scritto e mangiato giugno 2004

Page 1

scritto & mangiato

IL GUSTO E IL SENSO DELLA NOSTRA ALIMENTAZIONE. QUALCOSA CHE VA AL DI LÀ DEL NASO, DEL PRIMO MORSO O DEL PRIMO SORSO. I SAPORI LONTANI DAL TEMPO, LE SFIDA DELL’ACQUA E I RISCHI DEGLI OGM

Assaggiamoci

Supplemento al numero odierno de il manifesto

in collaborazione con Slow Food

GIUGNO 2004


Il pensiero unico al tempo della rete Una raccolta lucida e indispensabile per orientarsi nell’era dell’informazione, per instillare qualche dubbio e rovesciare i teoremi ufficiali. Articoli e riflessioni, tra gli altri, di Ignacio Ramonet, José Saramago, Edward Said, Paul Virilio, Eduardo Galeano, Milan Kundera, Pierre Bourdieu. 8,00 euro (più due euro di spese di spedizione)

Un nuovo apartheid (I mercati della salute) La storica barriera che fino a dieci anni fa divideva il Sudafrica, c’è ancora. Ora riguarda la salute, dall’Aids alla tubercolosi, alla malaria, malattie per il mondo dei poveri. Un mondo che di fronte al costo dei farmaci e all’arretramento dei sistemi sociali pubblici, si sta allargando anche all’Europa. E la salute diventa un affare. Una raccolta di saggi che serva da richiamo. 4,90 euro (più due euro di spese di spedizione)

E’ possibile ordinare i libri facendo un versamento sul ccp 708016 intestato a il manifesto coop. ed. a r.l. via Tomacelli 146 - 00186, Roma. Per informazioni è possibile contattare lo 06.68719330 dal lunedì al venerdì dalle 10.00 alle 18.30


scritto & mangiato

3

in collaborazione con Slow Food

Direttore responsabile Sandro Medici Direttore Mariuccia Ciotta Gabriele Polo Supplemento a cura di Francesco Paternò Grafica Daria Sorrentino Andrea Mattone Licia Schiavi Illustrazione di copertina Laura Federici Pubblicità concessionaria esclusiva Poster srl tel. 06/68896911 fax 06/68308332 Stampa Sigraf srl Via Vailate, 14 Calvenzano (Bg) Chiuso in redazione il 21/6/2004

Siete pronti? Vorremmo parlarvi di bisogni sensoriali nelle prossime pagine la materia all’università, una università tutta loro nel cuore delle Langhe che che vi accingete a leggere, magari ad assaggiare come recita il titolo di questo merita una visita anche solo per dare una occhiata alla banca del vino, una supplemento. Parlarvi di naso, di gusto, di odori, di desideri al primo morso prémière in Italia, o semplicemente agli spazi circostanti. L’insegnamento, o al primo sorso. Poi c’è anche dell'altro - assolutamente meno succulento, del resto, è un’altra arte. E in un mondo in cui tutto corre veloce, insegnare gastronomicamente parlando - ma intanto il menù che i nostri amici di l’arte della lentezza e il ritorno al pensiero è quasi un’arma segreta per Slow Food ci hanno scodellato intreccia storie di degustazione e di consumi sopravvivere. Non a caso in queste stesse pagine troverete degli appunti sulla lentezza, come non li avete mai fatti. E sospettati. Il pesce perché non odora di pesce? O non è vero? E il blender, insomma estratti di peso dall'ultimo rapporto Censis su come mangiano gli italiani. Cioè male grazie, così velocemente uno esperto di whisky, è un ingegnere tant’è che il primo titolo venutoci in chimico o un ubriacone? Il carciofo mente è stato ciccioni globali. davvero strizza l’occhio? E la birra non è FRANCESCO PATERNÒ Ma qualcosa di ancora più forse l’immaginazione al potere? Le risposte - o quelle che plausibilmente sembrano tali - le troverete qualche globalmente insidioso è quel che accade nel mondo degli organismi pagina più in là, a firma di cultori del genere per questo nostro trimestrale geneticamente modificati. In una doppia pagina potrete leggere quanto è difficile rilevare tracce di ogm in base alla normativa europea vigente: se diventato un appuntamento imperdibile (così almeno qualcuno ci scrive). Perché l’arte della degustazione è appunto un’arte, bisogna saper discernere non c’è scritto, vuol dire che non c’è ma ovviamente non è così. Lo in un mondo in cui tutti assaggiano, bevono, mangiano, discutono e raccontiamo parlando anche della battaglia in corso che Greenpeace ha lanciano guide alla migliore ristorazione possibile. Anche in questo settore ingaggiato sull'argomento, una delle rare guerre che vale sempre la pena ce ne è per tutti i gusti - l’ultima che ci è arrivata sul tavolo proviene combattere. addirittura dal mondo dell’automobile, “Circuito gastronomico Audi”, un Ma se siete uomini e donne di sola pace - e non volete addentrarvi nella prodotto che si presume adatto a un pubblico in target con il raffinato giungla delle relazioni pericolose tra acqua e cibo che qui pure trovate prodotto tedesco. Ma non è assolutamente detto che questo sia il lavoro di rilassatevi con il ritrattino di cosa beveva Conrad e suoi consimili al bar del Raffles, mitico hotel di Singapore, mitico bar di un tempo che fu. Il gusto tutti o che tutti lo sappiano fare. Slow Food sì. Pensate che adesso si sono perfino messi in testa di insegnare del cocktail, il senso dei sensi.

Storie sensate

4 Esamina te stesso di Alberto Capatti • Il senso dei sensi di Nicola Perullo 6 Sapore di sole di Sarah Freeman Il piacere del rancido di Jean Lhéritier 8 La birra al potere di Charlie Papazian 12 Nasi da Whiskey di Michael Jackson 13 Il pesce che non sa di Ettore Tibaldi 14 Mi sa di Sling di Roberto Duiz 15 Ciccioni globali di Loris Campetti 16 Basta che non c’è scritto di Maria Tarantino 17 Mai dire mais di Maria Tarantino 18 Vita da eucalipto di Geraldina Colotti

il supplemento è illustrato con i “Marble Floors” di Wim Delvoye, artista belga nato nel 1968 a Wervik e che ringraziamo per la gentile conessione. Di seguito alcune sue mostre personali

1986 ■ Galerie Plus-kern, Brussels (Belgio) 1988 ■ Galerie Riekje Swart, Amsterdam (Olanda) Galleria Andrea Murnik, Milano (Italia) Galeria Plus-kern, Brussels (Belgio) 1989 ■ Galerie Bébert, Rotterdam (Olanda) 1990 ■ Jack Tilton Gallery, New York (USA) 1991 ■ Sonnabend Gallery, New York (USA) Galerie Lehmann-Faust, Genève (Svizzera) Art Gallery of New South Wales, Sydney (Australia) Castello di Rivoli, Torino (Italia)

1992 ■ Kunsthalle Nürnberg (Germania) Galerie Micheline Szwajcer, Antwerp (Belgio) Sonnabend Gallery, New York (USA) Ruth Bloom Gallery, Los Angeles (USA) 1993 ■ Galleria Tucci Russo, Torino (Italia) Galerie Ghislaine Hussenot, Paris (Francia) Galerie Lehman, Lausanne (Svizzera) 1994 ■ Galerie Beaumont, Lussemburgo Center for the Arts, San Francisco (USA)

Modulo, Centro diffusor de Arte, Lisboa (Portogallo) 1995 ■ Galleria Sperone, Roma (Italia) Galleria Cardi, Milano (Italia) Anders Tornberg Gallery, Lund (Svezia) Gallery Tanit, München (Germania) Musée Départemental de Rochechouart, Limoges (Francia) 1996 ■ Galerie Ghislaine Hussenot, Paris (Francia) Gandy Gallery, Prague (Rep. Ceca) Galerie Micheline Szwajcer, Antwerp (Belgio) Galerie Ghislaine Hussenot, Paris (Francia) 1997 ■ Open Air Museum

Middelheim, Antwerp (Belgio) Delfina, London (Inghilterra) Galeria Luisa Strina, Sao Paulo (Brasile) Tinglado 2, Tarragona (Spagna) 1998 ■ Sonnabend Gallery, New York (USA) 1999 ■ Galleria Sperone, Roma (Italia) Galerie Ghislaine Hussenot, Paris (Francia) FRAC des Pays de la Loire, Nantes (Francia) Galerie Micheline Szwajcer, Antwerp (Belgio) Galleria Laura Pecci, Milano (Italia) Galleri Faurschou, Copenhagen (Danimarca)

11 Duke Street, London (Inghilterra) 2000 ■ Cement Truck, Centre Georges Pompidou, Paris (Francia) Galerie Krinzinger, Wien (Austria) CLOACA, MuHKA, Antwerp (Belgio) 2001 ■ CLOACA-New and Improved, Migros Museum, Zürich (Svizzera) 2002 ■ Galerie Nathalie Obadia, Paris (Francia) CLOACA-New and Improved, New Museum of Contemporary Art, New York (USA) Museum Kunst-Palast, Düsseldorf (Germania) Marble Floors, Sperone Westwater, New York (USA)

Porin Taidemuseo, Pori (Finlandia) Sex Rays, Galerie Beaumont, Lussemburgo Gothic Works, Manchester City Art Galleries, Manchester (Inghilterra) Gothic Works, Sperone Westwater, New York (USA) 2003 ■ Galerie Guy Bärtschi, Genève (Svizzera) Musée d'Art Contemporain, Lyon (Francia) Gothic, Public Art Fund Project, New York (USA) Fabrica, C·ARTE PRATO (Italia)


SCRITTO & MANGIATO

analisi sensoriale è stata chiamata con nomi diversi: degustazione, assaggio, Laboratorio del Gusto. Condotta alla cieca o comparando prodotti affini, in gruppo o da soli, la ricerca di parametri oggettivi di valutazione è, per molti, uno scopo e un premio. Ma se lingua e naso artificiali non permettono di rispondere a tutti i quesiti che il nostro naso e la nostra lingua possono porre e talora risolvere, l’esercizio va esteso a tutte le percezioni che ostacolano e facilitano il giudizio, aprendolo alla memoria e a tutta la sfera affettiva. Toccare i limiti dell’esperienza per capire quale validità abbia è il primo passo. La ragione è duplice. Nella conoscenza degli alimenti, la sensibilità ha un’importanza metodologica. Essa favorisce approcci, descrizioni, giudizi e ricordi. È il primo grado della didattica. Riconoscere un prodotto con il gusto, osservarne la crescita o la lavorazione, ritrovarlo nella rete commerciale, e assaggiarlo di nuovo, fa parte dell’apprendimento di base. Ma c’è un secondo motivo: la sensibilità consegna l’oggetto - odore, colore, testura, sapore - al linguaggio che lo stipa nella memoria perché lo classifichi, connesso con altri dati della stessa natura o di natura diversa. Come si presentano i sapori a distanza di tempo? Quali vengono cancellati? Con quali percezioni si connettono? A caratterizzare la cultura dei soci di Slow Food è proprio il fatto che essa favorisce un approccio complesso al cibo - storico, economico, edonistico - partendo però, sempre, dal gusto. Mentre altri studiano il vino, ed eventualmente lo assaggiano, o affrontano la produzione del formaggio rinviando al compimento dello studio una sua conoscenza diretta che provoca stupore e piacere, noi procediamo a senso per ritrovare il senso di tale o talaltro alimento. Esso può rivelarsi coerente con il primo sorso o il primo morso, valicare i protocolli della degustazione, aprire scenari diversi ove operano gli affetti, le idee, le fantasie. È impossibile disgiungere un sapore dal significato della lavorazione, dal tragitto che esso ha compiuto sino al luogo in cui è stato pubblicamente riconosciuto, dal corpo e dalla voce degli uomini che ce l’hanno portato. I nostri bisogni sensoriali sono evidentemente cresciuti con la perdita delle specie vegetali e delle razze animali, con la standardizzazione dei modelli e degli oggetti culinari, con la globalizzazione

