Il Collirio #06

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“Come le ossa, le carni, gli intestini e i vasi sanguigni sono inviluppati in una pelle, che rende sopportabile la vista dell’uomo, così i moti e le passioni dell’anima vengono avvolti nella vanità: essa è la pelle dell’anima”.

In copertina: “Uomo con testa-nido” di Giacomo Moggioli

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Editoriale

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e riflessioni sulla buccia che ricopre elegantemente il nostro materiale organico ci conducono su due strade lontane, che percorrono i confini corporali tra il dentro e il fuori, tra la soggettività e l’oggettività che assumiamo in rapporto al mondo esterno. Garantire vita e individualità al proprio sé psichico, conservare intatta la propria pelle, prigione dell’ego e sottile velo che delimita le forme e i limiti fisici dell’essere umano. Concetti fondamentali, incastonati, come sempre, nel tortuoso percorso dello sviluppo individuale.”Perché mi scortichi?” chiese Marsia al dio Apollo mentre, appeso a un pino, scontava il pegno della sconfitta in una gara musicale contro la divinità. Si vince completamente un avversario quando si ha la sua pelle: il mito di Marsia rappresenta l’archetipo dell’involucro corporeo che garantisce l’individualità, il sè psichico che sussiste finchè la pelle ne garantisce l’unicità. C’è una generazione, figlia della post-modernità, che ha assorbito il concetto di pelle-involucro, l’ha spogliato di ogni essenza e significato e ne ha fatto uno stile di vita basato sulla superficialità. La tendenza è quella di accumlare personalità diverse, strati di cute modellati e appiccicati al proprio corpo seguendo impulsi di “sè” passeggeri. Il risultato è il soffocamento dell’individualità, la castrazione dell’interiorità, l’elogio alla pelle mera superficie espositiva; l’essenza, la straordinaria sensibilità con cui il nostro involucro si lascia attraversare dai sentimenti, passa in secondo piano, creando schiere di individui prigionieri della propria corazza, barriera contro l’empatia e gli agenti emozionali. La storia cambia, insieme al senso che diamo al mito e all’utilizzo che facciamo di noi stessi: le persone scuoiate, che lasciano che le vene pulsino e le viscere zampillino, che non hanno bisogno di strati di pelle extra che banalizzino la propria esistenza, purtroppo, sono rare e confinate nell’eterna ferita che questo meccanismo gli provoca.

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FILASTROCCA IN RIME MELANINICHE -RADICALE LIBERO-

Tutti sanno che per colpa della pelle Se ne senton delle belle! Tutti a dire neri e bianchi, ma non siete ancora stanchi? Orsù, io vi sfido all’equatore ad aver altro colore: senza tutta quella melanina si deformerebbero le ossicina. Vi chiederete il perché, bene, lo spiegherò a tutti e tre: In quella terra soleggiata, arsa e viva sulla pelle c’è troppa vitamina D che arriva, il calcio nelle ossa dunque è in netto rialzo cosicché le stesse ossa hanno un sobbalzo! E allora cosa inventa il corpo umano Che da una vita ci dà una mano? Dove il sole è sempre tanto che sulla pelle la vitamina va impazzando crea allora una nera e splendida corazza che quindi stupidamente chiamate razza, così dai raggi almeno si è protetti e si continua a camminare ancora eretti. Dove invece il sole è poco, come nel regno del sultano dal tono roco, non arriva tutta quella vitamina perché spesso, al posto del sole, c’è la nebbiolina. Questa filastrocca per bambini, farebbe bene anche a Salvini; con l’idea non più pazza che non si parli più di razza!

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c u lt u r e c u ta n e e La pelle è un involucro, segna la separazione tra un dentro – anatomico o intimo – e un fuori dalla superficie visibile dell’epidermide a tutto il resto del mondo che in una maniera o nell’altra vi entra in relazione. La pelle è un confine sottile come una pellicola e non è chiaro se essa ricada nell’ambito del privato o del pubblico, ma forse ad entrambi in base agli scenari: toccarla è stabilire un contatto che può essere formale, come quando la pelle delle mani si sfiora in una stretta di saluto; tenero, come le dita che accarezzano la guancia di un bambino; passionale, come le labbra che si baciano; violento, come le nocche di un pugno che affondano nello stomaco. La pelle è un involucro speciale, una sorta di imballaggio che non cela quasi nulla, è trasparente, ma non del tutto nitido, per cui a volte già solo lo sguardo posato sulla pelle può essere una forma di invadenza, se non una violazione. D’altro canto, mostrare la pelle significa rivelare una nudità e questa, a seconda dei popoli e delle epoche, riflette una condizione dalle molteplici interpretazioni: la nudità di un arto menomato esposto da un mendicante sul marciapiedi, la nudità libera di una minigonna in discoteca o quella schiava su una strada di periferia, la nudità sfoggiata di un bicipite muscoloso e quella negata da una tunica integrale, quella minacciata dal ricatto di un paparazzo e quella promessa da una veletta di pizzo. La pelle nuda è scandalo e ostentazione, copre ed esibisce. La pelle, cioè, è un vestito. In quanto abito, la pelle muta più frequentemente di quel che immaginiamo. Si rinnova biologicamente, ma cambia soprattutto nell’idea che ciascuno di noi ha di essa: come in un rito quotidiano, la pelle va lavata, idratata, massaggiata, la pelle va curata e mantenuta elastica, va alimentata e sgrassata, in certe occasioni va riscaldata o rinfrescata. La pelle cambia con le stagioni, dell’anno o della vita e, proprio come un abito, spesso “fa il monaco”, ovvero racconta – almeno ad uno primo sguardo, fuggevole e superficiale – una determinata individualità. La pelle, come nell’iconografia di San Bartolomeo nel «Giudizio Universale» di Michelangelo, è qualcosa che ci portiamo dietro come una giacca sul braccio: ne indossiamo diverse in rapporto a svariate occasioni. La pelle è come un tessuto di sartoria, lo scegliamo e lo tingiamo, lo adattiamo alla nostra corporatura e, quando non va più bene, lo cambiamo o lo copriamo con qualcos’altro come una maschera. Una seconda pelle, appunto. Per molto tempo, la pelle-tessuto è stata considerata un dato di natura, una sorta di bandiera identitaria individuale, immutabile. Nella seconda metà dell’Ottocento i primi antropologi e i funzionari di frontiera ne valutavano la gradazione sui corpi dei “selvaggi” o degli immigrati per mezzo di misuratori che avevano la stessa valenza scientifica dei campionari che oggi sfogliamo dai tappezzieri per scegliere il colore delle tende del salotto. Con il «nuancier de couleur de peau» veniva stabilito il pigmento dell’epidermide, così da permettere l’incasellamento dei “soggetti” in categorie specifiche,

