de Gênes –, d’autres conçus pour des expositions, à commencer par le pavillon permanent de l’INA à la Foire de Milan en 1935, une réalisation réellement située à la charnière des différents genres que l’éphémère peut exprimer en architecture. Cette longue période créatrice est caractérisée par la tentative d’accueillir le visiteur, plus que l’œuvre, et avant l’œuvre. Un humanisme savant utilise tous les matériaux possibles – la moquette, l’encadrement des tableaux et des objets exposés, les escaliers suspendus offrant des perspectives nouvelles sur les œuvres, ou encore de véritables machines nullement stériles pour éclairer une sculpture ou un meuble – pour rendre lisible au visiteur la mise en intrigue du projet. Pendant les trente années que couvre la réalisation de ces œuvres, les aménagements répondent évidemment à des politiques d’exposition, à la fois culturelles et identitaires; ils racontent l’évolution des concepts

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d’expositions et de musées, et constituent pour cette raison des témoignages encore plus délicats. Les aménagements de Franco Albini, avec ceux de Carlo Scarpa, caractérisent l’époque de l’ouverture du musée et des expositions au-delà de la collection et de l’événement élitiste. C’est pour cette raison qu’ils posent un problème que la culture française, muséale et historico-artistique, affronte aujourd’hui de manière presque dramatique. Comment conserver ces témoignages sans congeler une lecture que raconte la diachronie des aménagements ? Quels sont ou quels peuvent être les techniques, les matériaux, les compétences et les connaissances que nous devons mobiliser pour ne pas commettre de véritables erreurs d’interprétation historique ? Dans un univers contemporain qui transforme la fabrique de la mémoire en un business presque infini, comment construire une culture de la restauration et de la conservation d’œuvres si délicates, et par ailleurs tellement significatives ? En France comme en Italie, c’est la culture de la restauration qui est en retard sur des questions et sur des objets si délicats, quand elle révèle la faiblesse théorique qui la traverse, ainsi que sa dépendance encore presque totale à l’égard de la dimension monumentale des interventions chargées de légitimer sa scientificité. Au moins à partir des fêtes baroques et du monde des Expositions universelles du xixe siècle, l’éphémère a été le laboratoire des expérimentations les plus extraordinaires, d’anticipations qui sont devenues ensuite des pratiques courantes, sous des formes souvent simplifiées. Les aménagements de Franco Albini constituent les clés fondamentales pour comprendre pratiquement toute la culture de l’aménagement italien des années Trente jusqu’aux années Soixante. Et en tant que tels, ce sont encore des clés fondamentales pour comprendre la réception de ces œuvres qui paraissent non reproductibles par tant d’architectes qui se sont occupés ensuite d’aménagement. Si on l’interroge vraiment, une exposition dense et synthétique comme celle qui est présentée à l’Hôtel de Galliffet pose aussi un certain nombre de problèmes clé au sein de la réflexion critique et historiographique actuelle. Un architecte aussi réservé et silencieux que Franco Albini a eu non seulement des élèves importants – Biagio Garzena, Fredi Drugman et Corrado Levi, pour ne citer qu’eux –, mais il a aussi influencé, métaphore malheureuse, des générations de professionnels et d’intellectuels. Comment mesurer la renommée et la réception d’un architecte qui parle avec ses œuvres et avec son enseignement à Milan, Venise et Turin ? Il est difficile de répondre à cette question. Il existe des copies,


portava dentro di sé. Per questo, anche oggi a Parigi, costituiscono indizi importanti. E parlano di nuovo di un gioco surrealista o se si vuole ancor più apollineriano. D’altro canto, è proprio a Apollinaire che viene, e non per caso, dedicato il numero 25 di “L’Esprit Nouveau”. Dunque, il vocabolario artistico di Franco Albini non è riducibile a formule, né cerca apparentamenti, tanto meno fughe in avanti. La lezione di questa mostra organizzata a Parigi dall’Istituto Italiano di Cultura sta forse proprio in un possibile richiamo alla prima parte di un famoso testo di Apollinaire: Les Méditations Esthétiques. Il senso della ricerca di Albini consiste anzi nella più importante aporia di quel testo. La sua continua sperimentazione vive di una verità che ’’on ne découvrira jamais une fois pour toutes” e al tempo stesso dell’ossessione per una purezza e un’unità delle proprie opere, come legittimazioni del dominio dell’uomo sulla natura. In fondo, il rifugio Pirovano considerato un esempio di un’architettura che attraverso i materiali, la tecnica costruttiva, le allusioni iconografiche apriva alla tradizione, rappresenta forse il più chiaro esempio di quella meditazione estetica che segna anche il limite di un’ idea di modernità umanistica e astratta, sperimentale e però mai prescrittiva. E allora, il fuori scala appare quasi come lo sberleffo del Falstaff shakespeariano chiamato a sancire l’illusione universalistica di quella stessa meditazione.

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des citations, pour des parties, des revendications d’une généalogie possible – la plus célèbre est celle de Renzo Piano – il existe des thèses de doctorat et des exercices didactiques presque infinis. Tous ces instruments sont utiles, mais la dérivation à partir d’une œuvre et non pas d’un texte est une problématique que cette exposition parisienne sous-entend et qu’il vaudrait la peine de léguer au visiteur. Le dernier topos est sans doute le plus délicat pour un architecte qui se veut rationaliste. Il est constitué par des œuvres et des fragments d’œuvres vraiment singulières : le refuge Pirovano à Cervinia, les escaliers de la maison Marcenaro, du Palazzo Rosso et de l’immeuble de l’INA à Parme. Ces œuvres ou ces détails d’œuvres renvoient presque toujours au rapport avec la tradition. Mais est-ce vraiment le cas ? Le pas à l’échelle des monolithes – il serait exagéré de les appeler des colonnes – du refuge Pirovano, le surplomb sans contraintes de l’escalier de la maison Marcenaro et la fuite expressionniste de l’escalier de Parme soulèvent de nombreux doutes sur la possibilité d’unifier ces solutions architecturales sous un name without necessity. Il s’agit d’éléments architecturaux portés à leur extrême limite, de déformations destinées à étonner et en partie à surprendre. Ils n’appartiennent certainement pas à une culture architecturale que la fortune de formules comme « l’autre modernité » a fini par désorienter et par ramener à des images et à des imaginaires fondamentalement déviants. Les recherches du pas à l’échelle, comme celles de la désorientation, appartiennent entièrement à la culture de la modernité du xxe siècle ; elles font partie des éclipses d’une raison normative et prescriptive que le déclin de la culture fonctionnaliste portait en son sein. Pour cette raison, aujourd’hui aussi à Paris, elles constituent des indices importants. Et elles parlent de nouveau d’un jeu surréaliste ou, si l’on préfère, à l’Apollinaire. Ce n’est d’ailleurs pas un hasard si c’est à Guillaume Apollinaire qu’est dédié le numéro 25 de « L’Esprit Nouveau ». Le vocabulaire artistique de Franco Albini ne peut donc pas se réduire à des formules, il ne cherche pas des apparentements et encore moins des fuites en avant. La leçon de cette exposition organisée à Paris par l’Institut culturel italien réside sans doute dans une évocation possible de la première partie d’un célèbre texte d’Apollinaire : Les Méditations esthétiques. Le sens de la recherche d’Albini consiste même dans l’aporie la plus importante de ce texte. Son expérimentation continuelle vit d’une vérité qu’ « on ne découvrira jamais une fois pour toutes » et en même temps, de l’obsession d’une pureté et d’une unité de ses propres œuvres,

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en tant que légitimations de la domination de l’homme sur la nature. Au fond, le refuge Pirovano considéré comme un exemple d’une architecture qui renvoyait à la tradition à travers les matériaux, la technique de construction et les allusions iconographiques, constitue peut-être le plus clair exemple de la méditation esthétique qui marque aussi la limite d’une idée de modernité humaniste et abstraite, expérimentale mais jamais prescriptive. Et alors, le pas à l’échelle apparaît presque comme la moquerie du Falstaff de Shakespeare, appelé à confirmer l’illusion universaliste de cette méditation.


Giampiero Bosoni L’architettura è come la coscienza1 L’opera di Franco Albini attraverso una storia di incontri “La storia degli uomini non è la storia della natura, in cui tutto ciò che può accadere accade: è fatta dagli uomini con continui atti coscienti che modificano ogni momento il suo corso. La continuità degli avvenimenti non è per se stessa tradizione; lo diventa quando è nella coscienza degli uomini.”2 Franco Albini, 1955

Se è vero, come rifletteva Deleuze rileggendo Spinoza3, che la vita nel senso proprio del termine è una sequenza di incontri (con oggetti, immagini, luoghi e persone), può essere interessante rileggere con una simile prospettiva il percorso intellettuale e progettuale, punteggiato essenzialmente di “affinità elettive”, di Franco Albini: sensibilissimo architetto e personalità sempre alla ricerca di “sostanza” nello spirito spinoziano. La caratteristica di un incontro è il fatto di non essere premeditato: è qualcosa che ti capita, che crea scompiglio nel tuo ordine e ne crea uno nuovo. Il poeta e scrittore tedesco Hugo von Hofmannsthal diceva che ogni incontro è un fattore di conoscenza tale da determinare un effetto di scomposizione e rintegrazione del proprio essere interiore, della propria coscienza. Tuttavia, come ci ricorda la cultura popolare, ogni evento, anche quello apparentemente più casuale, deriva in buona parte da scelte, da atti più o meno consapevoli, comunque di fatto da indirizzi di volontà. L’incontro è già un’arte di vivere: potremmo dire che vivere in fondo non è altro che sviluppare un ordine del quotidiano, prendere 1 “È importante verificare le intenzioni e le opere. Le opere non corrispondono alle intenzioni, spesso. Anche perché le opere dell’artista non si rivelano nell’intenzione. L’architettura è come la coscienza.” Conclusioni di Franco Albini al Convegno di Varenna (4-5 giugno 1960) indetto per tentare di infondere una nuova linfa e nuove prospettive al Movimento di Studi per l’Architettura (MSA), che tuttavia dopo quell’occasione cessò di esistere. In: Matilde Baffa, Corinna Morandi, Sara Protasoni, Augusto Rossari, Il Movimento di Studi per l’Architettura, Laterza, Bari 1995. 2 Dalla relazione introduttiva di Franco Albini a Un dibattito sulla tradizione in architettura svoltosi a Milano nella sede del Movimento per gli studi di architettura (MSA) la sera del 14 giugno 1955, in “CasabellaContinuità” n. 206, 1955. 3 Gilles Deleuze nel suo saggio Spinoza et le problème del l’expression (Éditions de Minuit, Paris 1968) delinea una "pragmatica degli incontri" secondo la quale, seguendo il pensiero di Spinoza, gli uomini possono avvedersi che la felicità di ciascuno viene determinata casualmente da ciò che incontra e da ciò che gli accade nella vita.

progressivamente la misura delle abitudini. Questo processo ci rimanda all’aforisma orientale “Semina un pensiero e raccoglierai un’azione, semina un’azione e raccoglierai un’abitudine, semina un’abitudine e raccoglierai un carattere, semina un carattere e raccoglierai un destino”. Senza dubbio questa sembra essere stata la linea rossa che ha segnato l’esperienza umana e culturale di Franco Albini. 1905-1932 L’educazione familiare: il padre ing. Baldassare Albini Franco Albini nasce il 17 ottobre 1905 nella grande casa padronale di Robbiate in provincia di Lecco, a circa 45 chilometri da Milano, appena sotto le Prealpi, dove le colline della Brianza degradano dolcemente verso l’Adda, luoghi particolarmente cari a Leonardo da Vinci. Il bisnonno, Giulio Cesare Albini, fu tra i primi alla fine del ‘700 a sviluppare l’industria della seta nel Nord Italia. La grande casa di Robbiate, dove Franco vive fino all’età di undici anni e continuerà a frequentare nelle lunghe vacanze estive sino ai quattordici, è un edificio fondato nel 16304, acquistato dal bisnonno e poi ampliato dal nonno Antonio5, sino a farlo diventare un palazzo di 110 locali fra appartamenti, stabilimento bacologico, serre, stalle, servizi, solai, casa del fattore, cantine e torchio. Il padre di Franco, Baldassare Albini, è il nono di dieci fratelli (sei femmine e quattro maschi) e l’unico a laurearsi in ingegneria al Politecnico di Milano: per tutti “El Sciur Ingegner”. La mamma, Corinna Toniolo, proviene dalla piccola borghesia veneta, funzionari di Stato, padre ingegnere del Genio Civile: gente industriosa, sobria, proba. Franco, come le sue sorelle, fa le elementari in casa. Il contatto con la scuola e il mondo esterno inizia solo in quinta. La passione del padre per la bicicletta, all’epoca ancora poco diffusa, con la quale trascina tutta la famiglia in grandi gite, e l’arrivo di una grande e moderna trebbiatrice nel 1913 sono i primi segni di modernità che affascinano il bambino Franco Albini6. Nell’autunno 1916, con l’inizio dell’anno scolastico, la famiglia Albini si trasferisce a Milano in un appartamento in affitto in via Manzoni. L’ingegnere

4 Inizialmente convento di proprietà dei padri di Sant’ Eustorgio, in seguito confiscato come bene religioso all’epoca della Repubblica Cisalpina e del Napoleonico Regno d’Italia. 5 Ancora oggi una targa posta dal Municipio sul fronte dell’edificio che si affaccia sul largo di fronte alla casa recita: “Piazza dottor Antonio Albini”. 6 Maria Brandon Albini, La Gibigianna, Matteo Editore, Treviso 1980

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Giampiero Bosoni L’architecture est comme la conscience1 L’œuvre de Franco Albini à travers une histoire de rencontres « L’histoire des hommes n’est pas l’histoire de la nature, où tout ce qui peut arriver arrive : elle est faite par les hommes avec des actes conscients continuels qui modifient son cours à chaque instant. La continuité des événements n’est pas par elle-même tradition ; elle le devient quand elle est dans la conscience des hommes. »2 Franco Albini, 1955

S’il est vrai, comme le pensait Deleuze lecteur de Spinoza3, que la vie au sens propre du terme est une suite de rencontres (avec des objets, des images, des lieux et des personnes), il peut être intéressant de relire selon cette perspective le parcours intellectuel et créatif, essentiellement ponctué d’« affinités électives », de Franco Albini : un architecte doté d’une extrême sensibilité et d’une personnalité toujours en quête de « substance » dans l’esprit spinozien. Ce qui caractérise une rencontre, c’est qu’elle n’est pas préméditée : c’est quelque chose qui vous arrive, qui bouleverse votre ordre établi et en crée un nouveau. Le poète et écrivain allemand Hugo von Hofmannsthal disait que chaque rencontre est un facteur de connaissance qui provoque un effet de décomposition et de réintégration de l’être intérieur, de la conscience du sujet. Toutefois, comme nous le rappelle la culture populaire, chaque événement, et même l’événement apparemment le plus fortuit, découle en grande partie de choix, d’actes plus ou moins conscients et,

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1 « Il est important de vérifier les intentions et les œuvres. Les œuvres ne correspondent pas aux intentions, souvent. En particulier, parce que les œuvres de l’artiste ne se révèlent pas dans l’intention. L’architecture est comme la conscience. » Conclusions de Franco Albini au Congrès de Varenna (4-5 juin 1960), organisé pour tenter de donner une nouvelle vitalité et de nouvelles perspectives au Movimento di Studi per l’Architettura (MSA), qui cessa toutefois d’exister après cet événement. In : Matilde Baffa, Corinna Morandi, Sara Protasoni, Augusto Rossari, Il Movimento di Studi per l’Architettura, Bari, Laterza, 1995. 2 Tiré de l’introduction de Franco Albini à Un dibattito sulla tradizione in architettura svoltosi a Milano nella sede del Movimento per gli studi di architettura (MSA) la sera del 14 giugno 1955, in « Casabella-Continuità », no 206, 1955. 3 Dans son essai Spinoza et le problème de l’expression (Paris, Éditions de Minuit, 1968), Gilles Deleuze définit une « pragmatique des rencontres » selon laquelle, en suivant la pensée de Spinoza, les hommes peuvent se rendre compte que le bonheur de chacun est déterminé fortuitement par ce qu’il rencontre et par ce qui lui arrive dans la vie.

de fait, de décisions de la volonté. La rencontre est déjà un art de vivre : nous pourrions dire qu’au fond, vivre, ce n’est rien d’autre que développer un ordre du quotidien, c’est prendre progressivement la mesure des habitudes. Ce processus n’est pas sans évoquer cet aphorisme oriental : « Sème une pensée et tu récolteras une action, sème une action et tu récolteras une habitude, sème une habitude et tu récolteras un caractère, sème un caractère et tu récolteras un destin. » Tel semble bien avoir été le fil conducteur qui a marqué l’expérience humaine et culturelle de Franco Albini. 1905-1932, l’éducation familiale : son père, l’ingénieur Baldassare Albini Franco Albini est né le 17 octobre 1905 dans la grande maison de maître de Robbiate, en province de Lecco, à environ 45 kilomètres au nord de Milan, juste au-dessous des pré-Alpes, là où les collines de la Brianza descendent doucement vers l’Adda, des lieux particulièrement chers à Léonard de Vinci. Son arrière-grand-père, Giulio Cesare Albini, fut l’un des pionniers de l’industrie de la soie dans le Nord de l’Italie à la fin du xviiie siècle. La grande maison de Robbiate, où Franco vit jusqu’à l’âge de onze ans et qu’il continue à fréquenter pendant ses longues vacances d’été jusqu’à l’âge de quatorze ans, est un bâtiment datant de 16304 que son arrière-grand-père avait racheté et qui fut ensuite agrandi par son grand-père Antonio5, qui en fit une bâtisse de cent dix pièces, comprenant des appartements, une manufacture bacologique, des serres, des écuries, des pièces de service, des greniers, la maison du métayer, des caves et un pressoir. Le père de Franco, Baldassare Albini, est le neuvième d’une fratrie de dix frères et sœurs – six filles et quatre garçons – et le seul de la famille qui fit des études d’ingénieur à l’École Polytechnique de Milan : pour tout le monde, Baldassare était El Sciur Ingegner, « Monsieur l’ingénieur ». Sa mère, Corinna Toniolo, était issue d’une famille de fonctionnaires de l’État, appartenant à la petite bourgeoisie de la Vénétie. Le grandpère de Franco était ingénieur du génie civil. C’étaient des gens travailleurs, sobres et probes. Franco, comme ses sœurs, fait l’école primaire à la maison. Sa découverte de l’école et du monde extérieur ne 4 Ce couvent appartenant aux pères de Sant’Eustorgio fut ensuite confisqué comme bien religieux à l’époque de la République Cisalpine, puis du Royaume d’Italie fondé par Napoléon. 5 On peut lire aujourd’hui encore sur une plaque apposée par la Mairie sur la façade du bâtiment donnant sur la place qui s’étend devant la maison : « Place du docteur Antonio Albini ».


Albini sente avanzare l’età e ritiene che in campagna non si guadagna più niente7. Franco inizierà il ginnasio al Parini, dove ha studiato anche il padre8. La casa di Robbiate, ancora meta di lunghe vacanze estive, verrà venduta nel 1919. Franco Albini, come le sorelle, si troverà da principio spaesato nel nuovo ambiente scolastico della grande città, in cui i ragazzi di città apparivano più disinvolti, pronti, quasi forniti di una certa superiorità sociale rispetto a loro, villanelli appena inurbati. In quegli anni si delineano più precisamente i differenti caratteri dei fratelli Albini e Franco agli occhi dei genitori passa per “l’artista equilibrato, lo spirito armonioso, insomma il futuro ingegnere, ritratto del padre”9. Nel clima per lo più tradizionalista e in parte bigotto della famiglia, soprattutto per la componente femminile della madre e della nonna, spicca la vena, un po’ soffocata, laica e anticlericale del padre, che sicuramente esercita una certa influenza su Franco il quale, a sedici anni, smette di andare a messa e e di fare la comunione il giorno di Pasqua10. La cultura risorgimentale d’ispirazione liberale mazziniana di Baldassare Albini, quasi sempre contenuta in un empirismo pragmatico, si manifestò impetuosamente in un pomeriggio domenicale dei primi anni Venti, attraverso un diverbio con buona parte del parentato a lui ostile, scoppiato quando l’ingegnere dicharò che “Mussolini era un volgare arrivista, un avventuriero, un demagogo senza scrupoli, un reazionario. (…) ‘Liberale sono stato e liberale rimango!’ – sentenziò l’ingegner Albini – Il partito liberale ha fatto il Risorgimento, è ancora abbastanza buono per governare l’Italia. Senza libertà, senza tolleranza, non si vive, in una nazione civile’”11. Immaginiamo che questa dichiarazione possa aver lasciato un segno profondo nel figlio allora diciottenne. Durante gli anni del liceo, Franco Albini si appassiona all’arte e frequenta alcuni pittori come Giuseppe Pasini e

7 Baldessare Albini aveva partecipato ai movimenti liberali democratici e laici contro i clericali capitanati dai parroci, nella campagne brianzole, alienandosi così la simpatia della ricca clientela delle ville attorno alla loro, negli anni tra il 1900 e 1917. 8 La sorella Maria va alla scuola Manzoni, dove studiarono tutte le sorelle del padre, e sua sorella Carla, più piccola, va alla scuola elementare di via Spiga. 9 Maria Brandon Albini, op. cit. 10 “Nessuno gli disse nulla; tutti consideravano logico che, come papà, esso fosse libero di scegliersi le sue convinzioni personali. ‘Franco è un uomo!’”, da Maria Brandon Albini, op. cit 11 Maria Brandon Albini, op. cit.

Cesare Fratino12. Quest’ultimo è un pittore post-impressionista, docente di Scenografia e disegno dal vero alla Scuola di architettura del Politecnico tra il 1910 e il 1920 – gli stessi anni in cui la frequentava Gio Ponti da studente. Curiosa coincidenza, Cesare Fratino13 figura anche in seno alla Commissione giudicatrice della sessione di laurea di Albini nel 1929, composta fra gli altri da Gaetano Moretti, Ambrogio Annoni e Piero Portaluppi. Quindi l’artista che convince l’ingegnere Albini a iscrivere il figlio Franco alla scuola di architettura sarà anche uno dei valutatori che lo licenzierà con il massimo dei voti all’esame di laurea. Un giorno Fratino parlò anche al padre di Albini – come riporta il giornalista (scrittore e poeta) Raffaello Baldini in una lunga intervista a Franco Albini14: “‘Perché non fa studiare architettura a quel ragazzo?’ (…) ‘L’architettura, caro amico…’ rispose l’ingegnere. E siccome nemmeno il figlio aveva idee molto chiare sulla propria vocazione, fu deciso per l’architettura naturalmente in prova. Franco Albini s’iscrisse nel 1924 all Scuola di Architettura del Politecnico dove si laureò nel 1929. ‘Cominciai così facendo un tentativo – ricordava l’architetto. – Pensavo: in caso, deciderò fra un anno. Poi mi sono dimenticato di decidere’”15. Negli stessi anni, la crisi del 1929 gettò sul lastrico tanti liberi professionisti e tra questi anche Baldassare Albini che morirà nel 1932, lasciando, suo malgrado, la famiglia in ristrettezze economiche. Il profilo accademico di Franco Albini al Politecnico, particolarmente attento ai dettami scolastici, fa supporre che egli sentisse profondamente la responsabilità verso le difficoltà finanziarie in cui versava la famiglia. Già prima di laurearsi e sino al 1931, Albini infatti lavora presso gli studi degli architetti Paolo Mezzanotte e in seguito Gio Ponti e Emilio Lancia. Le sue origini e la sua formazione lo portano a riconoscere da principio, in maniera per così dire disciplinata, i riferimenti dati dal contesto istituzionale della Scuola; al più, come aggiornamento, si interessa alla nascente tendenza neoclassicheggiante del gruppo novecentista rappresentato da Eugenio Marelli, Giovanni Muzio, Mino Fiocchi, Tommaso Buzzi, Mezzanotte e il duo Ponti e Lancia16. 12 Attraverso l’amicizia con questi pittori Albini si avvicina all’opera dell’artista Daniele Ranzoni, il più qualificato esponente del movimento lombardo della Scapigliatura. 13 Diplomato a Brera anche come architetto, Cesare Fratino firmerà, quando Franco Albini ha già il suo studio di architetto, insieme a Ernesto Griffini la colonia “Lino Redaelli” a Cesenatico nel 1939. 14 Raffaello Baldini, L’architetto Franco Albini alla scoperta dell’Europa, intervista in «Settimo giorno», 552, 21 maggio 1959, p. 52-54 15 ibidem 16 ibidem

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commence qu’avec son entrée au collège. La passion de son père pour la bicyclette, un moyen de transport encore peu répandu à cette époque avec lequel il entraîne toute sa famille dans de grandes randonnées, et l’arrivée d’une grande moissonneuse moderne en 1913, sont les premiers signes de modernité qui fascinent le jeune Franco Albini6. À l’automne 1916, au début de l’année scolaire, la famille s’installe à Milan dans un appartement en location sis via Manzoni. L’ingénieur Albini sent l’âge venir et considère qu’on ne gagne plus rien à la campagne7. Franco commence à suivre les cours au Lycée Parini, où son père a fait lui aussi ses études8. La maison de Robbiate, où il passe encore ses longues vacances d’été, sera vendue en 1919. Franco, comme ses sœurs, se sent d’abord dépaysé dans la nouvelle école de la grande ville, dont les élèves sont plus désinvoltes, plus vifs et comme imbus d’une certaine supériorité sociale par rapport aux petits paysans tout juste arrivés en ville. C’est au cours de ces années que les caractères des enfants Albini se révèlent de façon plus précise : aux yeux de ses parents, Franco passe pour « l’artiste équilibré, l’esprit harmonieux, en somme le futur ingénieur, le portrait de son père »9. L’esprit laïque et anticlérical de Baldassare Albini tranche avec le climat traditionaliste et un peu bigot du reste de la famille (représenté surtout par la mère et la grand-mère de Franco), et il exerce indéniablement son influence sur son jeune fils, puisqu’à l’âge de seize ans celui-ci cesse d’aller à la messe et de communier le jour de Pâques10. La culture libérale-mazzinienne de Baldassare Albini, nourrie par l’esprit du Risorgimento, est presque toujours tempérée par une forme d’empirisme pragmatique. Elle se manifeste pourtant impétueusement un dimanche après-midi, au début des années Vingt : l’ingénieur se querelle avec une bonne partie de sa famille, qui lui était déjà hostile, lorsqu’il déclare que « Mussolini est un vulgaire arriviste, un aventurier, un démagogue sans scrupules, un réactionnaire. […] Libéral j’ai été et libéral je demeure ! – lance l’ingénieur Albini.

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6 Maria Brandon Albini, La Gibigianna, Trévise, Matteo Editore, 1980. 7 Baldassare Albini avait participé aux mouvements libéraux, démocratiques et laïques contre les cléricaux dirigés par les prêtres dans les campagnes de la Brianza, en s’aliénant ainsi la sympathie de la riche clientèle des villas disséminées autour de leur maison, au cours des années 1900-1917. 8 Sa sœur Maria suit les cours de l’école Manzoni, où toutes les sœurs de leur père avaient fait leurs études, alors que sa sœur cadette Carla fréquente l’école primaire de la via Spiga. 9 Maria Brandon Albini, op. cit. 10 « Personne ne lui a rien dit ; tous, nous considérions comme logique que comme papa, il soit libre de choisir ses convictions personnelles. Franco est un homme ! », tiré de M. Brandon Albini, op. cit.

Le parti libéral a fait le Risorgimento, il est encore assez bon pour gouverner l’Italie. On ne peut pas vivre dans une nation civile sans liberté, ni sans tolérance »11. Cette déclaration a certainement dû marquer Franco, alors âgé de dix-huit ans. Pendant ses années de lycée, Franco Albini se passionne pour l’art et fréquente des peintres comme Giuseppe Pasini et surtout Cesare Fratino12, un artiste post-impressionniste, professeur de Scénographie et de Dessin d’après nature à l’École d’Architecture de l’École Polytechnique, de 1910 à 1920 – c’est-à-dire à l’époque où Gio Ponti suit les cours de cette institution. Par une curieuse coïncidence, Cesare Fratino13 est également membre de la commission qui décernera à Franco Albini son diplôme d’architecte en 1929, commission formée entre autres de Gaetano Moretti, Ambrogio Annoni et Piero Portaluppi. L’artiste qui convainc l’ingénieur Baldassare Albini d’inscrire son fils à l’École d’architecture sera donc aussi l’un des examinateurs qui lui présenteront les félicitations du jury lors de son examen final. Un jour, Fratino parla au père d’Albini, c’est ce que raconte le journaliste, écrivain et poète Raffaello Baldini dans la longue interview que lui a accordée Franco Albini14: « “Pourquoi ne faites-vous pas étudier l’architecture à ce garçon ? ” [...] “L’architecture, mon cher ami…” », répondit l’ingénieur. Et comme son fils non plus n’avait pas les idées très claires quant à sa vocation, on se décida pour l’architecture, naturellement “ à l’essai”. Franco Albini s’inscrit en 1924 à l’École d’Architecture de l’École Polytechnique où il obtiendra son diplôme en 1929. “J’ai donc commencé en faisant une tentative – se souviendra l’architecte. Je me disais : je pourrai toujours décider dans un an. Et puis j’ai oublié de décider”».15 Au cours de ces mêmes années, la crise de 1929 provoque la ruine de nombreux représentants des professions libérales et, en particulier, de Baldassare Albini, qui mourra en 1932 en laissant sa famille aux prises avec des problèmes économiques. La carrière universitaire de Franco Albini à l’École Polytechnique montre qu’il se sentait responsable de sa famille en proie à des difficultés financières : avant même 11 Maria Bandon Albini, op. cit. 12 C’est grâce à son amitié avec ces peintres que Franco Albini découvre l’œuvre de l’artiste Daniele Ranzoni, le principal représentant du mouvement lombard de la Scapigliatura. 13 Cesare Fratino, qui avait aussi obtenu un diplôme d’architecte à Brera, signera avec Ernesto Griffini la colonie « Lino Redaelli » à Cesenatico en 1939, quand Franco Albini a déjà son propre atelier d’architecte. 14 Raffaello Baldini, L’architetto Franco Albini alla scoperta dell’Europa, interview dans « Settimo Giorno », 552, 21 mai 1959, p. 52-54. 15 Ibid.


Considerando il suo elaborato di laurea, in stile novecentista, e i suoi primi lavori di arte decorativa pubblicati sulla rivista “Domus”, si direbbe che Albini in quel periodo non sia affatto coinvolto nel dibattito già aperto sull’architettura razionalista da parte del Gruppo 7, che aveva stilato il manifesto nel 1926, anno in cui Albini è iscritto al secondo anno della Scuola di Architettura del Politecnico. Ad ogni modo nel 1929, dopo la laurea, Albini visita Barcellona, in occasione dell’esposizione internazionale, dove sicuramente ammira il padiglione tedesco progettato da Mies van der Rohe, e in seguito raggiunge Parigi, dove, secondo le testimonianze di Franca Helg, sembra si sia recato in visita allo studio di Le Corbusier. 1917-1940 La collaborazione grafica e intellettuale della sorella Carla Zanini Albini Franco Albini ha due sorelle: Maria (1904-1995) di un anno più grande, e Carla (1908-1943) di tre più giovane. La loro infanzia e parte della loro giovinezza viene amorevolmente descritta da Maria Brandon Albini in un libro, “La Gibigianna”, dedicato agli anni tra le due guerre fino ai primi anni dopo la Liberazione del 194517. Dobbiamo a Maria il ricordo più chiaro e intenso della figura di sua sorella Carla Albini che fu (come Maria racconta anche con una certa punta di gelosia) particolar­ mente coinvolta nell’attività intellettuale, creativa e progettuale del fratello Franco. Carla Albini (sposata Zanini nel 1940) si costruisce da autodidatta una solidissima formazione di livello universitario, non essendo previsto ai sui tempi che una ragazza che dopo il liceo si dovesse laureare. Entra in contatto con Raffaello Giolli e inizia a collabora con varie riviste d’arte esprimendo una sua lungimirante vis critica18. Nel circuito di Giolli conosce il critico napoletano Edoardo Persico, rimanendo particolarmente affascinata dal suo fervore e dalla sua profondità culturale. Persico sarà una figura fondamentale anche per il formarsi della coscienza di Franco Albini. E Carla scriverà anche di questi significativi intrecci dell’architettura 17 La sorella Maria, emigrata a Parigi nel 1936, naturalizzata francese nel 1989, è stata lettrice di Italiano in diverse facoltà di Lettere in Francia ed è conosciuta come una delle esponenti di maggior rilievo degli studi meridionalistici del secondo dopoguerra. Iscritta segretamente al partito comunista partecipò attivamente con il marito Pierre Brandon alla lotta della Resistenza francese durante la liberazione di Parigi nel 1945. 18 Fra i tre fratelli Albini che a più riprese hanno pubblicato articoli e progetti sulla rivista Domus diretta da Ponti, la prima ad averne l’occasione è Carla Albini con una recensione di due pagine su delle soluzioni d’interni intitolato 2 interni di Giulio Rosso, in “Domus” n.23, novembre 1929.

razionalista italiana, in un denso testo accurato, “Le arti plastiche in Italia dal 1860 al 1943”, uscito postumo in edizione francese grazie alla sorella Maria19. Il formarsi del legame tra Carla e Franco viene ricordato da Maria in diversi passaggi del suo libro “La Gibigianna”. In particolare, spicca quello che viene ricordato come l’episodio del Presepio di Spirano. “Appena ebbe tre anni – scrive Maria – Carla introdusse nei suoi rapporti con Franco e con me la sua turbolenta e capricciosa personalità. (…) Franco fu presto soggiogato da lei.(…) Ciò che li univa sin dall’infanzia, fu il senso carnoso dell’arte; ciò che ci divise, entro un certo limite, fu, tra me e loro, il mondo scarnito dei sogni. Non sapevo utilizzare le mie mani, ero goffa, e loro erano industri e pazienti. Franco e Carla toccavano qualsiasi materia con fiducia e ne traevano capolavori; bambole, burattini, scenari, armi lucenti, e ponti e casette. (…) Un certo anno, non so più quando, Franco e Carla decisero di farsi loro, da soli, il presepio. C’era la guerra, s’era dunque fra il ’15 e il ’18, avevamo traslocato a Milano e l’albero di Natale era stato soppresso per economia. Per quindici giorni i due bambini scomparvero in una stanza disabitata e lontano dallo studio di Papà; sul cavalletto da ingegnere stesero fogli, cartoni e matite; uscivano ad una ad una dalle cassette del Meccano le pulegge, le travi, le putrelle, le viti e il motorino di Franco pomposamente chiamato Dinamo. Poi, attraverso uno spiraglio gelosamente richiuso appena uno di noi profani osava avvicinarsi, Franco e Carla fecero entrare il sacco di muschio, ancora fragrante di bosco e di neve, i rami di abete, l’agrifoglio delle bacche rosse e il vischio perlaceo. Chi s’avvicinava a quell’uscio udiva uno stridere di sega, un frusciar di fogli, un sussurrio prudente e intenso. La vigilia di Natale, Franco e Carla spalancarono i battenti con un sorriso disinvolto che dissimulava tutta la loro trepidazione. (…) Quel paesaggio di cartone, di rami e di gesso, esalava tutta la nivea dolcezza del Vangelo di San Luca; (…) Franco e Carla, le orecchie rosse per la timidezza, avvolti in una sorridente modestia, avevano già forse deciso che durante tutta la loro vita avrebbero tessuto un mondo di cui loro soli conoscevano la misura e la chiave. Infatti, più che ventenni, l’uno architetto, l’altra decoratrice e cartellonista20, continuarono la loro collaborazione da setta infantile. Il loro lavoro assunse volta a volta la struttura precisa di un padiglione della Fiera Campionaria, di manifesti di pubblicità, di esposizioni di pittura, di sale della Triennale; ma rimase sempre il Presepe 19 Carla Albini, Les arts plastiques en Italie de 1860 à 1943, Éditions Entente, Parigi 1985 20 Di fatto progettista grafica.