L’

Esamina te stesso

4

di Alberto Capatti*

Marble floor #42, 1999 - 115 x 125 cm, C print on Aluminium

5

QUESITI PER IL NASO E PER LA LINGUA, UN APPROCCIO COMPLESSO

e un presunto riconoscimento della qualità oggettiva: uno corrispondeva sistematicamente ai dettami di certa enologia à la page, l’altro sistematicamente lo contrastava. (Beh, ovviamente, ho poi svelato alle mie “cavie” l’esperimento e, per sdebitarmi, sono ripartito da zero nel corso, questa volta senza barare e offrendo loro molto vino in più!). Che cosa significa questo? Secondo me, mostra chiaramente che quando si ha a che fare con un inoggettivabile - il gusto, il piacere - l’oggettivazione ha per forza di cose carattere parziale e limitato, e dunque se viene millantata (in buona o in cattiva fede) per verità, diventa mistificazione.

AL CIBO. TRA PERCEZIONE, CONSUMO E TRAGITTO TRA PRODUZIONE E FRUIZIONE dell’offerta commerciale, con il disagio. Il cibo conservato, imballato, etichettato, porta iscritta la storia che l’industria e le leggi vogliono farci conoscere, e le sue modalità d’uso, di fruizione. Siccome l’assaggio è già predicato dalla pubblicità, il consumo è sempre scontato e rende inutile il ricorso al naso, alla bocca. Bastano gli occhi. Ma un mondo senza odori e senza sapori è insensato e privo di vita. Consci di questo, impariamo a osservare, percepire, giudicare: i vini, i formaggi, i salumi... Non basta. Occorre esaminare se stessi, assicurarsi dei limiti del proprio giudizio e della sua estensione, quindi ritornare all’assaggio, che è conoscenza e piacere. ● *Slow Food

he cosa è l’analisi sensoriale? Come sempre, è bene partire dai termini in gioco: questa espressione, seria e scientifica da un lato, richiama, con la stessa perentorietà, un ambito che da sempre si sottrae alla scienza comunemente intesa e, più precisamente, alle analisi oggettivanti: l’ambito dei sensi. Una riflessione sul tema può prendere le mosse, a mio avviso, direttamente da un breve approfondimento del concetto di senso. Da una parte, sensum indica un organo, un apparato fisiologico che ci permette di conoscere uno degli ambiti dell’esperienza sensibile (“i cinque sensi” questo appunto indicano). Ancora in questo ambito, il senso produce una sensazione, una aisthesis: una delle definizioni di estetica (quella originaria, proposta da Baumgarten all’inizio del XVIII secolo) suona appunto “scienza della conoscenza sensibile”. D’altra parte, con senso si intende (ed è stato Hegel a porre definitivamente l’attenzione su questo piano) qualcosa di ulteriore, di più generale e sintetico: qualcosa “ha senso”, “non capire il senso” di qualcosa e simili espressioni avvicinano piuttosto il termine “senso” a quello di “significato”. Con un leggero allargamento dello spettro semantico, con senso si intende anche la “sensatezza”, che non è precisamente né una sensazione né un’idea ma qualcosa di più sfumato e indeterminato, comunque non direttamente legato alla conoscenza sensibile e materiale. Il senso del senso, dunque, è (quantomeno) doppio: sensazione, significato, sensatezza. Senso indica sia vista, udito, gusto, olfatto, tatto, sia un orizzonte complessivo di ordine non tanto fisiologico quanto culturale e ideale (il senso comune, da non confondersi con l’opinione comune). Avere sviluppato un certo senso, sapersi orientare, significa “avere fiuto”: è molto significativo che per voler rimarcare una capacità culturale si utilizzi una metafora materiale, e precisamente una metafora che rimanda - guardacaso - a uno dei cinque sensi in gioco. Il punto che vorrei sottoporre all’attenzione è proprio questo: sono disgiungibili e separabili fino in fondo questi due sensi di senso, o piuttosto non si richiamano l’uno con l’altro rimandandosi e completandosi continuamente?

Vino di qualità? Chi ritiene che l’analisi sensoriale possa cominciare e concludersi con la misurazione oggettiva e che le quantità, i rapporti, le somme e le differenze tra gli elementi determinino ipso facto la qualità di quel risultato finale che da tutti quegli elementi è composto (esistono anche importanti enologi che lo pensano) dovrebbe forse cominciare a pensare a una storia del gusto soltanto verificandone le variazioni sulle tante Guide enogastronomiche. Si accorgerebbe che i “mutamenti di paradigma”, ad esempio nel gusto del vino, sono tanti quante sono le occasioni per sviluppare un’idea, un tema, una tonalità. Soprattutto, verrebbe verificato facilmente che, in materia di qualità sensoriale, il risultato finale, l’insieme, la sintesi, non corrisponde alla somma, alla differenza, ai rapporti tra gli elementi. Descrivere un fatto (quantità di polifenoli) non significa produrre necessariamente un valore e una preferenza. Che cosa provoca tale attrito, che dà talvolta scacco all’analisi oggettivante, che produce il “valore aggiunto” della qualità come piacere e gradevolezza? Ecco che ritorniamo al doppio senso del “senso” da cui siamo partiti e alla mia insinuazione circa l’impossibilità di tenere separata fino in fondo tale duplicità: il quid ulteriore è esattamente un insieme di valori non riconducibili alla sfera della misurazione quantitativa, ma che rimandano piuttosto all’immaginazione, alla pulsione, al desiderio incanalati in una forma di vita, in una cultura, in una storia collettiva e personale. Vedere, toccare, udire, annusare, gustare sono esperienze sensoriali gravide di memoria e immaginazione, di passato e futuro, di bisogni e speranze. Non si creda che, in questo modo, si spalanchino le porte dell’aleatorietà più totale, della mancanza di riferimenti e del solipsismo assoluto: c’è una logica peculiare (all’inizio ho richiamato il sensus communis) che agisce e funziona, ci sono dei tracciati personali e sociali entro i quali ci si muove e si spazia. Tracciati sempre passibili di ridefinizione e di rimodellamento: i gusti cam-

C

Mistificazione oggettiva Mi si perdoni l’incipit astrattamente filosofico: in realtà, credo che da questa apparente astrazione sia possibile addentrarsi con chiarezza nelle più concrete situazioni che riguardano l’analisi sensoriale. Prendiamo come esempio privilegiato il vino. Esistono oggi numerosi metodi di misurazione oggettiva delle quantità delle sostanze presenti negli elementi naturali e ovviamente nei cibi e nelle bevande: dai gas-cromatografi ai nasi elettronici ai misuratori di acidità, PH, zuccheri, estratti secchi, lieviti, batteri e quant’altro. Questi metodi oggettivanti colgono aspetti quantificabili e appunto misurabili negli alimenti.

Il senso dei sensi L’enologo utilizza tutti i misuratori per controllare, verificare, impostare criteri di lavoro secondo quelle che sono le conoscenze scientifiche del momento nel suo campo (l’enologia) e da ciò procede nella “creazione” di un prodotto finito, il vino. Bene. Come vanno le cose a questo punto? Al di là del fatto - comunque molto rilevante che moltissimi enologi per fare il vino si avvalgono della loro capacità di degustarlo in fieri, dall’assaggio dell’uva nel vigneto - aspetto per il quale vengono anche tenuti degli appositi corsi - fino all’assaggio del vino nei contenitori di affinamento quando ancora deve assemblarsi e maturare, e che tutto ciò è un segno già lampante di uno scarto, di una differenza tra la misurazione quantitativa dei singoli aspetti e il risultato finale; al di là di questo, dal lato della ricezione e dell’apprezzamento da parte di un bevitore quanto contano gli elementi oggettivi e misurabili in un vino? La mia esperienza di formatore ed educatore di molte centinaia di persone alla degustazione mostra che contano molto poco. L’analisi sensoriale che si basa sulla fisiologia dei tre sensi (vista, olfatto, gusto) coinvolti in questa pratica, e sulla progressiva capacità di svilupparli e affinarli, determina una valutazione della qualità di un vino che può coincidere con una valutazione quantitativa dei suoi componenti come anche, allo stesso, modo, non coincidervi. Tra la ricerca quantitativa e la degustazione, campo qualitativo dove entra in gioco la fondamentale variabile del piacere, possono esservi tanto armonia quanto attrito e persino - altrettanto frequentemente - conflitto. Tra l’analisi sensoriale quantitativa-

di Nicola Perullo* UN CONCETTO TRA FILOSOFIA E PRATICA ANALISI SENSORIALE. I METODI DI MISURAZIONE E LA FISIOLOGIA DI VISTA, OLFATTO E GUSTO. MA PERCHÉ FISSARE CIÒ CHE PER DEFINIZIONE È MOBILE?

