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RACCONTI - CELLA SENZA CESSO
di Eleonora Sarti
Mi sono svegliata presto, stamattina. Un’emicrania insopportabile mi martella le cervella, le grida della Vanessa rimbombano nel corridoio. Ho smesso di urlarle contro, ormai. I suoi incubi sono peggiori dei miei. Sono ancora le cinque. Accendo una sigaretta e mi sporgo sulla finestrella per ammirare il cielo crepuscolare. Collezionare albe, ecco un’altra cosa che ho iniziato a fare una volta arrivata qui. Il sonno è un ricordo lontano. Poi rifaccio il letto e urlo al secondino di turno di avvicinarsi. “Buongiorno cara”- Dio, quanto odio quella voce cantilenante. “Buongiorno a te. Ce li hai?” Un ghigno prepotente si palesa sul suo volto. Molto lentamente, troppo lentamen- te, tira fuori i due pacchetti di Lucky Strike che gli avevo chiesto e me li allunga tramite la fessura sudicia della porta. “Ci si vede”, sogghigna, poi scompare nella penombra del corridoio fetido. Tiro un sospiro di sollievo e mi butto sul letto. Da due mesi ormai questa cella è tutto il mio universo. Mi ci hanno spedito dopo un anno nella popolazione generale, con tanto di allungamento punitivo della pena. “Ehi”, l’inconfondibile voce della Patrizia mi arriva come un sussurro dal condotto che unisce le nostre celle. Non le rispondo. Non ho voglia di parlare. Sono giorni che non ho voglia di fare niente, che mi crogiolo nella mia stessa rovina. Nonostan- te tutto, non ho mai smesso di scrivere in questo diario, che aggiorno continua- mente sperando di non diventare pazza in questo seminterrato putrido, dove la luce naturale è poca e le grida di follia sono troppe. Le pareti di questa cella sono sinistramente incrostate di sangue e lacrime. Non solo mie. La Vanessa una volta mi disse che qualcuno in passato si impiccò pro- prio qui. Di solito non credo ai vaneggiamenti della vecchia schizofrenica, ma più passa il tempo più mi rendo conto che chiunque, dopo mesi di psicofarmaci e soli- tudine, potrebbe arrivare a fare una cosa simile. Non la Vanessa, però, nonostante sia qui da anni. Probabilmente ha fatto amicizia coi fantasmi che si aggirano da queste parti o, più realisticamente, con le voci nella sua testa. Mi volgo verso le fotografie che tengo appese vicino al letto. Gli occhi mi si riem- piono di lacrime, i nervi di rabbia. Fisso il suo volto sorridente. Non so quando potrò rivederla, baciare quelle labbra così dolci. Mi hanno derubato della mia giovinezza - questo il pensiero che mi perseguita ogni volta che getto gli occhi su quelle foto di una vita che ormai non mi appartiene più. Il tempo si è fermato. Il futuro non esiste. Il passato mi perseguita nei sogni che faccio. Perciò ho smesso di dormire. A volte ascolto la Patrizia pregare, alla sera. Spesso poi piange. Il carcere è una terra senza Dio. I nostri peccati non saranno espiati. Dio si cura soltanto dei suoi figli prodighi. Noi siamo solo bastardi. Questo è un inferno apatico, agonizzante. Come nel limbo dantesco, noi pagani viviamo in una stasi apparentemente senza fine, nel desiderio ardente ma vano di raggiungere il nostro, di Dio: la Libertà. Accendo un’altra sigaretta e mi sforzo di leggere il retro copertina di un libro lasciatomi dalla mia ex compagna di cella, Susanna, una vecchietta arzilla finita sotto chiave a vita per aver ucciso a colpi di rivoltella il marito violento. Adesso è morta. L’ha raggiunto all’inferno. Urlano il mio nome per farmi ritirare la colazione. Getto un’ultima occhiata al titolo del volumetto polveroso: “Il muro”, di Jean Paul Sartre. Mi torna in mente una frase di un poeta che ho amato molto al liceo. Lo chiamano L’enfant de colère. “Ho pianto fin troppe lacrime. Ho visto albe strazianti”.
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