come già gli spagnoli nei possedimenti coloniali al di là dell’Atlantico, quando a partire dal Settecento tentavano di ordinare le numerose possibilità di meticciato attraverso le «Pinturas de Castas» (o «Cuadros de mestizaje»), una sorta di inventari di tutti i possibili incroci tra “espanoles”, “negros”, indios”, “moriscos” e così via. Se non più il colore della pelle, le microscopiche pieghe delle dita continuano tuttora a mantenere in vita quell’idea dell’epidermide come “carta d’identità”. Le impronte digitali sono la nostra firma, pare che non ce ne siano due uguali in tutta l’umanità: come un codice a barre, quei piccoli solchi sui polpastrelli rivelano senza ombra di dubbio che io, proprio io, ho toccato quello specifico oggetto. Di per sé, questo non riferisce chi sono, cosa penso, cosa faccio, eppure, nel suo insieme, tutta la pelle del corpo può effettivamente raccontare una storia, la mia storia. In altre parole, la pelle è un libro, un’autobiografia: vi sono le cicatrici delle operazioni chirurgiche o quelle delle scarificazioni per il rito iniziatico del fiero popolo dei Neur del Sudan o per emulazione d’una rockstar statunitense come Marilyn Manson. La deformazione cutanea narra di battaglie e di medaglie al valore, come sfoggiano i propri segni sulla schiena gli iatmul della regione del Sepik, in Papua Nuova Guinea, o la ferita sul volto di Capitan Harlock, l’oscuro pirata spaziale d’un celebre manga di Leiji Matsumoto. Prima d’essere un libro, la pelle è tuttavia un quaderno su cui scrivere, come la pelle di Nagiko ne «I racconti del cuscino» di Peter Greenaway, dove la ricerca dell’estasi coincide con l’elaborazione d’una bella grafia sul corpo nudo della geisha. Questo quaderno, allora, tende ad assomigliare anche ad una tela dove dipingere. La decorazione dei tatuaggi, dal samoano «tatau», abbellisce, celebra, protegge, invita. Da quelli di Otzi, la “mummia del Similaun” risalente ad oltre cinquemila anni fa, ai tatuaggi sviluppati nell’antico Egitto e nell’antica Roma, dai segni impressi sulla propria pelle dai pellegrini nei santuari europei del medioevo ai cristiani copti che rimarcano la propria identità religiosa con una croce al centro della fronte, dai disegni dei carcerati (il tatuaggio era carattere delinquenziale per Lombroso) a quelli dei calciatori e delle star televisive. Ma la pelle raggiunge lo status di tela pittorica soprattutto tra le popolazioni dell’Oceania, come i Maori del monte Hagen, e presso i maestri giapponesi di quest’arte, come il leggendario Horiyoshi III. L’insieme di tutte queste accezioni fa sì che la pelle non è solo un abito da indossare o un testo da scrivere, ma è una vera e propria casa da abitare. E come ogni casa, racconta innanzitutto chi vi dimora. La pelle, cioè, è uno specchio: mi ci rifletto, anche quando non è la mia, ma è la pelle degli altri, per similitudine o per contrapposizione, per somiglianza o per distorsione.

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“Every human action gains in honour, in grace, in all true magnificence, by its regard to things that are to come. It is the far sight, the quiet and confident patience, that, above all other attributes, separate man from man, and near him to his Maker; and there is no action nor art, whose majesty we may not measure by this test. Therefore, when we build, let us think that we build for ever. Let it not be for present delight, nor for present use alone; let it be such work as our descendants will thank us for, and let us think, as we lay stone on stone, that a time is to come when those stones will be held sacred because our hands have touched them, and that men will say as they look upon the labour and wrought substance of them, ‘See! this our fathers did for us.’ For, indeed, the greatest glory of a building is not in its stones, nor in its gold. Its glory is in its Age, and in that deep sense of voicefulness, of stern watching, of mysterious sympathy, nay, even of approval or condemnation, which we feel in walls that have long been washed by the passing waves of humanity. It is in their lasting witness against men, in their quiet contrast with the transitional character of all things, in the strength which, through the lapse of seasons and times, and the decline and birth of dynasties, and the changing of the face of the earth, and of the limits of the sea, maintains its sculptured shapeliness for a time insuperable, connects forgotten and following ages with each other, and half constitutes the identity, as it concentrates the sympathy, of nations: it is in that golden stain of time, that we are to look for the real light, and colour, and preciousness of architecture; and it is not until a building has assumed this character, till it has been entrusted with the fame, and hallowed by the deeds of men, till its walls have been witnesses of suffering, and its pillars rise out of the shadows of death, that its existence, more lasting as it is than that of the natural objects of the world around it, can be gifted with even so much as these possess of language and of life.”

John Ruskin, The Seven Lamps of Architecture

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LENTI A CONTATTO igiene VISUALE

Lettera quasi scritta a un amico o, se volete, lettera scritta per un quasi amico

Caro Philippe, se la vita fosse stata tanto generosa da fare di me un aristocratico miliardario patito di arte, come te del resto, probabilmente sarei stato in grado di avvalermi di un linguaggio tanto forbito, appreso a Cambridge o Oxford o chissà dove, da poterti scrivere una lettera come questa. Ma questa è la tua storia, non la mia; ero un avanzo di galera, sommerso dai miei problemi e troppo autoreferenziale per potermi dedicare a chiunque altro al di fuori di me stesso. Ma poi, per volontà di non so bene chi, mi sono imbattuto in te: mi hai scelto, inspiegabilmente, tra tanti, senza nessuna ragione evidente, solo seguendo il tuo intuito, così, andando un po’ a pelle. Cercavi qualcuno che si occupasse di te, qualcuno che fosse in grado di provvedere a un tetraplegico, costretto su una sedia a rotelle dalla quale non si alzerà mai. Non avrei mai potuto o voluto essere io quel qualcuno. Tu lo sapevi, ma non ti è importato. Non la ragione, ma la pelle ha avuto la meglio. E per questo, amico mio, ti ringrazio. Ti sono grato per avermi insegnato che c’è chi, come te, segue con cieca ostinazione un richiamo che solo la pelle avverte, senza vacillare neanche per un secondo davanti a qualsivoglia pregiudizio, senza che il colore della mia di pelle potesse frapporsi tra te e quell’obiettivo, che ero io. Sarò stato per te quelle gambe che da solo non saresti stato in grado di muovere, ma tu per me sei stato gli occhi di chi vede molto di più e più lontano degli altri, mostrandomi ciò che sarebbe rimasto per me altrimenti sconosciuto e inesplorato. Infine, Philippe, ringrazio il tuo fiuto, il tuo istinto, la tua pelle per averci visto giusto e per averci regalato un’amicizia (o quasi) che ha permesso a entrambi di guardare al domani con la speranza e la fiducia che, ognuno per le sue ragioni, credevamo ormai perdute.