oggettiva e l’analisi sensoriale qualitativa-soggettiva corre comunque uno scarto. A questo punto, devo calarmi ancor di più nella concretezza degli esempi e dell’autobiografia. Una buona parte dell’enologia moderna ritiene la quantità di polifenoli (tannini e antociani) polimerizzati presenti in un vino rosso un indice qualitativo da perseguire, insieme a un giusto PH; però non sempre la degustazione conferma questa teoria. In verità, oggi capita che certi degustatori e certa stampa specializzata spingano i consumatori ad apprezzare questo modello di qualità (il vino-frutto, il vinomorbido, il vino-muscolare ecc.) ma è un’operazione, posso assicurarlo, del tutto artificiale. Confesso di aver fatto un esperimento per me rivelatore: in veste di “maestro”, ho cominciato una volta a formare alcuni miei allievi nella degustazione di vino proponendo loro un modello preciso e unico di gusto, pian piano insinuandolo e motivandolo ideologicamente e “scientificamente” con molta persuasione; ho poi, con altri allievi, provato a proporre un modello preciso e unico di gusto esattamente opposto, con la stessa forza persuasiva e con uguali e contrarie motivazioni. Nel primo caso, ho proposto il modello del vino ricco, morbido, denso, fruttato e supportato dal legno; nell’altro caso, il modello del vino magro, beverino, leggero, fresco, il cosiddetto modello “tradizionale” (una “tradizione” che significa qualcosa che andava per la maggiore fino a venti anni fa!). In entrambe le circostanze, ho trovato molte persone disposte a seguirmi, e in pochi incontri ho “modellato” un gusto

biano perché cambiano i modelli complessivi di riferimento, perché i bisogni e le aspettative cambiano, e questo aiuta a comprendere come mai sia così “semplice” formare un gusto se si è investiti emozionalmente e affettivamente dalla autorevolezza per farlo. Così opera un formatore-educatore nei confronti dei suoi allievi: la seduzione (se-ducere: condurre, da un certo luogo, verso di sé) è un elemento imprescindibile e ineliminabile del processo educativo, e opera anche se non lo si persegue coscientemente e volontariamente. I tentativi di determinare oggettivamente la qualità sensoriale sembrano così delle vane strategie messe in atto per “fissare” (forse per un bisogno metafisico di sicurezza e di solidità? Chissà...) ciò che per definizione è mobile e in continua trasformazione. Ma dopo tutta questa tua disquisizione, potrebbe infine chiedere qualcuno, che cosa è il vino di qualità? A questa domanda risponderei: è il vino che ti stupisce o ti rassicura; il vino che ti sorprende stimolando il desiderio di conoscenza e di piacere; ma è anche il vino che ti rassicura perché riconoscibile e riconosciuto; è il vino che ti suscita una pulsione. Insomma, è il vino che - in qualsiasi modo - smuove, “emoziona”: tutte le tipologie, tutte le varietà, sono dunque possibili. In questa capacità di smuovere procurando piacere è racchiusa tutta la duplicità del senso: sensazione e significato-sensatezza. È questa una risposta riduttiva? Non direi: è l’esplicazione più completa della biodiversità nei propri destini personali. ● *Slow Food


Sapore di sole

er me, come per molti altri che scrivono di cibo, descrivere i gusti è una delle sfide più ardue. È sempre difficile tradurre in parole le percezioni sensoriali: è facilissimo apparire pretenziosi o sciocchi affermando, ad esempio, che il sapore di un formaggio ci ricorda il vento, la pioggia o il sole. Di che cosa sa il sole?, si potrebbe essere tentati di domandare. In questo caso, ciò che volevo dire era che il formaggio ricorda l’estate, ossia è dolce e burroso; in qualche caso ho parlato del vento per indicare una certa asprezza nordica; ma la pioggia? Un altro problema è l’irregolarità di alcuni prodotti artigianali, in particolare i formaggi, che significa che la stessa descrizione non sempre è valida. Una volta mi è stato dato da assaggiare un formaggio che a mio giudizio sapeva di felce e di muschio, aveva cioè un gusto erbaceo morbido che ricordava i ruscelli di montagna. Un altro campione è stato mandato a un’amica per il cui giudizio nutro il massimo rispetto: secondo lei aveva un sapore aspro, con un tocco amaro. È possibile che non sia stato asciugato abbastanza durante la lavorazione, oppure che non fosse stagionato a sufficienza, o ancora che abbia subìto un deterioramento durante lo stoccaggio. I fattori che incidono sul gusto del formaggio sono innumerevoli: la stagione e il tempo, l’alimentazione degli animali, perfino il campo su cui pascolano, oltre a tutte le condizioni relative alla lavorazione e alla commercializzazione. In nome della precisione, da un po’ di tempo metto per iscritto le note di degustazione del formaggio, registrando non solo il gusto ma anche la data, in modo da poter seguire le variazioni stagionali; inoltre, data l’importanza dell’affinamento e dello stoccaggio, annoto il negozio o il magazzino in cui il formaggio è stato acquistato. Analogamente, quando elaboro una ricetta la provo alcune (molte) volte per valutare l’effetto sul gusto di minime differenze negli ingredienti, della temperatura del forno e del metodo di preparazione, per esempio se ho affettato questo o quell’ingrediente più o meno sottile, o se gli aromi sono macinati o pestati. Quando infine sono soddisfatta, spesso ne ho talmente sopra i capelli che non mi piace più, per quanto fino a quel momento mi fosse sembrata deliziosa. Mi rendo conto peraltro che la ricerca della precisione può avere un successo solo parziale, perché il senso del gusto di ciascuno è leggermente diverso. In questo caso forse più che in ogni di Sarah Freeman* altro, la bellezza è negli occhi di chi guarda. Se il coriandolo e la noce di SCRIVERE DI CIBO cocco avessero per gli altri lo stesso sapore che È PENSARE ANCHE hanno per me, nessuno li mangerebbe. Ma la SE IL FORMAGGIO INDUCE cosa ancora più preoccupante, per chi si occupa professionalmente di ALL’ESTATE O ALLE MINIME cibo, è la variabilità delle proprie papille gustatiDIFFERENZE ve. Siamo tutti consapevoli del ruolo che ha DEGLI INGREDIENTI. l’appetito; sappiamo anche che i sapori inteL’IMPORTANZA ragiscono. Non si può valutare un formaggio DEI FATTORI BIOLOGICI come un Camembert subito dopo aver mangiato uno Stilton. Un altro fattore è lo stato di salute. Recentemente ho avuto l’influenza. Quando ho cominciato a sentirmi meglio, ma prima che fosse completamente passata, ho pensato che un bicchiere di vino potesse accelerare la guarigione e ho assaggiato un taglio Shiraz-Grenache australiano prelevato da un cartone da dodici che il mio compagno aveva comprato. Aveva un sapore terribile, e quando mi ha chiesto un parere ho risposto che sapeva di gomma bruciata e ciliege marce, aggiungendo che mi sembrava una pessima idea averne

P

ordinato tanto senza averlo assaggiato prima. Il mio compagno se l’è presa a male e ha dichiarato in tono provocatorio, così mi è sembrato allora, che era un vino delizioso e, sì, di carattere. Un paio di settimane dopo, quando mi ero perfettamente rimessa, l’ho assaggiato di nuovo e ho scoperto che la gomma bruciata si era trasformata in un fragrante tocco affumicato del rovere e le ciliege marce sembravano irresistibilmente mature. Nel classico On Food and Cooking, Harold McGee (che è uno scienziato competente) riconosce l’importanza dei fattori biologici nella nostra percezione del gusto, ma non offre che poche osservazioni sul modo in cui il processo ha luogo. Si sa ormai da tempo, afferma, che il cibo piacevole stimola una maggiore secrezione di succhi gastrici di quello anonimo o sgradevole e pertanto tende a essere digerito più facilmente. Inoltre - e la cosa non costituisce una sorpresa - il nostro senso del gusto è più intenso

quando è stimolato dalla novità. Sembra inoltre che il nostro corpo incoraggi automaticamente il consumo di cibi che contribuiscono a mantenerci in condizioni ottimali: questo forse spiega la voglia di arance o di spinaci (ma, sospettiamo, non di cioccolato o di vino). Tuttavia, l’effetto dei fattori fisici sulla percezione del gusto resta in larga misura un mistero. In effetti, il gusto è soltanto uno degli aspetti della questione più generale del potere del corpo sulla mente e viceversa. Se potessi vivere una seconda vita, questa sarebbe la prima delle materie che deciderei di studiare. Nel frattempo, il gusto resta un enigma, una qualità indeterminata, variabile, fugace e difficile da descrivere. Può darsi anche, nonostante tutti gli sforzi più strenui dei produttori, dei cuochi e di chi come me scrive di cucina di riprodurlo fedelmente, che non si riesca mai a percepirlo due volte esattamente allo stesso modo. ● *Slow Food

Il piacere del rancido

SCRITTO&MANGIATO

MF # 105: 1999, C-print on aluminium - 115 x 145 cm - unique print

6

a cultura gastronomica del Roussillon, un angolino di terra catalana a nord dei Pirenei, in territorio francese, offre una curiosità: l’utilizzo del lardo rancido per caratterizzare il sapore di alcuni piatti della tradizione. Chiamato sagí in lingua catalana, invecchia, si ossida e si conserva a lungo. Ha un sapore “degradato”: un aroma simile a quello di un olio irrancidito. Dunque lo si direbbe, all’apparenza, non commestibile. Ma il piacere del gusto è squisitamente soggettivo. Così, il suo odore forte, il colore ingiallito, il sapore un po’ acre possono procurare a palati avvezzi la gioia dei sensi. Mesi fa ho avuto con alcuni amici italiani una discussione proprio a questo riguardo. Stavamo mangiando in un ristorante di Tarragona una entrée a base di carciofi. Al tavolo il piatto sollevò delle critiche; un esperto in oli affermò che la preparazione aveva un difetto: l’olio che era stato usato in cottura era rancido. Concentrandomi sul sapore, io ritrovai il gusto famigliare del sagí. Feci allora presente ai miei amici italiani che questo sapore derivava da una precisa scelta, che non c’era alcuna negligenza da parte del cuoco. Rimasero alquanto dubbiosi… La discussione continuò vivace tra quelli che affermavano che un alimento con un simile difetto non poteva essere difeso da Slow Food, nemmeno sotto il profilo della biodiversità, e io, da solo, che cercavo di fondare la sua legittimità nella tradizione. Lo chef venne a salutarci a fine pasto. “Quindici anni fa - ci spiegò - ho seguito uno stage di un anno al Feuillants, un ristorante di Céret, nei Pirenei Orientali, all’epoca nel firmamento delle stelle Michelin, e il carciofo di questa sera era una strizzatina d’occhio, una sorta di omaggio alla cucina del Roussillon…”. Lo chef aveva cotto i suoi carciofi col sagí! La discussione si fece animata. Sostenni che il rancido del lardo doveva essere salvaguardato, nel

L

di Jean Lhéritier* IL GUSTO E LE SUE VARIANTI VISTE DAL ROUSSILLON, ANGOLINO DI TERRA CATALANA. QUEL SAPORE DEL SOGI E L’INCONTRO CON UNO CHEF DI TARRAGONA

rispetto delle culture alimentari considerate nella loro diversità. Citai, contrattaccando, lo jabugo, un prosciutto tipico spagnolo la cui finezza e potenza sono sostenute dallo strato morbido di lardo rancido, di colore giallo aranciato quasi ocra, che lo avvolge. E Patrice de Beer, a lungo corrispondente di Le Monde in Asia, non mi aveva forse ricordato la tradizione tibetana del tè al burro rancido di yak, accompagnato con orzo tostato e sale? E poi il Roquefort, lo Stilton, il Gorgonzola, non si ottengono proprio grazie a una degradazione chimica dell’alimento? Se il “muffato” può esibire in gastronomia i suoi quarti di nobiltà, perché negare lo stesso riconoscimento al “rancido”? Invitai quindi i miei amici a venire ad assaggiare una buona ollada, sorta di minestra di cavolo catalana, arricchita con carne di maiale, come se ne possono trovare in molte regioni della Francia o della Spagna (potée, garbure…). Nella ollada il sagí è insostituibile, perché conferisce alla preparazione un sapore incomparabile. E anche la deliziosa bullinada di anguille, lontana parente della bouillabaisse marsigliese o della bourride di Sète, deve il suo sapore particolare al sagí. Bisogna vederlo, questo sagí, mentre “matura” appeso alle pareti dei capanni dei pescatori degli stagni di Saint-Nazaire, nel Barcarés, zona lacustre a nord-est di Perpignan. Si ritrova lardo rancido nelle ricette di garbure (in Guascogna), di estoficada (brandade di stoccafisso occitana), di fabada asturiana (Spagna settentrionale), di toucinho rançoso (letteralmente: lardo rancido, Alentejo, Portogallo); tutte preparazioni a base di carne di maiale. La curiosità sensoriale e la tolleranza gustativa sono i valori che ci attrezzano contro l’appiattimento e la clonazione dei sapori. Dunque, che al nostro saporino di rancido sia conservato un cantuccio nell’arca delle tradizioni gastronomiche da salvare. ● *Slow Food