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de finir ses études et jusqu’en 1931, le jeune homme travaille en effet dans l’atelier de l’architecte Paolo Mezzanotte, puis dans celui de Gio Ponti et Emilio Lancia. Ses origines et sa formation l’amènent à accepter immédiatement, de manière disciplinée, les références de l’École Polytechnique ; tout au plus s’intéresse-t-il à la tendance néoclassique d’un nouveau groupe, Novecento, dont les principaux représentants sont Eugenio Marelli, Giovanni Muzio, Mino Fiocchi, Tommaso Buzzi, Paolo Mezzanotte et le duo Gio Ponti et Emilio Lancia16. Si l’on considère son projet de diplôme, en style Novecento, et ses premiers travaux d’art décoratif publiés dans la revue « Domus », Franco Albini ne semble à cette époque nullement impliqué dans le débat en cours sur l’architecture rationaliste lancé par le Gruppo 7, auteur du manifeste de 1926, l’année où le jeune étudiant s’était inscrit en deuxième année d’architecture à l’École Polytechnique. En 1929, après avoir obtenu son diplôme, Franco Albini visite Barcelone à l’occasion de l’Exposition Internationale, où il admire certainement le pavillon allemand projeté par Mies van der Rohe, avant de se rendre à Paris où il semble qu’il ait visité l’atelier de Le Corbusier, à en croire le témoignage de Franca Helg. 1917-1940 La collaboration graphique et intellectuelle de sa sœur Carla Zanini Albini Franco Albini a deux sœurs : Maria (1904-1995), d’un an son aînée, et Carla (1908-1943), de trois ans sa cadette. Maria Brandon Albini a décrit avec amour leur enfance et une partie de leur jeunesse dans La Gibigianna, un livre consacré à la période de l’entre-deux-guerres, aux années de la guerre et à celles qui suivent la Libération de 194517. Nous devons à Maria une évocation particulièrement claire et vivante de la personnalité de sa sœur cadette Carla, laquelle participa à l’activité intellectuelle et créatrice, ainsi qu’aux projets, de son frère Franco – comme le raconte Maria avec une pointe de jalousie. Carla Albini (épouse Zanini à partir de 1940) est une autodidacte qui se donne elle-même une solide formation de niveau universitaire, les jeunes filles n’ayant pas l’habitude de 16 Ibid. 17 Maria, émigrée à Paris en 1936 et naturalisée française en 1989, a été

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lectrice d’italien dans plusieurs facultés de Lettres en France et elle est connue comme l’une des représentantes les plus importantes des études sur le Mezzogiorno de l’après-guerre. Inscrite secrètement au Parti communiste, elle participa activement avec son mari Pierre Brandon au combat de la Résistance française pendant la libération de Paris en 1945.

poursuivre leurs études au-delà du lycée. Elle entre en contact avec Raffaello Giolli et commence à collaborer avec des revues d’art, en manifestant un esprit critique particulièrement clairvoyant18. C’est dans le circuit de Giolli qu’elle fait la connaissance du critique napolitain Edoardo Persico, dont la ferveur et la profondeur culturelle la fascinent. Persico jouera également un rôle fondamental dans la formation et la prise de conscience de Franco Albini. Carla consacrera d’ailleurs à ces aspects significatifs de l’histoire de l’architecture rationaliste italienne un texte dense, intitulé Le arti plastiche in Italia dal 1860 al 1943, paru posthume en édition française grâce à sa sœur Maria19. Maria évoque la naissance du lien entre Carla et Franco dans plusieurs passages de La Gibigianna, en particulier dans l’épisode dit de la crèche de Spirano : « Dès qu’elle eut trois ans – écrit Maria –, Carla fit jouer sa personnalité turbulente et capricieuse dans ses relations avec Franco et avec moimême. […] Franco fut rapidement subjugué par elle. […] Ce qui les unissait depuis l’enfance, c’était le sens charnel de l’art ; ce qui nous divisa, dans une certaine limite, ce fut, entre eux et moi, le monde décharné des rêves. Je ne savais pas me servir de mes mains, j’étais maladroite, alors qu’ils étaient industrieux et patients. Franco et Carla touchaient n’importe quel matériau avec confiance et ils en tiraient des chefs-d’œuvre ; des poupées, des marionnettes, des décors, des armes brillantes, et des ponts et des maisonnettes. […] Une certaine année, je ne sais plus quand, Franco et Carla décidèrent de faire eux-mêmes, à eux tout seuls, une crèche. Il y avait la guerre, c’était donc entre 1915 et 1918, nous nous étions installés à Milan et le sapin de Noël avait été supprimé pour faire des économies. Pendant quinze jours, les deux enfants disparurent dans une pièce inhabitée, loin du bureau de papa ; sur un chevalet d’ingénieur, ils déplièrent des feuilles, posèrent des cartons et des crayons ; ils tiraient une à une des petites boîtes du Mécano les poulies, les poutres, les poutrelles, les vis et le petit moteur de Franco, pompeusement baptisé Dinamo. Puis, à travers une ouverture qu’ils refermaient jalousement dès que l’un de nous osait s’approcher, Franco et Carla introduisirent dans la pièce un sac de mousse, encore tout frais de bois et de neige, des branches de sapin, du houx aux baies rouges et du gui nacré. 18 La première des trois enfants Albini qui publient à plusieurs reprises des articles et des projets dans la revue « Domus » dirigée par Gio Ponti, est Carla Albini, avec un article de deux pages sur des solutions d’intérieur, intitulé 2 interni di Giulio Rosso, in « Domus », no 23, novembre 1929. 19 Carla Albini, Les Arts plastiques en Italie de 1860 à 1943, Paris, Éditions Entente, 1985.


di Spirano. (…) Quando il fratello diceva ‘Brava’, asciutto, laconico, Carla alzava gli occhi arrossendo, con un sorriso brevissimo e rispondeva, brusca: ‘Bene, bene’, per dissimulare l’orgoglio che la invadeva; il Fratello-Principe della favola l’aveva incoronata!”21. Certa è la collaborazione di Carla Albini, come progettista grafica, nella realizzazione degli allestimenti per i padiglioni INA a Milano e Bari del 1935 (testimoniata anche dalla foto nel catalogo e in mostra), ma si presume che forse in tutti gli allestimenti progettati da Albini fino al 1940 si affianca, per lo meno con il contributo della grafica, la sorella sodale. Non dimentichiamo che Carla Albini Zanini si occupò anche di critica architettonica scrivendo alcuni testi (sulle riviste “Casabella”, “Domus”, “Cellini”) per lo più dedicati all’opera del fratello, di cui non solo risulta una sensibile interprete, ma per molti aspetti appare come la portavoce del suo pensiero22. Quasi che Albini, per aggirare la sua proverbiale riservatezza, quell’”orgoglio della modestia” (come diceva Lionello Venturi), sentisse il bisogno di un tramite per enunciare più liberamente il suo pensiero. 1928-30 L’apprendistato dal “maestro di bottega” Gio Ponti Non si conosce precisamente il periodo della collaborazione di Albini nello studio Ponti-Lancia, ma alcuni riscontri lo collocano soprattutto nel 1929 e forse in parte del 1930. Certa è la partecipazione di Albini alla stesura del progetto di Gio Ponti per la cappella Borletti (1929-30), come dimostra un disegno di massima della svolta progettuale finale relativa allo schema della pianta, dove compaiono numerose annotazioni di Ponti rivolte ad Albini, che documentano l’interesse per l’organizzazione dell’interno23. Questo progetto non è fra i più celebri di Ponti, ma viene ritenuto dal suo stesso autore una sorta di cerniera tra le prime costruzioni “influenzate da un ambiente detto (dagli altri) ‘culturalistico’ per le loro derivazioni accademico-tradizionali”24 e le opere successive, dal palazzo Montecatini al grattacielo Pirelli. Per quanto riguarda la prima formazione di Albini, progettista d’interni, è interessante leggere quanto scrive Ponti nel 1957 riguardo a questo progetto: “Il mio primo (e ben tardivo) vero 21 Maria Brandon Albini, op. cit. 22 Talvolta celandosi anche sotto la sigla ZAC (Zanini Albini Carla) o più semplicemente firmando Carla Zanini. 23 Lucia Miodini, Gio Ponti, Gli anni Trenta, Electa-Csac Università di Parma, Milano, 2001 24 Gio Ponti, Amate l’architettura: l’architettura è un cristallo, Vitali e Ghianda, Genova 1957, p. 55

incontro con l’Architettura avvenne con una certa cappella cimiteriale per la quale dopo aver vagheggiato alquante ‘belle forme’ che ben ricordo, fui indotto da realistiche esigenze ad applicarmi a raggiungere un certo optimum di costituzione piantistica, dal quale si sviluppò – quasi per autogenerazione – la’forma propria’ della piccola opera: forma di una sostanza [...] Questo fatto mi indusse a rappresentarmi dunque l’Architettura come ‘forma di una sostanza’ e non come ‘forma di una forma’”25. Un principio che Albini sicuramente metabolizza profondamente, anche se la sua elaborazione non è immediata. Le prime opere pubblicate26 di Franco Albini venticinquenne, e laureato da poco più di un anno, sono dei mobili per una sala da pranzo e dei pizzi ricamati27. Nel giugno del 1931 è Gio Ponti, suo “maestro di bottega”, ad aprire a lui e al suo neosocio Giancarlo Palanti una tribuna sulla ancor giovane rivista “Domus – L’arte nella casa”28. Guardando attentamente queste immagini, è curioso osservare che gli elementi d’arredo della sala da pranzo, sedie, tavolo e via dicendo, oggetti fondamentali di primaria utilità e quindi più soggetti a una continua ricerca innovativa, appaiono decisamente costretti e condizionati dal gusto novecentista dominante; viceversa, quello che si ritiene generalmente uno dei manufatti più decorativi, come il pizzo ricamato, in questo caso diventa, con il tema tovagliette all’americana, il luogo di una sintesi di immagini, anzi quasi di concetti (velieri, innovativi idrovolanti mono-ala, fabbriche con ciminiere, sperimentali costruzioni ingegneristiche, tralicci con fili tesi) che a ben vedere possono addirittura apparire profetici per quello che sarà il vocabolario, lo “stile” (avrebbe detto Gio Ponti) di Franco Albini. Gio Ponti ha sempre seguito con particolare interesse e ammirazione il lavoro di Albini, pubblicando negli anni Trenta ogni suo lavoro, anche il più piccolo, su “Domus”, accompagnandolo spesso con alcuni testi suoi in cui traspare evidente la grande stima e considerazione che aveva nei suoi confronti. Nel 1939, recensendo su “Domus” la casa di Albini di via Cimarosa a Milano, riallestita in occasione del suo 25 ibidem 26 Pochi mesi prima era stata pubblicata, in una miscellanea, la foto di un mobile disegnato da Albini insieme a Palanti e già presentato alla IV Triennale del 1930, che compare nel libro di Carlo Alberto Felice, Arte Decorativa, Ceschina Editore, Milano 1930. 27 Mobili d’oggi e Disegni moderni per il ricamo, in «Domus – L’arte della casa», 42, giugno 1931, p. 76-79 28 Vale la pena di ricordare che Gio Ponti aveva fondato la rivista «Domus» solo tre anni prima, probabilmente nel periodo in cui Albini stava lavorando presso il suo studio.

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Ceux qui s’approchaient de cette porte entendaient un bruit de scie, un bruissement de feuilles, un murmure prudent et intense. La veille de Noël, Franco et Carla ouvrirent grand les battants de cette pièce en arborant un sourire désinvolte qui dissimulait en réalité toute leur appréhension. […] Ce paysage de carton, de branches et de plâtre exhalait toute la douceur neigeuse de l’Évangile selon saint Luc ; […] Franco et Carla, les oreilles rouges de timidité, drapés dans une modestie souriante, avaient peut-être déjà décidé que pendant toute leur vie, ils tisseraient un monde dont eux seuls connaissaient la mesure et la clé. Et en effet, âgés de plus de vingt ans, l’un devenu architecte, l’autre décoratrice et affichiste20, ils continuèrent leur collaboration de secte enfantine. Leur travail prit tour à tour la structure précise d’un pavillon de la Foire Commerciale, d’affiches publicitaires, d’expositions de peinture, de salles de la Triennale ; mais la crèche de Spirano ne disparut jamais. […] Quand son frère lui lançait un “Bravo” sobre et laconique, Carla levait les yeux en rougissant, avec un sourire fugace, et elle répondait brusquement : “Bien, bien”, pour dissimuler la fierté qui l’envahissait ; son Frère-Prince du conte de fée l’avait couronnée ! »21. La collaboration de Carla Albini comme graphiste est avérée dans la réalisation des aménagements des pavillons de l’INA à Milan et à Bari de 1935 (comme en témoignent également les photographies publiées dans le catalogue et présentées dans l’exposition), mais l’on suppose qu’elle a peut-être contribué aussi, au moins pour la partie relevant du graphisme, à tous les aménagements projetés par son frère Franco jusqu’en 1940. N’oublions pas que Carla Albini Zanini s’occupa aussi de critique architecturale et qu’elle écrivit plusieurs textes – parus dans les revues « Casabella », « Domus » et « Cellini » – essentiellement consacrés à l’œuvre de son frère, dont elle fut non seulement une interprète sensible, mais aussi, par bien des aspects, le porte-parole de sa pensée22. Comme si Franco Albini, pour surmonter sa discrétion proverbiale, cet « orgueil de la modestie » (Lionello Venturi) qu’il incarna si bien, avait senti le besoin d’une intermédiaire pour énoncer plus librement sa pensée.

20 De fait, graphiste. 21 Maria Brandon Albini, op. cit. 22 Parfois en se cachant derrière les initiales ZAC (Zanini Albini Carla), 25

ou plus simplement en signant Carla Zanini.

1928-1930 L’apprentissage chez le « maître artisan » Gio Ponti Nous ne connaissons pas précisément la période de la collaboration de Franco Albini dans l’atelier de Gio Ponti et Emilio Lancia mais, selon certains indices, elle remonterait surtout à 1929 et peut-être à une partie de l’année 1930. La participation d’Albini au projet de Gio Ponti pour la chapelle Borletti (1929-1930) est avérée, comme le démontre une ébauche du projet final portant de nombreuses annotations de Ponti adressées à Albini, qui documente l’intérêt de celuici pour l’organisation de l’intérieur23. Ce projet n’est pas un des plus connus de Gio Ponti, mais il est considéré par son auteur comme une sorte de charnière entre les premières constructions « influencées par un milieu dit (par les autres) culturaliste en raison de leurs dérivations académiques traditionnelles »24 et ses réalisations suivantes, du palais Montecatini jusqu’au gratte-ciel Pirelli. En ce qui concerne le début de la formation d’Albini comme architecte d’intérieur, il est intéressant de lire ce qu’a écrit Gio Ponti en 1957 à propos de ce projet : « Ma première (et bien tardive) rencontre avec l’Architecture eut lieu avec une certaine chapelle de cimetière pour laquelle, après avoir imaginé plusieurs “belles formes” dont je me souviens bien, je fus amené par des exigences réalistes à m’appliquer à atteindre un certain optimum dans l’élaboration du plan, à partir duquel se développa – comme par autogénération – la “forme propre” de la petite œuvre : forme d’une substance […]. Ce fait m’amena donc à me représenter l’Architecture comme la “forme d’une substance” et non comme la “forme d’une forme” »25. Un principe que Franco Albini a certainement métabolisé en profondeur, même si son élaboration ne fut pas immédiate. Les premières œuvres publiées26 de Franco Albini, alors âgé de vingt-cinq ans et architecte diplômé depuis un peu plus d’un an, sont des meubles destinés à une salle à manger et des dentelles brodées27. En juin 1931, c’est Gio Ponti, son « maître artisan », qui lui ouvre, à lui et à son nouvel associé Giancarlo Palanti, une tribune dans la jeune revue « Domus – 23 Lucia Miodini, Gio Ponti. Gli anni Trenta, Milan, Electa Csac Université de Parme, 2001. 24 Gio Ponti, Amate l’architettura: l’architettura è un cristallo, Gênes, Vitali e Ghianda, 1957, p. 55. 25 Ibid. 26 Quelques mois plus tôt, avait été publiée, dans un mélange d’études, la photo d’un meuble dessiné par Albini avec Palanti et déjà présenté à la IV Triennale de 1930, publiée dans le livre de Carlo Alberto Felice, Arte Decorativa, Milan, Ceschina Editore, 1930. 27 Mobili d’oggi e Disegni moderni per il ricamo, in « Domus – L’arte della casa », 42, juin 1931, p. 76-79.


matrimonio, Gio Ponti interpreterà quel particolare modo di controllare lo spazio coniugando le risposte ai bisogni con la ricerca del bello, scrivendo “di quella fantasia di precisione che Albini ama in concezioni equilibrate pericolosamente fra rigore e libertà”. Durante il periodo della guerra, Gio Ponti ritorna anche sulla rivista “Stile” a mettere sempre in primo piano il lavoro di Albini, dedicandogli diversi servizi e un’intera sezione di un numero del febbraio 1944, in un ciclo di articoli d’approfondimento intitolati Stile di..., in questo caso “la scuola perfetta” appunto dello Stile di Albini29. Nerl 1945, appena finita la guerra, il destino vorrà che Franco Albini, nominato dal Comitato di liberazione lazionale commissario del nascente Ordine degli architetti e presidente della commissione predisposta per valutare i casi di epurazione, in rapporto alle implicazioni avute da alcuni architetti con il regime fascista, si trovi a giudicare fra gli altri anche il suo “maestro” Gio Ponti. I documenti di questa commissione non sono ancora stati resi noti, ma sarebbe sicuramente molto interessante leggere le considerazioni fatte da Albini in tale circostanza. Ad ogni modo i rapporti tra Albini e Ponti continueranno ad essere intensi e si presume buoni, considerate le varie collaborazioni in occasione delle Triennali degli anni Cinquanta, della nascita del Compasso d’Oro e dell’Associazione del disegno industriale italiano (ADI) a metà degli anni Cinquanta e dell’Esposizione Internazionale del Lavoro a Torino nel 1961. 1931-1945 Il socio degli anni Trenta, Giancarlo Palanti Fra le figure con cui Albini ha condiviso negli anni Trenta e i primi anni Quaranta il maggior numero di scelte progettuali, con inattesi risvolti pure nel campo editoriale, ma anche con forti coinvolgimenti sul piano politico, è il suo socio “di fatto” di questo fondamentale periodo storico: Giancarlo Palanti. Poco o nulla è stato indagato sul loro lungo rapporto, che fu di vicinanza, ma per per alcune cose anche distante. L’incontro e Il forte intreccio tra queste due personalità meriterebbe forse una più attenta rilettura. Franco Albini, Giancarlo Palanti e Renato Camus si laureano insieme alla Facoltà di architettura del Regio Politecnico di Milano nel 1929. Sin dall’anno successivo Albini e Palanti firmano insieme diversi elementi e suppellettili per 29 Gio Ponti, Stile di Albini, ovvero il “gusto di Albini”, in “Stile”, n.38, febbraio 1943

la casa, realizzanti in ghisa dalla Fonderie Vanzetti, che vengono anche esposti alla Triennale di Monza del 1930, e pubblicati a più riprese su “Domus” (1930-31). In quegli anni datano anche alcuni elementi d’arredo in stile art déco e alcuni disegni per ricami su tela, particolarmente interessanti, uno in particolare, per i profetici motivi che rappresenteranno molti temi ispiratori dei loro successivi progetti moderni, come fabbriche, velieri, tensostrutture, aerei mono-ala, ardite costruzioni in cemento armato. Comunque, i loro primi passi nella professione di architetti seguiranno i modelli che si stavano affermando in quegli anni, ispirati da una rilettura sintetica e a volte fin troppo eclettica delle forme classiche. È significativo che il loro indirizzo di lavoro, riportato su un numero di “Domus” del novembre 1929, sia lo stesso di Gio Ponti in via San Vittore 40. Il che lascia supporre che Albini e Palanti in quel periodo lavorassero insieme nello studio di Ponti e Lancia, i quali evidentemente concedevano ai due architetti una certa autonomia. Nel 1931 Albini e Palanti aprono insieme uno studio in via Panizza 4, sistemando al piano terra di quel palazzo di proprietà della famiglia Palanti un laboratorio artigianale. Questo spazio, che sarà fino al 1960-61 lo studio di Albini, sarà teatro per tutti gli anni Trenta e i primissimi anni Quaranta del sodalizio del gruppo Albini, Palanti, Camus, crogiuolo delle idee e delle passioni di un gruppo di giovani architetti ormai decisamente votati alla causa razionalista. Ricordiamo soprattutto i concorsi per le case popolari (“Francesco Baracca” in zona San Siro a Milano nel1932, “Case per famiglie numerose” a Bologna nel 1934, “Fabio Filzi” a Milano nel 1936-38, i quartieri “Reginaldo Giuliani” del 1937, “Gabriele d’Annunzio” del 1938 ed “Ettore Ponti”, sempre a Milano, nel 1939), il concorso per l’aeroporto di Milano nel 1933 e dello stesso anno l’iniziazione alla battaglia “razionalista” in Triennale a Milano con la Casa a struttura d’acciaio (capogruppo Giuseppe Pagano), e i piani urbani di “Milano verde” del 1938 e le “quattro città satelliti” sempre a Milano del 1940, coordinati da Pagano con la partecipazione di altri giovani colleghi. Palanti e Albini firmano insieme anche importanti architetture provvisorie tra il 1934 e il 1938 e alcuni arredamenti d’interni nel 1935. Con Gardella, Minoletti e Romano, Albini partecipa a tre importanti concorsi (nel ’37, ’38 e ’39) per l’Esposizione universale E42 a Roma. I tre architetti si associavano per lo più intorno a lavori di grande scala urbana, salvo qualche sporadica occasione, come in alcune architetture provvisorie tra il ’34 e il ’38 e degli interni nel ’35; poi però ognuno di loro svolgeva una ricerca più personale nel campo degli allestimenti, delle piccole

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l’arte nella casa »28. Si l’on regarde attentivement ces images, on observe avec curiosité que les éléments d’ameublement de la salle à manger – les chaises, la table et ainsi de suite, des objets utilitaires essentiels et donc davantage sujets à une constante recherche d’innovation –, sont conditionnés par le goût dominant inspiré par le mouvement Novecento. À l’inverse, ce que l’on considère généralement comme l’un des objets les plus décoratifs – la dentelle brodée – devient ici, avec le thème serviettes de table à l’américaine, le lieu d’une synthèse d’images, et même d’une synthèse de concepts (voiliers, hydravions mono-aile novateurs, usines avec cheminées, constructions d’ingénierie expérimentales, treillages avec fils tendus), lesquels, à bien y regarder, pourraient bien annoncer prophétiquement ce qui sera le vocabulaire – le « style », comme aurait dit Gio Ponti – de Franco Albini. Gio Ponti a toujours suivi avec beaucoup d’intérêt et d’admiration le travail d’Albini et, dans les années Trente, il a publié tous ses travaux, même les plus petits, dans « Domus », souvent accompagnés de textes de sa main dans lesquels il exprime l’estime et la considération qu’il nourrit à son égard. En 1939, en rendant compte dans « Domus » de la maison d’Albini sise via Cimarosa à Milan, réaménagée à l’occasion de son mariage, Gio Ponti interprétera cette manière particulière de contrôler l’espace en conjuguant les réponses aux besoins et la recherche du beau, en parlant « de la “fantaisie de précision” qu’Albini aime insuffler dans des conceptions dangereusement équilibrées entre rigueur et liberté ». Pendant la période de la guerre, Gio Ponti continue à faire l’éloge du travail d’Albini, à qui il consacre plusieurs reportages et la section entière d’un numéro dans la revue « Stile » du mois de février 1944, dans le cadre d’une série d’articles d’approfondissement intitulés Style de…  et, dans le cas présent, « l’école parfaite » du Style d’Albini29. En 1945, juste après la fin de la guerre, le destin veut que Franco Albini soit nommé par la Comité de Libération Nationale commissaire de l’Ordre des Architectes nouvellement créé et président de la Commission chargée de juger les cas d’épuration, à la suite des compromissions de certains architectes avec le régime fasciste, et qu’il doive juger son « maître » Gio Ponti. Les documents de cette commission n’ont

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28 Il vaut la peine de rappeler que Gio Ponti avait fondé la revue « Domus » seulement trois ans plus tôt, probablement dans la période où Albini travaillait dans son atelier. 29 Gio Ponti, Stile di Albini, ovvero il “gusto di Albini”, in « Stile », no 38, février 1943.

pas encore été rendus publics, mais il serait certainement intéressant d’examiner la position que Franco Albini a défendue dans cette circonstance. Quoi qu’il en soit, Albini et Ponti resteront très liés et, on peut le supposer, en bons termes, à en croire leurs différentes collaborations à l’occasion des triennales des années Cinquante, de la naissance du Compasso d’Oro et de la fondation de l’Association du design industriel italien (ADI) au milieu des années Cinquante, sans oublier l’Exposition Internationale du Travail à Turin en 1961. 1931-1945 L’associé des années Trente, Giancarlo Palanti De toutes les personnes avec qui Franco Albini a réalisé un grand nombre de projets dans les années Trente et au début des années Quarante, avec des résultats surprenants en particulier dans le domaine de l’édition et avec de fortes implications sur le plan politique, la plus importante est Giancarlo Palanti, son associé « de fait » pendant cette période historique fondamentale. Leur longue collaboration n’a pas encore été étudiée, ou très peu. Ce fut un rapport de proximité, mais parfois distant dans certains domaines. La rencontre de ces deux personnalités et leurs relations mériteraient sans doute un examen plus attentif. Franco Albini, Giancarlo Palanti et Renato Camus passent ensemble leur diplôme de fin d’études à l’École d’Architecture de l’École Polytechnique Royale de Milan en 1929. Dès l’année suivante, Albini et Palanti cosignent plusieurs éléments et objets pour la maison qui seront réalisés par la Fonderie Vanzetti, exposés à la Triennale de Monza de 1930 et publiés à plusieurs reprises dans « Domus » (1930-1931). C’est de ces mêmes années que datent plusieurs éléments d’ameublement en style art déco, ainsi que des dessins pour des broderies sur toile particulièrement intéressants, un en particulier, en raison des motifs prophétiques qui inspireront leurs projets modernes et que nous avons déjà évoqués plus haut (des usines, des voiliers, des structures de traction, des avions mono-aile et d’audacieuses constructions en béton armé). Leurs premiers pas dans la profession d’architectes respectent en tout cas les modèles qui s’affirment au cours de ces années, inspirés par une relecture synthétique et parfois même trop éclectique des formes classiques. Il est significatif que leur adresse professionnelle mentionnée dans un numéro de « Domus » datant de novembre 1929, soit la même que celle de Gio Ponti, via San Vittore 40. Ce qui laisse supposer qu’à cette époque, Franco Albini et Giancarlo Palanti travaillaient


costruzioni, degli interni e nel disegno dei mobili, in genere su misura per i progetti d’interni, e trovava anche qualche significativa occasione di progetto per pezzi di serie, come nel caso dei mobili metallici progettati da Albini, in questo caso sempre insieme a Palanti, per la ditta Parma di Saronno (1937). Nel 1935 Palanti partecipa con Edoardo Persico e Marcello Nizzoli al progetto di concorso per il Salone d’Onore della VI Triennale a Milano, che comprende una scultura di Lucio Fontana. Dopo la morte di Persico nel gennaio 1936, Nizzoli e Palanti diventano responsabili della realizzazione dell’allestimento, che sarà una delle opere più significative del razionalismo italiano. In quegli stessi anni, Palanti collabora assiduamente con le riviste d’architettura, prima come segretario di redazione a “Domus” sotto la direzione di Ponti (dal febbraio 1932 all’ottobre del 1933), poi come redattore di “Casabella” diretta da Persico e Pagano, infine, seguendo Pagano a “Domus” come redattore per l’architettura dal giugno del 1941 all’aprile del 1942, per poi diventare nel primo dopoguerra direttore direttore con Albini della rinata “Casabella” di cui usciranno solo tre numeri nel 1946-47, fra i quali quello mongrafico dedicato a Giuseppe Pagano30. Dato il legame profondo con Pagano, Palanti sarà coinvolto anche nelle comuni scelte di battaglia partigiana contro il regime fascista, e i due si troveranno riuniti nel gruppo Movimento di Unità Proletaria, assieme, fra gli altri, a Giancarlo De Carlo e Ireneo Diotallevi. Nel 1944-45, con Albini e altri protagonisti dell’architettura a Milano di quegli anni, Palanti figura fra i firmatari del celebre Piano AR (Architetti Riuniti) per la ricostruzione urbanistica del capoluogo lombardo. Nel 1946, egli decide di trasferirsi in Brasile dove darà un contributo di rilievo alla costruzione dell’architettura moderna a San Paolo. Importante sarà anche il suo lavoro nel campo del design e della produzione di mobili moderni in serie, spesso col ricorso a materiali autoctoni brasiliani in collaborazione fra l’altro con Lina Bo Bardi nel cosiddetto Studio d’Arte Palma. Non esistono informazioni riguardo a rapporti tra Albini e Palanti in questo periodo brasiliano, ma il viaggio di due mesi in Brasile31 che Albini fa nel 1954, durante il quale si trovò coinvolto anche in un pericoloso ammaraggio nel tragitto tra Rio de Janeiro e San Paolo, lascia supporre che ci siano stati ancora altri contatti. Destino vuole che Albini e Palanti 30 Con Giancarlo Palanti, direzione di “Costruzioni Casabella”, numeri 193, 194, 195-198 (numero triplo dedicato a Giuseppe Pagano) 31 Nel 1954 Albini firma due allestimenti a San Paolo: la “Mostra ufficiale italiana” e la “Mostra di pittura italiana del Settecento”.

muoiano entrambe nel 1977, a distanza di pochi giorni l’uno dall’altro. 1932-1936 L’iniziazione al moderno: Edoardo Persico Nei primissimi anni Trenta, dopo alcune appassionate ed eclettiche esperienze in quel variegato e incerto mondo di stili, “Neo-neoclassicismo” e “Novecento” milanese, Albini, come vuole una certa aneddotica, incontra il “verbo” della modernità, “illuminato” dal pensiero etico di Edoardo Persico, che lo trasformerà in un ispirato discepolo del razionalismo. Lasciamo allo stesso Albini raccontare questo incontro attraverso la trascrizione fatta per la rivista “Settimo giorno” dallo scrittore Raffaello Baldini che lo intervista nel 1956: “Nel 1932, in marzo, un amico gli commissionò il disegno di alcuni mobili da ufficio. Qualche mese dopo Albini si recò dal cliente con un rotolo di fogli sottobraccio, spiegò i fogli sulla scrivania, illustrò ogni disegno punto per punto. ‘Bene – disse l’amico – Però vorrei farli vedere a Persico. Conosci Persico?’. Albini ne aveva sentito parlare. Fu deciso che si sarebbero rivisti tutti e tre insieme la sera dopo. L’incontro durò alcune ore. Albini non parlò molto. Parlò Persico. Dapprincipio era difficile capire se diceva sul serio o scherzava, comunque non pareva entusiasta del lavoro, aveva un accento meridionale, ma non faceva molti gesti. Dopo la prima mezz’ora di conversazione, Persico cominciò a fare dell’ironia, anche pesante, sui disegni di Albini, ma quando Albini cominciava a pensare che esagerasse prendeva d’improvviso un tono molto serio e parlava della nuova architettura, delle sedie di Rietvield e di Breuer, del Bauhaus di Dessau, della casa Tugendhat di Mies van der Rohe. Quando quella sera Franco Albini lasciò gli amici erano le tre e quaranta di notte, le strade di Milano erano deserte, e nella testa gli giravano solo due parole: Europa e razionalismo. Non fu una crisi facile. ‘Passai giorni di vera angoscia. – ricorda Albini – Dovevo dare una risposta diversa a tutte le domande. Ebbi anche la febbre, una grossa lunga febbre’. Gli successe come agli adolescenti. Qualche mese dopo fu come affacciarsi una mattina alla finestra e vedere un mondo nuovo. Albini credeva ormai ad un’altra architettura”32. Al concatenarsi di queste intense esperienze corrisponde per Albini anche una sempre maggiore ricerca in profondità dell’etica propria alla “qualità del fare”, del buon mestiere, della professione e del buon lavoro dell’artigiano, 32 Raffaello Baldini, op. cit.

