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Avvertenza premessa dall’autore alla prima edizione

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II La trappola

II La trappola

nimo dei singoli protagonisti: ecco la formula che l’autore escogita, con innegabile maestria, per creare il noir di stampo italiano.

Il cappello del prete è la felice realizzazione di questo “programma” letterario e sociale, consono al retroterra culturale cattolico dell’autore, ed ebbe, al tempo suo, un lusinghiero e meritato successo, che tutt’oggi non accenna a scemare. Anzi, la critica piú recente ne mette in risalto, con ragione, la freschezza, la costruzione semplice ma sapiente, la capacità di mantenere vivo l’interesse per gli sviluppi della vicenda, di rendere il lettore partecipe dei tormenti del protagonista ma anche di strappare qua e là un sorriso o magari una franca risata.

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Che sia, questo breve romanzo, il primo “giallo” italiano è affermazione corrente e che può condividersi. Che lo si possa ascrivere al piú ristretto e specifico genere noir è piú discutibile (dello stesso De Marchi, un altro libro, Redivivo, del 1894, meriterebbe forse di piú questa qualifica). Vi ostano, direi, quegli stessi elementi che ne assicurano l’innegabile godibilità. L’atmosfera in cui è ambientato, di una Napoli vista con occhi milanesi, forse un poco oleografica, ma viva e movimentata, il linguaggio prevalentemente misurato dei personaggi, quello stesso pudore espressivo che lascia trasparire il torbido senza mai scoperchiarlo (come non ripensare alla maestria manzoniana, cui il De Marchi non nega di ispirare il suo stile, compendiata nel famoso «La sventurata rispose»?), la sottile ironia con cui sono descritti i personaggi principali e, in fin dei conti, la scelta iconoclasta di un cappello, cui affidare il ruolo di deus ex machina che darà la svolta decisiva alla vicenda.

Perché, in effetti, i protagonisti del romanzo sono tre: un nobile squattrinato che, da vittima predestinata di una truffa, si trasforma nell’ideatore ed esecutore di un efferato delitto; uno squallido prete, usuraio e imbroglione, che paga a caro prezzo la sua cupidigia; e un cappello, che con la sua serafica inconsapevolezza di oggetto inanimato, scatena la sequenza di eventi, tormenti e contrastanti pulsioni che condurrà all’epilogo.

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C’è qualcosa, nel Cappello, che ricorda il Poe del Gatto nero, dove però la rivelazione giunge non da un oggetto ma da un animale; e c’è qualcosa del Cuore rivelatore, dello stesso Poe, e forse persino del dostoevskiano Delitto e castigo, nel tormento interiore che porterà l’assassino ad una delirante confessione, imposta assai piú dallo spirito (o dalla psiche) che dalla realtà. Il tutto, come dicevo, senza nessuna delle brumose e tetre atmosfere del Russo e dell’Americano, ma avvolto nella solare e rutilante atmosfera napoletana che fa da contrasto alle vicende che vi si dipanano e ne mette a suo modo in risalto la perversità.

Francesco Crisafulli

Questo non è un romanzo sperimentale, tutt’altro, ma un romanzo d’esperimento, e come tale vuol essere preso.

Due ragioni mossero l’autore a scriverlo. La prima, per provare se sia proprio necessario andare in Francia a prendere il romanzo detto d’appendice, con quel bel beneficio del senso morale e del senso comune che ognuno sa; o se invece, con un poco di buona volontà, non si possa provvedere da noi largamente e con piú giudizio ai semplici desiderî del gran pubblico. La seconda ragione fu per esperimentare quanto di vitale e di onesto e di logico esiste in questo gran pubblico cosí spesso calunniato e proclamato come una bestia vorace che si pasce solo di incongruenze, di sozzure, di carni ignude, e alla quale i giornali a centomila copie credono necessario di servire da truogolo. L’esperimento ha dimostrato già a quest’ora le due cose, cioè che anche da noi si saprebbe fare come gli altri, e col tempo forse molto meglio per noi; e poi che il signor pubblico è meno volgo di quel che l’interesse e l’ignoranza nostra s’ingegnano di fare. Pubblicato in due giornali d’indole diversa, in due città poste quasi agli estremi d’Italia – nell’“Italia” di Milano e nel “Corriere” di Napoli – questo Cappello del prete, senza nessuna delle solite basse transazioni, ma col semplice aiuto dei comuni artifici d’invenzione e di richiamo, ha ottenuto piú di quanto l’autore pensasse di ottenere. I signori centomila hanno letto di buona voglia e, da quel che si dice, si sono anche commossi e divertiti. Dal canto suo l’autore, entrato in comunicazione di spirito col gran pubblico, si è sentito piú di una volta attratto dalla forza potente che emana dalla moltitudine; e piú d’una volta si è chiesto in cuor suo se non hanno torto gli scrittori italiani di non servirsi piú che non facciano di questa forza naturale per rinvigorire la tisica costituzione dell’arte nostra. Si è chiesto ancora se non sia cosa utile e patriottica giovarsi di questa forza viva che trascina i centomila al leggere, per suscitare

Avvertenza *

14 in mezzo a’ palpiti della curiosità qualche vivace idea di bellezza che aiuti a sollevare gli animi. L’arte è cosa divina; ma non è male di tanto in tanto scrivere anche per i lettori. Coi medesimi intenti Il cappello del prete si pubblica ora anche in volume.

Emilio De Marchi

* premessa dall’autore alla prima edizione in volume (1888).

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