NEI PROSSIMI MESI

AI PREZZI SUCCEDERA’ UNA COSA

INCREDIBILE:

NIENTE. www.e-coop.it

Blocchiamo i prezzi dei prodotti confezionati a marchio Coop e ribassiamo quelli di uso quotidiano. Questo è un invito. Un invito alla festa per i nostri 150 anni, ma anche un invito al risparmio. Scegliete i prodotti a marchio Coop contrassegnati dal simbolo “150 anni di valori” e beneficerete di una grande iniziativa. Per festeggiare, infatti, abbiamo deciso di bloccare i prezzi dei prodotti confezionati a marchio Coop (fino a fine anno) e di ribassare del 10% quelli di uso quotidiano (fino al 30/09/04). E tutto questo, tutti i giorni. Come vedete gli anni li facciamo noi ma il regalo lo ricevete voi. Perché la Coop siamo noi, siete voi, sei tu.


di Charlie Papazian* SCRITTO&MANGIATO

MASTRI BIRRAI

La birra va al potere

ono un birraio e il romanzo della birra è E IMMAGINAZIONE CHE PRENDE quando siamo catturati speriamo di esserlo positivauna parte importante della mia vita da mente. È questo che compriamo, non è così? Non è trent’anni. A volte noi birrai siamo tanto IL SOPRAVVENTO. STORIE solo che la India Pale Ale ha un amarognolo delizioso; presi dall’orgoglio per la birra “artigiao che la stout ha un serico nero carbone, una consinale” da non renderci conto che i nostri DI INEBRIANTI GRADAZIONI stenza cremosa e piena; o che la pale ale è impreziosita sensi in ultima analisi non determinano il modo in cui dal bouquet floreale dei luppoli Goldings e Fuggles; o la percepiamo. Naturalmente, tutti i sensi influenzano ALCOLICHE E DI ETICHETTE che la barleywine ale e la Doppelbock hanno un’inefortemente la decisione su quanto una certa birra ci va briante gradazione alcolica; o ancora che la birra di stao no, ma dopo tanti anni di studio e di proselitismo a IN VOLO CON LA FANTASIA gione ha aromi di noce moscata e scorza d’arancia. E favore dell’arte e della scienza di valutarla, ritengo ci sia non si tratta solo del fatto che tutte sono preparate con un valore superiore che ciascun individuo prende in considerazione quando il miglior luppolo, malto e lievito e con l’acqua più buona. No, in realtà non stabilisce che cosa gli piace nella vita. È l’immaginazione il fattore potente che credo che sia questo che cerchiamo. Vediamo un’etichetta, sentiamo un nome, influenza tutto ciò che percepiamo, che sta alla base del modo in cui interprela fantasia comincia a farci viaggiare, è un primo contatto, pochi secondi di tiamo i sensi. A portare aria fresca tra i veterani valutatori di birra. “Il carattere elaborazione… L’immaginazione prende il sopravvento e decidiamo. Sarà una della birra”, sostiene uno di loro, “è il vero carattere schietto che si ritrova in buona esperienza? Sì? Ci provo. Esci dal negozio con la confezione di birra alcuni piccoli e meravigliosi birrifici rurali, sebbene qualcuno possa considesotto il braccio. La porta si chiude alle tue spalle e sai, sai con certezza, che se rarlo un difetto tecnico”. La birra con un carattere eccentrico, non perfetta tecquella birra è stata fatta come si deve, la fantasia ti accompagnerà in un’altra nicamente, stimola la fantasia e scalda il cuore. Semplicemente inalando certi dimensione. aromi, riesco a evocare giorni di piacere e rilassamento. Ci sono dubbi? Prendete la birra affumicata (una tradizione di Bamberg in Mi sono spesso goduto una delle mie predilette bitter di stile inglese sul tetto Germania e oggi anche dell’Alaska), un esempio limite ma un buon esempio. di una delle taverne del quartiere. La vista della catena delle Rocky Mountains, Per molti che la assaggiano per la prima volta sa di bacon ed evoca immagini il tepore del sole a inizio primavera e a fine autunno mettono allegria. La birra di colazione - e chi berrebbe birra a colazione? O magari un’esperienza con alla spina, maltosa e di sapore pieno, è facilmente influenzata dal sole (questo ricordi di fumo, mentre per altri è il calore di un fuoco all’aperto con gli amici aroma, che i birrai definiscono negativamente “colpo di sole”, “sentore di felio del caminetto di casa. In un primo momento, l’immaginazione determina la no” o “di pelliccia”, è il risultato di una reazione fotochimica nella birra esposta decisione a favore o a sfavore. È una tesi che si può applicare a ogni altro stile alla luce) eppure ho continuato a godermi l’esperienza di restare lì, in quel di birra. Ma pensate davvero che tutto si risolva con mastri birrai, luppoli, luogo. So quanto possa essere piacevole cedere alla propria fantasia. Ora tutte malto, alcol, colore, dolce e amaro? Se è così, forse vi perdete un’occasione. le volte che ritrovo l’aroma di una all malt che ha appena preso un colpo di L’immaginazione modifica qualunque carattere tanto abilmente infuso dal sole e ha un lieve sentore di pelliccia, sorrido, e non solo ho finito con l’apmastro birraio nella birra. Se ancora non riuscite a capire di che cosa parlo, prezzare queste birre tecnicamente difettose, ma le preferisco in virtù del calosedetevi tranquillamente con una birra in mano e lasciatevi trasportare… ● re che evocano. “Catturare l’immaginazione” vuol dire catturare i sensi. E *Slow Food

S

MF # 103: 1999,

C-print on aluminium,

110 x 202 cm, unique print.

L’EDUCAZIONE DEL GUSTO DI SLOW FO OD

8

educazione del gusto, uno dei progetti cardine di Slow Food, discende dalla filosofia espressa nel Manifesto del Movimento Internazionale che afferma: “È qui, nello sviluppo del gusto e non nel suo immiserimento, la vera cultura, di qui può iniziare il progresso”. Integrando - e superando - le pedagogie che risolvono l’educazione alimentare in prospettiva nutrizionista (dunque dietologica) o merceologica (descrittiva di natura, composizione e qualità dei prodotti), Slow Food ritiene che il cibo non sia solo nutrimento ma anche piacere, cultura, convivialità. Se la convivialità rilancia - in un’epoca di povertà di relazioni socialità, dialogo, scambio e condivisione, la cultura porta con sé interi mondi: territori, saperi, invenzioni, scambi, esperienze. Quelle esperienze che sono alla base di un piacere che rimanda a gustare, trarre sensazioni appaganti, discernere, usando correttamente sensi e intelletto. Per queste specificità il rapporto con il cibo non può essere oggetto di indottrinamenti: occorre

L’

educare - ossia sensibilizzare e formare valori e consapevolezze - e fornire strumenti, cioè chiavi di lettura, attrezzature mentali e operative. Il fine è far crescere soggetti capaci di valutare e scegliere; non fruitori passivi di protocolli alimentari ma attivi protagonisti di esperienze, condotte “con le mani e col cervello”. Ecco come il concetto di educazione alimentare viene superato da un progetto più complesso e innovativo: quello dell’educazione del gusto i cui destinatari sono bambini e giovani a rischio di omologazione alimentare, insegnanti e genitori responsabili, consumatori che non hanno più voglia di farsi truffare, operatori del cibo e del vino che reputano le tecniche manipolatorie insufficienti a definire la loro professionalità. Il progetto, concretizzatosi da tempo nelle istituzioni scolastiche anche grazie all’autorizzazione ministeriale che accredita Slow Food come agenzia di formazione, è proposto a un pubblico più ampio sotto forma di Laboratori del Gustoae corsi Master of Food. I primi si

accompagnano fin dagli esordi ai vari eventi organizzati dal Movimento: come in una classe i partecipanti - guidati dagli stessi produttori e da esperti assaggiano, confrontano, abbinano, imparano a scoprire le differenze fra diversi prodotti. I corsi dei Master of Food, riservati agli associati, si articolano invece secondo un vero e proprio piano di studi - 23 corsi comprendenti 18 materie di insegnamento - vino, birra, carne, ortofrutta ma anche cultura e storia della gastronomia o scienza e tecnologia dell’alimentazione -, concepito per porre rimedio al vuoto di informazione riguardante la produzione, il consumo e la qualità del cibo. Proposto a livello universitario, questo approccio che mette al centro l’analisi sensoriale - e la accompagna con la conoscenza diretta dei prodotti e di luoghi e metodi di produzione - disorienta, spaventa o incuriosisce il mondo accademico, ma è già stato premiato dalle centinaia di preiscrizioni giunte all’Università di Scienze Gastronomiche da tutto il mondo.


COOP FERMA

IA VOLTE PREZZI. IL PIU’ GRANDE PROGRESSO E’

FERMARSI. www.e-coop.it

Blocchiamo i prezzi dei prodotti confezionati a marchio Coop e ribassiamo quelli di uso quotidiano. Questo è un invito. Un invito alla festa per i nostri 150 anni, ma anche un invito al risparmio. Scegliete i prodotti a marchio Coop contrassegnati dal simbolo “150 anni di valori” e beneficerete di una grande iniziativa. Per festeggiare, infatti, abbiamo deciso di bloccare i prezzi dei prodotti confezionati a marchio Coop (fino a fine anno) e di ribassare del 10% quelli di uso quotidiano (fino al 30/09/04). E tutto questo, tutti i giorni. Come vedete gli anni li facciamo noi ma il regalo lo ricevete voi. Perché la Coop siamo noi, siete voi, sei tu.