Tuo, Driss

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“Amare. È come accettare di farsi scorticare sapendo che in qualunque momento l’altra persona può andarsene via con la tua pelle”.

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provincia cronica LA PELLE PIÙ FORTE DELLA PAROLA

“La pelle, la finta pelle andrò a New York a lavorare o a studiare.”

occhi non vedono o l’olfatto non raccoglie stimolazione odorosa: il tatto è il senso per eccellenza, quello che devi interpretare spontaneamente, prima ancora di accedere a determinati linguaggi o codici. La semiotica della pelle è fatta di contatto, di percezioni che solo attraverso il proprio intimo possono essere decriptate; ed uno dei fini principali è incrociare altre pelli, è scatenare quelle pulsioni ed interazioni primordiali dove gli altri sensi hanno sì una funzione importante, ma declinano nel ruolo di attorispettatori. È curioso che nel dialetto delle zone in cui vivo, l’espressione (letteralmente italianizzata) “fare una pelle” sta ad indicare un rapporto sessuale: forza linguistica bruta, un cerchio che si chiude. La pelle ed il suo senso diventano un linguaggio comune, un dizionario che le parole hanno provato a decriptare con l’unico risultato di aggiungere espressioni figurate e tecnicismi; sono migliaia, molte più di quelle che l’umanità ed i suoi gesti necessitano. Nell’immediatezza primordiale, la rincorsa forzata alle sovrastrutture. Alla rinfusa, il testo contiene riferimenti a brani musicali di artisti italiani. No, non è necessario trovare un nesso.

È il vestito che indossiamo per tutta la vita, la corazza che porta orpelli, vezzi e ricordi dell’intera esistenza; un colore che demarca schieramenti sociali e conseguenti risvolti sanguinosi; una tela da adornare secondo il gusto proprio o i dettami della propria società. Non è un caso che l’aggettivo temporale più utilizzato in abbinamento a “pelle” sia “per sempre”. Ma quel termine così imperituro, abisso in cui sprofondare dalla deriva dei sensi, rappresenta una stonatura per chi vuole provare sulla pelle le esperienze, le avventure, chi crede che “ogni cicatrice è un autografo di Dio”. La forza della cute sta nella sua bivalenza, concreta sia sul piano letterale che su quello metaforico: da una parte abbiamo i tecnicismi scientifici che postulano l’enorme resistenza e flessibilità dei tessuti, dall’altra l’enorme corollario di espressioni figurate dominate dall’incipit “a pelle”, elogio alla spontaneità delle impressioni che ancora devono scavare nel profondo. L’organo che avvolge l’essere umano è anche sede del senso a tuttotondo, capace di percepire dove gli

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LA MASCHERA DI SPIDERMAN -the agronomist-

Ora che ci penso spiderman non dovrebbe essere super forte. Brutta abitudine quella di voler rendere tutto scientifico. Se pure il Dna di Peter Parker fosse stato ibridato con successo con quello del ragno, non avrebbe ottenuto la super forza degli artropodi. La forza degli artropodi come insetti e ragni deriva da quello che sostituisce sia il nostro scheletro che la nostra pelle: l’esoscheletro. Uno scheletro all’esterno si vedrebbe. Eppure è proprio dal sistema tegumentale che derivano molte notevoli doti degli insetti. La forza incredibile non è data da muscoli particolari, ma dalla grossa superficie di attacco che la parte interna del tegumento (o esoscheletro) offre alle fibre muscolari. Si pensi al salto della pulce, capace di balzare fino ad altezze duecento volte superiori alla lunghezza del suo corpo, o alla formica che solleva almeno tre volte il suo peso corporeo, saresti davvero forte Peter. Ovviamente uno sforzo del genere richiede una struttura dalla flessibilità e durezza notevoli. La presenza di un particolare polimero, la chitina, immerso in una matrice tannico-proteica, rende il corpo degli artropodi capace di performance uniche. Uno studio recente sostiene che abbia resistenza meccanica simile all’acciaio. Invece un’altra proteina, la resilina, conferisce l’elasticità, ed è presente nelle zampe di molti insetti saltatori. I fondamentali “sensi del ragno” sono anch’essi merito di organi che si

originano o fanno parte del tegumento. Le antenne percepiscono gli odori, le molecole volatili: fantastico spiderman con le antenne! Quindi cosa ci dovrebbe essere sotto la maschera? Che sembianze avrebbe il nostro eroe liberato dalla sua sintetica esuvia, dalle sue spoglie? Il prezzo da pagare è alto: la super forza non la ottieni con quella carnagione rosea! Se fossi un vero uomoragno, saresti un successo inestimabile per la scienza, ma probabilmente saresti considerato un mostro da quasi tutti, un abominio, un pericolo. Una nuova specie dalle capacità incredibili. Ma saresti emarginato, o ucciso molto probabilmente. Un uomo con l’esoscheletro, ovvero un insetto bipede con abilità di parola, non è che abbia molte chance da queste parti. Non sei disposto a pagare questo prezzo, nessuno lo è. La soluzione più semplice è tornare nella tua esuvia: riprenditi la tua vecchia pelle e nasconditi sotto strati biologici e sintetici, così come ti vogliono.