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tous deux dans l’atelier de Ponti et Lancia, qui accordaient de toute évidence une certaine autonomie à leurs deux jeunes collaborateurs. En 1931, Albini et Palanti ouvrent ensemble un atelier au numéro 4 de la via Panizzi, en rénovant un atelier d’artisan au rez-de-chaussée de cet immeuble appartenant à la famille de Palanti. Cet espace, qui sera l’atelier d’Albini jusqu’en 1960-1961, est le théâtre pendant toutes les années Trente et le début des années Quarante de la collaboration du groupe Albini, Palanti et Camus, et donc le creuset des idées et des passions d’un groupe de jeunes architectes désormais résolument voués à la cause rationaliste. Rappelons surtout les concours pour les case popolari (les habitations à loyer modéré) : « Francesco Baracca » dans le quartier San Siro de Milan en 1932 ; les « Maisons pour familles nombreuses » à Bologne en 1934 ; « Fabio Filzi » à Milan en 1936-1938 ; les quartiers « Reginaldo Giuliani » en 1937, « Gabriele d’Annunzio » en 1938 et « Ettore Ponti », également à Milan, en 1939) ; le concours pour l’aéroport de Milan en 1933 et, la même année, l’initiation à la bataille « rationaliste » à la Triennale de Milan avec la maison en structure d’acier (dont le chef de groupe est Giuseppe Pagano), les plans urbains de « Milan vert » de 1938 et les « quatre villes satellites » de Milan en 1940, coordonnés par Pagano avec la participation d’autres jeunes collègues. Giancarlo Palanti et Franco Albini cosignent également des architectures provisoires importantes entre 1934 et 1938, ainsi que plusieurs décorations d’intérieur en 1935. Albini, Gardella, Minoletti et Romano participent à trois concours importants – en 1937, 1938 et 1939 – pour l’E42 à Rome. Les trois architectes s’associent généralement pour des projets urbains à grande échelle, à l’exception de quelques réalisations sporadiques comme des architectures provisoires entre 1934 et 1938 et des intérieurs en 1935. Chacun d’eux se consacre par ailleurs à une recherche plus personnelle dans le domaine des aménagements, des petites constructions, des intérieurs et du dessin de meubles, en général sur mesure pour les projets d’intérieur, tout en réalisant des projets importants pour des pièces en série, comme les meubles métalliques conçus par Albini, associé à Palanti, pour la maison Parma di Saronno (1937). En 1935, Palanti participe avec Edoardo Persico et Marcello Nizzoli au concours pour le projet du Salon d’Honneur de la VI Triennale de Milan, qui comprend une sculpture de Lucio Fontana. Après la mort de Persico en janvier 1936, Nizzoli et Palanti deviennent responsables de la réalisation de cet aménagement, l’une des œuvres les plus significatives du rationalisme italien.

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Au cours de ces mêmes années, Giancarlo Palanti collabore assidûment à des revues d’architecture, d’abord comme secrétaire de rédaction de « Domus » sous la direction de Gio Ponti (de février 1932 à octobre 1933), puis comme rédacteur pour l’architecture de juin 1941 à avril 1942, avant d’être nommé au début de l’après-guerre directeur, avec Franco Albini, de la revue « Casabella », qui reparaît à ce moment-là mais qui ne connaîtra que trois numéros en 1946-1947, dont le numéro monographique consacré à Giuseppe Pagano30. En raison de ses rapports étroits avec Pagano, Palanti participe également aux combats de la Résistance contre le régime fasciste, et les deux hommes se trouvent ensuite réunis dans le Mouvement d’Unité Prolétaire, en compagnie de Giancarlo De Carlo et d’Ireneo Diotallevi. En 1944-1945, avec Franco Albini et d’autres personnalités de premier plan de l’architecture milanaise de cette période, Giancarlo Palanti figure parmi les signataires du célèbre Plan AR (Architectes Réunis) pour la reconstruction urbaine du chef-lieu de la Lombardie. En 1946, il décide de s’installer au Brésil, où il apporte une contribution remarquable à l’élaboration de l’architecture moderne à Sao Paulo. Il joue également un rôle important dans le domaine du dessin et de la production de meubles modernes en série, en recourant à des matériaux autochtones brésiliens, en collaboration avec Lina Bo Bardi au sein du « Studio d’Arte Palma ». Nous ignorons tout des rapports entre Albini et Palanti au cours de cette période brésilienne, mais le voyage de deux mois d’Albini au Brésil31 en 1954 – pendant lequel son embarcation subit un dangereux amarrage lors du trajet de Rio de Janeiro à Sao Paulo – laisse supposer qu’il y eut d’autres contacts. Le destin veut qu’Albini et Palanti soient morts tous les deux en 1977, à quelques jours de distance. 1932-1936 L’initiation au moderne : Edoardo Persico Au tout début des années Trente, après quelques expériences passionnées et éclectiques dans l’univers varié et incertain des styles milanais – Néo-classicisme et Novecento –, Franco Albini, comme le veut une certaine anecdote, rencontre le « verbe » de la modernité, « éclairé » qu’il est par la pensée éthique d’Edoardo Persico, qui le transforme en un disciple inspiré du rationalisme. Laissons Franco Albini raconter lui30 Avec Giancarlo Palanti, direction de « Costruzioni Casabella », numéros 193, 194, 195-198 (numéro triple consacré à Giuseppe Pagano). 31 En 1954, Albini signe deux aménagements à Sao Paulo : l’ « Exposition officielle italienne » et l’ « Exposition de peinture italienne du xviiie siècle ».


nel quale spesso si riconoscerà. Una dimensione etica del lavoro che, come ha scritto Persico, Albini traduceva in quel “razionalismo artistico”, in cui “la cosa più importante è l’oggetto ben disegnato e ben fatto”33. Nell’archivio di Franco Albini si conserva anche una prospettiva a colori del 1935, che rappresenta l’interno di una stanza, si direbbe quasi monacale, con un letto e una poltroncina con strutture in tubo metallico, intitolato “per Persico”, del quale non si sa se si trattasse di un reale incarico di Persico o piuttosto un omaggio al suo “mentore”. Aleggia in questo ambiente pulito ed etereo un senso di ordine e compostezza che immaginiamo Albini avrebbe voluto offrire come luogo di riposo e meditazione per questo suo maestro sempre immerso nel disordine delle carte e dei libri alla rivista “Casabella”, campo delle sue continue e intense battaglie intellettuali (in quegli anni di regime inevitabilmente anche politiche), che lo porteranno a morire prematuramente, e in condizioni poco chiare, nel gennaio del 1936. 1933-1945 L’appassionante trascinatore delle battaglie razionaliste: Giuseppe Pagano Lo spirito forte e battagliero di Giuseppe Pagano, protagonista di un’energica posizione, intellettuale e impegnata, formatasi dentro il Fascismo rivoluzionario e socialista della prima ora, è l’altro incontro stimolante e liberatorio, quasi sicuramente derivato da quello con Persico, che spinge Albini verso gli ideali del Razionalismo internazionale. Dire Persico e Pagano significa dire “Casabella”, la rivista che a metà degli anni Trenta diviene con la loro direzione il faro di riferimento per tutti gli architetti interessati al dibattito dell’architettura moderna. Ma insieme a “Casabella” viene anche “occupato” il territorio di ricerca e di comunicazione delle Triennali, che nelle prime tre edizioni milanesi del 1933 (V), del 1936 (VI) e del 1940 (VII) diventerà il baluardo dell’architettura moderna italiana. Gli allestimenti espositivi, nella loro leggera, economica e pratica temporaneità, rispetto alla sempre più greve retorica del dominate gusto “littorio-imperiale” del regime, saranno in quel contesto una fondamentale palestra per la formazione di una via italiana nello spirito della modernità. Giuseppe Pagano, appassionatissimo organizzatore e propositore di mostre ed esposizioni (oltre alle Triennali, la mostra dell’Aeronautica italiana del 1934 e la mostra Leonardesca del 1939 e molti spazi alla Fiera di 33 Edoardo Persico (attribuito), Arch. Franco Albini, un arredamento a Milano, in «La Casa bella», 54, giugno 1932.

Milano), coinvolgerà tutti i suoi giovani amici in queste preziose esperienze che nel 1944, nelle lettere scritte alla moglie dal carcere fascista (dove arrivò come riscattato e irriducibile antifascista) Albini stesso ricorderà ancora con le appassionate parole di “vittoriose architetture provvisorie”. La “chiamata alle armi” di Pagano per tenere alta in Italia la bandiera del Razionalismo si manifesta alla V Triennale del 1933 con diverse realizzazioni, fra le quali la “Casa a struttura d’acciaio” che Pagano progetta insieme con Albini, Renato Camus, Giulio Minoletti, Giuseppe Mazzoleni e Giancarlo Palanti, e nella quale Albini e Palanti disegno anche gli arredi. A testimoniare l’attenzione di Pagano per il lavoro di Albini bastano alcune righe della puntuale recensione che egli dedica sulle pagine di “Casabella” alla Casa Pestarini: “Da questa casa, difatti, si possono ricavare emozioni e insegnamenti pieni di risonanze interiori. Anche se ogni realizzazione plastica è in diretta dipendenza da considerazioni utilitarie, anche se tutto il gioco dei volumi, dei colori e delle luci è razionalmente motivato da argomenti apparentemente estranei alle necessità dello spirito, in Franco Albini queste necessità utilitarie si trasfigurano, si sublimano, si sottilizzano in rapporti lirici e in vibrazioni poetiche dove la stessa scarna e nitida soluzione utilitaria ottiene nella originale elementarietà dell’essenziale il suo più alto sigillo artistico”34. 1933–1951 Il fidato collaboratore: Luigi Colombini Nello studio di via Panizza 4, aperto da Albini nel 1931 insieme con i suoi compagni d’università e di laurea, Renato Camus e Giancarlo Palanti, nell’autunno del 1933 si presenta per un colloquio di lavoro un giovanissimo perito edile fresco di diploma, Luigi Colombini, detto Gino, che, con sua grande soddisfazione, trova subito un impiego come disegnatore. Ha inizio così un sodalizio tacito e discreto che vedrà Colombini accompagnare il lavoro di Franco Albini per più di vent’anni fondamentali, dal 1933 al 1951, e partecipare attivamente a buona parte dei progetti storici degli anni Trenta e Quaranta, ricevendo da Albini anche la gratifica di firmare alcuni lavori significativi, fra i quali il celebre albergo-rifugio Pirovano (1948-52) e la poltrona Margherita in cannette e malacca (1951). “Proprio grazie al disegno, per Albini strumento di lavoro preciso, analitico, descrittivo e dettagliato, mai narrativo, totalmente orientato a mostrare le ragioni costruttive e 34 Giuseppe Pagano, Una casa a Milano dell’arch. F. Albini, in “Casabella-Costruzioni”, 142, ottobre 1939 – XVII

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même cette rencontre à travers la transcription réalisée dans la revue « Settimo Giorno » par l’écrivain Raffaello Baldini, qui l’interviewe en 1956 : « En mars 1932, un ami lui commanda les dessins de plusieurs meubles de bureau. Quelques mois plus tard, il se rendit chez le client avec un rouleau de feuilles de papier sous le bras, il déroula les feuilles sur le bureau et illustra chaque dessin point par point. “Bien – dit son ami. Mais je voudrais les montrer à Persico. Tu connais Persico ?”. Albini avait entendu parler de lui. Ils décidèrent de se revoir tous les trois le lendemain soir. Leur rencontre dura plusieurs heures. Albini ne parla pas beaucoup. C’est Persico qui parla. Au début, il était difficile de comprendre s’il parlait sérieusement ou s’il plaisantait, en tout cas il n’avait pas l’air enthousiasmé par le travail d’Albini, il avait un accent méridional, mais il ne faisait pas beaucoup de gestes. Après la première demi-heure de conversation, Persico commença à faire de l’ironie, plutôt lourde même, sur les dessins d’Albini, mais quand Albini commençait à se dire qu’il exagérait, il adoptait brusquement un ton très sérieux et parlait de la nouvelle architecture, des chaises de Rietveld et de Breuer, du Bauhaus de Dessau, de la maison Tugendhat de Mies van der Rohe. Quand Albini quitta ses amis ce soir-là, il était trois heures quarante du matin, les rues de Milan étaient désertes, et deux mots seulement lui trottaient dans la tête : Europe et rationalisme. Ce ne fut pas une crise facile. “J’ai passé des journées pleines d’angoisse – se souvient Albini. Je devais donner une réponse différente à toutes les questions qui se posaient à moi. J’ai même eu la fièvre, une grosse et longue fièvre.” Il lui arrivait la même chose qu’aux adolescents. Quelques mois plus tard, ce fut comme se pencher un beau matin à la fenêtre et découvrir un monde nouveau. Albini croyait désormais en une autre architecture »32. Pour Franco Albini, l’enchaînement de ces expériences intenses a aussi pour pendant une recherche approfondie et de plus en plus passionnée de l’éthique propre à la « qualité du faire », de la belle ouvrage, de la profession et du bon travail de l’artisan, dans lequel il se reconnaîtra souvent. Une dimension éthique du travail qu’Albini traduit, comme l’a écrit Edoardo Persico, en un «rationalisme artistique » où « la chose la plus importante, c’est l’objet bien dessiné et bien fait »33. Les archives de Franco Albini conservent aussi une perspective en couleur de 1935 représentant l’intérieur d’une chambre, presque monacale, avec un lit et un petit fauteuil à 32 Raffaello Baldini, op. cit. 33 Edoardo Persico (attribué à), Arch. Franco Albini, un arredamento a 31

Milano, in « La Casa bella », 54, juin 1932.

la structure en tubes métalliques, intitulé « pour Persico » : on ignore s’il s’agissait réellement d’une commande d’Edoardo Persico, ou d’un hommage à son « mentor ». Cette pièce sobre et éthérée communique une impression d’ordre et de calme dont nous imaginons qu’Albini a voulu l’offrir comme lieu de repos et de méditation à son cher maître, toujours plongé dans le désordre des papiers et des livres de la revue « Casabella », le champ de ses batailles intellectuelles passionnées (sous le fascisme, ces batailles furent aussi politiques), qui le condamneront à mourir prématurément, et dans des conditions assez mystérieuses, en janvier 1936. 1933-1945 Le provocateur passionnant des batailles rationalistes : Giuseppe Pagano L’esprit combatif de Giuseppe Pagano, partisan énergique d’une position intellectuelle engagée qui s’était formée dans le creuset du fascisme révolutionnaire et socialiste de la toute première heure, est l’autre rencontre stimulante et libératrice de cette période, découlant presque certainement de celle avec Edoardo Persico. C’est Giuseppe Pagano qui va initier Franco Albini aux idéaux du rationalisme international. Dire « Persico et Pagano », cela revient à dire « Casabella », qui devient sous leur direction, au milieu des années Trente, la revue phare de tous les architectes concernés par le débat sur l’architecture moderne. Mais en même temps que « Casabella », les deux hommes « occupent » également le territoire de recherche et de communication des Triennales, dont les trois premières éditions milanaises de 1933 (Ve), 1936 (VIe) et 1940 (VIIe) deviennent l’étendard de l’architecture moderne italienne. Les aménagements d’exposition, avec leur caractère temporaire, à la fois léger, économique et pratique, s’opposant à la rhétorique de plus en plus grossière du goût dominant littorio-imperiale du régime fasciste, constituent dans ce contexte un formidable banc d’essai pour la formation d’une voie italienne dans l’esprit de la modernité. Giuseppe Pagano, organisateur passionné et concepteur d’expositions – outre les Triennales, on lui doit l’exposition de l’Aéronautique italienne de 1934, l’exposition Léonardesque de 1939, ainsi que de nombreux espaces à la Foire de Milan –, fait participer tous ses jeunes amis, et en particulier Franco Albini, à ces expériences précieuses qu’il évoque avec passion comme de « victorieuses architectures provisoires » dans les lettres qu’il envoie à sa femme en 1944 depuis la prison fasciste dans laquelle il a fini par échouer, après s’être racheté et être devenu un irréductible antifasciste. Pagano lance son « appel aux armes » pour brandir le drapeau du Rationalisme


spaziali di un’idea, Colombini impara a ragionare, sul tavolo di lavoro, su quel metodo puro di ricerca espressiva della funzione che in Albini informa, sempre e con coerente necessità il progetto di architettura, di allestimento e di design.”35 Nel 1951, Colombini interrompe la sua esperienza al fianco di Albini per intraprende una nuova importante attività di disegnatore industriale nella neonata azienda Kartell, chiamato dal suo fondatore Giulio Castelli36. Questa inedita strada, che lo porterà a percorrere con la sua proverbiale ostinazione e pazienza i territori inesplorati delle più innovative tecniche di lavorazione delle materie plastiche della sua epoca, finirà per consacrarlo fra i primi grandi designer italiani, vincitore fra l’altro e in pochi anni di ben quattro Compassi d’Oro e dieci segnalazioni. Il percorso di Colombini designer sarà dunque punteggiato di numerosi riconoscimenti, conseguiti sempre “senza vanità”, tratto distintivo della “scuola albiniana”. 1936–1976 Un fraterno compagno di viaggio: Giovanni Romano Gli incroci tra Franco Albini e l’architetto Giovanni Romano non sono numerosi dal punto di vista progettuale, ma la loro importanza, insieme all’evidente affinità elettiva che legava i due (come viene ricordata da alcune testimonianze), porta a considerare il loro incontro come un punto di riferimento del percorso di Albini, e naturalmente forse ancor più per quello di Romano. Sarà anche vero che nel 1940 i due si trovarono, forse non per caso, ad abitare vicini, nello stesso edificio progettato nel 1931-33 da Gio Ponti in via De Togni, ma appare evidente che erano accumunati da una vicinanza non solo fisica, ma di stili di vita, che costituì per entrambi il campo gravitazionale di una intensa amicizia. Dopo alcune prove di concorso a scala urbana, il primo progetto emblematico di Albini nel campo delle esposizioni, firmato insieme a Romano, è l’allestimento della “Mostra dell’antica oreficeria italiana” alla VI Triennale di Milano del 1936; seguono la partecipazione al progetto corale coordinato da Pagano per il piano urbano “Milano verde” del 1938, il primo 35 Dall’ottima tesi di laurea di Cristina Miglio, Senza vanità. Gino Colombini e il progetto utile, Facoltà di architettura del Politecnico di Milano, aa. 2001-2002, p. 16 36 Laureato in ingegneria chimica al Politecnico di Milano con il premio Nobel Giulio Natta, Giulio Castelli, fondatore nel 1949 della rinomata azienda di prodotti per la casa in materie plastiche, Kartell, ha sposato nel 1945 l’architetto Anna Castelli Ferrieri (divenuta poi anche nota designer) la quale dal 1940 al 1948 ha lavorato nello Studio Albini.

premio vinto dalla coppia Albini - Romano per il “Grande concorso Masonite per l’arredamento di un ufficio”37 promosso dalle riviste “Domus” e “Casabella-Costruzioni”, e infine alcuni importanti progetti di concorso per quella che doveva essere l’Esposizione Universale E42 a Roma, condivisi con gli amici Gardella e Palanti. E poi, quasi un omaggio spirituale, c’è il testo che Romano scrive su “Domus” per presentare la casa di Albini in via De Togni. “Vediamo dunque – scrive il suo fido compagno di percorso– quale sia il significato del suo linguaggio e donde ne nasca il valore poetico. Esso è in alcuni ambienti (…) essenzialmente spaziale. Albini cioè si esprime per mezzo di composizioni di volumi atmosferici e di volumi solidi, che si compenetrano e si compongono nello spazio, secondo rapporti armonici. Servendosi della composizione spaziale, che è veramente il linguaggio con cui egli esprime meglio la sua personalità (…) egli si riallaccia alla più legittima conquista dell’architettura moderna da Mackintosh a Gropius, da Le Corbusier fino alla Sala delle Medaglie d’Oro di Edoardo Persico; un’architettura che si vale degli spazi atmosferici, delimitati anche solo idealmente per accenni, come di elementi architettonici, componendoli con elementi architettonici costruiti.”38 Fondamentale sarà anche l’appassionata condivisione dell’esperienza del piano urbanistico AR (Architetti Riuniti) del 1944-45 per la ricostruzione di Milano, insieme a quella (sempre nello spirito della liberazione antifascista di Milano) della fondazione del Movimento Studi per l’Architettura (MSA) del quale Romano sarà presidente negli anni 1949-5039. 1943-1961 Il compagno paziente: Enea Manfredini Durante gli anni più violenti della guerra, Albini si allontana da Milano. Sfollato con tutta la famiglia sotto la minaccia dei continui bombardamenti, si isola tra Piacenza e il paese di Ponte dell’Olio, sulle colline, nella casa di campagna della famiglia della moglie Carla Albini Vaccari. Durante questo isolamento, si dedica prevalentemente alla ricerca e, alla luce degli avvenimenti, anche al ripensamento e al riordino del percorso compiuto. In questa intensa fase di riflessione critica, troviamo al suo fianco la figura di Enea Manfredini, architetto di Reggio Emilia di dieci anni più giovane, laureato 37 Il grande concorso “Masonite” per l’arredamento di un ufficio – L’ufficio in masonite progettato dagli architetti F. Albini e G. Romano, in “Domus”, n.146, Febbraio 1940, p. 77-84 38 Giovanni Romano, La casa di un architetto, in “Domus”, n.163, luglio 1941, p. 9-17 39 Vedi Matilde Baffa, Corinna Morandi, Sara Protasoni, Augusto Rossari, Il Movimento di Studi per l’Architettura, Laterza, Bari 1995.

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en Italie à la V Triennale de 1933 en s’appuyant sur plusieurs réalisations, dont la « Maison et structure d’acier » qu’il projette avec Franco Albini, Renato Camus, Giulio Minoletti, Giuseppe Mazzoleni et Giancarlo Palanti, et dont Albini et Palanti dessinent également l’ameublement. Le compte rendu précis que Giuseppe Pagano consacre à la Maison Pestarini dans « Casabella » témoigne de l’attention qu’il porte au travail de Franco Albini : « De cette maison, de fait, on peut tirer des émotions et des enseignements pleins d’échos intérieurs. Même si chaque réalisation plastique entretient un rapport de dépendance directe avec des considérations utilitaires, même si tout le jeu des volumes, des couleurs et des lumières est rationnellement motivé par des arguments apparemment étrangers aux nécessités de l’esprit, chez Franco Albini ces nécessités utilitaires se transfigurent et se subliment, elles se font subtiles dans des rapports lyriques et dans des vibrations poétiques où la solution utilitaire, sobre et nette, obtient, dans son caractère élémentaire et essentiel, sa plus haute confirmation artistique »34. 1933-1951 Le collaborateur fidèle : Luigi Colombini Dans l’atelier sis au numéro 4 de la via Panizza, qu’Albini a fondé en 1931 avec Renato Camus et Giancarlo Palanti, ses anciens camarades d’université et de diplôme, un jeune expert en bâtiment fraîchement émoulu, Luigi Colombini, surnommé « Gino », se présente à l’automne 1933 pour un entretien d’embauche. À sa grande satisfaction, il trouve immédiatement un emploi comme dessinateur. C’est ainsi que commence une collaboration tacite et discrète : Colombini accompagne le travail de Franco Albini pendant plus de vingt années fondamentales, de 1933 à 1951. Il participe activement à une grande partie des projets historiques des années Trente et Quarante, ce dont Albini le récompensera en cosignant avec lui plusieurs réalisations significatives, comme le célèbre Hôtel-refuge Pirovano (1948-1952) et le fauteuil en jonc et en rotin Margherita (1951). « C’est grâce au dessin, qui était pour Albini un instrument de travail à la fois précis, analytique, descriptif et détaillé, jamais narratif mais visant entièrement à montrer les raisons constructives et spatiales d’une idée, que Colombini apprend à raisonner, à sa table de travail, sur cette pure méthode de recherche expressive de la fonction qui

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34 Giuseppe Pagano, Una casa a Milano dell’arch. F. Albini, in « CasabellaCostruzioni », 142, octobre 1939 – XVII.

sous-tend chez Albini, toujours et avec cohérence, le projet d’architecture, d’aménagement et de design. »35 Luigi Colombini interrompt sa collaboration avec Franco Albini en 1951 pour entreprendre une carrière de dessinateur industriel dans une nouvelle entreprise, Kartell, où l’a appelé son fondateur, Giulio Castelli36. Cette voie inédite, qui l’amènera à explorer avec son obstination et sa patience proverbiales les territoires inconnus des techniques de travail des matières plastiques les plus novatrices de son temps, finira par le consacrer au rang des plus grands designers italiens, lauréat en quelques années de pas moins de quatre Compassi d’Oro, avec dix nominations. Le parcours de Colombini en tant que designer sera donc parsemé de nombreuses récompenses, qu’il recevra à chaque fois « sans vanité », le trait distinctif de l’ « école albinienne ». 1936-1976 Un compagnon de voyage fraternel : Giovanni Romano Les chemins de Franco Albini et de l’architecte Giovanni Romano ne se croisent pas souvent en ce qui concerne l’élaboration des projets, mais l’importance de certains d’entre eux, en même temps que l’affinité élective évidente qui lie les deux hommes – comme nous le rappellent plusieurs témoignages –, nous amènent à considérer cette autre rencontre comme une balise sur le parcours d’Albini et, naturellement, peut-être encore plus sur celui de Romano. Albini et Romano deviennent voisins en 1940 – peut-être pas par hasard – dans l’immeuble projeté en 1931-1933 par Gio Ponti via De Togni, mais il est évident qu’ils sont également proches par leurs styles de vie, qui sont à la base d’une grande amitié. Après quelques concours à l’échelle urbaine, le premier projet emblématique de Franco Albini dans le domaine des expositions, cosigné avec Giovanni Romano, est l’aménagement de l’exposition de « l’Ancienne Joaillerie Italienne » à la VI Triennale de Milan en 1936, suivi par leur participation au projet choral coordonné par Giuseppe Pagano pour le plan d’urbanisme « Milan vert » de 1938, le premier 35 Tiré de l’excellent mémoire de maîtrise de Cristina Miglio, Senza vanità. Gino Colombini e il progetto utile, Faculté d’architecture de l’École Polytechnique de Milan, 2001-2002, p. 16 36 Diplômé en ingénierie chimique à l’École Polytechnique de Milan avec le prix Nobel Giulio Natta, Giulio Castelli – fondateur en 1949 de l’entreprise renommée de produits pour la maison en matières plastiques, Kartell – a épousé en 1945 l’architecte Anna Castelli Ferrieri (qui deviendra ensuite une designer connue), laquelle a travaillé dans l’Atelier Albini de 1940 à 1948.


nel 1940 al Politecnico di Milano. Non è nota l’occasione del primo incontro tra i due: probabilmente, studiando a Milano, Manfredini venne coinvolto dalle istanze del gruppo razionalista, come si inferisce dalle pubblicazioni di due suoi progetti sperimentali nel 1940 sulla rivista “Casabella”40, diretta ancora per poco da Pagano, e nel 1941 su “Domus”41, diretta dal gruppo Giuseppe Pagano, Mario Bontempelli, Melchiorre Bega con Giancarlo Palanti redattore capo. Sia come sia, a partire dal 1943 e per quasi tre anni, Albini apre un piccolo studio a Piacenza, in via Scalabrini, condividendolo con Manfredini. Si lavorava rigorosamente tutti i giorni, inventandosi i lavori perché non c’erano commesse, ricorda lo stesso Manfredini42. Risalgono a quegli anni il progetto di mobili smontabili con strutture tensionate, firmato con Manfredini per il concorso “Casa per tutti” indetto nel 1943 dalla Triennale. Nello stesso periodo deve essere iniziato anche il calmo e attento lavoro di ridisegno e catalogazione di tutti gli oggetti per la casa disegnati fino ad allora, che vennero raccolti in formato A4 nel faldone “Prospettive di mobili”: un lavoro che sarà fondamentale per raccogliere le idee da portare nella vivace produzione sempre più meccanizzata e di massa del dopoguerra. Il rapporto di fiducia e stima tra Albini e Manfredini continuerà per anni: subito dopo la guerra Manfredini è direttore dei lavori del palazzo INA a Parma (1950-54); nel 1952 firma con Albini il piano particolareggiato del quartiere “Mirabello” a Reggio Emila, nel 1956 i due firmano con Franca Helg nel 1956 il quartiere Rosa Nuova a Reggio, e nel 1955-56 il piano regolatore dell’Avana dell’Est a Cuba, nel 1961 l’asilo nel quartiere INA-casa a Scandiano (Reggio Emilia). A conferma del continuo rapporto, profondo e sincero, tra Albini e Manfredini si può qui ricordare un piccolo aneddoto riportato da Aurelio Cortesi43 che descrive l’atmosfera dello studio di via Panizza 4, dove egli arriva nel 1956, neo laureato architetto, proprio per lavorare sul progetto dell’Avana. Mentre cercava di ambientarsi in quel luogo per lui mitico dell’architettura italiana, Cortesi rimase colpito dal fatto che 40 Enea Manfredini, Centro culturale a Milano, in “CasabellaCostruzioni”, n.158, Febbraio 1941, p. 24-26 41 Enea Manfredini, Una villa per due artisti sposi nella campagna emiliana, “Domus”, n.162, giugno 1941. 42 Vedi Marco Albini, “Evoluzione di una poetica”, in Federico Bucci e Fulvio Irace (a cura di), Zero Gravity, Franco Albini Costruire le modernità, La Triennale di Milano e Mondadori Electa, Milano 2006, p. 209, cfr. la nuova versione pubblicata in questo catalogo, infra p. 44 43 Aurelio Cortesi, Via Panizza 4: le giornate di uno scrutatore, in F. Bucci e F. Irace (a cura di), op. cit., p. 193-195

il riservato e taciturno maestro Albini, quando vedeva comparire “L’architetto Manfredini, un amico”44 che passava occasionalmente vicino al tavolo, lo interpellava subito “per dimensionamenti e verifiche”45. 1948-52 La passione per la montagna: Giuseppe Pirovano, detto Piro Una piccola ma doverosa nota va scritta per ricordare la passione per la montagna di Franco Albini che si sublima nel suo incontro con Giuseppe Pirovano, detto Piro, noto scalatore, già dagli anni Trenta, e grande maestro di sci, nonché partigiano nella resistenza antifascista46. Questa passione si concretizza in maniera emblematica con la realizzazione nel 1948-52 dell’albergo-rifugio Pirovano a Cervinia, ideato da Albini, con la stretta collaborazione di Gino Colombini, e il fondamentale confronto “spirituale” con la guida del maestro Piro. Non si hanno particolari resoconti in prima persona al riguardo, ma rimangono l’insieme e i numerosi dettagli del Rifugio Pirovano a parlare eloquentemente di questa passione e del valore di quell’incontro. La realizzazione del Rifugio Pirovano coincide inoltre con l’incontro di Albini con Roberto Poggi, artigiano del mobile insieme al fratello a Pavia, il quale, altrettanto appassionato di montagna e amico di Pirovano, realizzerà tutti gli interni del rifugio. Da quell’incontro nascerà una collaborazione quasi esclusiva tra Albini e l’azienda di Roberto Poggi, che per ventisette anni realizzerà quasi tutti i suoi disegni di mobili. 1949-62 La prima stagione dei musei genovesi: Caterina Marcenaro (1906-1976) Durante gli anni Cinquanta, Albini progetta a Genova un ciclo di spazi museali che insieme a quelli coevi realizzati da BBPR (Gian Luigi Banfi, Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Enrico Peresutti, Ernesto Natan-Rogers), da Carlo Scarpa e da Ignazio Gardella, costituiranno un punto di riferimento per la museografia internazionale. A dar vita e ad accompagnare questo importante percorso di Albini fondamentale fu l’incontro con Caterina Marcenaro, dal 1948 e per più di vent’anni, direttrice dell’Ufficio Belle Arti di Genova. 44 Ibidem 45 Ibidem 46 Giulio Guderzo, Fra Italia, Svizzera e Francia. Nella rete dell''Intelligence americana, 1944-1945, Pime editrice, Pavia 2015