Con l'appellativo "Campania Felix" gli antichi Romani vollero mettere in risalto non solo le incomparabili bellezze naturali di questa terra generosa, che i patrizi dimostrarono di apprezzare particolarmente facendosi costruire splendide dimore residenziali sulle isole e sulle coste, ma anche la sua straordinaria vocazione agricola. Grazie ai fertili suoli, al clima mite, temperato dalla brezza del Tirreno, al paesaggio articolato e complesso, all'abbondanza di acque, la Campania rivestiva a quell'epoca l'ambito ruolo di orto e frutteto della Roma imperiale rifornendo i mercati della Capitale di prelibatezze di ogni tipo, che ritroviamo raffigurate in numerosi affreschi di Pompei ed Ercolano. Un'offerta variegata arricchitasi ulteriormente nel tempo fino a dar vita a quell'autentico tripudio di colori, di aromi e di sapori inimitabili che è prerogativa del paniere ortofrutticolo campano. Le pianure di origine vulcanica che si stendono ai piedi del Vesuvio e quelle alluvionali lambite dal Sele e dal Volturno costituiscono i principali bacini di produzione di ortaggi, legumi e patate; ma anche nelle zone interne sono presenti interessantissime produzioni tipiche di pregio. La coltivazione simbolo della Campania resta però il pomodoro. Accanto al prodotto fresco grandissima importanza riveste quello lavorato (concentrati, succhi o pelati). L'"oro rosso" è affiancato da un'ampia gamma di produzioni che comprende piselli, fave, cavolfiore, broccolo di rapa, cavolo broccolo, lattuga, finocchio, carciofo, melanzana, peperone, anguria e melone, zucchina, indivia, cipolla e via dicendo. Né vanno trascurate le rinomate produzioni di asparagi e di fragole ottenute sotto serra che contribuiscono a fare della regione un eccezionale serbatoio di primizie di elevata qualità. La specie frutticola maggiormente rappresentativa è il pesco; di spicco anche la coltura dell'albicocco. Seguono il ciliegio, il melo, il susino, il fico, l'arancio, il pero, il limone, il kaki ed il kiwi. Tra la frutta secca ed in guscio trionfano il nocciolo, noce e castagno. Insomma, ce n'è davvero per tutti i gusti, con una fornitura che copre l'intero arco dell'anno. D'altra parte, proprio l'abbondanza e varietà di verdure e di frutti valsero a suo tempo ai napoletani il soprannome di "mangiafoglie". La valorizzazione del "tipico" Alle produzioni già affermate sui mercati di tutta Europa si affiancano quelle che derivano da una attenta conservazione del patrimonio vegetale locale, unico presupposto per la valorizzazione delle produzioni tipiche, oggetto negli ultimi anni di un vasto e crescente interesse da parte dei consumatori. Qualcuna ha già ottenuto il riconoscimento da parte dell'Unione Europea, qualche altra è in dirittura di arrivo; tutte vanno comunque promosse e tutelate dalla facile estinzione perché sono, a modo loro, dei "beni culturali". Ortaggi e frutta costituiscono, per farla breve, due importantissime tappe di un percorso gastronomico accattivante e ricco di sorprese in cui la dieta mediterranea celebra il suo trionfo. Consumati allo stato naturale, con un filo d'olio extravergine nel caso delle verdure, per meglio esaltarne freschezza e bontà, oppure quali ingredienti di piatti un po' più elaborati, sono loro i protagonisti di una cucina creativa dall'anima popolare che, grazie soprattutto alla sua capacità di supplire con la fantasia alla povertà della materia prima, ha saputo fare proseliti in tutto il mondo.

REGIONE CAMPANIA Assessorato all'Agricoltura Se.SIRCA

TESORI DELL’ORTO DALLA REGIONE DEL SOLE Se poi sono

Se poi sono certificati… certificati…

POMODORO SAN MARZANO DELL'AGRO SARNESE-NOCERINO DOP Cenni storici Il pomodoro è originario dell'America Centrale. In Europa è giunto nel '600, inizialmente nella sola Spagna, essendo stato importato da spagnoli, dove gli è stato dato un mero valore ornamentale. Il valore alimentare di questa coltura fu scoperto solo successivamente, secondo alcuni non prima del XIX secolo,quando venne diffuso nei diversi paesi del Mediterraneo. Secondo le ultime testimonianze della tradizione orale si dice che il primo seme di San Marzano sia giunto in Italia verso il 1770, come dono del Regno del Perù al Regno di Napoli e che sarebbe stato piantato nella zona che corrisponde al comune di San Marzano. Da ciò quindi deriverebbe l'origine di questo famoso pomodoro, che nel tempo,con varie azioni di selezione, ha acquisito le caratteristiche dell' ecotipo attuale. Assunse grande apprezzamento dal punto di vista gastronomico verso fine '800, quando sorsero le prime industrie di conservazione, ad opera di Francesco Cirio, che producevano il famoso "pelato" da salsa. Negli anni Ottanta la coltura ha subito una drastica riduzione ma l'azione di recupero, conservazione e moltiplicazione e miglioramento realizzata dalla Regione Campania ne ha consentito la salvaguardia fino all'ottenimento del marchio DOP da parte della Unione Europea. Descrizione del prodotto Il pomodoro San Marzano ha la sua area d'elezione nell'Agro Sarnese-Nocerino ed è conosciuto ed apprezzato in tutto il mondo per le sue caratteristiche, che vengono esaltate dalla trasformazione in "pelato". Il tipico sapore gradevolmente acidulo lo rende inconfondibile sia allo stato fresco che trasformato. La raccolta comincia solitamente ad agosto e si protrae spesso fino a settembre inoltrato; viene venduto in Europa ed in America, dove si sta espandendo con successo grazie anche alla moda della dieta mediterranea.

espressione dell'immaginario umano. Questo frutto si è trasformato gradualmente da "pane dei poveri", come un tempo veniva definito, ad alimento pregiato da consumare soprattutto nel periodo natalizio in svariati modi (allo stato naturale, farcito di nocciole o mandorle, ricoperto o meno di cioccolato). Da tempi remoti sono considerati beni di lusso o comunque voluttuari, vere e proprie leccornie, ricercatissimi da mercanti interessati a rifornire i mercati più ricchi del momento, anche grazie alla possibilità di conservarli per l'intero periodo dell'anno con l’essiccazione, che avviene in modo naturale per l'azione mitigatrice del mare e la barriera alle fredde correnti invernali provenienti da nord-est posta dalla catena degli Appennini. Questo elemento contribuisce a conferire ai fichi essiccati cilentani quelle caratteristiche organolettiche (sapore, dolcezza, gusto prelibato e profumato) particolarmente apprezzate dai consumatori e per questo anche le fasi di essiccazione e lavorazione del prodotto si svolgono per intero nell'area geografica di produzione, presso strutture agricole ed edifici rurali, in un armonico processo di interazione tra prodotto, uomo ed ambiente. Descrizione del prodotto Nel corso dei secoli, nel Cilento, si è andato selezionando un ecotipo, derivato dalla cultivar madre "Dottato", presente in tutto il Mezzogiorno, che è andato poi diffondendosi in tutta l'area di produzione: il "Bianco del Cilento". Da tale ecotipo si ottiene un prodotto essiccato con caratteristiche uniche e di pregio, apprezzate anche all'estero. Esso si presenta con buccia di colore giallo chiaro uniforme (marroncino chiaro per i frutti che abbiano subito un processo di cottura), polpa di consistenza tipicamente pastosa, di c o l o re g i a l l o a m b r a t o , c o n a c h e n i prevalentemente vuoti e ricettacolo quasi interamente riempito. L'umidità massima consentita è del 27%. I fichi essiccati sono posti in commercio anche farciti con mandorle, noci, nocciole, semi di finocchietto, bucce di agrumi (ingredienti provenienti dallo stesso territorio di produzione) o ricoperti di cioccolato. Per le sue note qualità terapeutiche viene ancora oggi utilizzato in dietologia e in erboristeria. In passato veniva adoperato in tisane contro i raffreddori.

LIMONE DI SORRENTO IGP FICO BIANCO DEL CILENTO DOP Cenni storici L'introduzione nel Cilento di questa pianta, originaria dell'Arabia meridionale, sembra essere precedente al VI secolo a. C. Essa è da attribuire ai coloni greci che in queste aree avevano fondato diverse città, fra le quali Elea, culla della filosofia occidentale. E' facile capire come questa convivenza millenaria abbia condizionato fortemente la cultura locale, per cui la pianta ed i frutti del fico sono presenti nelle espressioni idiomatiche, nelle storie, nelle fiabe ed in tutto ciò che è

Cenni storici Numerosi documenti storici confermano la presenza di limoni nella Penisola Sorrentina e sull’isola di Capri già dal 1500: atti di vendita, dipinti, trattati di letteratura, di botanica. I primi limoneti condotti in forma specializzata sarebbero stati opera dei Padri Gesuiti nel '600. Ancora oggi è attivo uno dei primi fondi coltivati, nominato "Il Gesù", situato nella Conca di Guarazzanno, tra Sorrento e Massalubrense. Proprio da questi due comuni della Penisola Sorrentina hanno avuto origine i nomi del limone: "Ovale di Sorrento" , con i sinonimi

"Limone di Massa Lubrense" o "Massese". Descrizione del prodotto E' un limone di dimensioni medio-grosse, di forma ellittica, con buccia di color giallo citrino, molto profumata, e polpa particolarmente succosa e acida. Il principale elemento di tipicità nella tecnica di coltivazione è rappresentata dalle note pagliarelle: stuoie di paglia che vengono appoggiate a pali di sostegno di legno, solitamente di castagno, a copertura delle chiome degli alberi, al fine di proteggerli soprattutto dal freddo e dal vento. La copertura con le pagliarelle provoca un ritardo della maturazione dei frutti, che ne rappresenta uno dei principali elementi di tipicità. Con il "fratello" della Costiera Amalfitana questo limone condivide diversi aspetti. La tipicità temporale, dovuta alla tardività di produzione; la coltivazione su terrazzamenti. In entrambe le aree i limoneti vengono chiamati per la loro bellezza semplicemente giardini, e sono un elemento fondamentale del paesaggio costiero, e forniscono la materia prima per un delicato rosolio, il “limoncello”.

LIMONE COSTA DI AMALFI IGP Cenni storici In Costiera Amalfitana la presenza di limoneti è testimoniata già a partire dagli inizi dell'XI secolo: la diffusione avvenne soprattutto grazie alla scoperta della loro grande utilità nella lotta allo scorbuto, la malattia dovuta a carenza di vitamina C, di cui gli agrumi sono notoriamente ricchi, e fu quindi incentivata da Amalfi, la prima repubblica marinara, per mantenere in buona salute gli equipaggi imbarcati sulle sue navi. I "giardini di limoni" lungo la Costa sono citati da diversi autori nei secoli a venire, dove si trova anche un accenno ad un "limon amalphitanus", nel '600, dalle caratteristiche molto simili all'odierno limone della Costiera. Descrizione del prodotto Il nome della varietà, "Sfusato Amalfitano", racchiude due caratteristiche importanti: la forma, affusolata, da cui il termine della varietà di limone "sfusato", e la zona in cui si è venuto, col tempo, a differenziare: la Costiera Amalfitana. È un limone dalle caratteristiche molto pregiate: la buccia è di colore particolarmente chiaro, ha un aroma e un profumo intensi grazie alla ricchezza di oli essenziali e terpeni; la polpa è succosa e acida, con bassa presenza in semi. Da studi recenti questo limone è risultato il più ricco in vitamina C. La coltivazione tipica è a terrazzamenti, lungo i versanti acclivi della Costiera e viene effettuata la copertura delle chiome, nei mesi invernali, per la protezione contro le avversità atmosferiche. La raccolta avviene più volte all'anno, per il fenomeno tipico nei limoni del polimorfismo: la produzione migliore, si ottiene nel periodo compreso tra marzo e fine luglio. Questa coltivazione svolge un ruolo fondamentale nella tutela idrogeologica del territorio occupando anche i versanti più acclivi con pendenze spesso ai limiti della coltivabilità, ed è elemento di spicco del paesaggio della Costiera Amalfitana,

definita da molti "divina Costiera" e che deve il suo fascino anche alla bellezza e al profumo dei limoneti, chiamati da secoli, per questo motivo, semplicemente "giardini". La sua fama è consolidata anche a livello internazionale: ancora oggi viene esportato nel Regno Unito, come accadeva già nella II metà dell'800.