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CA-PELLE SISTIN A

Quando Michelangelo, nel Giudizio Universale all’interno della Cappella Sistina, dipinge San Bartolomeo con un oggetto contundente nella sua mano destra e con la propria pelle in quella sinistra, compie un’opera pittorica magistrale e non solo. Dietro questa immagine, perfetta a tal punto nelle forme, nei volumi e nelle composizioni da sembrare quasi scultorea e addirittura in movimento, si cela un significato allegoricometaforico di un’intensità che inonda lo spirito fideistico, superandolo, e si imprime nell’eternità con fare violento, oscillando tra il sacro e il profano. Più che in qualsiasi altra rappresentazione magistralmente eseguita,

come ad esempio quella di Marco d’Agrate (allievo di Leonardo) o quella di Tiepolo che, a Venezia, lo vede vittima impotente, il Bartolomeo che si poggia sulle ampollose nubi della Cappella Sistina rinasce da se stesso, discoprendosi tanto più forte e tenace, quanto la sua verità viene fuori. E non si può che alludere al fattore “verità” quando si parla di San Bartolomeo dato che, quando Cristo – per mezzo di Filippo – gli si presentò, non ebbe esitazione alcuna a definirlo “un Israelita in cui, davvero, non c’è falsità”. Era chiaro già da subito al Re dei Giudei quanto l’indole di Bartolomeo fosse autentica, rara e nobilmente Cristiana. Tanto che, l’immediata dichiarazione di fede (da parte del Santo

a seguito delle parole del Cristo), fu cosa spontanea e naturalmente figlia dell’ammirazione per quello che lui, da subito, considerò come il figlio di Dio. La singolare caratteristica di San Bartolomeo, quella dell’autentica “verità” che lo contraddistingue da qualunque altro, viene paradossalmente fuori, nell’iconografia che lo descrive, nel momento della sua morte. Nel morire scuoiato (così come la tradizione ce lo documenta), lui muore sì, ma lo fa autenticamente. Con “verità”. Perché, quando lo osserviamo spoglio addirittura della sua pelle (ovvero della parte necessaria ad ognuno per sopravvivere) lui, con fierezza e brutalità, ne sfoggia un’altra da cui

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sembra monumentalmente rinascere per rivendicare la sua vera Fede e devozione nei confronti dei suoi ideali (di fede e non), anche combattendo; e sembra che la mancanza dell’involucro terreno sia semplicemente una componente non necessaria alla sua mortalità e al suo spirito combattivo. Anzi, nel liberarsi da questa, non ci appare indebolito, ma ancor più vigoroso, autorevole e nerboruto. Come se non avesse più nulla da perdere e come se fosse ormai ancora più forte nella sua indiscutibile nuova materialità oggettiva, sempre avuta ma solo ora scoperta: combatte fino alla fine con autenticità, senza la sua pelle o addirittura con una nuova. Molto più forte, molto più ostinata, molto più “vera”.


i sudari di veronica Arles. Un incontro in un tempo indefinito tra due personalità enigmatiche ma opposte, due facce della stessa medaglia, indispensabili l’uno per l’altro. Ettore, fotomodello, la cui statuaria nudità può essere solo immaginata, ma si staglia bene nella mente del lettore più attento, grazie a particolari minimi, ma che si fanno ricordare, quali un laccio di cuoio infilato in un dente di tigre del Bengala, un feticcio indigeno portato al collo da cui egli non si separa mai. Veronica, fotografa personale del modello, donna ambiziosa, ossessiva, perfezionista…carnefice. Lo scrittore francese Michel Tournier ci pone dinanzi a due personaggi apparentemente comuni, ma che riveleranno tutti gli aspetti più intriganti della loro umanità. Una partenza dal vasto macrocosmo letterario con una seguente discesa che affonda nel particolare da trattare: il tema della pelle come sguardo poliedrico sull’essere umano; essa ne è copertura, maschera, prigione, medium di comunicazione con il mondo. L’idea stessa di abitare la pelle, prima ancora che un corpo, ha dato modo a molti autori di utilizzarla spesso unicamente in descrizioni involontarie o di renderlo un vero e proprio tema cardine di un’opera. Tournier lo sceglie come nucleo embrionale del suo racconto didascalico, una narrazione che quasi non ha bisogno di parole, un’evocazione continua di immagini, una sovrapposizione di iconosfera e logosfera. La volontà di catturare l’immobilità della pelle di Ettore nella sua pienezza, per creare sublimità, inizia ad essere per Veronica un’ossessione, al punto di arrivare a costringere il fotomodello a giorni di digiuno ed estenuante lavoro sotto flash elettronici e coppe riflettenti. Il ritratto di un’incantevole donna che è in realtà mostruosa esteta, attratta dall’abito più superficiale indossato dal soggetto, e che spinge la sua fotografia oltre l’oggetto reale, facendo sì che questa non sveli la bellezza del soggetto fotografato, ma la crei. Parole che si susseguono come fotografie, il saccheggio esteriore ed interiore di un uomo attraverso 22.239 scatti gelidi, mediante una trappola acchiappa-immagini. Un uomo fragile perché nudo dentro, scarnificato brutalmente. Eppure un uomo qualunque. Tournier, avido, innalza il livello del macabro, spingendo l’umanità del personaggio femminile alla ricerca di una fotografia “marmorea”, che ha come ideale perfetto il cadavere allo stato bruto. Proprio quel cadavere che permise ad Andrea Vesalio, nel secolo XVI, di osare per primo la disseccazione e dare origine all’anatomia e alla vivisezione, facendo precipitare gli artisti nei cimiteri per una nuova venerazione dello scorticato. Ed eccoci dinanzi ad una pelle-prigione, ecco come una superficie tanto fragile può rappresentare bene lo spirito stesso della persona, la pelle diviene muro, un confine esterno con il mondo, un tentativo di conservare i limiti del corpo e dell’Io. Ed ecco anche Ettore, l’uomo qualunque,