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prix remporté par l’équipe Albini-Romano pour le « Grand concours Masonite pour la décoration d’un bureau »37 promu par les revues « Domus » et « Casabella-Costruzioni » et, enfin, leur participation (avec leurs amis Gardella et Palanti) à plusieurs concours importants en vue de ce qui aurait dû être l’Exposition Universelle E42 à Rome. Et puis, comme un hommage intellectuel, il y a le texte que Giovanni Romano publie dans « Domus » pour présenter la maison d’Albini sise via De Togni. « Nous voyons donc – écrit son fidèle compagnon de route – quelle est la signification de son langage et d’où naît sa valeur poétique. Ce langage est, dans certaines pièces, […] essentiellement spatial. C’est-à-dire qu’Albini s’exprime au moyen de compositions de volumes atmosphériques et de volumes solides, qui se pénètrent les uns les autres et se composent dans l’espace, selon des rapports harmonieux. En se servant de la composition spatiale, qui est vraiment le langage avec lequel il exprime le mieux sa personnalité […] il se rattache à la plus légitime conquête de l’architecture moderne, de Mackintosh à Gropius, de Le Corbusier jusqu’à la Salle des Médailles d’Or d’Edoardo Persico ; une architecture qui se sert des espaces atmosphériques, délimités ne serait-ce idéalement que par évocations, comme d’éléments architecturaux, en les assemblant à des éléments architecturaux construits. »38 Leur participation au projet du plan d’urbanisme AR de 1944-1945 pour la reconstruction de Milan joue également un rôle fondamental, tout comme leur engagement, toujours selon l’esprit de la libération antifasciste de Milan, dans la fondation du Mouvement d’Études pour l’Architecture (MSA), dont Giovanni Romano sera le président dans les années 1949195039. 1943-1961 Le compagnon patient : Enea Manfredini Franco Albini quitte Milan pendant les années les plus violentes de la guerre. Déplacé avec toute sa famille, sous la menace des bombardements, il s’isole dans les collines entre Plaisance et le village de Ponte dell’Olio, dans la maison de campagne de la famille de sa femme, Carla Vaccari. Pendant cette période, il se consacre essentiellement à la recherche

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37 Il grande concorso « Masonite » per l’arredamento di un ufficio – l’ufficio in masonite progettato dagli architeti F. Albini e G. Romano, in « Domus », no 146, février 1940,p. 77-84. 38 Giovanni Romano, La casa di un architetto, in « Domus », no 163, juillet 1941, p. 9-17. 39 Voir Matilde Baffa, Corinna Morandi, Sara Protasoni, Augusto Rossari, Il Movimento di Studi per l’Architettura, Bari, Laterza, 1995.

et s’emploie à réfléchir, à la lumière des événements, au parcours qu’il a accompli et à le réorganiser dans son esprit. Au cours de cette phase de forte réflexion critique, il a à ses côtés Enea Manfredini, un architecte de Reggio Emilia de dix ans son cadet, sorti de l’École Polytechnique de Milan en 1940. Nous ignorons les circonstances de leur première rencontre : Manfredini avait probablement découvert les idées du groupe rationaliste au moment où il faisait ses études à Milan, comme le laisse supposer les publications en 1940 de deux projets expérimentaux dans la revue « Casabella »40, dirigée encore pour quelque temps par Giuseppe Pagano, et en 1941 dans « Domus »41, dirigée par le groupe Pagano, Mario Bontempelli et Melchiorre Bega, avec Giancarlo Palanti comme rédacteur en chef. Quoi qu’il en soit, à partir de 1943 et pendant presque trois ans, Franco Albini ouvre à Piacenza, via Scalabrini, un petit atelier qu’il partage avec Manfredini. On y travaille rigoureusement tous les jours, en s’inventant du travail en l’absence de commandes, comme le rappellera Manfredini42. C’est de ces années que datent le projet de meubles démontables avec des structures en tension, présenté au concours « Maison pour tous » lancé par la Triennale en 1943, que Franco Albini cosigne avec Manfredini. Et c’est à cette même période que doit aussi avoir commencé le travail calme et attentif consistant à redessiner et à cataloguer tous les objets pour la maison qu’Albini avait dessinés jusque-là, qu’il réunit en format AV dans le dossier « Perspectives de meubles » : ce travail se révélera fondamental pour rassembler les idées qui nourriront la production de masse, de plus en plus mécanisée, de l’aprèsguerre. Albini et Manfredini seront liés pendant des années par un rapport de confiance et d’estime : tout de suite après la guerre, Enea Manfredini est directeur des travaux du bâtiment de l’INA à Parme (1950-1954) ; en 1952, il cosigne avec Franco Albini le plan détaillé du quartier « Mirabello » à Reggio Emilia ; en 1956, les deux architectes cosignent avec Franca Helg le quartier « Rosta Nuova» à Reggio, puis, en 1955-1956, le plan régulateur de La Havane de l’est à Cuba et, en 1961, la crèche dans le quartier de l’INA casa à Scandiano, près de Reggio Emilia. L’existence d’un rapport durable, profond 40 Enea Manfredini, Centro culturale a Milano, in « Casabella-Costruzioni », no 158, février 1941, p. 24-26. 41 Enea Manfredini, Una villa per due artisti sposi nella campagna emiliana, « Domus », no 162, juin 1941 42 Voir Marco Albini, « Evoluzione di una poetica », in Federico Bucci et Fulvio Irace (sous la direction de), Zero Gravity, Franco Albini Costruire le modernità, Milan, La Triennale di Milano et Mondadori Electa, 2006, p. 209, cf. la nouvelle version dans ce catalogue, infra, p. 44


Carattere deciso e autonomo, formata alla scuola di Pietro Toesca e Adolfo Venturi, amica di Carlo Giulio Argan, la Marcenaro – come Costantino Baroni per il Castello Sforzesco (1947-’56) di Milano con i BBPR, come Giorgio Vigni per il Palazzo Abatellis (1953-’54) di Palermo con Carlo Scarpa, e come Licisco Magagnato per il Castelvecchio (1957-’62) di Verona, sempre opera di Carlo Scarpa – sarà protagonista del rinnovamento del concetto di museo, non solo in Italia, ma a livello internazionale. A partire dall’allestimento di Palazzo Bianco (1949-’51) nella cinquecentesca Strada Nuova (attuale Corso Garibaldi), alla costruzione ipogea del Museo del Tesoro della Cattedrale (1952-56) con Franca Helg, per tornare in Strada Nuova con il Palazzo Rosso (1952-’62), sempre con la socia Helg, Albini costruisce e sviluppa un innovativo modello di allestimento museografico strettamente correlato all’ordinamento museale di Caterina Marcenaro. Purtroppo non si sono conservate lettere o altri documenti simili che possano testimoniare dello stretto rapporto mantenutosi durante l’elaborazione di questi lavori, ma molti fattori e testimonianze indirette dell’epoca riferiscono di un sostanziale scambio di idee intorno a dei criteri informatori posti dalla Mercenaro che trovavano poi una originale e coerente interpretazione da parte degli architetti. Sin dal 1952, lo storico dell’arte Giulio Carlo Argan, in una sua puntuale recensione, segnalava la connessione operativa tra Albini e la Marcenaro “come esempio di collaborazione tra un direttore, pienamente cosciente delle proprie responsabilità scientifiche ed educative, e un architetto moderno, pienamente cosciente delle possibilità che la moderna architettura può offrire anche nei confronti della funzione culturale e sociale dei musei”47. Ma è lo stesso Albini a valorizzare l’intesa perfetta tra l’architetto e la direttrice di museo in una lunga e articolata lezione su “Funzioni e architettura del museo” che egli tenne nell’anno accademico 1954-55 al Politecnico di Torino: “Nell’attuale periodo l’ordinamento guidato da principi scientifici e critici – scrive Albini – chiarisce le funzioni specifiche di ogni museo. (…) L’ordinamento, organizzando le collezioni attraverso una classificazione attuata con chiaro rigore scientifico, e attraverso la scelta delle opere rappresentative, attuata alla luce di di una critica viva, precisa il tema dell’architettura. L’aderenza tra il tema e l’architettura deve essere completa. Quanto più l’opera architettonica, sia edificio nuovo, sia adattamento di antichi edifici, rispetterà e asseconderà i 47 Giulio Carlo Argan, La Galleria di Palazzo Bianco a Genova, in « Metron », 45, 1952, p. 24-39.

criteri dell’ordinamento, naturalmente di un buon ordina­ mento, e ne sarà sensibile allo spirito, tanto più sarà viva e autonoma”48. La consonanza tra Albini e Marcenaro trovò ancora una sua significativa sublimazione anche nello spazio progettato al piano attico del Palazzo Rosso a Genova, per l’appartamento personale della direttrice del Museo, permeato come notò Vittoriano Viganò di “raffinatezza, quasi sensualità”49. 1949-1977 Il mobiliere di fiducia: Roberto Poggi Il disegno del mobile è sempre stato al centro dell’idea di spazio abitato, indagato e realizzato da Albini con le sue particolari “costruzioni atmosferiche”. L’incontro con colui che sin dai primi anni Cinquanta e per il resto della sua vita diventerà il quasi esclusivo realizzatore di mobili su suo disegno, ovvero Roberto Poggi di Pavia, avviene nel 1948 grazie alla comune passione per la montagna e in particolare la comune amicizia con Giuseppe Pirovano, per il quale Franco Albini progetta il famoso albergo-rifugio a Cervinia (1948-52) e Poggi ne realizza tutti gli arredi. Da quella occasione nasce un rapporto unico, di vive affinità elettiva, che porterà l’azienda di Poggi a diventare una sorta di laboratorio del progetto del mobile di Albini verso la produzione di serie. A partire dalla sedia Luisa che vince il Compasso d’Oro del 1955 e diventa, con la Superleggera di Ponti, il vessillo del nascente “good design” italiano degli anni Cinquanta, si andranno ad inanellare una serie di progetti di mobili caposaldi del design italiano: il tavolo Cavalletto TL2 (1950), la poltrona Fiorenza (dalla versione Arflex del 1952, a quella Poggi PL44 del 1967), il tavolino servomuto Cicognino (1953), la libreria componibile LB7 (1956), la poltrona 3 pezzi PL19 (1959), per citarne solo alcuni.

48 Franco Albini, L’architecture des musées, “UIA”, n. 2, 1954, p. 13-18, trad. it, in “La Biennale di Venezia”, n. 31, 1958. 49 Vittoriano Viganò, Franco Albini, Trente ans d’architecture italienne, in “Aujourd’hui, Art et architecture”, VI, 33, ottobre c1961, p. 58-71 (testo di una lezione tenuta alla Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, a.a. 1960-61)

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et sincère entre Albini et Manfredini est confirmée par une petite anecdote qu’Aurelio Cortesi rapporte dans un texte43 où il décrit l’atmosphère de l’atelier installé au numéro 4 de la via Panizza, où il arrive en 1956, après avoir fini ses études d’architecture, pour travailler au projet de La Havane : alors qu’il tâchait de trouver sa place dans ce lieu pour lui mythique de l’architecture italienne, Cortesi est frappé par le fait que quand le « maître » Albini, taciturne et réservé, voyait « l’architecte Manfredini, un ami »44 passer près de sa table, il l’interpelait aussitôt « pour des calculs de dimensions et des vérifications »45. 1948-1952 La passion pour la montagne : Giuseppe Pirovano, dit Piro Une petite parenthèse s’impose afin d’évoquer la passion de Franco Albini pour la montagne, une passion qui se sublime dans sa rencontre avec Giuseppe Pirovano, surnommé Piro, un alpiniste déjà célèbre dans les années Trente, qui fut champion de ski et combattit dans la résistance anti-fasciste46. Cette passion se concrétise de manière emblématique lors de la réalisation en 1948-1952 de l’Hôtel-refuge Pirovano à Cervinia, dessiné par Albini avec la collaboration de Gino Colombini et l’influence fondamentale des idées du maître Piro. Il n’existe pas de récits directs concernant cette création, mais l’ensemble et les nombreux détails de l’Hôtelrefuge Pirovano parlent avec éloquence de cette passion et de la valeur de cette rencontre. La réalisation du Refuge coïncide en outre avec la rencontre de Franco Albini avec Roberto Poggi, un artisan ébéniste travaillant à Pavie avec son frère : tout aussi passionné par la montagne et lui aussi ami de Giuseppe Pirovano, Poggi réalise tous les intérieurs du refuge. Cette rencontre donnera lieu à la collaboration presque exclusive de Franco Albini avec l’entreprise de Roberto Poggi, qui réalisera pendant vingt-sept ans presque tous ses dessins de meubles.

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43 Aurelio Cortesi, Via Panizza 4: le giornate di uno scrutatore, in F. Bucci et F. Irace (sous la direction de), op. cit., p. 193-195. 44 Ibid. 45 Ibid. 46 Giulio Guderzo, Fra Italia, Svizzera e Francia. Nella rete dell’Intelligence americana, 1944-1945, Pavie, Pime editrice, 2015.

1949-1962 La première période des musées génois : Caterina Marcenaro (1906-1976) Dans les années Cinquante, Franco Albini projette à Gênes une série d’espaces muséaux qui deviendront une référence pour la muséographie internationale, à l’instar des réalisations contemporaines des BBPR (Gian Luigi Banfi, Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Enrico Peresutti, Ernesto Natan-Rogers) de Carlo Scarpa et d’Ignazio Gardella. La rencontre avec Caterina Marcenaro, qui devient en 1948 et restera pendant plus de vingt ans la directrice du Bureau des Beaux-Arts de Gênes, joue un rôle fondamental dans le lancement et l’accompagnement de ce parcours important dans la carrière de Franco Albini. Dotée d’un caractère décidé et indépendant, formée à l’école de Pietro Toesca et d’Adolfo Venturi, amie de Carlo Giulio Argan, Caterina Marcenaro est – de même que Costantino Baroni pour le Château des Sforza (1947-1956) de Milan avec les BBPR, ou Giorgio Vigni pour le Palazzo Abatellis (1953-1954) de Palerme avec Carlo Scarpa ou Licisco Magagnato pour le Castelvecchio (1957-1962) de Vérone, toujours de Carlo Scarpa – une personnalité importante du renouvellement du concept de musée, en Italie, mais aussi au niveau international. À partir de l’aménagement du Palazzo Bianco (19491951) dans la Strada Nuova datant du xvie siècle (actuellement Corso Garibaldi), de la construction souterraine du Musée du Trésor de la Cathédrale (1952-1956) avec son associée Franca Helg, puis du Palazzo Rosso (1952-1961) également situé dans la Strada Nuova et également avec Franca Helg, Franco Albini élabore et développe un modèle novateur d’aménagement muséographique étroitement associé à l’organisation muséale de Caterina Marcenaro. Nous ne possédons malheureusement ni lettres ni documents d’aucune sorte qui pourraient illustrer leurs rapports étroits pendant la phase d’élaboration de ces travaux, mais de nombreux facteurs et témoignages indirects de l’époque évoquent un échange d’idées nourri autour des critères établis par Caterina Marcenaro, que les architectes interprètent ensuite de manière à la fois originale et cohérente. Parlant de la collaboration opérationnelle entre Albini et Marcenaro, Giulio Carlo Argan signalait dès 1952 dans un compte rendu que la Galerie du Palazzo Bianco à Gênes47 constituait « un exemple de collaboration entre un directeur de musée pleinement conscient de ses responsabilités 47 Giulio Carlo Argan, La Galleria di Palazzo Bianco a Genova, in « Metron », 45, 1952, p. 24-39.


1951-1977 La socia del dopoguerra: Franca Helg “Io sono pronto anche a riconoscere che il lavoro della Helg si è particolarmente distinto nella progettazione e nella realizzazione di parecchie opere di genere diverso: dal Salone d’Onore alla X Triennale di Milano nel 1954 (proprio in quel periodo io rimasi per oltre due mesi in Brasile), alla Villa Minorini sul Tigullio del 1955, alla casa Zambelli a Forlì nel 1956, alle case d’abitazione di via Argentati a Milano, alla Villa Corini a Parma, ed infine alle Terme di Salsomaggiore ed al Palazzo per uffici della Snam a San Donato Milanese”. Con queste parole, redattte in occasione della raccolta dei documenti per il concorso di libera docenza presso il Politecnico di Milano, conseguito da Franca Helg nel 196750 Albini riconosce lo specifico ruolo progettuale di quella che fu la sua socia dal 1951 al 1977 (anno della morte dello stesso Albini). Laureata nel 1945 al Politecnico di Milano, fin dai primi anni Quaranta, mentre frequenta l’università, Franca Helg collabora con lo studio BBPR. Probabilmente già in quel periodo ha occasione d’incontrare Franco Albini. Ma è lei stessa a raccontare quello che forse fu il suo primo incontro col lavoro di Albini, quando descrive la sua visita nel 1941 alla “Mostra di Scipione e di disegni contemporanei” presso la Pinacoteca di Brera: “Ricordo di aver visitato queste mostre come studente di architettura – non avevo certo le idee chiare – ma questi straordinari, per allora, allestimenti mi entusiasmarono per il loro carattere al tempo stesso sobrio e fiabesco: ne ebbi una profonda impressione di lievità irreale. (…) Questo è il primo esempio, credo, in cui Albini ha messo a fuoco le caratteristiche che hanno fatto scuola: la scansione ritmata dello spazio, mediante elementi sottili, e il supporto tecnico e costruttivo per la ricerca espressiva. I sottilissimi montanti (uno dei pallini di Albini, come li definiva lui stesso) montabili con facilità e secondo soluzioni flessibili, assottigliati agli estremi e rigonfi, secondo il diagramma del carico di punta, nella loro zona mediana”. È un approccio progettuale che affascina particolarmente la Helg se è vero che anche lei, in uno dei suoi primi lavori autonomi appena dopo la guerra, si ispirerà a quel metodo: “Nel 1946, alla fine della guerra, quando dovetti allestire con degli amici (ricordiamo anche il famoso grafico Max Huber, nda) una 50 Dopo essere stata assistente alla cattedra di Composizione architettonica tenuta da Lodovico Barbiano di Belgiojoso prima all'Istituto Universitario di Architettura di Venezia (Iuav) e quindi al Politecnico di Milano, conseguì la libera docenza nel 1967, insegnando la stessa disciplina, di cui divenne ordinaria nel 1984.

mostra di arte astratta51 nel Salone delle Cariatidi del semidistrutto Palazzo Reale a Milano, affascinata dalle invenzioni di Albini ho riproposto il medesimo artificio del trompe l’œil di carta alle pareti (…), unitamente ad una struttura – a cui sono tuttora molto affezionata – di tubi Innocenti che costituisce un involucro indipendente dalla struttura muraria e consentisse di frazionare l’enorme Sala delle Cariatidi in ambienti adatti all’esposizione di opere di carattere diversificato”52. È interessante notare come sino a quel momento Franco Albini non aveva ancora usato dei tubi Innocenti per realizzare delle esposizioni (proposti invece in maniera molto interessante già nel 1936 da Persico e Nizzoli per un grande allestimento in esterni posto al centro della Galleria Vittorio Emanuele a Milano), mentre l’utilizzo di questo sistema costruttivo diventerà fondamentale in alcuni importanti realizzazioni successive all’ingresso della Helg come socia di studio, quali quelle per la X Triennale del 1954 (che Albini dichiara venne quasi integralmente realizzata da Franca Helg) e le due sezioni progettate dallo studio Albini ed Helg per l’Esposizione internazionale del Lavoro a Torino nel 1961. Altre interessanti considerazioni emergono dalla stessa Franca Helg il 3 marzo 1982 a Venezia per la Scuola d’architettura sul tema “Parliamo un po’ di esposizioni: le esperienze di Franco Albini.” Dall’elenco di lavori descritti, fra quelli ideati dalla Helg insieme ad Albini, estraiamo due brevi brani: il primo dedicato al negozio Olivetti a Parigi e il secondo alla mostra da lei stessa curata e progettata per ricordare Franco Albini pochi anni dopo la sua morte: “Nel 1958 nel negozio Olivetti in Faubourg Saint Honoré a Parigi, abbiamo ripreso la poetica dei pennoni e del reticolo: la modulazione aveva una maglia a triangolo equilatero ed anche i pennoni erano costituiti da tre sottili bacchette di legno poste ai vertici di un triangolo equilatero e rese solidali da calastrelli triangolari. Ad ‘allontanare’ il soffitto fu posta alla sommità di ogni pennone una lampadina a sfera, mentre l’illuminazione degli oggetti esposti – macchine da scrivere e da calcolo – era ottenuta con lampadari di Venini (eseguiti su 51 Il gruppo “l’altana” (a cura di) con Lanfranco Bombelli Tiravanti e Max Huber, Mostra “Arte astratta e concreta”, Palazzo ex reale, Milano, gennaio-febbraio 1947, con la collaborazione per l’allestimento di Elena Berrone e Franca Helg. 52 Franca Helg, Il problema degli allestimenti, in Barbara Pastor, Sandro Polci (a cura di), Parliamo un po’ di esposizioni. Le esperienze di Franco Albini, del gruppo BBPR e di Carlo Scarpa, Università Internazionale dell’Arte, Venezia, 1985. Più avanti, nel descrivere il progetto con Albini per l’esposizione torinese di Italia ’61, l’autrice nota “Per formare uno spazio che avesse una propria autonomia abbiamo tirato attorno a una incastellatura di tubi Innocenti (i soliti amati tubi Innocenti) una fitta rete metallica nera (…)”.

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scientifiques et éducatives, et un architecte moderne, pleinement conscient des possibilités que l’architecture moderne peut offrir à la fonction culturelle et sociale des musées ». Et Franco Albini souligne lui-même la parfaite entente qui régnait avec Caterina Marcenaro dans une longue leçon intitulée « Fonctions et architecture du musée », qu’il tient à l’École Polytechnique de Turin en 1954-1955. « Dans la période actuelle, la réglementation guidée par des principes scientifiques et critiques – écrit Albini – éclaire les fonctions spécifiques de chaque musée. […] En organisant les collections à travers une classification élaborée suivant une rigueur scientifique claire, et à travers le choix des œuvres représentatives, effectué à la lumière d’une critique vivante, la réglementation précise le thème de l’architecture. La cohérence entre le thème et l’architecture se doit d’être complète. Plus l’œuvre architecturale – qu’il s’agisse d’un nouveau bâtiment ou de la rénovation de bâtiments anciens – respectera et soutiendra les critères de la réglementation, naturellement d’une bonne réglementation, plus elle sera sensible à son esprit, plus elle sera vivante et autonome.48 » Le plein accord entre Franco Albini et Caterina Marcenaro trouve une nouvelle expression dans l’espace imprégné de « raffinement, et presque de sensualité » – selon les termes de Vittoriano Viganò – projeté par l’architecte pour l’appartement personnel de la directrice du musée49, au dernier étage du Palazzo Rosso à Gênes. 1949-1977 Le fabricant de meubles de confiance : Roberto Poggi Le dessin du meuble a toujours joué un rôle fondamental dans l’idée d’espace habité, étudié et réalisé par Franco Albini avec ses « constructions atmosphériques » particulières. La rencontre avec Roberto Poggi, l’artisan de Pavie qui deviendra son réalisateur de meubles presque exclusif à partir du début des années Cinquante et jusqu’à la fin de sa vie, a lieu en 1948 grâce à leur passion commune pour la montagne et, en particulier, grâce à leur ami commun Giuseppe Pirovano, pour qui Franco Albini projette le célèbre Hôtel-refuge à Cervinia (1948-1952), dont Roberto Poggi réalise tout l’ameublement.

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48 Franco Albini, L’architecture des musées, “UIA”, n. 2, 1954, p. 13-18, trad. it, in “La Biennale di Venezia”, n. 31, 1958. 49 Vittoriano Viganò, Franco Albini, Trente ans d’architecture italienne, in « Aujourd’hui, Art et architecture », VI, 33, octobre 1961, p. 58-71 [texte d’une leçon tenue à la faculté d’Architecture de l’École Polytechnique de Milan, 1960-1961].

Cette circonstance va donner lieu à un rapport unique, empreint d’une affinité élective toute particulière, qui amènera l’entreprise de l’ébéniste de Pavie à devenir une sorte de laboratoire du projet de meubles de Franco Albini en vue de la production en série. À partir de la chaise Luisa qui remporte le Compasso d’Oro en 1955 et qui devient, avec la Superleggera de Gio Ponti, l’étendard du good design italien naissant des années Cinquante, suivront une série de projets de meubles clé du design italien : la table Cavalletto TL2 (1950), le fauteuil Fiorenza (avec la version Arflex de 1952, puis la version Poggi PL44 de 1967), la table de service Cicognino (1953), la bibliothèque composable LB7 (1956) et le fauteuil 3 pezzi PL19 (1959), pour n’en citer que quelques-uns. 1951-1977 L’associée de l’après-guerre : Franca Helg « Je suis même prêt à reconnaître que le travail de Franca Helg s’est particulièrement distingué dans la conception et dans la réalisation de nombreuses créations d’un genre différent : le Salon d’Honneur à la X Triennale de Milan en 1954 (c’est précisément à cette époque que j’ai passé plus de deux mois au Brésil), la Villa Minorini sul Tigullio en 1955, la maison Zambelli à Forlì en 1956, les maisons d’habitation de la via Argentari à Milan, la Villa Corini à Parme, et enfin les Thermes de Salsomaggiore et l’immeuble de bureaux de la SNAM à San Donato Milanese. » C’est par ces mots que Franco Albini définit le rôle spécifique de Franca Helg50, son associée de 1951 à 1977 (l’année de la mort d’Albini), à l’occasion de la réunion des documents pour le concours de professeur que Franca Helg passe en 1967 à l’École Polytechnique de Milan. Franca Helg obtient son diplôme d’architecte à l’École Polytechnique de Milan en 1945, mais elle collabore avec l’agence Banfi-Belgiojoso-Peressutti-Rogers (BBPR) dès le début des années Quarante, alors qu’elle est encore étudiante. C’est probablement à cette époque qu’elle fait la connaissance de Franco Albini. Franca Helg racontera ellemême sa découverte du travail d’Albini, en décrivant sa visite de l’« Exposition de Scipione et de dessins contemporains » à la Pinacothèque de Brera, en 1941 : « Je me souviens d’avoir visité ces expositions quand j’étais étudiante en architecture – je n’avais certainement pas les idées claires 50 Après avoir été assistante de la chaire de Composition architecturale de Lodovico Barbiano di Belgiojoso, d’abord à l’Institut universitaire d’Architecture de Venise (IUAV), puis à l’École Polytechnique de Milan, elle devint professeur en 1967 et elle enseigna la même discipline, dont elle obtint la chaire en 1984.


nostro disegno) che concentravano la luce sugli oggetti stessi. L’immagine, che ovvie ragioni commerciali richiedevano impressiva, era rafforzata dal colore verde acido delle pareti e dei piani d’appoggio. (…) Infine le immagini di una mostra commemorativa di Albini che ho curato nel 1980 alla Rotonda di via Besana a Milano. La mostra non voleva essere commemorativa, voleva anche ricordare come amicizia, collaborazione, circolazione di idee fosse stata vivace e dopotutto fruttuosa, soprattutto attorno agli anni Quaranta e Sessanta”. Si ricorda infine che l’aneddotica vuole che il nome Veliero della celebre libreria tensostruttura disegnata da Franco Albini per la sua casa in via De Togni nel 1938, e messa in opera nel 1940, fosse stato dato da Franca Helg quando la vide per la prima volta, leggendovi appunto la forma di un albero maestro, completo di stralli e sartie per essere paveggiato di vele quadre, tipico appunto di un veliero. Ma qualcuno sostiene che la citazione del “veliero” si riferisse anche al rumore di legno cigolante, come appunto quello del fasciame di una vecchia nave in acque agitate, provocato dal contatto tra il parquet del pavimento e la base in legno della libreria che si “muoveva” per effetto di cambi climatici, rispetto anche al tensionamento dell’intera struttura che era su essa ancorata. 1962-64 L’incontro tra segno e spazio nella Metropolitana Milanese: Bob Noorda Uno dei progetti più interessanti del dopoguerra di Albini, per il particolare rapporto che lega l’architettura degli interni, il design dei manufatti e il progetto a scala urbana, è senza dubbio il sistema di arredo per le stazioni della linea 1 della Metropolitana Milanese (1962-64) che egli firma insieme a Franca Helg e il grafico Bob Noorda, col quale si instaura una forte intesa progettuale e umana. In effetti, quella particolare continuità spaziale che accompagna il viaggiatore, segnata dal corrimano infinito in tubo rosso, e dalla fascia segnaletica continua, prende forma grazie all’incontro sostanziale tra una certa idea narrativa tipica della visione spaziale di Albini e una certa idea comunicativa dell’essenziale grafica coordinata di Bob Noorda: un incontro premiato nel 1964 con il più importante riconoscimento del design italiano, il Compasso d’oro. I primi incontri di Albini con il grafico di origine olandese Bob Noorda, si possono fare risalire ad alcuni allestimenti progettati assieme per i comuni clienti Pirelli e Montecatini. Ma l’occasione di collaborare in quello che è stato per entrambi sicuramente uno dei progetti più interessanti della loro carriera, arriva quasi per caso

attraverso il tecnologo Giuseppe Ciribini, amico di Albini e allora consulente della società Metropolitana Milanese. L’ing. Ciribini, incaricato dalla MM di individuare la figura più adatta per questo indispensabile servizio comunicativo al percorso del viaggiatore, pensò al primo momento di coinvolgere come grafico l’ancor giovanissimo Italo Lupi, il quale in quel momento non si sentì preparato per questo impegno, mentre suggerì con grande slancio la perfetta consonanza di Bob Noorda per questo incarico. “È un intervento unitario – si legge nella relazione di progetto – esteso a tutta la città, concepito sulla ricerca di (…) uniformazione dei materiali (…) conformi al concetto di serie e di ripetibilità, sull’eleganza di dettagli studiati per una stazione campione via via ripetuti o adattati, sulla chiarezza e uniformità della grafica”. Franco Albini, rievocando la propria attività del dopoguerra, sino ai primi anni Settanta, ha scritto che la Metropolitana “è stata – pur solo attraverso un tema d’arredo – un contributo di carattere riconoscibile e impressivo, a dare ordine a spazi senza forma, a creare un sistema per l’uso della città”53. Riflettendo sull’essenza di questo progetto, viene spontaneo ripensare alla famosa provocazione lanciata nel 1932 da Edoardo Persico agli amici architetti, soprattutto ai più giovani come Albini, ai quali raccomandava di progettare avendo sempre presente come cliente ideale “l’uomo che va in tram”54. Dal progetto grafico per la linea 1 della Metropolitana Milanese sono derivati il progetto della segnaletica grafica per la metropolitana di New York (1966-70), firmato da Noorda insieme a Massimo Vignelli, e quello per la metropolitana di San Paolo del Brasile (1973), firmato dal solo Noorda. Queste realizzazioni sono poi servite da modello per molte altre nuove metropolitane nel resto del mondo. 53 Franco Albini, in AA.VV., Milano 70/70 Un secolo d’arte dal 1946 al 1970, 3o vol., Museo Poldi Pezzoli, Milano 1972, p. 44-46. 54 Edoardo Persico, Un ideale, in “La Casa Bella”, Ottobre 1932.