ALBICOCCA VESUVIANA IGP Cenni storici Una delle prime testimonianze precise della presenza di albicocchi in Campania è dovuta a Gian Battista Della Porta, scienzato napoletano, che, nel 1583, nell'opera "Suae Villae Pomarium" distingue due tipi di albicocche: bericocche e crisomele, più pregiate. Da questo antico termine deriverebbe, quindi il napoletano "crisommole" ancora oggi usato per indicare le albicocche, e da cui sarebbero derivate, inoltre, le crisomele alessandrine, che ancora esistono nell'area vesuviana. Nel secolo scorso il testo ad opera di autori vari, "Breve ragguaglio dell'Agricoltura e Pastorizia del Regno di Napoli", del 1845, riconosce l'albicocco come l'albero più diffuso, dopo il fico, nell'area del napoletano, e precisamente in quella vesuviana, "dove viene meglio che altrove e più maniere se ne contano, differenti nelle frutta …". Evidentemente vi era già una discreta varietà di ecotipi che offrivano frutta diverse a seconda delle caratteristiche della varietà di appartenenza, di cui oggi si riconoscono oltre 40 nella sola area vesuviana. Descrizione del prodotto Con il termine "albicocca Vesuviana" si indica un insieme di oltre quaranta diversi biotipi tutti originari dello stesso luogo. La coltivazione è attualmente estesa a tutto il territorio dell'area vesuviana, dove infatti è nota la particolare fertilità dei terreni, che, essendo di natura vulcanica, sono ricchi di minerali e in particolare di potassio, elemento noto per la sua influenza sulla qualità organolettica dei frutti e dei vegetali in genere, e che, in questo caso contribuisce a conferire alle albicocche un gradevole e caratteristico sapore. Data la variabilità degli elementi che caratterizzano le numerose varietà, si potrebbe generalizzare la loro descrizione definendole comevarietà per la maggior parte a maturazione precoce e medio-precoce: si raccolgono verso metà giugno. Sono apprezzate sul mercato per le loro caratteristiche organolettiche,soprattutto per sapidità e dolcezza. Si distinguono dal punto di vista estetico per la presenza di un sovracolore rosso sfumato o punteggiato sulla base gialloaranciata della buccia di una buona parte di esse.

divenuto una vera e propria arte. Ai napoletani va riconosciuto il merito di averne introdotto l'uso nella cucina italiana e, tramite l'industria conserviera, di averlo diffuso ovunque. Una delle varietà locali più pregiata la troviamo nella zona del Parco Nazionale del Vesuvio: parliamo dei rinomati Pomodorini Vesuviani da serbo localmente detti "del Piennolo" (ovvero "del Pendolo"). Rappresenta una delle produzioni caratteristiche dei comuni vesuviani, e viene coltivato in massima parte tra i 150 e i 450 metri sul livello del mare. Nei piccoli appezzamenti, affidato alle premurose cure di agricoltori attenti a mantenere intatte le tecniche tradizionali e senza irrigazione, il Pomodorino Vesuviano trae i massimi benefici dal terreno vulcanico e da un sole quanto mai generoso. Anche il suo colore "ardente" è un regalo del vulcano, tanto che secondo gli anziani le radici dei pomodorini si nutrono della lava stessa del Vesuvio. Viene coltivato con l'ausilio di sostegni con paletti di legno e filo di ferro in modo da evitare che i frutti tocchino terra e che possano svilupparsi adeguatamente ricevendo uniformemente i raggi solari. I frutti, del peso poco superiore ai 20 grammi, sono di forma tondeggiante leggermente pruniforme, con un peculiare piccolo pizzo all'estremità e delle depressioni sull'altra estremità buccia spessa, polpa soda e compatta ed, infine, un sapore dolce-acidulo delizioso e inconfondibile, dovuto alla particolare concentrazione di zuccheri e sali minerali. La conservazione tipica di questi pomodorini è in "piennoli": i grappoli interi, detti "schiocche" raccolti tra luglio e agosto, prima della loro completa maturazione, sono sistemati su un filo di canapa, legato a cerchio, arrivando a comporre un unico grande grappolo di diversi chilogrammi che verrà mantenuto sospeso da terra in luoghi ben asciutti e ventilati. Sistema questo, che, favorendo una lenta maturazione, consente di avere "oro rosso fresco" fino alla primavera seguente all'anno della coltivazione. La lunga naturale conservazione è dovuta al fatto che le piante sono coltivate "in asciutta" e alla buccia piuttosto spessa che limita la disidratazione del frutto. Dal piennolo è possibile "attingere" cogliendo i singoli pomodorini che diventano così un ingrediente essenziale di tanti piatti tipici napoletani, regalano un tocco inconfondibile alla pizza, alle bruschette, agli spaghetti, alle salse, agli intigoli di pesce e a mille altre ricette. Le famiglie vesuviane, inoltre, erano solite preparare le classiche "bottiglie di pomodoro" dopo averlo passato al setaccio o introdotto nei contenitori a filetti (pacchetelle). Il metodo di coltivazione tradizionale in appezzamento spesso impervi e la particolare lavorazione post-raccolta necessita di grande disponibilità di manodopera, inoltre le rese per la coltivazione senza irrigazione sono basse. Ciò rende molto alto il costo di produzione e la graduale riduzione della coltivazione con l'uscita dei coltivatori più anziani. Un comitato promotore di giovani agricoltori, con il contributo dell'Ente Parco Nazionale del Vesuvio, che crede nello sviluppo integrato del territorio, si è costituito per richiedere la denoninazione comunitaria D.O.P.

POMODORINO DEL PIENNOLO DEL VESUVIO DOP (in itinere) Arrivato dalla lontana America, il Pomodoro ha trovato nel Napoletano il suo habitat ideale, prosperando ed evolvendosi verso specie domestiche sempre più pregiate. Insomma, è

www.sito.regione.campania.it/agricoltura


13

SCRITTO&MANGIATO

di Michael Jackson* E SE IL LIEVITO HA CAMBIATO SPONTANEAMENTE GUSTO? L’OLFATTO CHE TROVA GLI AROMI DOLCI E NON LE NOTE SECCHE, IL VALORE CHE DÀ UNA COMBINAZIONE PERFETTA

l blender Jack Goudy stava annusando un Old Pulteney, uno dei quaranta e più whiskies che compongono il Ballantine’s. Il Pulteney, della distilleria più settentrionale della Scozia non insulare, esprimeva tutto la sapidità dell’aria marina e il fine maltato che si attendeva, ma anche un aroma che non gli apparteneva e che identificò come profumo di primule: delizioso, ma estraneo al gusto del Ballantine’s. Goudy scartò quella partita di Pulteney e la distilleria dovette indagare. Era quasi certo che il tocco di primule, fiori non comuni nelle Highlands, fosse arrivato con il ruscello che porta acqua a Pulteney. Goudy, una leggenda nel mondo del whisky, è ormai in pensione, ma il suo successore Robert Hicks applica più o meno lo stesso metodo: ha rifiutato una partita di Glencadam e si è poi scoperto che l’aroma “estraneo” derivava da qualche nuovo apparecchio della distilleria. “Per fare questo lavoro occorre amare il whisky tanto da interessarsi a ogni aspetto della produzione”, spiega. “L’orzo di quest’anno crea aromi o gusti diversi? La nuova torba produce un livello diverso di fumo nel forno di essiccazione? Il lievito ha cambiato spontaneamente gusto? Qualcuno ha detto che sono come un ragno con una zampa in ogni angolo della ragnatela”. Alcuni blenders sono laureati in chimica e iniziano la carriera in laboratorio, altri hanno genitori nel settore, come Hicks, il quale ha cominciato a lavorare dagli approvvigionamenti ma a 19 anni studiava già il blending. In questo settore ci sono dieci-dodici “nasi” celebri, di solito sui quaranta-cinquant’anni e quasi tutti uomini, che spesso si vestono con abiti completi e mi ricordano in un certo senso i medici di famiglia. Durante la formazione, il blender deve dimostrare per prima cosa di saper identificare con sicurezza all’olfatto alcuni elementi chiave come lo zolfo, il fenolo o alcuni composti fruttati. L’assistente di Hicks, che forse tra un’altra decina d’anni ne prenderà il posto, annusa accanto a lui. Non discutono le loro impressioni prima di averle annotate: “Le conclusioni a cui arriva devono essere sue”, afferma Hicks, “non voglio un pappagallo ammaestrato”. Hicks, un signore robusto e concreto, diventa sorprendentemente lirico quando parla del carattere che vuole conferire al blend del Ballantine’s. “Penso a un frutteto pulito, dagli aromi freschi. Mi vengono in mente le mele, aromi di spezie, di polvere e di cannella, e magari un tocco molto discreto di cioccolato”. “Non importa quale linguaggio si usa”, sostiene Maureen Robinson, una delle poche donne di questa professione, che si occupa del Johnnie Walker. “La descrizione è solo il tuo modo per ricordare un aroma o un gusto o la loro combinazione. L’importante è essere coerenti e riuscire a ricordare queste caratteristiche, registrarle nella mente. In questo lavoro la memoria è importantissima”. Lo è anche, ovviamente, un buon olfatto. È sorprendente che alcuni sembrino esserne privi, mentre altri, per esempio, riescono a identificare gli aromi dolci ma non altrettanto bene le note più secche. Nei gruppi di degustazione sono spesso invitati operatori di altri reparti, e il buon “naso” si fa subito notare. “Facendolo ogni giorno diventi un esperto”, osserva Robinson. “Diventa quasi un riflesso condizionato. Un giorno