devastato, depredato, che cerca di scappare da questa prigione dorata, che fa della sua pelle l’ultimo baluardo della sua umanità. Poi l’epilogo, la donna che sperimenta, che soggioga l’uomo, che impugna lo scettro della propria potenza: la folle genialità arriva alla “fotografia diretta”, una serie di inquadrature effettuate senza macchina, ma realizzate attraverso l’uso di una tela di lino reso fotosensibile grazie al bromuro d’argento, poi avvolta intorno al fotomodello impregnato di sostanze chimiche (quali solfito di soda, metolo e borace). Un dipinto umano, un “cadavere nel sudario”. Tournier denuncia ed esalta al contempo la tela che si impadronisce di ciò che è più visibilmente umano, in questo caso la pelle di Ettore, e porta avanti una sua propria passione proponendoci un nuovo di tipo di fotografia: la dermografia, una spettrale mostra di un corpo riprodotto come fregio funebre, “una serie di pelli umane, si sarebbe detto, scorticate ed esibite come altrettanti trofei barbari”. Un vero e proprio obitorio d’arte, un climax di follia artistica che supera i limiti del concesso, intrecciata alla paura e al piacere ricercato della morte. La pelle come superficie corporea che diviene mezzo della superficialità commerciale, segregata in una folle compulsività che cerca a tutti i costi di ingabbiare l’estetica, il bello che si fa orrido, la fisicità che rincorre e s’intreccia alla vita e poi alla morte. In questa macabra danza del raccapricciante, in cui la pelle diviene dapprima oggetto di bramosia, poi di tortura, infine di possesso e morte, il narratore, sgomento, lascia il lettore nel dubbio ponendo l’ultima domanda a Veronica: “- Veronica, dov’è Ettore? - Ettore? Ma…eccolo. Ne ho fatto…questo. Che cosa volete di più?” Portava al collo, lei, un laccio di cuoio infilato nel dente della tigre del Bengala. “

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P E L L E R O S S A La Storia ci ha più volte dimostrato come l’uomo abbia l’intrinseca ed immotivata concezione di dover necessariamente migliorare la propria condizione a scapito di quella di un altro popolo, come se fosse legittimato a lasciarsi alle spalle una scia di morte per il proprio tornaconto. Molto rare sono infatti le vicende che vedono protagoniste due etnie diverse nel ruolo di interlocutrici, lasciando spazio a teatri di atrocità motivati solamente da una tonalità differente di pelle. Uccidere altri individui nel nome di una guerra, giusta o non giusta, è già di per sé poco dignitoso, ma ciò che più degrada l’animo umano è l’arroganza che spinge determinate persone ad andare in altri territori, quelli che gli indigeni chiamano casa, e rispondere alle loro istanze di pace e condivisione con illogiche barbarie. America del Nord, XVI secolo. La bulimia territoriale di un’Europa in espansione approda nel continente americano e, nonostante gli stranieri vengano accolti con sorprendente accondiscendenza dagli abitanti del luogo, optano per una colonizzazione di massa in cui il fine giustifica sempre il mezzo. Questo fu solo l’inizio di un percorso lungo quattro secoli in cui ai nativi americani vennero strappate terre, cultura e tradizioni, culminato nel 1800 con i frequenti scontri fra esercito delle colonie americane e indigeni delle tribù più propense a ribellarsi contro

l’oppositore, come i Sioux e i Cheyenne. Nonostante i pellerossa fossero ben disposti all’amalgamazione con i bianchi, infatti, furono dappertutto perseguitati e i superstiti confinati in riserve, dove avrebbero potuto mantenere i propri usi e costumi secondo patti stretti con il governo americano, che il più delle volte non onorò. Il punto più basso durante le guerre indiane fu toccato con il massacro di Sand Creek, durante il quale una milizia locale al comando di John Chivington, per lo più composta da militari ubriachi, aspettò che i guerrieri nativi uscissero

a caccia per entrare in un accampamento Cheyenne e successivamente stuprare un gran numero di donne e mettere in pratica un vero e proprio “tiro al bersaglio” con i bambini, mentre ai più anziani toccò la sorte peggiore, secondo la tradizione indigena: mutilati e decapitati, i loro spiriti furono costretti a vagare per l’eternità senza trovare pace. Da questo ultimo episodio cominciò quindi il celeberrimo rituale di rubare lo scalpo dei bianchi uccisi, per vendicare i propri avi. Ad una infinita lista di guerre si aggiunsero la deliberata decimazione dei bisonti,

fonte di sostentamento dei nativi nord-americani, la provocazione con sotterfugi di tribù rivali, secondo il più classico motto divide et impera, e la voluta contaminazione di malattie tramite oggetti infetti, spesso donati dai bianchi agli indiani, volti alla sistematica pulizia etnica, in aggiunta ad una campagna di sterilizzazione forzata. La conquista, la decimazione e la deportazione di migliaia di indigeni nelle riserve indiane costituirono le basi di una delle discriminazioni razziali su base etnica che affliggerà gli Stati Uniti d’America per tutto il corso del XX secolo. Qui, oggi, per commemorare questa cultura ormai quasi del tutto scomparsa, è stato istituito il Native American Heritage Month, un festival dedicato ai nativi nel mese di Novembre. Forse, però, trenta giorni non sono sufficienti per far rivivere una cultura e delle tradizioni strappate con la forza, né tantomeno per ridare ai pellerossa l’illusione di essere ancora padroni della propria terra, come secoli prima.

“I nostri guerrieri troppo lontani sulla pista del bisonte e quella musica distante diventò sempre più forte chiusi gli occhi per tre volte mi ritrovai ancora lì chiesi a mio nonno è solo un sogno mio nonno disse sì a volte i pesci cantano sul fondo del Sand Creek” [Fabrizio de Andrè – Fiume Sand Creek]

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LA NOSTRA PELLE Avete mai pensato che la storia di ognuno di noi resta scritta sulla nostra pelle? Quando veniamo al mondo, una tela morbida e vergine ci offre la possibilità di scrivere, decorare, lasciare dei segni che siano testimonianza tangibile di ciò che lungo il nostro percorso ci fa mutare. La nostra pelle è una corteccia protettiva che parla di ciò che contiene e, appena sotto di essa, si trova il libro, seguito più in fondo dal midollo e dalle radici. Da queste dipende l’inizio della nostra storia, da queste si sviluppa la forma degli anelli del midollo, sul quale crescerà il libro: un romanzo d’avventura, un manuale d’istruzioni, un testo sacro in cui sono scritte, una dopo l’altra, le vicende della nostra vita; aderendo a queste righe, la nostra pelle le protegge e ne assume la forma, rendendola visibile solo a coloro che sono in grado di leggere un po’ al di là di essa.

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“ I l s i l e n z i o a d e n t i s t r e t t i c a m m i n a , a p i e d i n u d i , l u n g o i s e n t i e r i ”.