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– mais ces aménagements extraordinaires, pour l’époque, m’enthousiasmèrent en raison de leur caractère à la fois sobre et féérique : ils me communiquèrent une profonde impression de légèreté irréelle. […] C’est là le premier exemple, je crois, où Franco Albini a élaboré les caractéristiques qui ont fait “école” : la scansion rythmée de l’espace à travers des éléments légers et le support technique et constructif pour la recherche expressive. Les montants très fins (une des “manies” d’Albini, comme il les définissait lui-même), faciles à monter et offrant des solutions flexibles, amincis aux extrémités et épaissis dans leur zone médiane, selon le diagramme du flambage ». Cette approche fascine tellement Franca Helg qu’elle s’inspire de cette méthode pour l’un de ses premiers projets personnels réalisés juste après la guerre : « En 1946, à la fin de la guerre, quand j’ai dû installer avec des amis (mentionnons en particulier le célèbre graphiste Max Huber, n.d.a.) une exposition d’art abstrait51 dans le Salon des Cariatides du Palais Royal de Milan, à moitié détruit, comme j’étais fasciné par les inventions d’Albini, j’ai proposé le même artifice du “trompe l’œil” de papier sur les murs […], ainsi qu’une structure – à laquelle je suis encore très attachée – en tubes Innocenti (les barres de métal utilisées pour les échafaudages, n.d.t.), qui forme une enveloppe indépendante de la structure en maçonnerie et permet de fractionner l’énorme Salle des Cariatides en plusieurs espaces adaptés à l’exposition d’œuvres à caractère diversifié »52. Il est intéressant de remarquer que jusqu’à ce moment-là, Franco Albini n’avait pas encore employé de tubes Innocenti pour réaliser des expositions (alors que Persico et Nizzoli en avaient déjà fait une utilisation très intéressante dès 1936 dans une grande installation en extérieur placée au centre de la Galerie Victor-Emmanuel à Milan), alors que le recours à ce système deviendra fondamental dans plusieurs réalisations importantes de son atelier au moment où Franca Helg y entre comme associée, par exemple à la X Triennale de 1954 (dont Albini déclare d’ailleurs qu’elle a été presque entièrement réalisée par Franca Helg) et dans

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51 Le groupe « l’altana » (sous la direction de) avec Lanfranco Bombelli Tiravanti et Max Huber, Exposition « Art abstrait et concret », ancien Palais Royal, Milan, janvier-février 1947, avec la collaboration pour l’installation d’Elena Berrone et Franca Helg. 52 Franca Helg, Il problema degli allestimenti, in Barbara Pastor, Sandro Polci (sous la direction de), Parliamo un po’ di esposizioni. Le esperienze di Franco Albini, del gruppo Bbpr e di Carlo Scarpa, Venise, Université internationale d’Art, 1985 ; et plus loin, lorsqu’elle décrit son projet avec Albini pour l’exposition Italia ’61 à Turin, elle note : « Pour former un espace qui ait son autonomie propre, nous avons tiré autour d’une structure de tubes Innocenti (mes tubes Innocenti habituels et bien aimés) une grille métallique noire serrée […] ».

les deux sections projetées par l’atelier Albini et Helg pour l’Exposition internationale du Travail à Turin en 1961. D’autres considérations intéressantes se font jour à la lecture de la transcription de la conférence tenue par Franca Helg le 3 mars 1982 à l’École d’architecture de Venise, sur le thème « Parlons un peu d’expositions : les expériences de Franco Albini ». Citons deux courts extraits tirés de la liste des travaux décrits par Franca Helg, : le premier consacré au magasin Olivetti à Paris, le second à l’exposition qu’elle a conçue et projetée à la mémoire de Franco Albini, quelques années après sa mort : « En 1958, dans le magasin Olivetti du Faubourg Saint-Honoré à Paris, nous avons repris la poétique des mâts et de la grille : la modulation avait une maille en triangle équilatéral et les mâts étaient eux aussi constitués de trois solides baguettes de bois placées aux sommets d’un triangle équilatéral et rendues solidaires par des crampons triangulaires. Pour “éloigner” le plafond, nous avons placé au sommet de chaque mât une ampoule à sphère, tandis que l’éclairage des objets exposés – des machines à écrire et à calculer – était obtenue grâce à des lampes de Venini (exécutées d’après nos dessins) qui concentraient la lumière sur les objets. L’image, qui devait être forte pour des raisons commerciales évidentes, était renforcée par la couleur vert acide des murs et des plans d’appui. […] Enfin, les images d’une exposition à la mémoire d’Albini dont je me suis occupée en 1980 à la Rotonde de la via Besana à Milan. Nous ne voulions pas faire seulement une exposition commémorative, nous voulions aussi rappeler combien l’amitié, la collaboration et la circulation d’idées avaient été vivantes et fructueuses, surtout autour des années Quarante et Soixante ». Franca Helg raconte aussi que selon une certaine anecdote, c’est elle qui aurait baptisé du nom de Veliero (Voilier) – la célèbre bibliothèque en structure de traction dessinée par Francesco Albini pour sa maison de la via De Togni en 1938 et réalisée en 1940, lorsqu’elle l’avait vue pour la première fois, car elle y avait vu la forme d’un grandmât, avec ses cordes et ses gréements, prêt à être pavoisé avec les voiles carrées typiques d’un voilier. Mais certains soutiennent que cette citation du « voilier » se référait aussi au bruit du bois grinçant, comme celui des planches d’un vieux bateau dans des eaux agitées, provoqué par le contact entre le parquet du sol et la base en bois de la bibliothèque qui « bougeait » sous l’effet des changements climatiques, également en raison de la traction de toute la structure qui était ancrée sur elle.



1962-1964 La rencontre entre le rêve et l’espace dans le Métro de Milan : Bob Noorda Un des projets les plus intéressants de Franco Albini dans l’après-guerre, en raison du rapport particulier qui y lie l’architecture d’intérieur, le design des objets et le projet à échelle urbaine, est sans aucun doute le système de décoration pour les stations de la ligne 1 du Métro de Milan (1962-1964), qu’il cosigne avec Franca Helg et le graphiste Bob Noorda, avec lequel se noue une forte entente professionnelle et humaine. La continuité spatiale particulière qui accompagne le voyageur, caractérisée par la rampe infinie en tube rouge et par la bande signalétique continue, prend forme grâce à la rencontre fondamentale entre une certaine idée narrative typique de la vision spatiale d’Albini et une certaine idée communicative du graphisme sobre et coordonné de Bob Noorda : cette rencontre est récompensée en 1964 par la plus haute reconnaissance du design italien, le Compasso d’Oro. Les premiers contacts de Franco Albini avec le graphiste d’origine hollandaise Bob Noorda remontent aux installations qu’ils avaient projetées ensemble pour leurs clients communs, Pirelli et Montecatini. Mais leur rencontre dans ce qui a certainement été pour eux l’un des projets les plus intéressants de leur carrière, est presque le fruit du hasard et se produit grâce à l’entremise de Giuseppe Ciribini, un ami d’Albini et un consultant de la société Metropolitana Milanese. L’ingénieur Ciribini, chargé par la société MM de trouver le graphiste le plus adapté pour réaliser ce service de communication indispensable au parcours du voyageur, pense d’abord à Italo Lupi. Mais celui-ci est encore très jeune et ne se sent pas encore prêt pour une telle tâche, en raison de son manque d’expérience. Il conseille donc à Giuseppe Ciribini de s’adresser à Bob Noorda, qui lui semble parfaitement à la hauteur pour réaliser ce projet. « C’est une intervention unitaire – lit-on dans le rapport de projet – étendu à toute la ville, conçu sur la recherche […] d’uniformisation des matériaux […] conformes au concept de série et de répétition, sur l’élégance des détails étudiés pour une station pilote, puis répétés ou adaptés, sur la clarté et sur l’uniformité du graphisme. » Évoquant son activité de l’après-guerre jusqu’au début des années Soixante-dix, Franco Albini a écrit que le Métro de Milan « a été – ne serait-ce qu’à travers un thème d’aménagement – une contribution reconnaissable et marquante pour donner de l’ordre à des espaces sans forme, 43

pour créer un système pour l’usage de la ville »53. Lorsqu’on réfléchit à l’essence de ce projet, on pense spontanément à la célèbre provocation lancée en 1932 par Edoardo Persico à ses amis architectes, surtout aux plus jeunes, comme Franco Albini, auxquels il recommandait de concevoir leurs projets en pensant toujours que leur client idéal était « l’homme qui prend le tramway »54. Ce projet graphique pour la ligne 1 du Métro de Milan a inspiré le projet de la signalisation graphique du métro de New York (1966-1970), cosigné par Noorda et Massimo Vignelli, et celui du métro de Sao Paulo au Brésil (1973), signé par Noorda. Ces réalisations ont été ensuite prises comme modèles pour de nombreux nouveaux métros dans le reste du monde. 53 Franco Albini, in Ouvrage collectif, Milano 70/70 Un secolo d’arte dal 1946 al 1970, 3o volume, Milan, Musée Poldi Pezzoli, 1972, p. 44-46. 54 Edoardo Persico, Un ideale, dans “La Casa Bella”, Octobre 1932.


Marco Albini Evoluzione di una poetica* Già da adolescente, raccontava mia nonna paterna Corinna Toniolo, fu palese il talento di mio padre verso il disegno. A diciotto anni, Franco Albini ritraeva a carboncino il cuoco di famiglia, “il Sander”, personaggio più volte citato nei ricordi d’infanzia. Un grande significato nella sua formazione affettiva, tema di cui parlava in continuazione, è legato all’infanzia felice, trascorsa nella villa di Robbiate in Brianza, dove visse sino alla fine della prima guerra mondiale. In seguito, il tracollo finanziario del padre, che si era stabilito con la famiglia a Milano, costrinse alla vendita della casa di Robbiate. L’ingegnere Baldassare Albini1 aveva investito e perso tutto nell’industria del baco da seta; sua moglie, mia nonna Corinna di cui ricordo ancora i grandi occhi profondi, era una perfetta imprenditrice famigliare e gestiva la grande casa di Robbiate circondata dalle figlie Maria e Carla e dai numerosi amici che il marito era solito riunire la sera. Maria, che visse e insegnò tutta la vita a Parigi, ha lasciato vari saggi di cultura popolare e un racconto autobiografico, La Gibigianna2 in cui descrive con emozione e nostalgia l’infanzia trascorsa con i fratelli e la vita di famiglia. Nel suo racconto si avverte una certa gelosia verso l’affinità elettiva e l’intesa che ben presto unì Franco e Carla, gettando le basi di un sodalizio affettivo e culturale durato sino alla prematura scomparsa di Carla3. Attivista del Pci, Maria lasciò l’Italia nel 1936 per trasferirsi a Parigi, dove risiederà fino alla morte nel 1995. Col marito Pierre Brandon partecipò alla Resistenza e alla liberazione di Parigi. Carla invece fu collaboratrice di “Casabella” e critica d’arte, e rappresentò per Franco un forte stimolo culturale e morale. Nei programmi dei corsi del Politecnico, in quegli anni, risulta ancora preponderante il ruolo conferito al disegno dal vero e geometrico e allo studio delle “architetture * Una prima versione di questo testo è apparsa in Federico Bucci, Fulvio Iraci (a cura di), Zero Gravity, Franco Albini. Costruire le modernità, La Triennale di Milano e Mondadori Electa, Milano 2006. 1 Baldassare Albini (1866-1932) è autore di alcuni progetti architettonici realizzati durante i primi anni Venti, fra i quali la villa Toniolo a Recco, costruita nel 1924. 2 Maria Brandon Albini, La Gibigianna, Matteo Editore, Treviso s.d. La prima parte del libro è dedicata all’infanzia trascorsa a Robbiate. 3 “Infatti, più che ventenni, l’uno architetto, l’altra decoratrice e cartellonista, continuarono la loro collaborazione di setta infantile. Il loro lavoro assunse volta a volta la struttura precisa di un padiglione della Fiera Campionaria, di manifesti di pubblicità, di esposizioni di pittura, di sale della Triennale...”

tradizionali”: fra le tavole autografe di mio padre abbiamo ritrovato alcuni disegni, principalmente rilievi, studi dal vero e ricostruzioni di architetture classiche, che dovevano essere quasi certamente le esercitazioni grafiche dei corsi di disegno e prospettiva. Il peso della tradizione classica emerge nel progetto di laurea, un massiccio edificio movimentato da un corpo centrale in aggetto. I riferimenti alla romanità sono evidenti, mentre il tentativo di semplificazione volumetrica cede il passo all’adozione di apparati decorativi che accentuano la monumentalità del corpo centrale. A cavallo degli anni Venti e Trenta, Gio Ponti era considerato l’esponente della modernità, e Franco Albini lavorò per tre anni nel suo studio, maturando fermenti di liberazione dalle mode borghesi e convenzionali legate a un passato che stava per essere travolto. Già nella prima attività di Albini, infatti, vi è una tendenza alla riduzione geometrica e alla pulizia formale, leggibile come tappa di un percorso che lo allontanerà dai modi di Ponti4. Una testimonianza illuminante circa i termini della polemica condotta dai giovani architetti legati a “Casabella” ci è stata consegnata da Carla Albini. Ho potuto ritrovare l’inedito dattiloscritto (solo a metà degli anni Ottanta la sorella Maria riuscì a farlo pubblicare in francese5) che Carla, su richiesta della sorella maggiore, inviò a Parigi nel 1943, pochi mesi prima di morire. “Gio Ponti, architetto milanese, è il tipico rappresentante di questa modernità mondana. Esser moderni ma riallacciandosi ad una pseudo-tradizione quel tanto che basta per esser più facilmente accolti, confondere folclorismo con spirito di italianità; far del nuovo per divertimento e piacevolezza come una signora muta foggia al cappellino, ma senza impegnarsi fino in fondo, compro­ mettendosi in un accoglimento di un’idea rivoluzionaria d’arte innovata: accontentarsi di cercare l’eleganza perché più facile ad essere intesa che la bellezza, non essere mai arditi, non creare mai, per tema di scandalo. Tale potrebbe essere il credo di questo brillante architetto e di quelli simili a lui. Tuttavia fu proprio questo decadentismo rivestito di blanda modernità formale il primo movimento che si contrappose, in Italia, alle forme ottocentesche pseudo-artistiche…Ma, a vent’anni di

4 Fra i primi a notare questa tendenza fu Vittorio Gregotti, Disegni per l’artigianato, in Gentucca Canella, Vittorio Gregotti, Il Novecento e l’Architettura, in “Edilizia Moderna”, n. 81, dicembre 1963, p. 30. 5 Carla Albini, Les arts plastiques en Italie de 1860 à 1943, Éditions Entente, Parigi 1985.

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Marco Albini Évolution d’une poétique* Corinna Toniolo, ma grand-mère parternelle, racontait que le talent de mon père pour le dessin était déjà évident quand il était adolescent. À dix-huit ans, Franco Albini croquait au fusain «il Sander », le cuisinier de la famille, un personnage qu’il cite à plusieurs reprises dans ses souvenirs d’enfance. Mon père parlait continuellement de son enfance heureuse passée dans la villa de Robbiate, dans la région de la Brianza, au nord de Milan, où il vécut jusqu’à la fin de la Première Guerre mondiale et qui joua un rôle très important dans sa formation affective. Malheureusement, à cause de graves problèmes d’argent, son père Baldassare, qui s’était installé avec sa famille à Milan, se trouva plus tard forcé de vendre cette villa. L’ingénieur Baldassare Albini1 avait tout investi et tout perdu dans l’industrie du vers à soie. Sa femme, ma grand-mère Corinna, dont je me rappelle encore les grands yeux profonds, était une parfaite entrepreneuse familiale qui s’occupait de la grande maison de Robbiate entourée par ses deux filles, Maria et Carla, et par les nombreux amis que son mari avait l’habitude de ramener le soir. Maria, qui vécut et enseigna toute sa vie à Paris, a laissé plusieurs essais de culture populaire, ainsi qu’un récit autobiographique, La Gibigianna2, où elle décrit avec une émotion empreinte de nostalgie son enfance passée avec ses frères et sa vie de famille. Son livre laisse transparaître une certaine jalousie à l’égard de l’affinité élective entre Franco et Carla, et de l’entente qui les lia bien vite et qui fut à l’origine d’un partenariat affectif et culturel qui dura jusqu’à la disparition prématurée de Carla3. Maria, qui militait au PCI, quitta l’Italie en 1936 pour s’installer à Paris, où elle résida jusqu’à sa mort, en 1995. Avec son mari Pierre Brandon, elle participa à la Résistance et à la libération de Paris. Quant à Carla, qui collabora à la revue d’architecture « Casabella » et fut aussi

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* Une première version de ce texte est parue dans Federico Bucci et Fulvio Irace (sous la direction de), Zero Gravity, Franco Albini. Costruire le modernità, La Triennale di Milano et Mondadori Electa, Milan 2006. 1 BaldassareAlbini (1866-1932) est l’auteur de plusieurs projets architecturaux réalisés au début des années Vingt, en particulier la villaToniolo à Recco, construite en 1924. 2 Maria Brandon Albini, La Gibigianna, Trévise, Matteo Editore, s.d. La première partie du livre est consacrée à l’enfance de l’auteur à Robbiate. 3 « En effet, alors âgés de plus de vingt ans, l’un architecte, l’autre décoratrice et affichiste, ils continuèrent leur collaboration de “secte enfantine”. Leur travail prit au fil du temps la structure précise d’un pavillon de la Foire Commerciale, d’affiches publicitaires, d’expositions de peinture ou de salles de la Triennale… ».

critique d’art, elle exerça une grande influence sur Franco, sur le plan culturel aussi bien que moral. Le dessin d’après nature et le dessin géométrique, ainsi que l’étude des « architectures traditionnelles », jouaient encore en ce temps-là un rôle prépondérant dans les programmes des cours de l’École Polytechnique de Milan : nous avons retrouvé parmi les planches autographes de mon père plusieurs dessins – surtout des reliefs, des études d’après nature et des reconstructions d’architectures classiques – qui sont presque certainement des exercices graphiques réalisés pendant les cours de dessin et de perspective. Le poids de la tradition classique est manifeste dans son projet de fin d’études, un bâtiment massif caractérisé par un corps central en surplomb. Les références à l’Antiquité romaine y sont évidentes, tandis que la tentative de simplification volumétrique cède le pas à l’adoption d’appareils décoratifs qui accentuent le caractère monumental du corps central. À la charnière des années Vingt et Trente, Gio Ponti était considéré comme le représentant de la modernité. Franco Albini travailla pendant trois ans dans son atelier où il en vint peu à peu à se libérer des modes bourgeoises et conventionnelles liées à un passé qui serait bientôt balayé. On reconnaît en effet, dès le début de son activité, une tendance à la réduction géométrique et à la simplicité formelle qui peut être interprétée comme l’une des étapes du parcours qui l’éloignera de la manière de Gio Ponti4. Carla Albini nous offre un témoignage éclairant sur la nature de la polémique menée par les jeunes architectes liés à « Casabella ». J’ai pu retrouver la version dactylographique inédite – ce n’est qu’au milieu des années Quatre-vingt que sa sœur Maria put le faire publier en français5 – que Carla envoya à Paris en 1943 à la demande de sa sœur aînée, quelques mois avant de mourir. « Gio Ponti, architecte milanais, est le représentant typique de cette modernité mondaine. Etre moderne, mais en restant juste assez attaché à une pseudotradition pour se faire accepter plus facilement, confondre le folklore et l’esprit d’italianité ; faire du nouveau pour s’amuser et se faire plaisir, comme une femme change la forme de son chapeau, mais sans se forcer et sans aller jusqu’au bout en se compromettant dans l’acceptation d’une idée révolutionnaire 4 Vittorio Gregotti fut un des premiers à remarquer cette tendance, Disegni per l’artigianato, in Gentucca Canella, Vittorio Gregotti, Il Novecento e l’Architettura, in « Edilizia Moderna », no 81, décembre 1963, p. 30. 5 Carla Albini, Les Arts plastiques en Italie de 1860 à 1943, Paris, Éditions Entente, 1985.


distanza queste forme raccogliticce di modernità per sentito dire, … restano espressioni di un neo-liberty fin de siècle”6. Tuttavia, ancora nel 1937, si ritrovano i segni di una ricerca elaborata gradualmente, se nella villa Pestarini lo studio del caminetto passa da una prima versione – che ricorda la ricchezza di materiali profusa per casa Ferrarin (1932) – a uno studio in cui il modulo quadrato diviene motivo compositivo, sino alla riduzione della parete a sfondo neutro per il caminetto e le semplici vetrinette incassate. Nel 1931 Albini lascia lo studio di Ponti e Lancia e già nel 1934 il tema di un’eterea e filante sfida alla forza di gravità verso uno “spazio atmosferico” viene enunciato nella Sala dell’Aerodinamica alla “Mostra dell’Aeronautica italiana”. Questa rapida trasformazione, questa sorta di “conversione”, si dice sia dovuta all’incontro con Edoardo Persico, forse presentatogli dalla sorella Carla7. Dopo una critica da parte di Persico a alcuni progetti di Franco Albini e un’arringa in difesa dei principi dell’“arte liberata” e del rifiuto dell’orpello e delle decorazioni, mio padre sarebbe caduto in una crisi sfociata in un febbrone di tre giorni, in seguito al quale, licenziatosi da Ponti, iniziò a lavorare in proprio8. Non ho informazioni dirette su tale aneddoto che a me sembra un’allegoria favolistica9, ma che appare tuttavia plausibile se posto in relazione alla sensibilità e all’assorta passione che mio padre nutriva per il proprio mestiere. Le riviste straniere conservate oggi nello studio Albini, e arrivate probabilmente dalla redazione di “Casabella”, contribuirono fattivamente alla diffusione di idee e modelli europei. Alcuni numeri della rivista tedesca “Moderne Bauformen”, chiosate a margine da mio padre, pubblicavano esempi di nuove architetture alla Adolf Loos e sostenevano un purismo grafico di cui Persico era il maestro italiano. Il superamento della maniera art déco e l’evoluzione delle forme verso una progressiva semplificazione erano già presenti nelle prime opere, ma il senso dei lavori di Albini dopo il 1933, a mio parere, non si comprende senza conoscere la fede quasi mistica che mio padre nutriva per il ruolo sociale 6 Carla Albini, Dopo l’Impressionismo (le arti plastiche e l’architettura moderne italiane dal 1860 al 1940), dattiloscritto, s.l., s.d. [1943], p. 76-77. 7 Carla Albini, molto legata al fratello, fu per lui una specie di seconda coscienza: la ricordiamo entusiasta della vita, polemista e fervente sostenitrice delle tesi della modernità, in soggezione culturale nei confronti di Persico verso il quale nutriva una totale dedizione. 8 L’aneddoto è riferito da diversi autori, fra i quali Maurizio Fagiolo, L’astrattismo magico di Albini. Strutture del linguaggio dalle prime mostre alla Rinascente, in “Ottagono”, n. 37, giugno 1975. 9 Se non fosse per un’intervista rilasciata nel 1956 da mio padre allo scrittore-giornalista Raffaello Baldini, L’architetto Franco Albini alla scoperta dell’Europa, in «Settimo giorno», 552, 21 maggio 1959, p. 52-54

del lavoro dell’architetto: spesso ne parlava come ragione dell’esistenza. Franco Albini credeva infatti nell’arte come espressione di libertà; credeva nell’amore verso l’oggetto fatto ad arte, verso l’artigianato e le regole del costruire, verso la materia usata con parsimonia, decantata e progressivamente filtrata in un processo di riduzione e di sfida, fino al limite della resistenza. D’altro canto, egli stesso negli anni Trenta e Quaranta aderì con alcuni giovani scrittori, artisti e professionisti, a uno spirito rivoluzionario che contrapponeva semplicità a opulenza, essenzialità a ridondanza, unendo spesso la ricerca poetica con una forte critica sociale antiborghese. Alcuni, come sua sorella Maria Albini, guardavano all’esperimento della rivoluzione russa come alla speranza di costruire un mondo migliore, senza classi e sperequazioni sociali, in cui i beni materiali avrebbero potuto essere distribuiti a tutti10. Ma in quell’epoca si stava formando soprattutto un codice morale, un imperativo etico che io ritrovo perfettamente nel comportamento e nel carattere di mio padre, specie nella tensione verso il limite e l’essenziale, tensione praticata in prima persona, e nel disinteresse verso il senso di proprietà e l’accumulo dei beni, nell’indifferenza verso il possesso: “Io non ho desideri di possesso” era solito, infatti, dichiarare. È per questo che la nostra famiglia ha sempre abitato in case d’affitto, nonostante l’insistenza di Franca Helg perché Albini acquistasse un appartamento in un edificio da lui costruito. Questo aspetto del carattere di mio padre si evince anche dal disinteresse verso l’amministrazione del denaro, sia in casa, sia in studio, avendo avuto egli la fortuna di trovare collaboratori preziosi, come mia madre, Carla Vaccari, e giustappunto Franca Helg, socia dal 1953 sino alla morte di Albini, che svolsero mansioni di carattere finanziario oltre a occuparsi di comunicazione e di immagine. Nel 1943, la sorella Carla descrive in questi termini l’opera di Franco Albini: “È forse oggi il più tipico rappresentante di questa tendenza in cui l’esperienza di un astrattismo lineare, sottile fino al grafismo, si riscalda al contatto di una sensibilità atmosferica che usa i valori spaziali più che i valori costruttivi veri e propri. Tutta l’esperienza di Albini, dal Padiglione dell’INA (Istituto Nazionale Assicurazioni) alla Fiera Campionaria del ’35, sino alla Mostra dell’Oreficeria Italiana alla Triennale del ’36 (in collaborazione con Romano e direttamente discendente dalla 10 “… per noi intellettuali chiusi in Italia, un’epoca nuova era cominciata nel 1917 e ne vedevamo i lineamenti ancora trasfigurati dall’epopea e dalla leggenda, resi più affascinanti dal contrasto con il clima reazionario del nostro Paese”.

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d’art novateur : se contenter de chercher l’élégance, car l’élégance se fait comprendre plus facilement que la beauté, n’être jamais hardi et ne jamais créer, par peur du scandale. Tel pourrait être le credo de ce brillant architecte et de ses semblables. Ce décadentisme paré d’une fade modernité formelle fut cependant le premier mouvement qui s’opposa, en Italie, aux formes pseudo-artistiques issues du xixe siècle […]. Mais vingt ans après, ces formes empreintes de modernité en quelque sorte par ouï-dire […] ne sont que des expressions d’un néo-liberty fin de siècle »6.  On trouve pourtant jusqu’en 1937 les signes d’une recherche élaborée progressivement : ainsi, dans la villa Pestarini, l’étude de la cheminée présente d’abord une première version – où l’on retrouve la richesse des matériaux prodigués pour la maison Ferrarin (1932) –, puis une étude où le module carré devient un motif de composition, jusqu’à la réduction du mur en fond neutre pour la cheminée et les sobres petites vitrines encastrées. Franco Albini quitte l’atelier de Gio Ponti et Emilio Lancia en 1931 et, dès 1934, il lance un défi éthéré et filant à la force de gravité, en créant un « espace atmosphérique » dans la Salle de l’Aérodynamique de l’«Exposition de l’Aéronautique Italienne». On raconte que cette transformation rapide, cette sorte de « conversion », est due à sa rencontre avec Edoardo Persico, lequel lui avait peut-être été présenté par sa sœur Carla7. Après que Persico eut critiqué plusieurs projets de Franco Albini et prononcé une harangue enflammée en défense des principes de l’« art libéré » et contre le clinquant et les décorations, mon père aurait traversé une crise et aurait eu la fièvre pendant trois jours, à la suite de quoi, ayant quitté l’atelier de Ponti, il se mit à travailler à son compte8. Je n’ai pas d’informations directes sur cette anecdote, qui ressemble plutôt à une allégorie de conte de fées9. Mais elle est tout de

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6 Carla Albini, Dopo l’Impressionnismo (le arti plastiche e l’architettura moderna italiane dal 1860 al 1940), manuscrit dactylographié, s.l., s.d. [1943], p. 76-77. 7 Carla Albini, très liée à son frère, fut pour lui comme une seconde conscience : nous nous souvenons de son enthousiasme pour la vie, de ses polémiques et des défenses ferventes des thèses de la modernité, sa suggestion culturelle à l’égard de Persico, à l’égard de qui elle nourrissait un dévouement total. 8 Cette anecdote est mentionnée par plusieurs auteurs, dont Maurizio Fagiolo, L’astrattismo magico di Albini. Strutture del linguaggio dalle prime mostre alla Rinascente, in « Ottagono », no 37, juin 1975. 9 Précisons quand même qu’il existe une interview accordée par mon père en 1956 à l’écrivain et journaliste Raffaello Baldini, L’architetto Franco Albini alla scoperta dell’Europa, in « Settimo Giorno », 552, 21 mai 1959, p. 52-54.

même plausible, si l’on songe à la sensibilité et à la passion concentrée que mon père éprouvait pour son métier. Les revues étrangères qui sont conservées aujourd’hui dans l’atelier Albini et qui provenaient probablement de la rédaction de « Casabella », contribuèrent activement à la diffusion d’idées et de modèles européens. Certains numéros de la revue allemande « Moderne Bauformen », annotés en marge par mon père, présentaient des exemples de nouvelles architectures « loosiennes » et défendaient un purisme graphique dont le maître italien était Edoardo Persico. Le dépassement de la manière art déco et l’évolution des formes vers une simplification progressive étaient déjà présents dans les premières œuvres de mon père, mais je crois qu’on ne peut pas comprendre le sens de son travail après 1933 si l’on méconnaît sa foi presque mystique dans le rôle social du travail de l’architecte : n’en parlait-il pas souvent comme d’une des raisons de l’existence ? Franco Albini croyait en effet à l’art en tant qu’expression de liberté ; il croyait à l’amour pour l’objet fait dans les règles de l’art, pour l’artisanat et les règles de la construction, pour la matière utilisée avec parcimonie, filtrée et progressivement décantée au cours d’un processus de réduction et de défi, jusqu’à la limite de la résistance. D’autre part, avec plusieurs jeunes écrivains, artistes et professionnels, il adhéra dans les années Trente et Quarante à un esprit révolutionnaire qui opposait la simplicité à l’opulence et la sobriété à la redondance, tout en alliant la recherche poétique à une forte critique sociale anti-bourgeoise. Certains d’entre eux, comme sa sœur Maria, pensaient que les expérimentations de la révolution russe représentaient l’espoir de construire un monde meilleur, sans classes ni inégalités sociales, où les biens matériels pourraient être distribués à tous10. Mais c’était surtout un code moral qui se formait à cette époque, un impératif éthique que je retrouve pleinement dans le comportement et dans le caractère de mon père – en particulier dans sa tension vers la limite et vers l’essentiel, une tension qu’il pratiquait personnellement –, et dans son désintérêt à l’égard du sentiment de propriété et de l’accumulation des biens, autrement dit dans son indifférence pour la possession : « Je n’ai pas de désir de possession », avait-il en effet coutume de déclarer. C’est pour cette raison que notre famille a toujours vécu en location, même si Franca Helg insistait pour qu’Albini achète un appartement dans un bâtiment qu’il 10 « …pour nous autres intellectuels enfermés dans une Italie, une époque nouvelle avait commencé en 1917 et nous voyions ses traits encore transfigurés par l’épopée et par la légende, rendus plus fascinants par le contraste avec le climat réactionnaire de notre pays. »


Sala delle Medaglie d’Oro di Persico), dall’appartamento Minetti (1936) alle più recenti realizzazioni (la sala in una villa della Triennale ’40, la Mostra di Scipione e l’arredamento del proprio appartamento, del 1941), si svolgono su questa costante ricerca di un ritmo aereo in cui lo spazio atmosferico è condotto a partecipare vivamente alla composizione costruttiva. L’insistenza su giochi sospesi di elementi leggeri, siano essi paratie traslucide (come nel Padiglione dell’INA) o linearità ripetute di montanti sottili (come la libreria che taglia in due la sala di Minetti, o quella del proprio apparta­ mento; o ancora le piantane che sostengono i quadri nella Mostra di Scipione, scandendo lo spazio in una scomparti­ mentazione che per essere più suggerita che reale non è per questo meno ritmicamente definita) sono una logica conseguenza di questa ricerca”11. Carla Albini morirà nel 1943 (Persico era mancato nel 1936) con grande dolore di mio padre che si sentì abbandonato dalle persone con cui aveva condiviso dieci anni di vita professionale e di arricchimento culturale. E la guerra, agli occhi di Carla, aveva segnato la fine di un’epoca storica, di una stagione epica di grande sodalizio culturale tra artisti, pittori, grafici, designer, uniti in una visione sociale e morale dell’arte come testimonianza di libertà. È qui evidente l’impronta del pensiero di Persico e l’omaggio alla sua memoria: “Scoppiava la guerra nel 1940 e si apriva la Triennale... Nell’imminenza della guerra che ci sopraffaceva, nella guerra incombente sul mondo, quella Triennale apparve come l’espressione triste di un mondo che si chiude – scriveva Carla Albini. Espressione veramente negativa del tempo nostro e sua condanna. L’architettura moderna, appunto perché non è un problema di rimaneggiamento lineare. ma di mutata concezione morale e spirituale del mondo, appunto perché è una visione, delle cose al di là dell’espressione formale e contingente di esse, appunto perché è ‘sostanza di cose sperate’, resterà nella storia dell’arte, come uno degli stili più profondamente pregni di sottostrati spirituali. Divengano le speranze realtà. Si attui la profezia”12. Il periodo della guerra e del dopoguerra dovette essere drammatico per la mia famiglia: mia madre raccontava di aver dovuto far fronte alle esigenze economiche familiari con il proprio patrimonio, che poi perdette completamente a guerra finita. Ciononostante, fino al 1946, Franco Albini ebbe un piccolo studio a Piacenza in via Scalabrini con Enea Manfredini, il quale – lo ricorderà anni dopo – sosteneva che si lavorasse rigorosamente tutti i giorni, inventandosi i lavori 11 In Carla Albini, op. cit. 12 Ibidem, p. 90, 91

in assenza di commesse: mio padre all’epoca disegnava mobili smontabili realizzati con funi e cavi in tensione13, anche se sapeva che non sarebbero stati realizzati. Di questi mobili conserviamo ancora i disegni e recentemente sono stati costruiti alcuni prototipi. A Ponte dell’Olio, sulle colline piacentine, dove era sfollato con la famiglia, mio padre poteva seguire le vicende belliche facendo da collegamento tra i partigiani degli Appennini e Milano e senza perdere di vista i suoi studi e i contatti con gli amici rimasti in città. Mia madre racconta che usavano andare e tornare in giornata da Milano in bicicletta. Con la fine della seconda guerra mondiale si aprì una nuova epica, fatta di entusiasmo per la ricostruzione, di gioia di vivere dopo il buio del conflitto, mentre nuovi ruoli si prospettavano per l’architettura, anche se gli architetti, specie i migliori, non ebbero grande peso nella ricostruzione delle nostre città lasciate in balìa di costruttori e speculatori di poco scrupolo. Rispetto all’epoca precedente era scomparso quel fervore ideale e quasi mistico, quella fede nel ruolo dell’arte, quel bisogno di costruire i modi di espressione di un mondo nuovo con il minimo di risorse. E tutto ciò non sarebbe più tornato. La grande scala della progettazione, il dibattito sull’urbanistica e sulla forma della città non erano argomenti del tutto congeniali a Franco Albini, che forse non se ne sentiva nemmeno tagliato, in quanto ché non ne poteva controllare la totalità del complesso processo progettuale. Albini amava invece i progetti di cui poteva disegnare ogni parte e seguirne lo sviluppo. “Si teneva un progetto sulle ginocchia come un bambino”, diceva Franca Helg. Per altri versi, in quegli stessi anni, Franco Albini ricomincia a considerare il valore della tradizione come parte centrale del dibattito culturale. È ancora la sorella Carla, parafrasando le parole di Edoardo Persico, che ci permette di ritrovare le radici di alcune delle posizioni di mio padre: “L’architettura moderna va oltre: anche oltre l’architettura, esprimendo non il tempo che passa e svanisce, ma ciò che del tempo d’oggi si proietta nel domani, ciò che resterà di eterno, ciò che nel tempo tende a creare un avvenire migliore. In tal senso essa è veramente la tradizione”14. Al fermento ideale degli anni Trenta si sostituisce dunque il rigore del metodo come “argine all’arbitrio della fantasia”, come guida razionale di un’autodisciplina che non lascia nulla al caso; un metodo applicato alle varie scale di progetto, dall’oggetto industriale all’edificio. 13 Progetto per il concorso “Casa per tutti”, Triennale, 1943. 14 Carla Albini, Dopo l’Impressionismo…, cit. p. 90, 91