I

Nasi da Whiskey

12

a pranzo mi sono ritrovata ad annusare il ketchup”. Hilary Lamont, giardiniere alla distilleria Linkwoow, era uno dei dipendenti invitati a partecipare ai panels di degustazione. Diede così buona prova di sé che oggi, a cinquant’anni, lavora regolarmente come “naso”. Jack “Primroses” Goudy sarebbe fiero di lei. La giusta combinazione I blenders trascorrono giorni e giorni nella sala dei campioni, una via di mezzo tra un laboratorio e una biblioteca, con scaffali carichi di quelle che sembrano bottiglie di medicinali che però contengono whisky. I campioni sono annusati nelle copitas da Sherry, un tipo di bicchiere che sottolinea il colore ed esalta l’aroma, e a volte anche prelevati direttamente dalla botte nei locali di maturazione. I classici whiskies scozzesi sono prodotti in sostanza con metodo artigianale, con malto d’orzo, in un alambicco che ha la forma di un bricco o di una pentola. Questa combinazione dà vita a prodotti ricchi di aroma e di gusto. Alcune distillerie più grandi e industriali utilizzano altri cereali, come orzo, frumento o mais grezzi e alambicchi che hanno la forma di una colonna, con cui si ottengono whiskies di gusto più leggero. Quando nell’era vittoriana la fama dello Scotch si diffuse, le piccole quantità prodotte dalle distillerie artigianali erano assemblate e rimpolpate con whisky di cereali. Droghieri e commercianti di vino come George Ballantine, i fratelli Chivas e Johnnie Walker crearono prodotti blended che sarebbero diventati celebri marche internazionali. I più erano scozzesi, mentre i mercanti londinesi di vino Justerini e Brooks (J&B) hanno chiare origini italiane. Ciascun

blend è il frutto di una combinazione particolare di whiskies di cereali e di malto, che di solito comprende qualche erbaceo Lowlander (quale Auchentoshan o Glenkinchie), qualche whisky dai profumi d’erica e di miele delle valli montuose in cui scorrono corsi d’acqua come Livet, Fiddich e Spey, e alcuni prodotti dai toni salmastri e di alga marina delle coste e delle isole, quali Talisker o Laphroaig. I blenders possono trovare whisky di malto in circa 125 distillerie, anche se alcune non producono da alcuni anni o sono addirittura chiuse. Loro compito è assicurarsi che i loro celebri blends acquisiscano il carattere che i consumatori si aspettano, nonostante le occasionali aperture o chiusure delle distillerie e le variazioni aromatiche dovute alle diversità dell’orzo da un anno all’altro, al tempo e al rimpiazzo delle botti di legno. Per controllare queste variabili la combinazione esatta di whiskies di malto cambia costantemente, in modo che il risultato finale sia identico. Ogni nuova partita di ciascuna distilleria viene analizzata e ogni blender ha un proprio metodo di lavoro. Alcuni annusano solo 10-20 prodotti al giorno, altri un centinaio e più. Un compito ancora più impegnativo consiste nel determinare la quantità occorrente di ciascun whisky. I campioni analizzati provengono direttamente dalla distilleria e quindi la quantità ordinata viene messa a maturare. Anche in un blend che non riporta l’età in etichetta la maturazione media dei whiskies di cereali sarà di cinque anni circa, di quelli di malto forse otto e alcuni fino a quindici. Come fa il blender a stabilire oggi quanto Macallan o Bowmore gli servirà tra quindici anni? Si studiano i trends di vendita, ma è

un compito impossibile. “Ho una sfera di cristallo accanto al computer”, dice ridendo Robert McElroy della J&B. Quando i whiskies maturi sono consegnati per l’assemblaggio, li valuta una seconda volta. Come è invecchiato quel whisky? Molto gli può dire il colore che ha assunto in botte, ma lo assaggia soltanto dopo aver fatto l’assemblaggio finale. In dieci anni di attività ha creato tre o quattro prodotti nuovi, tra cui J&B Reserve, Jet e Ultima. “Questa è la parte più appassionante del lavoro, ma non è una cosa frequente”, precisa. Tutti i blends hanno un punto di partenza o un modello; in questo caso devono avere tutti il carattere “di famiglia” del J&B. La composizione dei blends è assai complessa e delicata. Ciascuno vede protagonista un whisky di malto, che può esercitare grande influenza anche in quantità molto esigua, magari solo il due per cento. Un whisky di malto delle isole di grande personalità, presente appena per lo 0,2 per cento, può nondimeno essere considerato una componente essenziale. Il J&B molto leggero esprime un fruttato discreto e una nota di marzapane dovuti a whiskies di malto di Speyside quali Knockando, Glenrothes e Tamdhu. Il Chivas Regal, un po’ più solido, sprigiona i sentori di nocciola del Glen Grant e di pesca del Glenlivet. Il più grosso e robusto Johnnie Walker (soprattutto l’“etichetta nera”) esprime il netto tocco di pepe del Talisker sul sottofondo più marcato dal malto del Cardhu. Il Johnnie Walker Gold ha un’evidente nota di Clynelish. È questa interazione che rende i prodotti di malto e i blended due tipi diversi e affascinanti di whisky. Uno è un solista, l’altro un’orchestra. ● *Slow Food

Marble floor #63 - 1999 - C-print on aluminum - 115 x 100 cm

prodotti della pesca si giunge fino al Mercato ittico, al Tronchetto (una località nota soprattutto per un parcheggio), dove un gruppo di esperti attenti e appassionati cerca di conciliare le fervide necessità di profitto degli operatori del settore con opportunità ben più rilevanti, come la sicurezza sanitaria che, peraltro, coincide con l’alta qualità dei cibi. È là che ho appreso un paradigma ben noto agli addetti ai lavori ma quasi sconosciuto ai consumatori. Il pesce non sa, e non deve, sapere di pesce. La scoperta può sembrare stupefacente, e in questo senso lo è. Quello che è comunemente riconosciuto come odore di pesce può essere ammesso per definire le caratteristiche di alcune preparazioni a base di pesce (cotto, salato, essiccato, affumicato…) ma non può e non deve essere accettato come caratteristica ideale per il pesce destinato al consumo. Gli esperti si esprimono in modo molto più tecnico di quanto io non abbia riferito, ma in termini semplici la questione può essere affermata proprio così. Credo che sia del tutto opportuno aderire e adottare questo criterio di giudizio, non solo perché è in accordo con le diverse “scale” del gusto adottate dagli esperti assaggiatori, ma anche perché proviene da un ambiente nel quale sono state sviluppate esperienze di altissimo livello. Ho visto personalmente un tecnico capace di “testare” in punta di lingua un trancio di tonno surgelato e di indicare attraverso una sensazione piccante la presenza di istamina (un mediatore chimico che, tra l’altro, è presente nelle carni di pesci che abbiano subito stress immediatamente prima o dopo la morte), poi confermata regolarmente da più impegnative e costose analisi chimiche. Le papille gustative sono ben più sensibili di qualunque strumentazione chimica per giudicare la qualità di un pesce, che semmai può avere odore salmastro (10 punti) o di mollusco, oppure fruttato (9 punti) o neutro (8 punti): quando inizia a saper di pesce (ma anche di muffa, aglio, topo, pepe) sarà bene evitarlo.. ● *Slow Food

Il pesce che non sa V di Ettore Tibaldi*

UN PARADIGMA NOTO

AGLI ADDETTI AI LAVORI MA SCONOSCIUTO

AI CONSUMATORI, APPRESO IN QUEL DI VENEZIA, RISALENDO FINO AL MERCATO ITTICO DEL TRONCHETTO

enezia è la città marinara più importante del mondo per numero di visitatori. Il suo fascino sta non solo in quello che essa può mostrare alle vittime del turismo “mordi e fuggi”, ma anche in quello che essa non mostra, e svela solo a chi, lentamente, può frequentarla per capirla. Essendo ospitata da secoli in una laguna, la città vive, come tutti gli ambienti salmastri, di un rapporto fertile con l’entroterra e di una vivace fertilizzazione proveniente dal mare. La qualità del cibo disponibile per chi lo sappia apprezzare può essere facilmente osservata al mercato di Rialto, dove i colori e i suoni, ma anche gli odori dei prodotti del mare e della laguna fluiscono verso consumatori attenti e entusiasti, in una strategia di marketing preindustriale e modernissima insieme. Se si risale, lungo le fresche e fredde catene della distribuzione dei


14

SCRITTO&MANGIATO

Marble floor #88, 1999 C-print on aluminium, 100 x 125 cm

ingapore, punta estrema della penisola di Malacca, 137 km. a nord dell’Equatore. All’epoca dei primi insediamenti britannici, Noel Barber, in Tanamera, scrisse: “C’erano tutte le ragioni al mondo per non insediarsi a Singapore. I pirati bugi che compivano scorrerie partendo dalla vicina costa del Johore erano pronti a tagliarti la gola per un dollaro; le tigri uccidevano ancora, in media, un indigeno al giorno; le formiche voracissime erano capaci di divorare una biblioteca in una settimana; la muffa faceva diventare verdi gli abiti in un paio di giorni. Il caldo afoso causava a volte la pazzia e il prurito insopportabile era accentuato dagli indumenti pesanti e inadatti. Eppure Singapore era una calamita che richiamava chiunque avesse sangue nelle vene, chiunque si sentisse attratto non soltanto dal desiderio di arricchire, ma anche dalla possibilità di rompere con il passato, di avventurarsi nel regno

S

Mi sa di Sling sconosciuto del futuro in una città che un tempo era detta Singapura, che in sanscrito significava Città del Leone”. Terra selvaggia e tagliata fuori dalle rotte prima che gli inglesi l’individuassero come base strategica per controllare i traffici d’Oriente. Con lungimiranza, vista l’ormai prossima apertura del canale di Suez (1869) e l’inizio dell’età dell’oro di Singapore. Tra i primi a scommettere su un radioso futuro di un luogo nel quale apparentemente non c’era nessuna ragione d’andare fu Sir Stamford Raffles, al quale la città ha dedicato un monumento e al cui nome sono legate due delle sue meraviglie: la Rafflesia, uno dei fiori più grandi del mondo e il Raffles Hotel, uno degli alberghi più belli del mondo. Lo fondarono i fratelli armeni Sarkies nel 1887 e divenne subito uno degli approdi più ambiti per i viaggiatori tra Occidente e Oriente e viceversa, definito con tipico humor britannico “il miglior caravanserraglio ad est di Suez”. A dispetto del nome, a Singapura non c’era traccia di leoni. Le tigri, però, abbondavano ancora e non sempre limitavano alla giungla il loro raggio d’azione. Una finì per infilarsi sotto il tavolo da biliardo del Raffles. Fu il coraggioso Mr. Phillis, capo dell’amministrazione, a stanarla e ucciderla a fucilate. Episodi che contribuivano ad alimentare la fama del lussuoso hotel dei fratelli Sarkies, il più giovane dei quali divenne celebre per le sue esuberanze alcoliche, durante le quali amava ballare con un bicchiere in equilibrio sulla testa, per limitarsi a citare una delle manifestazioni più innocue. Come nei migliori alberghi della Belle Epoque, nel salone da pranzo venivano serviti cibi raffinati e vini eccellenti.

di Roberto Duiz VIAGGIO TRA COCKTAIL E STORIA, LETTERATURA E FORMICHE CAPACI DI DIVORARE BIBLIOTECHE. SEDUTI AL RAFFLES DI SINGAPORE, ANTICA FRONTIERA DI DEGUSTAZIONE