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BRIVIDO MUSICALE Quando ascoltiamo la nostra musica preferita, il nostro cervello scarica dopamina, il neurotrasmettitore che ha a che vedere con il cibo, il sesso, le droghe e le dipendenze, insomma con i centri del piacere e della ricompensa. Nelle dinamiche neurocerebrali, tra l’ascoltare la musica e il nostro circuito dopaminergico ci sono affinità importanti, legate al rinforzo motivazionale e alla ricompensa. In particolare, non solo l’ascolto diretto, ma anche soltanto l’anticipazione dell’ascolto di un brano è sufficiente a scatenare il rilascio di dopamina. Così pure nel cibo: ad esempio, solo il pensiero di mangiare un buon piatto di pasta ci fa venire l’acquolina in bocca; rilascio di dopamina, ma, a condizione che quel piatto di pasta si consumi, altrimenti diventa solo una sadica frustrazione. Dunque il piacere è soggettivo e non misurabile se non attraverso effetti fisiologici: solitamente si fanno corrispondere tecniche di imaging all’aumento della frequenza cardiaca, alla respirazione, e alla temperatura corporea. Oppure nel nostro caso è possibile rilevare un altro effetto, il brivido musicale, “la pelle d’oca”, quella specie di fibrillazione cellulare che avvertiamo quando un brano ci fa quasi sciogliere di piacere. Anche quello ha una sua fisiologia e una sua misurabilità: è dimostrabile che non accade nulla, se la musica non è quella giusta. I risultati saranno sicuramente diversi per

ognuno. Nessun brivido, nessuna dopamina, se non è la nostra musica: silenzio emozionale. Spesso ciò che più ci ammalia nella musica è riconoscere i propri stati interiori, nell’espressione di altri, magari in una modalità in cui non eravamo in grado di esprimerli. L’origine del piacere nell’ascolto di un brano dunque rimanda ad altre dimensioni dell’esperienza personale che hanno a che

vedere con la specificità e la singolarità di ciascuno, probabilmente con qualche imprinting legato al primo ascolto, quel primo ascolto che ha saputo provocare particolari emozioni, sentimenti e sensazioni. Forse eravamo innamorati senza saperlo per esempio.

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Una cosa solo nostra, che accade solo a noi e non ad altri. Non in quel modo. Per lo stesso motivo per cui ci innamoriamo di una donna e non di un’altra. La musica è così. O no?


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cotton fioc igiene auricolare D’Angelo – Me And Those Dreamin’ Eyes of Mine Lou Reed Walk On The Wild Side Jimmy Edgar Physical Motion Minnie Riperton Inside My Love Serge Gainsbourg, Jane Brkin Je t’Aime Moi Non Plus Frank Zappa I Have Been In You Donna Summer I Feel Love Dee Alexander’s Exolution Ensemble Angel

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ANCHE L’ANIMA CAMBIA PELLE

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L ’ A b b r a c c i o

-oltre lo sguardo di medusa-

“Nessuna opera d’arte erotica è una porcheria, quand’è artisticamente rilevante, diventa una porcheria solo tramite l’osservatore, se costui è un porco.” (Egon Schiele) Egon Schiele, maestro indiscusso dell’Espressionismo austriaco, nasce a Vienna alla fine dell’800, un periodo in cui l’Europa intera è fortemente scossa da una profonda crisi esistenziale, crisi che punta a smuovere la passiva e rassegnata accettazione della condizione umana, mirando alla costruzione di un nuovo inizio per l’umanità, all’insegna del dubbio e dell’autonoma riflessione. Si assiste ad una sterzata vigorosa in direzione di un intenso dinamismo di pensiero e di azione, al fine di mettere in discussione quei dogmi e quelle certezze fino a quel momento unanimemente accettati. Di questo stato angosciante di precarietà, noto anche come “vuoto europeo”, Vienna, ormai prossima alla dissoluzione dell’Impero Asburgico, diventa il centro e la patria di un’arte violenta e irriverente, specchio di un’umanità frammentata e debilitata. Inevitabilmente, l’uomo comincia a porsi delle domande, intraprendendo un difficile e doloroso percorso di introspezione e autoriflessione, ed è proprio in questo scenario di incertezze e senso di frustrazione che si inserisce il nostro artista tormentato, che eleverà a vessilli della sua arte i temi antitetici dell’amore e della morte. In tutto questo discorso la pelle si afferma come medium d’elezione tra l’organismo e il mondo esterno, tra un io interiore tormentato e un bisogno irrefrenabile di contatto con l’altro, tant’è che Schiele cerca di far emergere ogni suo più intimo sentimento sulla superficie tagliente e spigolosa dei corpi distorti, frantumati e disarticolati di uomini e donne comuni, uniti da uno stesso misero e triste destino. Attraverso un’arte carica di emotività e il tratto indefinito e nervoso dei suoi disegni, l’artista riesce a far affiorare l’intero bagaglio dei turbamenti e delle passioni della vita, una vita in continua tensione tra l’impulso vitale (l’eros) e l’impulso di morte (thanatos); per il pittore, la morte è il completamento necessario della vita: “Tutto nella vita è morte”, e proprio consapevole di questo, l’uomo deve vivere spingendo al massimo ogni sua emozione, sperimentando sulla propria pelle l’intensità di una passione sconvolgente, ma pur sempre precaria. Le figure di corpi nudi, contorti e incisivi, in equilibrio tra carica erotica e tensione drammatica, esprimono il più delle volte la necessità di un contatto profondo in vista di un imminente e inevitabile distacco. “L’abbraccio” del 1917, è un esplicito esempio di incontro tra eros e thanatos, dove l’artista immortala l’abbraccio straziante di due amanti nel momento successivo all’atto sessuale; nella scena non c’è sesso, né amore, l’atto è già concluso, come mostrano gli sguardi divergenti delle due figure. L’attimo immortalato dall’artista mostra un intimo e forse ultimo contatto tra due corpi, che però è sinonimo di

un legame spirituale, più che corporale: l’abbraccio diventa simbolo di disperazione e tormento, più che di amore e passione. Alla base di tutto c’è un amaro senso di caducità che attanaglia la vita degli uomini, per il quale tutto ciò che ha un inizio è destinato tragicamente a finire, come lo stesso atto sessuale; in quest’opera l’idea di una imminente separazione è resa drammaticamente nel corpo in tensione dell’uomo, che pare lottare con tutte le sue forze per non sciogliersi dall’abbraccio con l’amata, e di contrasto, nella posa carica di rassegnazione della donna che tenta di consolarlo e rassicuralo. Schiele estremizza un intimo momento di contatto tra due corpi, dove ormai è scomparsa ogni traccia di sensualità, a voler rappresentare l’ultima opportunità di penetrare la corporeità e soprattutto la spiritualità dell’altro, in un disperato tentativo di portare con sé il ricordo di quel dolce attimo di consolazione, prima della dolorosa e definitiva separazione a cui sono destinati i due amanti.