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aurait lui-même construit. On déduit également cet aspect du caractère de mon père de son désintérêt pour la gestion de l’argent, dans son foyer comme dans son atelier, ayant eu la chance de trouver des collaborateurs précieux en la personne de ma mère, Carla Vaccari, et de Franca Helg, son associée de 1953 jusqu’à la mort de mon père, qui s’occupèrent de communication et d’image, mais exercèrent aussi des fonctions financières. En 1943, Carla Albini décrit en ces termes l’œuvre de son frère Franco : « C’est sans doute aujourd’hui le représentant le plus typique de cette tendance où l’expérience d’une abstraction linéaire, subtile jusqu’au graphisme, se réchauffe au contact d’une sensibilité atmosphérique qui utilise les valeurs spatiales plus que les véritables valeurs constructives. Toute l’expérience d’Albini – le Pavillon de l’INA (Istituto Nazionale Assicurazioni), la Foire Commerciale de 1935, l’ Exposition de l’Orfèvrerie Italienne à la Triennale de 1936 (en collaboration avec Giovanni Romano et directement inspirée par la Salle des Médailles d’Or d’Edoardo Persico), l’appartement Minetti (1936), et jusqu’à ses réalisations les plus récentes (la salle dans une villa de la Triennale de 1940, l’Exposition de Scipione et l’aménagement de son appartement personnel, en 1941 – suit cette recherche constante d’un rythme aérien où l’espace atmosphérique est amené à participer pleinement à la composition de la construction. L’insistance sur des jeux d’éléments légers suspendus – qu’il s’agisse de cloisons translucides (comme dans le Pavillon de l’INA) ou sur les linéarités répétitives de fins montants (comme la bibliothèque qui coupe en deux le salon de l’appartement Minetti, ou celui de son propre appartement ; ou les tiges verticales auxquelles sont accrochés les tableaux dans l’Exposition de Scipione, en rythmant l’espace à l’aide d’une compartimentation plus suggérée que réelle, mais qui n’en est pas moins définie rythmiquement) est une conséquence logique de cette recherche »11.  Carla Albini meurt en 1943 (Edoardo Persico était mort en 1936) à la grande tristesse de mon père qui se sentit abandonné par les personnes avec qui il avait partagé dix années de vie professionnelle et d’enrichissement culturel. Aux yeux de Carla, la guerre avait marqué la conclusion d’une période historique, la fin de l’épopée d’une grande communauté culturelle réunissant les artistes, les peintres, les graphistes et les designers, unis dans une vision sociale et morale de l’art comme témoignage de liberté. On reconnaît 49

11 In Carla Albini, op. cit.

ici la marque de la pensée d’Edoardo Persico et l’hommage rendu à sa mémoire : « La guerre éclatait en 1940 et la Triennale ouvrait ses portes [...] Dans l’imminence de la guerre qui nous accablait, avec la guerre qui menaçait le monde, cette Triennale parut comme l’expression triste d’un monde qui se termine – écrivait Carla Albini. Expression vraiment négative de notre temps et sa condamnation. L’architecture moderne, précisément parce qu’il ne s’agit pas d’un problème de remaniement linéaire, mais d’une nouvelle conception morale et spirituelle du monde, précisément parce que c’est une vision des choses par delà l’expression formelle et contingente de celles-ci, précisément parce qu’elle est “substance de choses espérées”, l’architecture moderne restera dans l’histoire de l’art comme l’un des styles les plus profondément imprégnés de substrats spirituels. Que les espoirs deviennent réalités. Que la prophétie se réalise »12. La période de la guerre et de l’après-guerre fut dramatique pour ma famille : ma mère racontait qu’elle avait dû faire face aux problèmes économiques de la famille en puisant dans son patrimoine personnel, qu’elle perdit complètement à la fin de la guerre. Malgré ces difficultés, Franco Albini eut jusqu’en 1946 un petit atelier à Plaisance, via Scalabrini, avec Enea Manfredini, lequel affirmait – comme il le racontera des années plus tard – qu’il fallait travailler rigoureusement tous les jours, en s’inventant des travaux en l’absence de commandes : à cette époque, mon père dessinait des meubles démontables réalisés avec des câbles en tension13, tout en sachant que ces projets ne seraient jamais réalisés. Nous conservons encore les dessins de ces meubles et quelques prototypes en ont été construits récemment. À Ponte dell’Olio, sur les collines au-dessus de Plaisance où il s’était réfugié avec sa famille, mon père pouvait suivre l’évolution de la guerre en servant d’agent de liaison entre les partisans des Apennins et ceux de Milan, et sans perdre de vue ses études et ses contacts avec ses amis restés en ville. Ma mère raconte qu’ils avaient l’habitude de faire dans la journée l’aller-retour entre Plaisance et Milan, à bicyclette. Avec la fin de la Deuxième Guerre mondiale, une nouvelle épopée commença, pleine d’enthousiasme pour la reconstruction, de joie de vivre après les ténèbres du conflit, alors que de nouvelles fonctions s’annonçaient pour l’architecture. Même si les architectes, surtout les meilleurs, n’eurent guère d’influence dans la reconstruction des villes italiennes, laissées à la merci de promoteurs et de spéculateurs peu scrupuleux. Il manquait la ferveur idéale et 12 Carla Albini, op. cit., p. 90. 91. 13 Projet pour le concours “Casa per tutti”, Triennale, 1943.


Albini mostrava infatti un accanimento quasi sofferto nell’elaborare un’idea e nel predisporre uno schizzo; si rifiutava di immaginare un progetto a priori e di adattare successivamente le parti al tutto già pensato; piuttosto ricercava un metodo e un processo inverso, che andasse sempre dal particolare al generale. Anche negli anni Settanta, che per lui furono gli ultimi anni di vita, quando lo studio Albini iniziava a elaborare il complesso progetto per il centro amministrativo della citta di Riad in Arabia Saudita, l’attenzione di Franco Albini era concentrata sul disegno di uno shed in copertura che, ripetuto in una processione seriale, diventava un profilo merlato, per riprendere in qualche modo la forma tipica dei tetti delle case in fango della vecchia città. Nel 1970, all’età di sessantacinque anni, fu diagno­ sticato a mio padre il morbo di Parkinson. Solo l’anno prima aveva registrato con soddisfazione di aver superato l’età in cui era morto suo padre. Ebbe quindi sette anni di lento e progressivo declino. E una qualche responsabilità di questo declino sono portato a credere sia stata almeno in parte dovuta alle frustrazioni sofferte in Facoltà negli anni del movimento studentesco. Albini arrivò alla Facoltà di architettura in un momento in cui l’evoluzione dell’atteggiamento iniziale di approfon­ dimento della conoscenza e della sperimentazione sul progetto, portato avanti da noi studenti nel 1964, ’65, ’66, stava per trasformarsi in una tempesta che doveva travolgere tutto e tutti, cancellando l’esigenza del progetto come modo di sperimentazione, come metodo di conoscenza, e sostituendo viceversa al progetto una visione politica dell’architettura: una sorta di tabula rasa della conoscenza, ritenuta allora necessaria per ricostruire un mondo nuovo. Mio padre ebbe un’enorme curiosità verso questo fermento culturale, sentì il fascino di quell’ impulso di rinnovamento. Eppure non riuscì a dare il suo contributo, ad a essere se stesso, a insegnare ciò che aveva sempre insegnato, vale a dire il modo di costruire, il ragionamento sul progetto di architettura come modo e metodo di sperimentazione. Di fatto, questa frustrazione lo aveva minato, provocandogli una crisi di grande sofferenza esistenziale; Matilde Baffa a questo proposito ricorda la frase che un giorno le disse Albini: “Milano è un inferno”. Il declino forse per lui era inevitabile in un modo che stava cambiando e dove non riusciva più a ritrovare il ruolo sociale del mestiere e la forza della ragione che fino a allora lo avevano sostenuto. Almeno così si risparmiò l’esperienza del decadimento della professione di architetto, disse qualche anno dopo Franca Helg.

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presque mystique de la période précédente, sa foi dans le rôle de l’art, son besoin de construire les moyens d’expression d’un monde nouveau avec le minimum de ressources. Et rien de tout cela ne reviendrait jamais. La grande échelle des projets architecturaux, le débat sur l’urbanisme et sur la forme de la ville n’étaient pas des sujets familiers à Franco Albini, qui ne se sentait peut-être même pas fait pour eux, puisqu’il ne pouvait pas contrôler la totalité du processus complexe des projets. Mon père aimait les projets dont il pouvait dessiner chaque partie et dont il pouvait suivre le développement. « Il tenait un projet sur ses genoux comme un enfant », disait Franca Helg. D’autre part, au cours de ces mêmes années, Albini recommença à considérer la valeur de la tradition comme un élément fondamental du débat culturel. Encore une fois, c’est sa sœur Carla, paraphrasant Edoardo Persico, qui nous permet de comprendre l’origine de certaines positions de mon père : « L’architecture moderne va plus loin : même plus loin que l’architecture, exprimant non pas le temps qui passe et s’évanouit, mais la part du temps d’aujourd’hui qui se projette vers l’avenir, la part qui restera éternelle, ce qui, du temps, tend à créer un avenir meilleur. En ce sens, l’architecture moderne est vraiment la tradition »14. Le ferment idéal des années Trente cède donc la place à la rigueur de la méthode comme une « barrière à l’arbitraire de l’imagination », comme le guide rationnel d’une autodiscipline qui ne laisse rien au hasard ; une méthode appliquée aux différentes échelles de projet, de l’objet industriel au bâtiment. Franco Albini manifestait en effet un acharnement presque douloureux lorsqu’il élaborait une idée et réalisait une esquisse ; il refusait d’imaginer un projet a priori et d’adapter ensuite les parties au tout déjà conçu. Il recherchait plutôt une méthode et un processus inverse, qui allait toujours du particulier au général. Dans les années Soixante-dix, qui furent pour lui les dernières années de sa vie, quand l’atelier Albini commençait à s’atteler au projet complexe du centre administratif de la ville de Ryad en Arabie Saoudite, l’attention de Franco Albini était concentrée sur le dessin d’un shed en couverture, lequel, répété selon une procession sérielle, devenait un profil crénelé qui reprenait d’une certaine manière la forme typique des toits des maisons en pisé de la vieille ville. En 1970, à l’âge de soixante-quinze ans, on diagnostiqua à mon père la maladie de Parkinson. Une année plus tôt, il avait constaté avec satisfaction qu’il avait dépassé l’âge où 51

14 Carla Albini, Dopo l’Impressionnismo…, op. cit., p. 90, 91.

son propre père était mort. Il traversa alors sept années d’un déclin lent et progressif. Et je suis porté à croire que les frustrations qu’il subit à l’université pendant les années de la contestation étudiante furent au moins en partie responsables de ce déclin. Franco Albini arriva à la faculté d’Architecture à une époque où l’évolution de l’approche initiale d’approfondissement de la connaissance et de l’expérimentation sur le projet, que nous autres étudiants avions promue dans les années 1964, 1965 et 1966, allait se transformer en une tempête qui devait tout emporter sur son passage, en détruisant l’exigence du projet comme modalité d’expérimentation et comme méthode de connaissance, en rejetant le projet au profit d’une vision politique de l’architecture : comme dans une sorte de table rase de la connaissance, considérée comme nécessaire à ce momentlà pour reconstruire un monde nouveau. Mon père éprouva une immense curiosité pour ce ferment culturel, il sentit la fascination de cette pulsion de renouvellement. Il n’arriva pourtant pas à apporter sa propre contribution, à être luimême, à enseigner ce qu’il avait toujours enseigné : la manière de construire, le raisonnement sur le projet d’architecture comme modalité et comme méthode d’expérimentation. De fait, cette frustration l’avait miné et avait provoqué en lui une crise empreinte d’une grande souffrance existentielle. Matilde Baffa rappela à ce propos la phrase qu’Albini lui dit un jour : « Milan est un enfer ». Le déclin était peut-être inévitable pour lui dans un monde qui était en train de changer et où il n’arrivait plus à retrouver le rôle social de son métier, ni la force de la raison qui l’avait soutenu jusque-là. Il évita au moins ainsi l’expérience de l’effondrement de la profession d’architecte, comme l’affirma Franca Helg quelques années plus tard.


Beppe Finessi Franco Albini. Nitore, chiarezza, sostanza e verità Nel bel mezzo del cammino del moderno, tra la metà degli anni Trenta e i primi anni Cinquanta, il più grande architetto italiano del secolo scorso, Franco Albini (“in senso assoluto il più grande maestro dell’architettura moderna italiana”, Alessandro Mendini) aveva distillato un linguaggio tra ragione e poesia, tra rarefazione e tensione. Inanellando perfezioni, in punta di matita. Raccogliendo il testimone di “maestro” da Giuseppe Terragni; mantenendolo saldo mentre a Torino Carlo Mollino in solitario sperimentava piaceri e passioni; e correndo in parallelo al padre putativo di tutti, Gio Ponti che liberamente slalomava tra stili differenti, per poi cedere questo testimone al Carlo Scarpa di Palazzo Abatellis e di lì a poco all’astro nascente Vittoriano Viganò. Ma dal 1933 ai primi anni Cinquanta, tra quello che la storia ricorda come l’incontro determinante con Edoardo Persico e la conclusione di una stupefacente sequenza di capolavori (l’Albergo-rifugio Pirovano a Cervinia, la sistemazione delle Gallerie Comunali di Palazzo Bianco a Genova, l’edificio per uffici INA a Parma, le case INA a Cesate, oltre ad alcuni oggetti esemplari del design italiano), Franco Albini, nel silenzio e nell’austerità del suo studio milanese di via Panizza 4, circondato da pochi e devoti collaboratori (come il fedele Gino Colombini, uomo “senza vanità”), aveva sistematicamente costellato la storia del progetto moderno di presenze misurate e affilate: pagine nitide di architettura degli interni, di design, di allestimenti e di museografia. Consegnandoci più record per ogni ambito di progetto: nelle mostre temporanee (Padiglione INA, Fiera Campionaria di Milano, 1935; Mostra dell’Antica Oreficeria Italiana, VI Triennale di Milano, 1936; Mostra “Scipione e il Bianco e Nero”, Pinacoteca di Brera, 1941); nell’arredamento e nell’architettura degli interni (arredamento casa Peiti, Milano, 1933-35; Stanza per un uomo, VI Triennale di Milano, 1936; arredamento di casa Minetti, Milano, 1936; Stanza di soggiorno per una villa, VII Triennale di Milano, 1940; appartamento Albini in via De Togni, Milano, 1940; appartamento Marcenaro, Palazzo Rosso, Genova, 1954); negli spazi commerciali (Pellicceria Zanini, Milano, 1945; Istituto di dermatologia cosmetica Hotz & C., Milano, 1945; negozio Olivetti, Parigi, 1958-60); nei progetti museografici (Gallerie Comunali di Palazzo Bianco, Genova, 1949-51; Museo del Tesoro di San Lorenzo, Genova, 1952-56; Galleria di Palazzo Rosso, Genova, 1952-62), fino agli oggetti di design (poltroncina Luisa, tavolino Cicognino, poltrona Fiorenza, poltrone in giunco Margherita e

Gala, libreria a montanti LB10, tavolo a cavalletto TL2 e tavolo smontabile TL3). Progetti tutti costruiti su “fantasie di precisioni” (Gio Ponti), e tutti diventati, con naturalezza, nuovi riferimenti; tutti sottesi dalle stesse parole, dagli stessi desideri, dallo stesso atteggiamento e dai medesimi presupposti teorici, ma anche motivati da eguali istinti morali ed etici: architetture silenziose, calibrate, autonome, rispettose, quasi distaccate, fatte di nitore, chiarezza, sostanza e verità. Progetti verso i quali, ancora oggi, viene naturale trattenere il respiro per la perfezione evidente che trasmettono. Come di fronte allo “srotolarsi di una passatoia aerea in carta Fabriano, sospesa su cavetti tiranti vibranti montanti, che infila gli spazi della sala Napoleonica a Brera per la mostra ‘Scipione e il Bianco e Nero’” (Fredi Drugman), omaggio alla lezione di Edoardo Persico e Marcello Nizzoli. In una sequenza di quattro spazi irregolari, quella striscia sospesa collegava gli ambienti disegnati a soffitto da una maglia quadrata di cavi d’acciaio, che reggeva a sua volta una serie di montanti di legno – “assottigliati agli estremi e rigonfi, secondo il diagramma del carico di punta, nella loro zona mediana” (Franca Helg) – appoggiati a pavimento, che portavano le lampade e i supporti per i quadri. Quella che Ponti su “Stile” definì “una mostra perfetta”, sottolineando che “ciò che distanzia Albini, artista, da altri architetti che ricercano le stesse espressioni, è l’innata e felice e costante eleganza. Le sue cose hanno la chiarezza e la finezza di una calligrafia…”. Come nelle Gallerie Comunali di Palazzo Bianco, dove Albini – accompagnato dalla mano ferma di Caterina Marcenaro, conservatrice dei musei genovesi - lavora in economia di mezzi, con “aria e luce come materiali da costruzione”, immaginando elementi espositivi che “non sovrappongono una modulazione allo spazio esistente ma lo sottolineano, mantenendo ancora la reciproca indipendenza” (Corrado Levi), e suggerendo spazi che “abbandonano ‘programmaticamente’ il concetto di ‘palazzo’ per perseguire quello di ‘museo’”. Come nell’Istituto di dermatologia cosmetica Hotz & C., gemello della Pellicceria Zanini, entrambi a Milano, entrambi 1945: sottili profili di legno o ferro verniciati di bianco, appesi a parete e a soffitto, per sistemi espositivi come fossero altalene leggerissime, poetica lettura secondo l’idea di “astrattismo magico” formulata da Marcello Fagiolo. Come nella propria casa di via De Togni, stessi anni della “Stanza di soggiorno per una villa”, stessi record: tra un

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Beppe Finessi Franco Albini. Pureté, clarté, susbtance et vérité Au beau milieu du chemin du Moderne, entre le milieu des années Trente et le début des années Cinquante, Franco Albini, le plus grand architecte italien du siècle dernier (« dans l’absolu, le plus grand maître de l’architecture moderne italienne », dixit Alessandro Mendini), distilla un langage mêlant raison et poésie, tension et sobriété. En multipliant les perfections, à la pointe de son crayon. Albini avait repris le témoin de « maître » à Giuseppe Terragni et il le tenait fermement ; tandis qu’à Turin Carlo Mollino expérimentait en solitaire plaisirs et passions, il avait couru parallèlement à leur père putatif à tous, Gio Ponti, qui slalomait librement entre différents styles, puis il avait passé le témoin à Carlo Scarpa, créateur de la Galerie du Palazzo Abatellis et, un peu plus tard, à Vittoriano Viganò, la nouvelle étoile montante. De 1933 au début des années Cinquante, entre ce que l’Histoire évoque comme sa rencontre déterminante avec Edoardo Persico et l’aboutissement d’une stupéfiante série de chefs-d’œuvre (L’hôtel-refuge Pirovano pour enfants à Cervinia ; l’aménagement des Galeries Municipales du Palazzo Bianco à Gênes ; l’immeuble de bureaux de l’INA à Parme ; les habitations de l’INA à Cesate, sans oublier plusieurs objets exemplaires du design italien), Franco Albini, dans le silence et dans l’austérité de son atelier milanais sis au numéro 4 de la via Panizza, entouré d’un petit nombre de collaborateurs dévoués (comme le fidèle Gino Colombini, l’homme « sans vanité »), constella systématiquement l’histoire du projet moderne de présences claires et équilibrées : des pages pures d’architecture d’intérieur, de design, d’aménagements et de muséographie. En nous offrant plusieurs records pour chaque type de projet : dans les expositions contemporaines (Pavillon INA, Foire commerciale de Milan, 1935 ; Exposition de l’Ancienne Orfèvrerie Italienne, VIe Triennale de Milan, 1936 ; Exposition « Scipion et le Noir et Blanc », Pinacothèque de Brera, 1941) ; dans les domaines de la décoration et de l’architecture d’intérieur (décoration de la maison Peiti, Milan, 1936 ; Chambre pour un homme, VI Triennale de Milan, 1936 ; décoration de la maison Minetti, Milan, 1936 ; Salle de séjour pour une villa, VIIe Triennale de Milan, 1940 ; appartement Albini de la via De Togni, Milan, 1940 ; appartement Marcenaro, Palazzo Rosso, Gênes, 1954) ; dans les espaces commerciaux (Fourrures Zanini, Milan, 1945 ; Institut de Dermatologie cosmétique Hotz & C., Milan, 1945 ; boutique Olivetti, Paris, 1958-1960) ; dans les projets muséographiques (Galeries municipales du Palazzo Bianco,

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Gênes, 1949-1951 ; Musée du Trésor de San Lorenzo, Gênes, 1952-1956 ; Galerie du Palazzo Rosso, Gênes, 1952-1962) ; et jusqu’à ses objets de design (bibliothèque Veliero ; petit fauteuil Luisa ; petite table Cicognino ; fauteuil Fiorenza, fauteuils en rotin Margherita et Gala ; bibliothèque à montants LB10 ; table à tréteaux TL2 et table démontable TL3). Tous ces projets sont construits sur des « fantaisies de précisions » (Gio Ponti) et sont tous devenus de nouveaux modèles de référence ; tous, ils sont sous-tendus par les mêmes mots, par les mêmes désirs, par la même attitude et par les mêmes présupposés théoriques ; tous, ils sont motivés par les mêmes instincts moraux et éthiques : ce sont des architectures silencieuses, mesurées, autonomes, respectueuses, presque détachées, empreintes de pureté, de clarté, de substance et de vérité. Ce sont des projets devant lesquels, aujourd’hui encore, on retient naturellement son souffle en raison de leur perfection évidente. Comme devant le « déroulement d’un long coureur aérien en papier de Fabriano, suspendu à de minces câbles tirant, vibrant et montant, qui traverse les espaces de la Salle Napoléonienne à Brera lors de l’exposition “Scipion et le Noir et Blanc” » (Fredi Drugman), qui constitue un hommage à l’enseignement d’Edoardo Persico et Marcello Nizzoli. Dans une séquence de quatre espaces irréguliers, cette bande de papier suspendue reliait les espaces dessinés au plafond par un maillage carré de câbles d’acier, lequel soutenait une série de montants en bois reposant sur le sol – « fuselés à leurs extrémités et gonflés dans leur zone médiane, selon le diagramme du flambement » (Franca Helg) –, auxquels étaient accrochés les lampes et les cimaises. Ce que Gio Ponti appela dans la revue « Stile » « une exposition parfaite », soulignant que « ce qui distingue Albini, artiste, d’autres architectes qui recherchent les mêmes expressions, c’est son élégance innée, heureuse, constante. Ses créations ont la clarté et la finesse d’une calligraphie... ». Comme devant les Galeries Municipales du Palazzo Bianco, où Franco Albini – accompagné par la main ferme de Caterina Marcenaro, conservatrice des musées de Gênes – travailla en économie de moyens avec « l’air et la lumière comme matériaux de construction », en imaginant des éléments d’exposition qui « ne superposent pas une modulation à l’espace existant, mais soulignent celui-ci en conservant leur indépendance réciproque » (Corrado Levi), et en suggérant des espaces qui « abandonnent “de façon programmatique” le concept de “palais” pour explorer celui de “musée” ».


librarsi nell’aria di ogni oggetto e suppellettile e l’esposizione calibrata delle opere d’arte, tra la libreria Veliero e la Radio in cristallo come teoremi anche costruttivi, e tra l’amaca/dondolo e le poltrone appese derivate dalle seggiovie come sfide agli equilibri sedimentati. E in entrambi i casi, la lampada Mitragliera come rinnovato gioiello costruttivo e invenzione tipologica. Come in alcune opere di design, dove oltre alle celebrate meraviglie di una libreria Veliero spinta al limite delle possibilità di resistenza strutturale, e di una poltroncina Luisa perfezionata nel corso di alcuni lustri, brillano altre due presenze morfologicamente inedite: la poltrona in giunco Margherita, caposaldo di integrazione fra tradizione e modernità, realizzata con l’impiego innovativo di tecnologie e materiali semplici e comuni; un nuovo modello di poltrona senza gambe messa a punto impiegando il tubo naturale come mai prima di allora, in un precisissimo ragionamento pianta/ sezione firmato con il fedele Gino Colombini; il tavolino di servizio Cicognino, dal profilo astrattamente zoomorfo, un servomuto a tre gambe e piano circolare, dove una gamba si prolunga fino a diventare un’impugnatura perfettamente allineata al baricentro: un tavolino che se sollevato e trasportato si comporta come un pendolo su cui, provare per credere, per effetto incrociato di forme e forze, un bicchiere colmo d’acqua non si sposta di un millimetro e non perde neppure una goccia! Un oggetto che nell’apparente semplicità afferma l’idea albiniana di un’architettura fatta di piccole attenzioni e di grandi saperi: tre gambe perché tre sono i punti di appoggio indispensabili all’equilibrio di un piano; la struttura è irrobustita nei punti maggiormente sollecitati e rastremata ove possibile; nell’attacco in alto tra gamba e impugnatura le sezioni sono ingrossate per migliorare presa e condizioni d’incastro; per ultimo un piccolo bordo del piano aiuta a contenere gli oggetti appoggiati. Ambienti e spazi interni, allestimenti e oggetti, tutti e sempre, tra essenza messa in forma, tra strutture che diventano immagine, tra “volumi atmosferici e volumi solidi” (Giovanni Romano), tra astrazioni e composizioni, tra matematica e geometria, tra rigore e poesia. Dove sempre vive l’idea che il minor materiale impiegato fosse un più, che l’asciuttezza filiforme fosse da preferire alla presenza massiccia, che il silenzio fosse meglio di qualunque bailamme.

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Comme devant l’Institut de Dermatologie cosmétique Hotz & C., jumeau des Fourrures Zanini, tous deux sis à Milan, tous deux datant de 1945 : de minces profils de bois ou de fer vernissés de blanc, accrochés au mur et au plafond, pour des systèmes d’exposition conçus comme des balançoires légères, lecture poétique inspirés par l’ « abstraction magique » formulée par Marcello Fagiolo. Comme devant son habitation de la via De Togni, mêmes années que la « Salle de séjour pour une villa », et mêmes records : chaque objet et chaque meuble y ont une légèreté aérienne, l’équilibre prévaut dans l’exposition des œuvres d’art ; la bibliothèque Veliero et la radio en verre s’y présentent comme des théorèmes constructifs ; le hamac/ rocking-chair et les fauteuils suspendus inspirés par des télésièges sont des défis lancés aux équilibres établis. Et dans les deux espaces, la lampe Mitragliera est à la fois un bijou constructif renouvelé et une invention typologique. Comme devant certaines objets de design, où brillent deux autres présences morphologiquement inédites, outre les merveilles tant célébrées de la bibliothèque Veliero poussée à la limite de ses capacités de résistance structurelle, et du petit fauteuil Luisa perfectionné au fil des années : le fauteuil en rotin Margherita, modèle d’intégration de la tradition et de la modernité, réalisé avec l’utilisation novatrice de technologies et de matériaux simples et ordinaires ; un nouveau modèle de fauteuil sans pieds mis au point en utilisant de manière totalement inédite le tube naturel, selon un raisonnement hyper-précis plan/section cosigné avec Gino Colombini ; la table de service Cicognino, au profil abstraitement zoomorphe, valet de nuit à trois pieds et à plan circulaire dont l’un des pieds se prolonge et se transforme en une poignée parfaitement alignée avec le barycentre : cette petite table se comporte comme un « pendule » quand on la soulève et qu’on la transporte, un pendule sur lequel – il faut essayer pour le croire ! –, par l’effet croisé des formes et des forces, un verre rempli d’eau ne bouge pas d’un millimètre, et pas la moindre goutte n’en tombe ! Un objet qui affirme, dans son apparente simplicité, l’idée albinienne d’une architecture faite de petites attentions et de grands savoirs : trois pieds, car trois points d’appui sont indispensables à l’équilibre d’un plan ; une structure renforcée aux points de plus forte sollicitation et effilée là où c’est possible ; des sections épaissies au point d’attache supérieur entre le pied et la poignée pour améliorer la prise et les conditions d’emboîtement ; enfin, le petit rebord du plan facilite la tenue des objets posés sur la table. 55

Salles et espaces intérieurs, aménagements et objets, tous et toujours, où l’essence est mise en forme et où les structures deviennent image, avec leurs « volumes atmosphé­ riques et leurs volumes solides » (Giovanni Romano), où se fondent les abstractions et les compositions, les mathéma­ tiques et la géométrie, la rigueur et la poésie. Où toujours l’idée s’impose que la plus petite quantité de matériau employée constitue un plus, que la sobriété filiforme est préférable à la présence massive, et que le silence vaut mieux que n’importe quel tapage.




Da sinistra: lo zio Carlo Toniolo, la zia Vittoria Albini Pontiggia, la zia Ide Toniolo, la zia Nori Pedione, la zia Aida Albini, Maria e Franco. Robbiate, 1908. De gauche à droite : l’oncle Carlo Toniolo, les tantes Vittoria Albini Pontiggia, Ide Toniolo, Nori Pedione et Aida Albini, Maria et Franco Albini. Robbiate, 1908. Pizzo ricamato, «Domus», 42, giugno 1931, ideato con Giancarlo Palanti. Particolare di “Sottopiatto per tavolo all’americana” in pizzo punto Venezia intitolato I Porti. Dentelle brodée, « Domus », 42, juin 1931, conçue avec Giancarlo Palanti. Détail d’un « napperon pour table à l’américaine », en dentelle point de Venise, appelé I Porti.

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Casa Albini a Robbiate, 1910 circa. La maison Albini Ă Robbiate, vers 1910. Foto di famiglia in cui figurano Maria e Franco Albini da bambini, Robbiate, 1909. Photo de famille oĂš figurent Maria et Franco Albini enfants, Robbiate, 1909. Vaso in metallo Dite (ghisa), con rame verde, prodotto da Fonderie Milanesi Augusto Vanzetti, Milano, 1930. Vase en mĂŠtal Dite (fonte), avec cuivre vert, produit par les Fonderies Milanaises Augusto Vanzetti, Milan, 1930. 60


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Franco Albini con i genitori e le sorelle Carla e Maria nella casa di via Manzoni a Milano, 1926. Franco Albini avec ses parents et ses sœurs Carla et Maria dans l’appartement de la via Manzoni à Milan, 1926. Riedizione di Richard Ginori di un reggilibro progettato per la produzione Fonderie Milanesi Augusto Vanzetti dei primi anni Trenta. Réédition par Richard Ginori d’un serre-livre projeté pour la production des Fonderies Milanaises Augusto Vanzetti du début des années Trente. Appartamento Ferrarin, mobiletto di servizio contenente tavolini sovrapponibili, Milano, 1931-1932. Appartement Ferrarin, meuble de service contenant de petites tables gigognes, Milan, 1931-1932.

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La sorella Maria Albini sulla pista da sci, 1931. Maria Albini, la sœur de Franco, sur une piste de ski, 1931. Cagnolino in ottone, a uso fermalibro realizzato da Franco Albini, timbrato FSF, Milano, primi anni Trenta. Petit chien en laiton servant de serre-livres réalisé par Franco Albini, portant le poinçon FSF, Milan, début des années Trente. Aero-club, veduta della zona bar, Milano, 1932. Aéroclub, vue du coin bar, Milan, 1932.

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Franco Albini con alcuni amici, primi anni Trenta. Franco Albini avec des amis, début des années Trente. Appartamento Peiti, particolare della parete divisoria in cristallo fumè e metallo; in alto il portafiori formato da sfere di cristallo sospese, Milano, 1935. Appartement Peiti, détail de la cloison de séparation en verre fumé et en métal. En haut le vase formé de sphères de verre suspendues, Milan, 1935.

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La sorella Carla Albini al lavoro come progettista grafica all’interno del Padiglione INA disegnato da Albini, Fiera Campionaria di Milano, 1935. Carla Albini, la sœur de Franco, au travail comme graphiste à l’intérieur du Pavillon de l’INA dessiné par Albini, Foire Commerciale de Milan, 1935. Veduta esterna da nord. A sinistra i due grandi portali e il volume della galleria di ingresso, a destra la vetrata del salone principale. Vue extérieure depuis le nord. À gauche, les deux grands portails et le volume de la galerie d’entrée, à droite la baie vitrée du salon principal. Veduta interna del salone principale del Padiglione permanente INA, Fiera di Milano, 1935. Progetto grafico di Carla Albini. Vue intérieure du salon principal du pavillon permanent de l’INA, Foire de Milan, 1935. Projet graphique de Carla Albini. 69


[…] quel magnifico e difficilissimo “niente” che forma la più perfetta arte di oggi. […] ce « rien » magnifique et si difficile qui forme l’art le plus parfait d’aujourd’hui. Franco Albini, 1933

Allestimento “Stanza per un uomo”, VI Triennale di Milano, 1936. Il tavolo di lavoro realizzato con una lastra di marmo verde, libreria di cristallo e nichel opaco e poltroncine in tubolare metallico con cuscini in gommapiuma. Aménagement « chambre pour un homme », VI Triennale de Milan, 1936. Table de travail réalisée avec une plaque en marbre vert, bibliothèque en verre et nickel opaque et petits fauteuils à structure tubulaire avec des coussins en mousse.



[…] in Franco Albini queste necessità utilitarie si trasfigurano, si sublimano, si sottilizzano in rapporti lirici e in vibrazioni poetiche, dove la stessa scarna e nitida soluzione utilitaria ottiene nella originale elementarietà dell’essenziale il suo più alto sigillo artistico. […] chez Franco Albini, ces nécessités utilitaires se transfigurent, se subliment, s’affinent en rapports lyriques et en vibrations poétiques, où la solution utilitaire nette et dépouillée atteint elle-même dans la simplicité de l’essentiel son sommet artistique. Giuseppe Pagano, 1939

“Mostra dell’antica oreficeria italiana”, VI Triennale di Milano, 1936, con Giovanni Romano. I montanti sono in ferro verniciato bianco, i pilastri e il soffitto sono tinteggiati in nero. « Exposition de l’Ancienne Orfèvrerie Italienne », VI Triennale de Milan, 1936, avec Giovanni Romano. Les montants sont en fer peint en blanc, les piliers et le plafond sont peints en noir.



La sorella Carla Albini sui campi da sci, primi anni Trenta. Carla Albini, la sœur de Franco, sur les pistes de ski, au début des années Trente. Appartamento Falck, veduta della sala da pranzo, via Manin, Milano, 1936. Appartement Falck, vue de la salle à manger, via Manin, Milan, 1936.

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Chaise longue con base e struttura metallica nella casa Albini in via Cimarosa angolo via De Alessandri, Milano, prima sistemazione del 1937. Chaise longue avec base et structure métallique dans la résidence Albini de la via Cimarosa, au coin de la via De Alessandri, Milan, premier aménagement de 1937. Quartiere “Fabio Filzi” per l’IFACP, Milano, 1936-1938, con Giancarlo Palanti. Prospetto di due palazzine del complesso su viale Argonne. Quartier « Fabio Filzi » pour l’IFACP, Milan, 1936-1938, avec Giancarlo Palanti.

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La sala centrale destinata al ricevimento e all’attesa del pubblico nell’Istituto di bellezza Elizabeth Arden, Milano, 1938-1939. La pièce centrale servant de salon d’accueil et de salle d’attente pour le public, Institut de beauté Elizabeth Arden, Milan, 1938-1939.

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Villa Pestarini, Milano, 1938. Villa Pestarini, Milano, 1938. Villa Pestarini, soggiorno con sullo sfondo la scala a rampa unica disposta lungo la parete in vetrocemento verso la strada. La struttura è realizzata con travi a C verniciate di rosa entro cui sono cementati i gradini in marmo bianco di Carrara lucidato. Villa Pestarini, le séjour avec au fond l’escalier à rampe unique placé contre le mur en briques de verre du côté de la rue. La structure est réalisée avec des poutres en C peintes en rose entre lesquelles sont cimentées les marches en marbre blanc poli de Carrare.


Albini si esprime per mezzo di composizioni, di volumi atmosferici e di volumi solidi che si compenetrano e si compongono nello spazio secondo rapporti armonici. Albini s’exprime au moyen de compositions, de volumes atmosphériques et de volumes solides qui se pénètrent et se composent dans l’espace selon des rapports harmonieux. Giovanni Romano, 1941

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Tazzina nozze Franco Albini e Carla Vaccari, 1938, grafica attribuita a Carla Albini. Petite tasse pour le mariage de Franco Albini et Carla Vaccari, 1938, graphisme attribué à Carla Albini. Appartamento Albini in via Cimarosa angolo via De Alessandri, seconda soluzione, Milano, 1938. Il telaio dei quadri sospeso su un tubo di ferro verniciato di bianco e fissato al pavimento e al soffitto. L’appartement Albini de la via Cimarosa, au coin de la via De Alessandri, deuxième aménagement, Milan, 1938. Le châssis des tableaux accroché à un tube de fer peint en blanc est fixé au sol et au plafond. 81


La moglie Carla Albini Vaccari, 1936 circa. Carla Albini Vaccari, l’épouse de Franco Albini, vers 1936. Posate in argento disegnate da Franco Albini per la propria casa facendo fondere alcuni insignificanti regali di nozze in argento, 1938-39. Couverts en argent dessinés par Franco Albini pour son appartement, réalisés en faisant fondre d’insignifiants cadeaux de mariage en argent, 1938-1939. Appartamento Albini in via de Togni, veduta del soggiorno con in primo piano la libreria Veliero, Milano, 1940. Copertina di «Domus», n. 163, luglio 1941. L’appartement Albini de la via de Togni, vue du séjour avec au premier plan la bibliothèque Veliero, Milan, 1940. Couverture de « Domus », no 163, juillet 1941.

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Mobile radio trasparente in lastre di cristallo con parti meccaniche a vista disegnato da Franco Albini per l’arredamento di casa Albini in via Cimarosa angolo via De Alessandri, Milano, 1938. L’aneddoto vuole che si tratti di una radio con mobile in legno ricevuta come regalo di nozze, da lui in questo modo ridotta all’essenziale. Meuble radio transparent en plaques de verre avec des parties mécaniques apparentes, dessiné par Franco Albini pour la décoration de l’appartement Albini de la via Cimarosa, au coin de la via De Alessandri, Milan, 1938. Selon une anecdote, il s’agit d’une radio avec un meuble en bois reçue comme cadeau de mariage, que Franco Albini a réduite à l’essentiel. Appartamento Albini in via de Togni, veduta del soggiorno, Milano, 1940. L’appartement Albini de la via de Togni, vue du séjour, Milan, 1940.

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[…] “fantasia di precisione” che Albini ama in concezioni equilibrate pericolosamente fra rigore e libertà. […] la « fantaisie de précision » qu’Albini aime dans des conceptions dangereusement équilibrées entre rigueur et liberté. Gio Ponti, 1939

Libreria Veliero, esemplare originale realizzato per la casa in via de Togni, Milano 1940, rieditato da Cassina, nella collana “iMaestri” nel 2011. Bibliothèque Veliero, exemplaire original réalisé pour l’appartement de la via de Togni, Milan, 1940, réédité par Cassina, dans la collection « iMaestri » en 2011.

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Albini ritratto addormentato sulla poltrona da dentista nella sezione “Mostra internazionale della produzione in serie“, curata da Giuseppe Pagano, durante i preparativi per l’allestimento della VII Triennale di Milano, dalla rivista “Tempo”, aprile 1940. Franco Albini représenté endormi dans un fauteuil de dentiste dans la section « Exposition internationale de la production en série », projetée par Giuseppe Pagano, pendant les préparatifs pour l’aménagement de la VII Triennale de Milan, photographie parue dans la revue « Tempo », avril 1940. “Stanza di soggiorno per una villa”, veduta dell’allestimento, VII Triennale di Milano, 1940. In primo piano il tavolo da pranzo, con due gambe di ferro murate nel pavimento, ha il piano di mosaico di marmo e di vetro. Le poltrone sospese come una seggiovia al trave hanno una struttura di ferro e imbottitura di gommapiuma. « Pièce de séjour pour una villa », vue de l’aménagement, VII Triennale de Milan, 1940. Au premier plan, la table de la salle à manger, avec deux pieds en fer scellés dans le sol, a un plateau en mosaïque de marbre et de verre. Les fauteuils suspendus à la poutre comme un télésiège ont une structure en fer et un rembourrage en mousse.

Almeno l’architetto Albini ha osato. Au moins l’architecte Albini a osé. Giovanni Papini, 1940

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Lampada da terra allungabile detta Mitragliera, prima versione in legno, 1939-40. Lampadaire extensible dit Mitrailleuse, première version en bois, 1939-1940. Allestimento “Stanza di soggiorno per una villa”, veduta dei due livelli dalla base della scala, VII Triennale di Milano, 1940. La scala e il soppalco-pavimento a listelli, sono di larice naturale. I gradini, formati dalla sola pedata, sono sospesi per mezzo di tondini di ferro a due travi di larice. Aménagement « Pièce de séjour pour une villa », vue des deux niveaux depuis le bas de l’escalier, VII Triennale de Milan, 1940. L’escalier et la mezzanine-plancher en lattes de bois, sont en mélèze naturel. Les marches, sans contremarches, sont accrochées à deux poutres en mélèze au moyen de barres en fer.

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Giuseppe Pagano, luglio 1944, dopo la fuga dal carcere giudiziario di Brescia. L’autoritratto con il gesto “dell’ombrello” doveva essere inviato come sberleffo ai suoi vecchi “amici” gerarchi. Questa immagine è stata pubblicata nel numero monografico dedicato a Pagano dalla rivista “Casabella-Costruzioni” nel 1946-47, quando Franco Albinie Giancarlo Palanti erano co-direttori. La foto originale si trova ora nell’archivio della Fondazione Franco Albini. Giuseppe Pagano, juillet 1944, après sa fuite de la prison de Brescia. Cet autoportrait au bras d’honneur devait être envoyé à ses vieux « amis » fascistes pour les narguer. Cette image a été publiée dans le numéro de « Casabella-Costruzioni » consacré à Pagano, en 1946-1947, à l’époque où Franco Albini et Giancarlo Palanti étaient co-directeurs de la revue. La photographie originale se trouve maintenant dans les archives de la Fondation Franco Albini. Villa Neuffer, veduta dall’esterno della scala elicoidale, Ispra, 1940. La scala è realizzata in noce e sospesa mediante sottili profili di ferro verniciati di bianco: il corrimano rosso accompagna il movimento avvolgente della struttura. Villa Neuffer, vue de l’escalier hélicoïdal depuis l’extérieur, Ispra, 1940. L’escalier est réalisé en noyer et suspendu au moyen de fins câbles en fer peint en blanc : la rampe rouge accompagne le mouvement enveloppant de la structure.

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[…] ricerca della bellezza per mezzo di ritmi pacati e composizioni larghe e severe, ottenute con mezzi semplici e rigorosi, e non per mezzo di ricchezze di materiali e sfarzo di particolari preziosi. […] recherche de la beauté au moyen de rythmes paisibles et de compositions larges et sévères, obtenues avec des moyens simples et rigoureux, et non au moyen de richesses de matériaux et d’une abondance de détails précieux. Franco Albini, 1936

Franco Albini, Piero Bottoni, il filosofo Antonio Banfi, Ernesto Nathan Rogers, Gio Ponti e Marco Zanuso alla Casa della Cultura di Milano, anni Cinquanta. Franco Albini, Piero Bottoni, le philosophe Antonio Banfi, Ernesto Nathan Rogers, Gio Ponti et Marco Zanuso à la Maison de la Culture de Milan dans les années Cinquante. Villa Neuffer, veduta della camera degli ospiti con i contenitori “sospesi”, Ispra, 1940. Villa Neuffer, vue de la chambre d’amis avec les rangements « suspendus », Ispra, 1940.

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Franco Albini, Guido Veneziani, Eugenio Gentili Tedeschi, Ignazio Gardella e altri amici a Zermatt, intorno al 1955. Franco Albini, Guido Veneziani, Eugenio Gentili Tedeschi, Ignazio Gardella et d’autres amis à Zermatt, vers 1955. Allestimento “Mostra di Scipione e di disegni contemporanei”, Pinacoteca di Brera, Milano, 1941. In primo piano la striscia di carta sospesa che unisce le sale. Aménagement « Exposition de Scipione et de dessins contemporains », Pinacothèque de Brera, Milan, 1941. Au premier plan, la bande de papier accrochée au plafond qui unit les différentes salles.

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Da sinistra Giovanni Romano, Franco Albini e Carla Albini Vaccari, Paestum, fine anni Trenta. De gauche Giovanni Romano, Franco Albini e Carla Albini Vaccari, Paestum, fin des années Trente. “Mostra di Scipione e di disegni contemporanei”, veduta dell’allestimento con gli affusolati montanti di legno sostenuti alla sommità da una griglia di cavi metallici, Pinacoteca di Brera, Milano, 1941. « Exposition de Scipion et de dessins contemporains », vue de l’aménagement avec les montants de bois effilés, soutenus au sommet par un réseau de câbles métalliques, Pinacothèque de Brera, Milan, 1941.

È mia opinione che sono proprio i vuoti che occorre progettare, essendo aria e luce i materiali di costruzione. Mon opinion, c’est que ce sont les vides qu’il faut concevoir, car les matériaux de construction, ce sont l’air et la lumière. Franco Albini, 1954

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Franco e Carla Albini Vaccari con Enea Manfredini, Ponte dell’Olio, Piacenza, 1967. Franco et Carla Albini Vaccari avec Enea Manfredini, Ponte dell’Olio, Plaisance, 1967. Prospettive di mobili realizzate negli anni della Seconda Guerra Mondiale, 1943-45. Perspectives de meubles réalisées pendant la Deuxième Guerre Mondiale, 1943-1945.

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A lato: Pellicceria Zanini, vetrina con piano di esposizione appeso a un listellato di legno verniciato di bianco, a sua volta appeso al soffitto, Milano, 1945. In piccolo: Libreria Baldini e Castoldi, la passerella di accesso alla scaffalatura a tutta altezza della libreria, Galleria Vittorio Emanuele II, Milano, 1945-1946. Ci-contre : Magasin de Fourrures Zanini, vitrine avec plateau d’exposition accroché à des tiges en bois peintes en blanc, elles-mêmes accrochées au plafond, Milan, 1945. En petit : Librairie Baldini et Castoldi, la passerelle d’accès aux rayonnages couvrant toute la hauteur du mur de la librairie, Galerie Victor-Emmanuel II, Milan, 1945-1946.

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Istituto di dermatologia cosmetica Hotz, veduta dello spazio per il pubblico con i piani per esposizione in cristallo sorretti da una struttura metallica, Milano, 1945-1949. Institut de dermatologie cosmétique Hotz, vue de l’espace pour le public avec les étagères en verre pour l’exposition soutenues par une structure métallique, Milan, 1945-1949. 103


Franco Albini in montagna in una fotografia degli anni Cinquanta. Franco Albini à la montagne sur une photographie des années Cinquante. Albergo-rifugio Pirovano per ragazzi, veduta dal basso con in primo piano i caratteristici pilastri in pietra, Cervinia, 1948-1952. Hôtel-refuge Pirovano pour enfants,, vue depuis le bas avec au premier plan les piliers en pierre caractéristiques, Cervinia, 1948-1952.

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Museo di Palazzo Bianco, vetrina di ferro e cristallo contente un gonfalone, e frammento dell’Elevatio animae di Margherita di Brabante, opera di Nicola Pisano, posto su supporto mobile, Genova, 1949-51. Musée du Palazzo Bianco, vitrine en fer et en verre contenant une bannière, et fragment de l’Elevatio animae di Margherita di Brabante, œuvre de Nicola Pisano, placé sur un support mobile, Gênes, 1949-1951.

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Museo di Palazzo Bianco, vetrina di ferro e cristallo contente un gonfalone, e sul fondo frammento dell’Elevatio animae di Margherita di Brabante, opera di N. Pisano, posto su supporto mobile, Genova, 1949-51. Musée du Palazzo Bianco, vitrine en fer et en verre contenant une bannière ; sur le fond, fragment de l’Elevatio animae di Margherita di Brabante, œuvre de Nicola Pisano, placé sur un support mobile, Gênes, 1949-1951. Museo di Palazzo Bianco, veduta di una sala espositiva, Genova, 1949-51. Musée du Palazzo Bianco, vue d’une salle d’exposition, Gênes, 1949-1951.

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A sinistra Franco Albini, al centro Eugenio Nathan Rogers, a destra con gli occhiali Ignazio Gardella, Scuola CIAM a Venezia, 1955 circa. À gauche Franco Albini, au centre Eugenio Nathan Rogers, à droite avec les lunettes Ignazio Gardella, École CIAM à Venise, vers 1955. Edificio nel quartiere “Mangiagalli” per l’IACP, veduta del fronte nord, Milano, 1950-1952, con Ignazio Gardella. Bâtiment dans le quartier « Mangiagalli » pour l’IACP, vue de la façade nord, Milan, 1950-1952, avec Ignazio Gardella.

Alla base dell’Architettura c’è sempre un problema morale: alla base del nostro mestiere non ci sono che doveri. À la base de l’Architecture, il y a toujours un problème moral : à la base de notre métier, il n’y a que des devoirs. Franco Albini, 1954

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L’architettura è come la coscienza. L’architecture est comme la conscience. Franco Albini, 1954

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Franco Albini, Walter Gropius et Palma Bucarelli alla presentazione della mostra “Bauhaus” alla Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma, 1961. Franco Albini, Walter Gropius et Palma Bucarelli à la présentation de l’exposition « Bauhaus » à la Galerie Nationale d’Art Moderne de Rome, 1961. Edificio per uffici INA, veduta della scala ellittica, Parma, 1950-1954. Immeuble de bureaux de l’INA, vue de la façade principale, Parme, 1950-1954. Edificio per uffici INA, veduta del fronte principale, Parma, 1950-1954. Immeuble de bureaux de l’INA, vue de l’escalier hélicoïdal, Parme, 1950-1954. 113


Franco Albini e dall’altro lato Giancarlo De Carlo, 1949 circa. Franco Albini et de l’autre côté Giancarlo De Carlo, vers 1949. Poltroncina Adriana, produzione la Rinascente, 1951. Petit fauteuil Adriana, production La Rinascente, 1951.

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Mobili per La Rinascente, realizzati con Gino Colombini e Ezio Sgrelli, veduta dello stand alla IX Triennale di Milano, 1951. Meubles pour La Rinascente, réalisés avec Gino Colombini et Ezio Sgrelli, vue du stand à la IX Triennale de Milan, 1951, . 115


Franco Albini balla con Lica Steiner, 1950 circa. Franco Albini danse avec Lica Steiner, vers 1950. Poltrona Margherita, con Gino Colombini, produzione Vittorio Bonacina, 1955. Fotografia di Bonacina Vittorio Design Srl. Fauteuil Margherita, avec Gino Colombini, production Vittorio Bonacina, 1955. Fotographie de Bonacina Vittorio Design Srl.

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Franco Albini con Giancarlo De Carlo, Walter Gropius et Ignazio Gardella, anni ’50. Franco Albini avec Giancarlo De Carlo, Walter Gropius et Ignazio Gardella, années 50. Museo del Tesoro di San Lorenzo, modello di progetto, Genova, 1952-1956, con Franca Helg. Musée du Trésor de San Lorenzo, modèle de projet, Gênes, 1952-1956, avec Franca Helg. Museo del Tesoro di San Lorenzo,. Lo spazio centrale tra le sale circolari con le vetrine dei piviali e la statua in argento dell’Immacolata, Genova, 1952-1956. Musée du Trésor de San Lorenzo, l’espace central entre les salles circulaires avec les vitrines des chapes et la statue de la Vierge en argent, Gênes, 1952-1956.



Maniglia Ambra in alluminio anodizzato finitura argento, con Franca Helg per Olivari, 1973. Poignée Ambra en alluminium anodisé finition argent, avec Franca Helg pour Olivari, 1973. Maniglia Agata in ottone finitura super oro, conFranca Helg per Olivari, 1965. Poignée Agata en laiton finition super or, avec Franca Helg pour Olivari, 1965. Maniglia Ambra, prototipo in legno, con Franca Helg, 1973. Poignée Ambra, prototype en bois, avec Franca Helg, 1973.

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Museo di Palazzo Rosso, Scala ottagonale nel corpo delle dipendenze, Genova, 1952-1962, con Franca Helg. Musée du Palazzo Rosso, support tournant pour tableau, avec poignée, Gênes, 1952-1962, avec Franca Helg 121


Non esistono oggetti brutti, basta esporli bene. Il n’y a pas d’objets laids, il suffit de bien les exposer. Franco Albini, 1950

Museo di Palazzo Rosso, supporto girevole per dipinto, con maniglia, Genova, 1952-1962, con Franca Helg. Musée du Palazzo Rosso, support tournant pour tableau, avec poignée, Gênes, 1952-1962, avec Franca Helg. Museo di Palazzo Rosso, Veduta del salone centrale del secondo piano nobile con uno degli angeli lignei di Filippo Parodi e la grande specchiera, Genova, 1952-1962, con Franca Helg. Musée du Palazzo Rosso, vue du salon central du deuxième étage avec un des anges en bois de Filippo Parodi et le grand miroir, Gênes, 1952-1962, avec Franca Helg.

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Franco Albini e alla sua sinistra Giulio Carlo Argan in una fotografia degli anni Cinquanta. FrancoAlbini et à sa gauche Giulio Carlo Argan sur une photographie des années Cinquante. Appartamento Marcenaro, Palazzo Rosso, Genova, 1954, con Franca Helg. Veduta del soggiorno con la scala sospesa di accesso al soppalco della biblioteca; in primo piano il montante in ferro nero che sostiene un angelo barocco. Appartement Marcenaro, Palazzo Rosso, Gênes, 1954, avec Franca Helg. Vue du séjour avec l’escalier suspendu donnant accès à la mezzanine de la bibliothèque ; au premier plan, un montant en fer noir soutenant un ange baroque.



Dalla presa di coscienza dei problemi, e soltanto da qui, l’architetto potrà trarre le forme che aderiranno ai modi di vita della sua società. Dalla presa di coscienza dei problemi egli trarrà l’invenzione di nuove forme, che genereranno nuovi modi di vita. C’est à partir de la prise de conscience des problèmes, et seulement à partir de là, que l’architecte pourra tirer les formes qui correspondront aux modes de vie de sa société. De la prise de conscience des problèmes, il tirera l’invention de nouvelles formes, qui engendreront de nouveaux modes de vie. Franco Albini, 1960

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Scrivania Stadera con piano a due livelli rivestito in panno e cassettiera in legno indipendente, realizzato da Carla Poggi, 1954. Table de travail Stadera avec plateau à deux niveaux recouvert de tissu et meuble à tiroirs en bois indépendant, réalisé par Carla Poggi, 1954. Appartamento Marcenaro, veduta della scala con gradini in ardesia su struttura di ferro verniciato di nero, Palazzo Rosso, Genova, 1954, con Franca Helg. Appartement Marcenaro, vue de l’escalier avec les marches en ardoise sur une structure en fer peint en noir, Palazzo Rosso, Gênes, 1954, avec Franca Helg. 127


Franco Albini e alla sua destra Vico Magistretti e Augusto Morello alla VI edizione del Compasso d’Oro de 1960 nella Sala delle Cariatidi del Palazzo Reale di Milano. Franco Albini et à sa droite Vico Magistretti et Augusto Morello à la VI édition du Compasso d’Oro de 1960 dans la Salle des Cariatidi du Palais Royal à Milan. Poltroncina Luisa, produzione Poggi, 1950-1955, riedizione Cassina 2008. Struttura in noce, mogano o frassino; schienale in compensato imbottito in gommapiuma e foderato in panno di lana o pelle. Compasso d’oro 1955. Petit fauteuil Luisa, production Poggi, 1950-1955, réédition Cassina 2008. Structure en noyer, acajou ou frêne ; dossier en contreplaqué rembourré en mousse et recouvert d’un tissu de laine ou de cuir. Compasso d’Oro 1955.

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Da sinistra Fredi Drugman, Franca Helg, Franco Albini, Lodovico Belgiojoso, Carlo Scarpa. Di spalle (da destra a sinistra) Aurelio Cortesi, Giuseppe Gambirasio, Matilde Baffa e Corrado Levi. Trattoria alla Colomba, Venezia, 22 novembre 1960. À partir de la gauche Fredi Drugman, Franca Helg, Franco Albini, Lodovico Belgiojoso et Carlo Scarpa. De dos (de droite à gauche) Aurelio Cortesi, Giuseppe Gambirasio, Matilde Baffa et Corrado Levi. Trattoria alla Colomba, Venise, 22 novembre 1960. Zona auditorium nell’allestimento predisposto dentro il Salone d’onore alla X Triennale di Milano, disegno in pianta, 1954, con Franca Helg. Zone auditorium à l’intérieur de l’aménagement réalisé dans le Salon d’honneur à la X Triennale de Milan, plan, 1954, avec Franca Helg. L’allestimento generale in tubi Innocenti, dentro il Salone d’onore alla X Triennale di Milano, con sotto la mostra dei trent’anni della Triennale e sopra la scatola sospesa dell’auditorium. L’aménagement général en tubes Innocenti, dans le Salon d’honneur à la X Triennale de Milan, avec au-dessous l’exposition pour les trente ans de la Triennale, et au-dessus la boîte suspendue de l’auditorium.


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Poltrona Gala (1955, produzione Vittorio Bonacina), nella versione riprodotta in scala ridotta dalla Vitra per il Museo della sedia. Fauteuil Gala (1955, production Vittorio Bonacina), dans la version reproduite à échelle réduite par Vitra pour le Musée de la Chaise. Allestimento nel Salone d’onore alla X Triennale di Milano, 1954, con Franca Helg. La storica sala d’onore del palazzo dell’Arte viene allestita provvisoriamente con una struttura in tubi Innocenti per esporre nella parte sottostante una mostra dedicata ai Trent’anni della Triennale, e disporre sopra un piccolo auditorium; i sedili sono rivestiti di panno rosso. Aménagement dans le Salon d’honneur à la X Triennale de Milan, 1954, avec Franca Helg. La salle d’honneur historique du palais de l’Art est aménagée provisoirement avec une structure en tubes Innocenti afin d’accueillir dans la partie en contrebas une exposition consacrée aux trente ans de la Triennale, et pour permettre d’aménager au-dessus un petit auditorium ; les sièges sont recouverts de tissu rouge.

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Tavolino Cicognino, produzione Poggi 1953, riedizione Cassina 2008. Fotografia di Cassina SpA. Petite table Cicognino, production Poggi, 1953, réédition Cassina, 2008. Photographie de Cassina SpA. Tavolo Cavalletto TL2, produzione Poggi 1950, riedizione Cassina 2008. Fotografia di Cassina SpA. Table Cavalletto TL2, production Poggi 1950, réédition Cassina 2008. Photographie de Cassina SpA.

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Negozio Olivetti di Parigi, 1958-1963, con Franca Helg. L’allestimento con i montanti in legno di mogano costituiti da tre tondini verticali uniti da calastrelli triangolari con parti metalliche in ottone, legati in sommità da una trama di cavetti orizzontali metallici che disegna un reticolo. Magasin Olivetti de Paris, 1958-1963, avec Franca Helg. L’aménagement avec les montants en bois d’acajou constitués de trois tiges verticales unies par des pièces triangulaires avec des parties métalliques en laiton, liés au sommet par une trame de petits câbles horizontaux métalliques dessinant un réseau.



Allestimento “Organizzazione industriale, Produttività, Mercato”, Esposizione Internazionale del Lavoro “Italia ’61”, Torino, 1961, con Franca Helg. Grafica di Eugenio Bonfante. Aménagement « Organisation industrielle, Productivité, Marché », Exposition Internationale du Travail « Italia ’61 », Turin, 1961, avec Franca Helg. Graphisme de Eugenio Bonfante. Franco Albini con il Presidente della Repubblica Luigi Einaudi alla IX Triennale di Milano, 1951. Franco Albini avec le Président de la République Luigi Einaudi à la IX Triennale de Milan, 1951.

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Allestimento “La Ricerca Scientifica”, Esposizione Internazionale del Lavoro “Italia ’61”, Torino, 1961, con Franca Helg. Aménagement « La Recherche Scientifique », Exposition Internationale du Travail « Italia ’61 », Turin, 1961, avec Franca Helg. 139


Targa commemorativa disegnata da Marcello Nizzoli e catalogo per il Compasso d’Oro ricevuto da Franco Albini, Franca Helg e Bob Noorda nel 1964 per il progetto della Linea 1 della Metropolitana di Milano, 1962-1964. Plaque commémorative dessinée par Marcello Nizzoli et catalogue pour le Compasso d’Oro reçu par Franco Albini, Franca Helg et Bob Noorda en 1964 pour le projet de la Ligne 1 du Métro de Milan, 1962-1964. Veduta della banchina nella stazione Centrale F.S. sulla Linea 2, Milano, 1964-1969, con Franca Helg e Antonio Piva. Grafica di Bob Noorda. Vue du quai dans la station « Centrale F.S. » sur la Ligne 2, Milan, 1964-1969, avec Franca Helg et Antonio Piva. Graphisme de Bob Noorda.


Corrimano in tubolare rosso e pannelli di graniglia Fulget, MM1, Milano, 1962-1964, con Franca Helg. Main courante tubulaire rouge et panneaux de terrazzo Fulget, MM1, Milan, 1962-1964, avec Franca Helg. 141


Franco Albini e al centro l’artista Fernand Léger nell’allestimento progettato per la IX Triennale di Milano, 1951. Franco Albini et au centre l’artiste Fernand Léger dans l’aménagement projeté pour la IX Triennale de Milan, 1951. Telefono, Siemens 1972. Téléphone, Siemens, 1972.

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Televisore Orion, produzione Brionvega, 1962, con Franca Helg. Téléviseur Orion, production Brionvega, 1962, avec Franca Helg. 143


Franco Albini, Franca Helg e i collaboratori dello studio in via XX Settembre 21: Ambrogio Giani, Luigi Mereghetti, Giuseppe Rizzo e Luisa Colombini, Milano, 1961. Franco Albini, Franca Helg et leurs collaborateurs de l’atelier installé au numéro 21 de la via XX Settembre : Ambrogio Giani, Luigi Mereghetti, Giuseppe Rizzo et Luisa Colombini, Milan, 1961. Poltrona Tre Pezzi PL19, con Franca Helg, produzione Poggi 1959, riedizione Cassina 2008. Fotografia di Cassina SpA. Fauteuil Tre Pezzi PL19, avec Franca Helg, production Poggi, 1959, réédition Cassina, 2008. Photographie de Cassina SpA.

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Tecnica e materiali sono i mezzi di espressione di cui noi architetti disponiamo. La technique et les matériaux sont les moyens d’expression dont nous disposons, nous autres architectes. Franco Albini, 1954

Grandi Magazzini La Rinascente, vista da Piazza Fiume, Roma, 1957-1961, con Franca Helg. Grands Magasins La Rinascente, vue depuis la Piazza Fiume, Rome, 1957-1961, avec Franca Helg. Grandi Magazzini La Rinascente, particolare dei pannelli di rivestimento, Roma, 1957-1961, con Franca Helg. Fotografia di Marco Introini, 2006. Grands Magasins La Rinascente, détails des panneaux de revêtement, Rome, 1957-1961, avec Franca Helg. Photographie de Marco Introini, 2006.

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Museo di Sant’Agostino, sistema espositivo di formelle in pietra, Genova, 1963-1979, con Marco Albini, Franca Helg e Antonio Piva. Musée de Sant’Agostino, système d’exposition de carreaux en pierre, Gênes, 1963-1979, avec Marco Albini, Franca Helg et Antonio Piva. Museo di Sant’Agostino, veduta dell’allestimento all’ultimo livello, Genova, 1963-1979, progettato con Marco Albini, Franca Helg e Antonio Piva. Musée de Sant’Agostino, vue de l’aménagement au dernier étage, Gênes, 1963-1979, projeté avec Marco Albini, Franca Helg et Antonio Piva.

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Scrivania Stadera, produzione Poggi 1954, riedizione Cassina 2015. Table de travail Stadera, production Poggi, 1954, réédition Cassina, 2015. Lampada da tavolo serie AM/AS, produzione Sirrah 1968, riedizione Nemo 2008. Lampe de table série AM/AS, production Sirrah, 1968, réédition Nemo, 2008. 151


Franca Helg in Sardegna, 1965 circa. Franca Helg en Sardaigne, vers 1965. Nuovo palazzo uffici SNAM, prospettiva dell’edificio San Donato Milanese, 1969-1974, con Marco Albini, Franca Helg e Antonio Piva. Nouvel immeuble de bureaux de la SNAM, perspective du bâtiment, San Donato Milanese, 1969-1974, avec Marco Albini, Franca Helg et Antonio Piva. Disegno del particolare della carenatura dove il carter verticale copre lo spigolo dell’edificio. Dessin du détail du carénage où le carter vertical couvre l’angle du bâtiment. Nuovo palazzo uffici SNAM, particolare della veduta dell’edificio, San Donato Milanese, 1969-1974, con Marco Albini, Franca Helg e Antonio Piva. Nouvel immeuble de bureaux de la SNAM, détail de la vue du bâtiment, San Donato Milanese, 1969-1974, avec Marco Albini, Franca Helg et Antonio Piva.