Post coitum omne animal triste est

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QUELL’ODORE CHE CI STREGA Capelli biondi o mori, occhi neri oppure verdi. Seni, muscoli, e labbra carnose. Tutti canoni di bellezza che non fanno altro che condizionarci. Ciò nonostante, spesso a rapirci è una persona dai connotati del tutto opposti ai nostri gusti. Per quanto gli occhi possano essere continuamente stimolati, l’attrazione sessuale è infatti una questione di pelle. E Il segreto risiede nel suo odore. Un odore suscita emozioni, ricordi, associazioni che influenzano la ragione in un

modo del tutto irrazionale, almeno in apparenza. E nella seduzione gioca un ruolo fondamentale. La bellezza è relativa se c’è la cosiddetta chimica che si crea tra due persone, una sensazione legata all’essenza della pelle e, di conseguenza, al piacere che proviamo “sentendo” l’altro. Questo perché il nostro corpo emette delle sostanze biochimiche che producono segnali invisibili agli occhi, ma percepibili al livello olfattivo, che generano attrazione sessuale.

La nostra pelle infatti possiede una varietà unica di odori chiamati feromoni, cioè quelle sostanze prodotte dal corpo – in particolare dalla ghiandole sebacee – sotto la spinta di ormoni sessuali, testosterone ed estrogeni. Queste molecole, codificate dal sistema immunitario, si differenziano da individuo a individuo e hanno uno scopo ben preciso: favorire il riconoscimento “a naso” del partner più attraente. Un attrazione che peraltro aumenta con l’aumentare delle differenze

tra i sistemi immunitari. In termini evolutivi, infatti, la diversità predice il massimo successo riproduttivo, evitando la procreazione di individui geneticamente simili. Questo perché la donna raggiunge il suo picco di sensibilità nella fase ovulatoria, mentre gli uomini, durante l’ovulazione femminile, sono maggiormente attratti sia dall’odore che dal sapore di donna. Quindi un odore “coinvolgente” frutta molto di più di uno sguardo accattivante o provocatorio. Il tutto perché la natura umana è biologicamente predisposta a favorire il concepimento. Quella stramaledetta frase “gli opposti si attraggono” rischia così di assumere un senso e il connubio seduzione-odore diventa indispensabile. E, al di là della scienza che ce lo spiega in termini evolutivi – e quindi procreativi – l’odore della pelle prescinde dall’amore, dai sentimenti e dalle romanticherie. È semplicemente quel fattore scatenante che di istinto ci porta a mangiarci con gli occhi, e non solo.

“Oggi si soffre e si fa soffrire, si uccide e si muore, si compiono cose meravigliose e cose orrende, non già per salvare la propria anima, ma per salvare la propria pelle. Si crede di lottare e di soffrire per la propria anima, ma in realtà si lotta e si soffre per la propria pelle. Tutto il resto non conta”.

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IL MARE NEL CASSETTO Avevano appena fatto l’amore quando il suo sguardo cadde sulle loro mani intrecciate. Sussultò. Immediatamente lui le chiese cosa non andasse: era in grado di cogliere i suoi sbalzi d’umore sempre, al di là del silenzio, nonostante l’estasi di quei momenti. Non seppe cosa dire. D’improvviso, pensò alla distanza che può separare due continenti, due civiltà, due fedi… Era pronta a colmare quel vuoto? E se si fosse persa? Si interruppe nuovamente: cosa diavolo stava dicendo? In quanti erano ancora disposti a giudicare un individuo in virtù delle sue origini? La globalizzazione aveva reso fumose barriere ritenute granitiche per secoli. Le differenze esistevano e sempre sarebbero esistite Per quel poco che le interessava, Dio avrebbe potuto chiamarsi Allah o JHWH. Sorrise all’idea di quanto in fondo fosse semplice concepire il mare che li separava come un ponte piuttosto che un fossato. Per un attimo, immaginò che l’acqua fosse di mille colori diversi, tante quante erano le combinazioni possibili… Ma tutte quelle a cui era in grado di pensare in quel momento erano di gran lunga meno colorate e brillanti del bianco e del nero dei loro corpi. Lo baciò. Lo guardò e lo baciò, e non poté fare a meno di pensare che la sua pelle fosse bellissima.

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G E S T A Z I O N E CAPITOLO SESTO I La prima volta che la vide nuda gli venne voglia di dipingerla. Giacomo non era un pittore, e nemmeno un talento nel disegno, anzi l’attribuzione che più gli si confà nell’ambito è più-che-negato, eppure non appena il suo sguardo si posò delicatamente su quel corpo nudo, ebbe come uno strano impulso, come guidato dalla bellezza. In un attimo, percorse tutti i sentieri che l’ombra lieve solcava in quella pelle d’alabastro; la vide al centro del letto, lo stava attendendo, con una malizia dolce e allo stesso tempo pudica, che zampillava da quegli occhi grandi come perle grezze d’Australia, incastonate tra gli zigomi, alti e sensuali, e la frangetta nera del liscissimo caschetto, che disegnava una linea retta in perfetta proporzione con la porzione di fronte che lasciava scoperta, linea che però, in quel momento, stesa su di un fianco, con la testa reclinata dall’altro, diventava spezzata tra i cuscini rossi che si ammucchiavano sotto di lei. Una maja, anzi Maria. In quell’attimo desiderò di dipingerla, ma l’attimo dopo le era già saltato addosso, dimenticandosi delle sue velleitarie pretese artistiche e concentrandosi sulle più attuali e impellenti vocazioni amatorie. Entrambi parsero subito più che rispettosi del galateo dei preliminari, di quello più lento e umido, biglietto prima classe delle più vertiginose montagne russe orgasmiche che di lì a un numero-speculare-che-li-capovolgeva dopo, li avrebbe definitivamente travolti nell’estasi elettrica e nelle invocazioni divine. Giacomo esplorava tutti i centimetri epidermici di Maria, dalle orecchie alle caviglia, a volte con carezze, altre con violenza, alternando i morsi alla lingua, mentre Maria gli si appendeva alle spalle o tentava di strappargli i capelli biondi, che però a quanto pare erano proprio troppo corti per essere strappati. “Wow” Sospiro, riprendiamo fiato. Giacomo chiuse gli occhi per raccogliere un po’ di forza e quelle briciole di piacere che ancora gli circolavano nel sangue. “È stato fantastico”, disse dopo qualche secondo. Adesso era lei che si era persa in qualche allucinazione. Lo baciò due volte sul collo ad occhi chiusi prima di parlare: “Già, è stato fantastico”. Maria si era messa di fianco in modo da poter poggiare il capo sul suo torace ancora madido di sudore. Giacomo si inebriò ancora una volta del suo odore, quello che per tutta l’ora precedente era stata la sua benzina eccitante ed un brivido gli percorse la schiena, e qualcos’altro. “L’hai ordinato poi il libro?”, fece Maria che per un attimo fu di nuova percorsa dall’eccitazione. Si erano conosciuti in una Feltrinelli di Roma, mentre reclamavano entrambi indignati la disponibilità di un libro di cui era appena uscita una recensione online, in occasione di qualche anniversario o in conseguenza di una riscoperta di qualche intellettualoide, fatto sta che entrambi l’avevano beccata. Naturalmente in libreria non era disponibile, perché ovviamente era un libro stampato chissà quanto tempo fa, chissà quante poche edizioni… di cui però si conservava qualche copia, inspiegabilmente ci tenne a precisare l’addetto, solo a Genova. “Il libro? Ah, il libro!”. Giacomo si risvegliò dall’oblio estemporaneo che gli aveva provocato il suo odore. “No, non l’ho ancora ordinato.” “Non lo vuoi più? Lo sai che il mio non te lo presto.” Maria era appassionata dei libri, eppure piuttosto gelosa. “È un pamphlet di settanta pagine, quasi quasi me lo leggo un attimo…”, facendo la mossa di prenderlo a tentoni sullo scaffale a cui comunque, neanche per scherzo, sarebbe arrivato. “Che coglione…”, disse lei ridendo.

“Ma porca puttana, sei proprio una stronza!” L’incedere della notte stava per cancellare definitivamente i rumori diurni, lasciando spazio agli ultimi signori che scendevano sconsolati e assonnati dai propri appartamenti per portare gli amici canini a spasso per l’ultimo giro di bisogni. Proprio appena prima che i pusher e le puttane (e i rispettivi clienti) si riappropriassero della notte. “Non ci posso credere, sei un’egoista di merda!” Giacomo era un torrente di rabbia. Ma alla notte non pareva che gliene fregasse più di tanto. Le poche stelle che si riuscivano a intravedere, a causa della cortina di smog perenne, continuavano a restare immobili e ad incorniciare una fresca notte di mezza estate. Una domenica di Luglio per la precisione. Due giorno dopo Giacomo si sarebbe laureato. “Vaffanculo! Vaffanculo brutta troia!”

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Il silenzio era chiaramente il sultano di quella notte, ma Giacomo non smetteva di attentare alla sua autorità con improperi che lo squarciavano ad intermittenza, lasciando a Maria il tempo di assimilare (o di ignorare: Giacomo non l’aveva ancora capito) quegli insulti volgari che gli salivano dalla pancia. “Porca puttana! Dopodomani mi laureo e tu invece vuoi giocare a fare la comunista? Tu e quei cortei del cazzo. Le bandiere, gli striscioni… ma vai a cagare! Ma lo sai che cazzo è il rispetto?” “Tu non capisci…”. Maria ruppe momentaneamente l’alleanza che evidentemente aveva stretto in segreto col silenzio, ma la sua uscita non ebbe ripercussioni, se non quella non del tutto trascurabile di far scoppiare definitivamente Giacomo, il quale trovò quindi il coraggio per ammetterlo a sé stesso. “Ah, io non capisco?”, il tono di Giacomo si faceva d’un tratto sornione e insinuante. “Io capisco benissimo invece. Pensi che non lo sappia? Pensi che non abbia capito?”. Pausa, eccolo: “Io ho capito benissimo perché stai facendo tutte ‘ste manfrine, tutta ‘sta roba da comunista. È colpa di quello stronzetto impertinente. Quel francesino di merda che…” “Sei proprio un deficiente!” fece Maria, non prima di lasciargli stampato in faccia una bella cinquina rossa. L’attimo dopo, Maria si era già dileguata con l’aiuto del suo prezioso e meschino alleato. Giacomo rimase da solo con la sua rabbia, complice privilegiata del suo annebbiamento. Urlò al cielo con tutti i polmoni ma si rese conto di non poter vincere. La rabbia era oramai già sulla via della frustrazione. E il silenzio era calato nuovamente sulla notte.

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S O T T O P E L L E IN ORDINE DI APPARIZIONE:

HANNO ILLUSTRATO PER NOI: 3-5 4 7 9 11 12 13 14-28 15 16 17 19 20-21 22 23 25 29 30 31

Natale De Gregorio Editoriale Antonio De Simone [Radicale Libero] Filastrocca Giovanni Gugg Culture Cutanee Giandomenico Piccolo Provincia Cronica Pientrantonio Ferrara [The Agronomist] La maschera di Spiderman

Luca Cantone D’Amore Ca-pelle Sistina

Dezurni Krivac Gianni Bardi Massimiliano Boz Matheus Cartocci Valentina Tassalini Saudade Elisa Cartocci Giulia Begal Anarela Teo Sandigliano Van Mile Gaia Cairo Pietro Puccio Manuel Di Pinto Giovanni Esposito Davide Gramatica Francesco Miccio Antonio Maresca Claudia Tail COPERTINA/BACK COVER: Giacomo Moggioli Alessandro Vullo

Marta Giordano I Sudari di Veronica

E S T R A T T O B Y : Irene Sarlo Pincopallino

Marco Bravi Pellerossa Davide Prestigiacomo La nostra pelle

I G E N E A U R I C O L A R E B Y: Zac Teo Sandigliano

Emilio Fiorentino Brivido Musicale

IGENE VISUALE BY: Federica Salini Federica Iaccio

Raffaella Ferraro [Oltre lo sguardo di Medusa] L’abbraccio 24 26 32

Mariarosasia Mazzacane Quell’odore che ci strega Anonimo Il mare nel cassetto

I N S E R T I F OTO G R A F I C I: Lucyna Kolendo Antoine Mambrini Lu Punto CAPITOLO SESTO: Gianfilippo Liguoro

PER COLLABORARE CON NOI: ASS.EFFETTOPLACEBO@GMAIL.COM FACEBOOK: EFFETTO PLACEBO

© 2015 [Effetto Placebo]

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