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Franco Albini, membro della Commissione di consulenti speciali per la Biblioteca “John Fiztgerard Kennedy”, Boston, 1964. Da sinistra Jean Smith, Franco Albini, Robert Kennedy, Jaqueline Kennedy, Mies Van der Rohe, Helena Costa e Louis Kahn. Franco Albini, membre de la Commission de consultants spéciaux pour la Bibliothèque « John Fiztgerard Kennedy », Boston, 1964. De gauche à droite Jean Smith, Franco Albini, Robert Kennedy, Jaqueline Kennedy, Mies Van der Rohe, Helena Costa et Louis Kahn. Sperimentazione sul vetro, 1968 circa. Expérimentation sur le verre, vers 1968. Museo degli Eremitani, teca espositiva, Padova, 1969-1979, con Marco Albini, Franca Helg e Antonio Piva. Musée des Érémitiques, vitrine d’exposition, Padoue, 1969-1979, avec Marco Albini, Franca Helg et Antonio Piva.


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Franco Albini e Marco Albini, davanti al progetto di Riad, Studio di via Telesio, Milano, 1973. Fotografia di David Corm. Franco Albini et Marco Albini, devant le projet de Riyad, Atelier de la via Telesio, Milan, 1973. Photographia de David Corm. Progetto di rinnovo dell’area Kasr-ElHokm, dettaglio della facciata, Riad, Arabia Saudita, 1976-79, con Marco Albini, Franca Helg e Antonio Piva. Projet de réamménagement du secteur Kasr-El-Hokm, détail de la façade, Riyad, Arabie Saoudite, 1976-1979, avec Marco Albini, Franca Helg et Antonio Piva. Progetto di rinnovo dell’area Kasr-ElHokm, veduta del modello, Riad, Arabia Saudita, 1976-79, progettato con Marco Albini, Franca Helg e Antonio Piva. Projet de rénovation du secteur Kasr-El-Hokm, vue de la maquette, Riyad, Arabie Saoudite, 1976-1979, projeté avec Marco Albini, Franca Helg et Antonio Piva.

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Franco Albini con il figlio Marco e il nipote Francesco, 1973 circa. Franco Albini avec son fils Marco et son petit-fils Francesco, vers 1973. Saline Water Convertion Corporation, veduta dell’edificio dall’esterno, Riad, Arabia Saudita, 1976-79 con Marco Albini, Franca Helg e Antonio Piva. Saline Water Convertion Corporation, vue du bâtiment de l’extérieur, Riyad, Arabie Saoudite, 1976-1979, avec Marco Albini, Franca Helg et Antonio Piva.

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Ritratto di Franco Albini, 1972. Fotografia di David Corm. Portrait de Franco Albini, 1972. Photographie di David Corm.


Franco Albini Franco Albini nasce nel 1905 a Robbiate (Como), dove trascorre nella casa paterna l’infanzia e parte della giovinezza. Trasferitosi con la famiglia a Milano, frequenta il Politecnico, dove si laurea nel 1929 e inizia l’attività professionale nello studio di Gio Ponti ed Emilio Lancia. Nel 1931 apre il primo studio professionale in via Panizza a Milano con Renato Camus e Giancarlo Palanti e inizia a occuparsi di edilizia popolare partecipando al concorso per il quartiere Baracca a Milano (1932) e realizzando poi i quartieri dell’Istituto fascista autonomo case popolari (IFACP) milanese: “Fabio Filzi” (1936-38), “Gabriele d’Annunzio” (1938-40) e “Ettore Ponti” (1939). Negli anni che precedono la Grande guerra e durante la guerra, continua la sua ricerca sui grandi progetti urbani, elaborati insieme al gruppo italiano del Congrès international d’architecture moderne (CIAM): “Milano Verde” (con Ignazio Gardella, Giulio Minoletti, Giuseppe Pagano, Giancarlo Palanti, Giangiacomo Predaval e Giovanni Romano) e le “Quattro città satelliti” nella periferia milanese (con Piero Bottoni, Renato Camus, Ezio Cerutti, Franco Fabbri, Cesare e Maurizio Mazzocchi, Giulio Minoletti, Giancarlo Palanti, Mario Pucci e Aldo Putelli). L’influenza europea appare anche nella prima casa che Albini costruisce da solo: la villa Pestarini in piazza Tripoli a Milano (1938), diffusamente presentata da Pagano su “Casabella”. Alla fine degli anni Trenta, partecipa a due importanti concorsi per il quartiere romano dell’E42 (Esposizione Universale di Roma 1942): per il Palazzo della civiltà italiana nel 1938, con Gardella, Palanti e Romano, e per il Palazzo dell’acqua e della luce nel 1939, con Gardella, Minoletti, Palanti, Romano e lo scultore Lucio Fontana. Nel campo degli allestimenti, Albini, chiamato da Pagano, esordisce nel 1933 alla V Triennale di Milano, da allora terreno privilegiato di sperimentazione, progettando, in collaborazione con lo stesso Pagano e altri, la Casa a struttura d’acciaio di cui con Palanti cura l’arredamento; alla successiva Triennale del 1936, segnata dall’improvvisa scomparsa di Persico, si consolida il gruppo di giovani progettisti che Pagano aveva riunito nella precedente edizione del 1933 (Franco Albini, Renato Camus, Giancarlo Palanti, Giuseppe Mazzoleni e Giulio Minoletti), al quale si aggiungono Paolo Clausetti, Gabriele Mucchi, Giovanni Romano e Ignazio Gardella. Insieme ordinano la Mostra dell’abitazione, all’interno della quale Albini presenta l’arredamento di tre alloggi tipici. Albini e Romano, inoltre, allestiscono la Mostra dell’antica oreficeria italiana commissionata da Antonio Morassi, direttore della Pinacoteca di Brera. Alla medesima Triennale Albini progetta la Stanza per un uomo in cui, utilizzando filiformi geometrie, affronta il tema dell’Existenzminimum, con sottile ironia nei confronti del mito fascista dell’uomo sportivo.

Nel corso degli anni Trenta, gli allestimenti alla Triennale e i padiglioni temporanei alla Fiera di Milano e in altre manifestazioni fieristiche gli permettono di sperimentare nuove soluzioni. Da queste esperienza, all’inizio degli anni Quaranta, matura il duplice carattere della ricerca di Albini: da un lato la sperimentazione sul sistema espositivo prodotto in serie, e dall’altro le sue straordinarie invenzioni. La “Mostra di Scipione e dei disegni contemporanei” aperta a Milano, presso la Pinacoteca di Brera, nel marzo del 1941 è l’archetipo di soluzioni espositive per le opere d’arte, che saranno continuamente riprese e approfondite in seguito. Durante gli ultimi anni della guerra, il gruppo degli architetti razionalisti milanesi – Franco Albini, i BBPR (Gianluigi Banfi, Ludovico Belgiojoso, Enrico Peresutti ed Ernesto Nathan Rogers), Piero Bottoni, Ezio Cerutti, Ignazio Gardella, Gabriele Mucchi, Giancarlo Palanti, Mario Pucci e Aldo Putelli – formulano una proposta di piano regolatore, il piano AR (Architetti Riuniti), che affina le idee già espresse nella “Milano Verde”, proponendo un metodo per la ricostruzione. Il progetto viene presentato al concorso di idee per il piano regolatore, indetto dal Comune di Milano nell’ultimo scorcio del 1945 e pubblicato nel numero 194 di “Casabella Costruzioni”, rivista che Albini dirige insieme con Palanti nel corso del 1946. L’impegno civile di Albini si esplica in questo periodo con l’assunzione di incarichi istituzionali, a seguito del ruolo di affiancamento della Resistenza,in veste di fondatore e presidente del Movimento di studi per l’architettura (MSA), cenacolo nel 1945 degli architetti razionalisti. Nel dopoguerra la gamma degli interessi professionali di Albini si amplia anche in relazione alle opportunità offerte dalla ricostruzione, mentre lo studio si arricchisce di nuove competenze e sensibilità progettuali con l’associazione nel 1951 di Franca Helg. La ricerca sull’edilizia popolare prosegue col tentativo di articolare i corpi di fabbrica utilizzando un processo compositivo fondato sulla scomposizione e ricomposizione: ne sono esempi gli edifici del quartiere “Mangiagalli” per l’Istituto autonomo case popolari (IACP) di Milano (1950-52 con Ignazio Gardella), quelli per l’Istituto nazionale per le case degli impiegati statali (INCIS) a Vialba, Milano (1951-53) e la casa per impiegati della società del Grès a Colognola, Bergamo (1954-56). Tracce di questo procedimento si possono ugualmente rilevare in molti altri edifici, dall’Albergo-rifugio Pirovano a Cervinia (1948-52) al progetto della Villa Olivetti a Ivrea (1955-58). Esso risulta soprattutto evidente negli oggetti di arredamento come la poltroncina Adriana (prima versione del 1951), la sedia Luisa (1955) premiata con il Compasso d’Oro, e la poltrona Tre pezzi (1959). Albini condivide il rinnovato interesse per la tradizione – uno dei tempi portanti dell’architettura italiana del dopoguerra – assumendolo però nell’ambito di un metodo di lavoro che fa delle “regole” una necessità. La tradizione diviene così un filo rosso che collega interventi in ambienti e periodi diversi, quali

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Franco Albini Franco Albini est né en 1905 à Robbiate (province de Côme), où il a passé son enfance et une partie de sa jeunesse dans la maison paternelle. Après son installation à Milan avec sa famille, il s’inscrit à l’École Polytechnique où il obtient son diplôme d’architecte en 1929. Il commence à travailler dans l’atelier de Gio Ponti et Emilio Lancia. En 1931, il ouvre son premier atelier professionnel à Milan, via Panizza, avec Renato Camus et Giancarlo Palanti, et commence à s’occuper de logements sociaux : il participe au concours pour le quartier « Baracca » à Milan (1932), puis réalise dans la même ville les quartiers de l’Institut fasciste autonomo case popolari (IFACP) « Fabio Filzi » (1936-1938), « Gabriele d’Annunzio » (1938-1940) et « Ettore Ponti » (1939). Pendant les années qui précèdent la Deuxième Guerre mondiale et pendant la guerre elle-même, Franco Albini continue à mener des recherches sur de grands projets urbains qu’il développe avec la section milanaise du Congrès international d’architecture moderne (CIAM) : le projet « Milan Vert » (avec Ignazio Gardella, Giulio Minoletti, Giuseppe Pagano, Giancarlo Palanti, Gian Giacomo Predaval et Giovanni Romano) et celui des « Quatre villes satellites » dans la banlieue de Milan (avec Piero Bottoni, Renato Camus, Ezio Cerutti, Franco Fabbri, Cesare et Maurizio Mazzocchi, Giulio Minoletti, Giancarlo Palanti, Mario Pucci et Aldo Putelli). L’influence européenne se manifeste également dans la première habitation qu’Albini dessine seul : la Villa Pestarini, sise piazza Tripoli à Milan (1938), que Giuseppe Pagano présente en détails dans « Casabella ». À la fin des années Trente, il participe à deux concours importants pour le quartier romain de l’E42 (Exposition Universelle de Rome 1942) : le Palais de la civilisation italienne en 1938, avec Gardella, Palanti et Romano, et le Palais de l’eau et de la lumière en 1939, avec Gardella, Minoletti, Palanti, Romano et le sculpteur Lucio Fontana. En 1933, à l’appel de Giuseppe Pagano, Franco Albini conçoit ses premières installations à la V Triennale de Milan, qui deviendra dès lors un terrain d’expérimentation privilégié. En collaboration avec son mentor et d’autres collègues, il projette la Maison à structure d’acier, dont Giancarlo Palanti réalise la décoration. La Triennale de 1936, marquée par la disparition soudaine d’Edoardo Persico, permet au groupe de jeunes architectes que Pagano avait réunis pour l’édition de 1933 (Franco Albini, Renato Camus, Giancarlo Palanti, Giuseppe Mazzoleni et Giulio Minoletti, auxquels s’ajoutent Paolo Clausetti, Gabriele Mucchi, Giovanni Romano et Ignazio Gardella) de se souder davantage : de concert, ils organisent l’Exposition de l’habitation, dans le cadre de laquelle Albini présente la décoration de trois logements caractéristiques. Franco Albini et Giovanni Romano réalisent également l’aménagement de l’Exposition de l’Ancienne Orfèvrerie italienne, voulue par Antonio Morassi, le directeur de

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la Pinacothèque de Brera. Toujours à la Triennale de 1936, Albini projette la Chambre pour un homme, où il traite le thème de l’Existenzminimum en recourant à des géométries filiformes, et en manifestant ainsi une ironie subtile à l’égard du mythe fasciste de l’homme sportif. Dans les années Trente, ses installations à la Triennale et ses pavillons temporaires à la Foire de Milan et pour d’autres événements du même genre en Italie lui donnent la possibilité d’expérimenter de nouvelles solutions. C’est à partir de ces expériences que la double dimension de la recherche de Franco Albini prend forme au début des années Quarante : d’une part, ses expérimentations sur le système d’exposition produit en série ; d’autre part, ses inventions extraordinaires. L’« Exposition de Scipione et des dessins contemporains » qui s’ouvre à la Pinacothèque de Brera à Milan en mars 1941 constitue l’archétype des solutions d’exposition d’œuvres d’art qu’il reprendra et approfondira sans cesse par la suite. Pendant les dernières années de la guerre, le groupe des architectes rationalistes milanais – Franco Albini, les BBPR (Gianluigi Banfi, Ludovico Belgiojoso, Enrico Peresutti et Ernesto Nathan Rogers), Piero Bottoni, Ezio Cerutti, Ignazio Gardella, Gabriele Mucchi, Giancarlo Palanti, Mario Pucci et Aldo Putelli – développe un projet pour le plan régulateur baptisé « plan AR », où il affine des idées qui avaient déjà été exprimées dans le projet « Milan Vert », en proposant une méthode en vue de la reconstruction. Le « plan AR » – pour Architectes Réunis – est présenté au concours d’idées pour le plan régulateur organisé par la Ville de Milan à la fin de l’année 1945 et publié dans le numéro 194 de « Casabella Costruzioni », la revue que Franco Albini dirige avec Giancarlo Palanti pendant l’année 1946. Au cours de cette période, Albini exprime son engagement civil en remplissant une fonction institutionnelle, à la suite du rôle qu’il avait joué dans la Résistance, comme fondateur et président du Mouvement d’Études pour l’Architecture (MSA), le cénacle des architectes rationalistes en 1945. Dans l’après-guerre, la reconstruction lui offre maintes occasions d’élargir l’éventail de ses intérêts professionnels ; en même temps, son atelier s’enrichit de nouvelles compétences et de sensibilités nouvelles grâce à l’arrivée de Franca Helg en tant qu’associée en 1951. Franco Albini poursuit sa recherche sur les logements sociaux en s’employant à articuler les corps de bâtiment grâce à un processus fondé sur la décomposition et la recomposition : mentionnons les bâtiments du quartier « Mangiagalli » (en collaboration avec Ignazio Gardella) pour l’Institut autonome case popolari (IACP) de Milan en 19501952, l’immeuble destiné à l’Istituto nazionale per le case degli impiegati statali, (INCIS) à Vialba, à Milan, en 1951-1953, et l’immeuble pour les employés de la société du Grès à Colognola, à Bergame en 1954-1956. On trouve également des traces de cette méthode dans maintes autres architectures de Franco Albini, comme l’Hôtel-refuge Pirovano à Cervinia (1948-1952) et le projet


il già citato Albergo-rifugio Pirovano a Cervinia, che rivisita i modi costruttivi dell’architettura alpina valdostana, l’edificio per uffici INA (Istituto nazionale delle assicucurazioni) a Parma (1950-54), che allude nella tessitura della facciata agli esempi di architettura romanica della città e La Rinascente a Roma (1957-61), dove l’esibita forza della struttura di ferro e la corrugazione dinamica dei pannelli di tamponamento costituiscono un unicum che richiama sia la scansione del palazzi rinascimentali, sia l’andamento delle vicine mura aureliane. Albini lascia la sua impronta in poche città italiane, in particolare solo tardivamente Milano, la città dove lavora, che gli affida, insieme a Franca Helg e il grafico Bob Noorda, un incarico prestigioso: la sistemazione delle stazioni della linea 1 della Metropolitana Milanese (1962-1963). Ma la sua città di elezione è Genova, che gli offre l’opportunità di intervenire con continuità a varie scale: da quella urbanistica (piani particolareggiati per il quartiere degli Angeli, 1946, e di Piccapietra, 1950, redazione del piano regolatore generale nel 1948, sistemazione della valletta Cambiaso nel 1955), a quella edilizia (gli uffici comunali e soprattutto il rinnovo – per volontà di Caterina Marcenaro – dei musei comunali di Palazzo Bianco, 1949-51, di Palazzo Rosso, 1952-62, e la creazione del nuovo Museo del Tesoro di San Lorenzo, 1952-56). Tra il 1963 e il 1979 lo studio Albini-Helg progetta inoltre il restauro del convento di Sant’Agostino nella zona del centro storico, come nuovo museo archeologico lapideo. Dal 1962 lo studio Albini-Helg si avvale della collaborazione di Antonio Piva e dal 1965 di Marco Albini, assumendo nel 1975 la denominazione “ Studio di architettura Franco Albini, Franca Helg, Antonio Piva, Marco Albini”. Fra i progetti museali vanno ricordati anche quello per il museo greco-romano di Alessandria d’Egitto del 1965, mai ralizzato, e quello per la sistemazione del chiostro degli Eremitani come museo civico, realizzato a Padova tra il 1969 e il 1979. Nell’ultimo scorcio dell’attività di Albini si rileva una cristallizzazione del linguaggio in formule compositive già sperimentate, come nelle componenti strutturali del Museo di Sant’Agostino, nelle facciate delle terme “Luigi Zoja” a Salsomaggiore (1964-70) e, soprattutto negli uffici della Società nazionale metanodotti (SNAM) a San Donato Milanese (1969-74). L’attività di docente universitario di Albini si esplica in un arco temporale di quasi trent’anni. Nell’insegnamento Albini infonde gli stessi principi che sono alla base del suo lavoro di architetto: la necessità di un’analisi approfondita dei problemi, e di un continuo controllo e di una giustificazione delle proprie scelte, convinto com’era che non bisognasse trasmettere agli allievi il proprio “stile”. Dopo il trasferimento da Venezia a Milano, l’impatto con i problemi dell’insegnamento di massa, che rende difficile, se non impossibile, un rapporto diretto con gli studenti, lo metterà in difficoltà. Dopo un periodo segnato dai tentativi forzati di rinnovare la Facoltà per adeguarla alle richieste

degli studenti, maturano le condizioni che determineranno la sospensione dell’intero Consiglio di Facoltà dal 1971 al 1974. Albini muore nel 1977 a Milano. La critica più recente ha cercato di chiarire il ruolo che Albini (membro del Congrès international d’architecture moderne, dell’Istituto nazionale di urbanistica, dell’Accademia di San Luca e socio onorario dell’American Institute of Architects) ebbe nella cultura architettonica del dopoguerra. Certo, il suo essere così ostinatamente avaro di ragioni teoriche sul proprio lavoro, oltre che di ricordi e testimonianze sulle stagioni vissute, non ha facilitato il compito; la naturale riservatezza del personaggio, unita a un distacco per tutto ciò che non apparteneva alla concretezza del mestiere, hanno spinto a collocarlo in una posizione di relativo isolamento e defilata dal più acceso dibattito culturale. Tuttavia, l’apparente afasia di Albini non deve far dimenticare che sono le sue opere a costituire l’univo vero testo dimostrativo. La scarsità di documenti teorici, infatti, non nec essariamente comporta la rinuncia a individuare contenuti programmatici nel proprio lavoro. Peraltro, del valore dimostrativo della sua architettura lo stesso Albini era perfettamente conscio, tanto da affermare, nel corso di un dibattito sull’architettura italiana contemporanea tenutosi al Movimento Studi Architettura nell’estate del 1959: “per noi il valore didattico sta nelle opere, ed è più attraverso le nostre opere che diffondiamo delle idee piuttosto che attraverso noi stessi…”. Si delinea così il profilo di un Albini concretamente impegnato, anziché quello di un solitario, ritirato nel suo studio pur di attendere ai suoi interessi progettuali. Uomo di concreto impegno civile, Albini dunque, attraverso il continuo interrogarsi sulle ragioni profonde delle scelte progettuali, istituisce un metodo di insegnamento e di lavoro che ancora oggi può essere considerato attuale.

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de la Villa Olivetti à Ivrea (1955-1958). Mais c’est surtout dans les objets d’ameublement que ce processus est évident, comme dans le fauteuil Adriana (première version de 1951), la chaise Luisa (1955), qui recevra le Compasso d’Oro, et le fauteuil Tre pezzi (1959). Franco Albini participe au retour à la tradition qui voit le jour dans l’après-guerre – et qui devient même un des thèmes clé de l’architecture italienne de cette période –, mais en le replaçant à l’intérieur d’une méthode de travail où les « règles » s’imposent comme une nécessité. La tradition devient ainsi une sorte de fil conducteur reliant des créations réalisées à des périodes et dans des lieux différents, comme l’Hôtel-refuge Pirovano à Cervinia, qui réinterprète et revisite les modalités de construction de l’architecture alpine du Val d’Aoste, l’immeuble de bureaux de l’INA (Istituto Nazionale Assicurazioni) à Parme (1950-1954), dont le « tissage » de la façade évoque les architectures romanes de la ville, et les grands magasins La Rinascente de Rome (19571961), où la force manifeste de la structure en fer et le plissement dynamique des panneaux sandwiches constituent un unicum évoquant à la fois les palais de la Renaissance et les murs romains de l’empereur Aurélien qui s’élèvent à proximité. Franco Albini ne laissera son empreinte que dans quelques villes italiennes, et seulement tardivement à Milan, qui est pourtant la ville où il travaille, quand la municipalité lui confie un chantier prestigieux en collaboration avec Franca Helg et le graphiste Bob Noorda : l’aménagement des stations de la ligne 1 du Métro de Milan (1962-1963). Mais sa véritable ville d’élection est Gênes, qui lui offre la possibilité d’intervenir de manière régulière et à des échelles différentes : au niveau de l’urbanisme (mentionnons les plans détaillés du quartier degli Angeli en 1946 et du quartier de Piccapietra en 1950, la conception du plan régulateur général de 1948 et la rénovation de la Valletta Cambiaso en 1955) ; au niveau du bâtiment (les bureaux de la Ville et surtout le réaménagement, à la demande de Caterina Marcenaro, des musées de la Ville : le Palazzo Bianco en 1949-1951, le Palazzo Rosso en 1952-1962, sans oublier la création du nouveau Musée du Trésor de San Lorenzo en 19521956). Entre 1963 et 1979, l’atelier Albini-Helg projette aussi la restauration du couvent Sant’Agostino dans le centre historique et sa transformation en musée archéologique lapidaire. À partir de 1962, l’atelier Albini-Helg va bénéficier de la collaboration d’Antonio Piva, puis de Marco Albini à partir de 1965 : il prend dès lors le nom d’« Atelier d’architecture Franco Albini, Franca Helg, Antonio Piva, Marco Albini ». Parmi les projets muséaux, rappelons aussi celui pour le musée gréco-romain d’Alexandrie (1965), qui ne verra jamais le jour, et la transformation du cloître des Érémitiques de Padoue en musée municipal, réalisée entre 1969 et 1979. Pendant la dernière période de son activité, le langage de Franco Albini se cristallise dans des formules de composition qu’il avait déjà expérimentées dans le passé, comme dans les éléments structurels du

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Musée Sant’Agostino, les façades des thermes « Luigi Zoja » à Salsomaggiore (1964-1970), et surtout les bureaux de la Société Nationale des Méthanoducs (SNAM) à San Donato Milanese (1969-1974). À l’université, où il est professeur pendant presque trente ans, Franco Albini fonde son enseignement sur les principes qui sont à la base de son travail d’architecte : convaincu qu’il ne faut pas transmettre son propre « style » aux étudiants, il les encourage à analyser les problèmes de manière approfondie, à exercer un contrôle permanent et à justifier leurs choix. Après son départ de Venise et son installation à Milan, il se trouve toutefois en difficulté quand il doit affronter les problèmes liés à l’enseignement de masse, qui rend difficile, sinon impossible, un rapport direct avec les étudiants. Au terme d’une période marquée par des tentatives forcées pour moderniser l’université afin de l’adapter aux demandes des étudiants, la situation impose la suspension de l’ensemble du conseil de faculté de 1971 à 1974. Franco Albini meurt à Milan en 1977. La critique a essayé récemment de préciser le rôle joué par Franco Albini – membre du Congrès international d’architecture moderne, de l’Institut national d’urbanisme, de l’Académie de San Luca et membre honoraire de l’American Institute of Research – dans la culture architecturale de l’après-guerre. Le fait qu’il ait été si obstinément avare de justifications théoriques sur son travail et qu’il n’ait guère laissé de souvenirs ou de témoignages sur les périodes historiques où il a vécu, n’a pas rendu cette tâche aisée. En raison de son caractère naturellement réservé, allié à une forme de détachement pour tout ce qui n’appartenait pas à l’aspect concret de son métier, la critique a été amenée à le ranger dans une position d’isolement relatif, à l’écart du débat culturel le plus vivant de son temps. Son aphasie apparente ne doit toutefois pas nous faire oublier que ce sont ses œuvres qui constituent son seul véritable texte démonstratif. En effet, la rareté de ses documents théoriques n’implique pas nécessairement qu’il ait renoncé à définir les contenus programmatiques de son travail. Franco Albini était d’ailleurs lui-même parfaitement conscient de la valeur démonstrative de son architecture : n’affirmait-il pas, au cours d’un débat sur l’architecture italienne contemporaine organisé par le Mouvement d’Études pour l’Architecture au cours de l’été 1959 : « Pour nous, la valeur didactique réside dans les œuvres, et c’est davantage à travers nos œuvres qu’à travers nous-mêmes que nous diffusons des idées […] » ? Franco Albini était bien une personnalité concrètement engagée, et non pas un solitaire qui se serait retiré dans son atelier pour s’y consacrer à ses projets architecturaux. C’était un homme qui s’était voué concrètement à un engagement civil, qui s’interrogeait continuellement sur les raisons profondes de ses choix architecturaux, et c’est cela qui lui a permis de fonder une méthode de travail et d’enseignement qui est encore actuelle aujourd’hui.


Giampiero Bosoni, architetto, storico del design e dell’architettura, professore ordinario (Full Professor) in Architettura degli Interni al Politecnico di Milano. Dal 1982 al 1994 è redattore della rivista “Rassegna”, diretta da Vittorio Gregotti. Nel 1996 ha costituito la Collezione permanente del Museo del Design della Triennale di Milano. Nel 2007 cura insieme a Guy Cogeval (attuale Presidente del Musée d’Orsay) la mostra “Il Modo Italiano” (Fine Arts Museum, Montréal; Royal Ontario Museum, Toronto; MART, Rovereto). È stato invitato dal MoMA di New York a curare il libro di presentazione della loro sezione italiana del design. Sui temi del design e dell’architettura degli interni, ha scritto e curato diversi libri (di cui tre su Franco Albini) e realizzato più di 200 articoli. Fa parte dei Comitati scientifici della Fondazione Franco Albini e dell’Associazione degli storici del Design italiano. Marco Albini, si laurea in Architettura nel 1965 e inizia a collaborare con lo studio Franco Albini e Franca Helg. Nel 1978 forma lo studio Marco Albini, Franca Helg e Antonio Piva e dal 2004 lo Studio Albini Associati – Marco Albini e Francesco Albini – con sede a Milano. È professore di ruolo del Politecnico di Milano, Facoltà di Architettura, e visiting professor presso il New York Institute of Technology e la Washington University St. Louis Missouri. Dal 2007 presiede con Paola Albini alla gestione e alle varie attività culturali e scientifiche della Fondazione Franco Albini. Beppe Finessi, architetto, PhD. Svolge attività didattica (Professore associato alla Scuola del Design del Politecnico di Milano), critica (redattore di “Abitare” 1996-2007) e di ricerca (curatela mostre e pubblicazioni sull’opera dei grandi maestri del design italiano, come Bruno Munari, Angelo Mangiarotti, Vico Magistretti, Alessandro Mendini et Pio Manzù, e sui nuovi protagonisti di oggi, come Giovanni Levanti, Paolo Ulian, Giulio Iacchetti, Fabio Novembre e JoeVelluto). Dal 2010 dirige “Inventario”, progetto editoriale che vince il premio Compasso d’Oro 2014. Ha curato “Il design Italiano oltre le crisi”, settima edizione del Triennale Design Museum (2014-15). Carlo Olmo professore ordinario di storia dell’architettura al Politecnico di Torino dal 1975, ha insegnato anche a Parigi, Boston, Londra, Barcellona. Ha pubblicato più di venti libri e trecento articoli. Fra gli ultimi suoi lavori, Architettura e Novecento (Donzelli 2010), tradotto in inglese, Architettura e Storia (Donzelli 2013), in corso di traduzione in inglese, e per lo stesso editore una monografia, in collaborazione con Susanna Caccia, su La microstoria della Vvilla Savoye di Le Corbusier.

Giampiero Bosoni est architecte, historien du design et de l’architecture et professeur d’Architecture d’intérieur à l’École Polytechnique de Milan. De 1982 à 1994, il a été rédacteur de la revue « Rassegna », dirigée par Vittorio Gregotti. En 1996, il a constitué la collection permanente du Musée du Design de la Triennale de Milan. En 2007, il a été commissaire avec Guy Cogeval de l’exposition « Il Modo Italiano », présentée au Musée des BeauxArts de Montréal, puis au Royal Ontario Museum de Toronto et au Museo d’Arte Moderna e Contemporanea de Trento et Rovereto. Il a été invité par le Museum of Modern Art de New York à écrire le texte de présentation de la section italienne du design. Il a écrit et dirigé plusieurs ouvrages (dont trois sur Franco Albini) et publié plus de deux cents articles sur le design et l’architecture d’intérieur. Il est membre des comités scientifiques de la Fondation Franco Albini et de l’Association des historiens du design italien. Marco Albini a obtenu son diplôme d’architecte en 1965 et a commencé à collaborer avec l’atelier Franco Albini et Franca Helg. En 1978, il forme l’atelier Marco Albini, Franca Helg et Antonio Piva, et, à partir de 2004, l’Atelier Albini Associés – Marco Albini et Francesco Albini –, dont le siège est à Milan. Il est professeur à la faculté d’Architecture de l’École Polytechnique de Milan et visiting professor au New York Institute of Technology et à la Washington University St. Louis Missouri. Depuis 2007, il s’occupe avec Paola Albini de la gestion et des différentes activités culturelles et scientifiques de la Fondation Franco Albini. Beppe Finessi, architecte, PhD, est professeur à l’École de Design de l’École Polytechnique de Milan. De 1996 à 2007, il a été rédacteur de « Abitare ». Il a organisé des expositions et publié des ouvrages sur l’œuvre des grands maîtres du design italien, comme Bruno Munari, Angelo Mangiarotti, Vico Magistretti, Alessandro Mendini et Pio Manzù, ainsi que sur les nouveaux designers d’aujourd’hui, comme Giovanni Levanti, Paolo Ulian, Giulio Iacchetti, Fabio Novembre et JoeVelluto. Depuis 2010, il dirige « Inventario », un projet éditorial qui a remporté en 2014 le Compasso d’Oro. Parmi ses dernières interventions, il a été le curateur de « Le Design italien au-delà des crises », septième édition du Triennale Design Museum (2014-2015). Carlo Olmo est professeur d’Histoire de l’architecture à l’École Polytechnique de Turin depuis 1975 et a également enseigné à Paris, Boston, Londres et Barcelone. Il est l’auteur de plus de vingt livres et trois cents articles. Parmi ses derniers ouvrages, mentionnons Architettura e Novecento (Donzelli, 2010), traduit en anglais, Architettura e Storia (Donzelli, 2013), en cours de traduction en anglais, et, pour le même éditeur, une monographie en collaboration avec Susanna Caccia sur La microstoria della Villa Savoye (« La Micro histoire de la Villa Savoye ») de Le Corbusier.

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La Fondazione Franco Albini, con sede a Milano in via Telesio 13, è nata trent’anni anni dopo la morte dell’architetto per divulgarne la lezione di metodo, attraverso seminari, visite guidate, laboratori per bambini e spettacoli, come quello scritto e diretto da Paola Albini, “Il coraggio del proprio tempo”, messo in scena in varie città d’Italia. La Fondazione conserva l’intero archivio storico di Franco Albini, dichiarato nel 2002 di intersse nazionale: si tratta di oltre 6.000 fotografie, circa 20.000 disegni, 8 modelli, scritti, lettere, relazioni tecniche, libri e riviste appartenuti alla biblioteca dello Studio Albini, e alcuni celebri pezzi di design progettati dall’architetto italiano. La Fondazione Franco Albini, sise à Milan via Telesio 13, est née trente ans après la mort du grand architecte italien dans le but de diffuser sa leçon de méthode à travers des séminaires, des visites guidées, des ateliers pour enfants et des spectacles, comme celui qu’a écrit et dirigé Paola Albini, « Le courage de son temps », présenté dans plusieurs salles en Italie. La Fondation conserve les archives historiques de Franco Albini, déclarées d’intérêt national en 2002 : il s’agit de plus de 6 000 photographies, d’environ 20 000 dessins, de 8 maquettes ayant appartenu à la bibliothèque du Studio Albini, ainsi que d’objets de design célèbres, projetés par l’architecte.

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grafica/conception graphique Francesco Armitti / Solimena Nessuna parte di questo volume può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti e dell’editore. Aucune partie de cette publication ne peut être reproduite, archivée ou transmise sous quelque forme ou par quelque moyen que ce soit (électronique, mécanique, ou autre) sans l’autorisation écrite préalable de l’éditeur. © 2016 Fondazione Franco Albini © 2016 Istituto Italiano di Cultura de Paris


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