Rudyard Kipling, primo di una lunga serie di grandi scrittori a soggiornarvi, decantò le lodi dello chef sui giornali indiani a cui inviava le sue corrispondenze di viaggio. Ma, al di là dell’aura letteraria che il Raffles andava assumendo, parallelamente alla mondanità, divenne più rinomato per le miscele alcoliche shakerate da abili barman dietro al bancone di quello che, viste le frequentazioni, non poté essere chiamato altro se non “Writer’s Bar” che non per la sua cucina. Lo frequentava Joseph Conrad, che, ai tempi in cui ancora navigava, alloggiava in un albergo più adatto al suo budget da marinaio o all’ospedale per smaltire le febbri tropicali ma al Raffles ambientava racconti (The end of Theter) e incubava Lord Jim e Linea d’ombra. “The Three Feathers”, “Singapore One Five-Oh”, “Mint Marie Lord” venivano serviti ai tavolini in ferro battuto smaltato di bianco nel Palm Court, giardino pieno di fiori di ibisco, frangipane e donaluz, ombreggiato da più di venti specie di palma. Qui Somerset Maugham ha scritto La luna e sei soldi, Schiavo d’amore e diversi racconti, spargendo veleni sui suoi connazionali che ambivano a riprodurre l’Inghilterra ai tropici. Sorseggiava preferibilmente “Million Dollar Cocktail”, fresca miscela di gin, vermouth, Cointreau e succo d’ananas, da lui descritta nel racconto La lettera, attribuendone la maternità a tale Mrs. Joyce. Un nome di fantasia, probabilmente, come tutti quelli attribuiti ai personaggi di quel mondo che disseminava di umori acidi, tanto da evitare di farvi ritorno dopo una lunga permanenza e spremitura, onde evitare plausibili ritorsioni. Ma il cocktail più famoso del Raffles è certo il “Singapore Sling”, creato dal bar-

man cinese Ngiam Tong Boon nel 1915: 4 cl di dry gin Beefeater, 2 cl di Cherry Brandy Peter Heering, 12 cl di succo d’ananas, 1 cl di succo di lime. Poi le dosi si rarefanno: qualche goccia di Angostura, Bénédectine, Cointreau e granatina, in dosi non perfettamente precisate per renderne più ardua la replica e mantenere una sorta di esclusiva, perché basta un lieve eccesso di Angostura o di granatina per trasformare una delizia in una ciofeca. Oggi Singapore non è neanche una parente lontana di quella cui si riferiva Noel Barber. Marmi lucidissimi, fontane e tapis roulant accolgono all’aeroporto Changi, annunciando che un potente detersivo è passato sulla giungla insidiosa e ha cacciato tutti i nemici del progresso: insetti schifosi, viscidi serpenti e felini unghiuti. Un vialone di cemento liscio come un parquet, ornato di piante e fiori accuditi con la stessa maniacale attenzione che Nero Wolf riservava alle sue orchidee, conduce al Singapore River, nel quale si specchiano parallelepipedi di cemento e vetro scintillanti nel sole. Ma, assediato dai grattacieli, il Raffles Hotel, col suo ondivago percorso secolare fatto di declini e rinascite, resiste brillantemente. Dal 1987, anno del centenario, è dichiarato monumento nazionale. E al suo interno, estraniandosi dal contesto metropolitano e con un po’ d’immaginazione si può ancora concordare con Maugham che in quegli spazi “raccoglie tutto ciò che vi è di fiabesco nell’esotico Oriente”. O, meglio, che c’era ma non c’è più, se non come simulacro. Ma finalmente sorseggiando un “Singapore Sling” fatto come si deve, sapore di selvaggitudine addomesticata, quanto di più è concesso al viaggiatore d’Occidente del terzo millennio. ●


Ciccioni globali Marble Floor # 6: 2000 C-print on aluminium, 110 x 198 cm, unique print

15

di Loris Campetti L’ITALIANO A TAVOLA cco s’avanza uno strano itaNELL’ULTIMO RAPPORTO alla diffusione dei supermaket, dei distriliano. Non è il figurino d’una butori automatici di cibi e bevande e dei volta, anzi è piuttosto grasCENSIS. CROLLA LA SPESA fast food che vengono vissuti come simsoccio. Obeso si dice. E’ boli di ricchezza, potremmo dire che obeso perché anche da noi, PER L’ALIMENTAZIONE, danno l’illusione ai poveri di vivere e gente nata e vissuta a bagno nel mar consumare come i ricchi. Adesso persino Mediterraneo, si va diffondendo PERDE PUNTI LA DIETA il governo Berlusconi ci fa sapere che l’American way of life. Eppure, mai come bisogna debellare la piaga dell’obesità, oggi il nostro modo di vivere, e di manMEDITERRANEA peccato che non faccia nulla, sul terreno giare, aveva raccolto tanti consensi scienculturale, per raggiungere questo obiettitifici e culturali. Parliamo della dieta RACCOMANDATA PERSINO vo. Siccome non si può imporre per legge mediterranea, variata, ricca, leggera peril divieto a ingrassare, varrebbe la pena di ché ha la fortuna di avere a disposizione DA FAO E OMS - A SCAPITO tornare sul concetto di tempo e sull’indimaterie prime straordinarie che mescolaviduazione del nemico da battere che è te e lavorate con fantasia e senza fretta DELLA VELOCITÀ. ALTRO CHE proprio la concezione della vita just in (“col tempo e con la paglia maturano le time. Cioè dell’American way of life. nespole”) danno risultati eccezionali. Una “COL TEMPO E CON LA PAGLIA” Giuro, non sono accecato dall’antiameridieta raccomandata dalla Fao e dall’Orgacanismo, è solo che penso a un modello nizzazione mondiale della sanità: “Una dieta povera di cibi ad sociale e relazionale diverso che proprio lungo le coste del alto apporto energetico, quali grassi saturi e zuccheri, ma ricca di Mediterraneo avrebbe le sue origini. frutta e verdure, e una vita attiva”, raccomanda un rapporto di Mi è capitato di invitare a cena un medico colto e famoso con esperti indipendenti preparato dalle due Agenzie delle Nazioni famiglia, moglie e due figli. A cena avevo preparato, tra l’altro, unite, come ci ricorda il 37º rapporto del Censis, l’ultimo dispotriglie di scoglio fritte. A un certo punto il bambino più piccolo è nibile, che denuncia appunto un aumento dell’obesità tra i giovadiventato viola in faccia: stava mangiando la triglia come si fa ni italiani. Del resto, l’obesità è un problema che ormai riguarda con una polpetta, semplicemente perché nessuno gli aveva spiel’intero nord ricco del mondo subalterno all’unico modello di gato che come le rose, i pesci a volte hanno le spine. Peggio: più i globalizzazione dato, quello egemonico d’Oltreatlantico. pesci sono economici e più spine hanno, più tempo di lavorazioIl modello americano si regge su due pilastri. Il primo è proprio ne richiedono. Ci vuole più tempo anche per mangiarli. Meglio l’egemonia culturale che è riuscita a garantirsi con l’aiuto dei la polpetta, allora, un gusto conosciuto e universale e i figli non media, della fiction, della pubblicità. Il secondo è decisamente più si strozzano. Sono inutili le campagne per convincere i consustrutturale: si vive di corsa, tutto deve avvenire just in time, senza matori a mangiare pesce azzurro se non si rimette mano al tregua e senza ozi. Il fast food nasce da questa rivoluzione cultumodello di vita, roba che richiede un lavoro di generazioni. rale. La nostra vita somiglia sempre di più a una filiera industriaBisogna rieducare i giovani al gusto, alle differenze, un lavoro le, nonostante i gargarismi sociologici sul postfordismo e postinche pochi - in testa, tra questi, i nostri amici dello Slow food dustrialismo. Non si può perdere tempo a far la spesa in botteghe stanno conducendo. e mercatini e ci si rifugia nel mercato globale dove tutto è pronto Il piacere per il cibo e il gusto presuppone investimenti. In tempo, e modulare, e siccome crescono le famiglie monocomponente, innanzitutto, e in subordine in denaro. Tornando alle triglie e al ecco pronte le porzioni monodose perché non si può perdere pesce in generale, è ovvio che se si ha poco tempo si compra il tempo a cucinare. Come ci spiega ancora il Censis, è questa la pesce di prima ma se non si hanno i soldi per il pesce di prima si “mission” più sofisticata sviluppata dall’industria alimentare glomangiano le polpette di qualche cosa. L’aragosta non ha spine, si bale. E globali diventano i gusti (si fa per dire), dall’Atlantico al mette nell’acqua bollente e ci si lascia per 19 minuti, poi si fredda Mediterraneo. Si compra, (non) si cucina e si mangia in fretta e e si mangia (così, almeno, fanno i ricchi selvaggi salvando la sola furia, poi si riprende a correre. E siccome mangiare fuori casa fa coda e spalmandola di maionese da supermarket. Un’altra volta parte dello stile di vita suggerito, se si hanno pochi soldi si va al vi spiegheremo come trattarla, noi che non siamo ricchi né selMcDonald’s dove si prova l’emozione di assaporare la stessa polvaggi e con qualche sotterfugio un’aragosta l’anno riusciamo a petta che mangiano i coetanei di New York e di Bucarest. Le feste rimediarla). Per trovare, pulire, cucinare e mangiare un’aguglia di fine anno scolastico non si fanno più a turno a casa di questo e che costa quattro soldi al cartoccio (con tanto di foglia di alloro di quella, la mamma non ha tempo di occuparsene. A massimo, in pancia), ci va più tempo, più cultura, più capacità di distinguese la mamma ha casa e portafogli generosi, si farà arrivare a casa il re e apprezzare gusti diversi. Fatto sta che negli ultimi 25 anni servizio ristoro. Magari proprio dal McDonald’s perché “i bambil’incidenza della spesa per l’alimentazione, in Italia, è scesa dal ni la vogliono proprio” quella polpetta. 34,4% del totale della spesa al 18,6%. Un crollo di quasi sedici E rieccoci all’obesità, “un’epidemia” occidentale secondo il rappunti in percentuale. Il che vuol anche dire che si spende di più porto Italia 2004 dell’Eurispes che ci spiega che gli italiani sono per altre voci: comunicazione, abitazione, trasporti. messi malino, più o meno come tedeschi e francesi anche se da Morale, riprendiamoci il nostro tempo per migliorare la qualità noi, a differenza del resto d’Europa, sono più obese le donne che della vita, che passa anche attraverso la cucina. Se non siete d’acnon gli uomini. Sempre l’Eurispes ci ricorda che anche nei paesi cordo fate come vi pare, purché poi non vi lamentiate se diventepoveri cresce l’obesità, in maniera direttamente proporzionale rete obesi e nevrotici. ●

E


17

SCRITTO&MANGIATO

a qualche settimana le “truppe” di Greenpeace percorrono le corsie dei supermercati di tutta Europa. Tengono d’occhio i prodotti esposti sugli scaffali e soprattutto le etichette, che in base a due nuovi regolamenti europei entrati in vigore lo scorso 18 aprile, devono indicare sull’etichetta la presenza di Ogm nel caso in cui questi superino lo 0,9% del prodotto totale o del singolo ingrediente. In base ai Regolamenti 1829/2003 e 1830/2003, gli operatori dovranno fornire informazioni sulla porzione di Ogm presente negli ingredienti degli alimenti e nelle materie prime dei mangimi ed indicare la presenza di Ogm superiore alla soglia di tolleranza sull’etichetta. Per essere chiari, una scatola di mais con più dello 0,9% di mais transgenico deve riportare la scritta “questo prodotto contiene Ogm”. Lo stesso discorso vale per il biscotto che annovera tra i propri ingredienti una piccola percentuale di soia transgenica. Indipendentemente dalla quantità di soia utilizzata nei biscotti, se la percentuale di transgenico relativa alla soia eccede lo 0,9%, il prodotto dovrà essere etichettato come Ogm. La precisazione è importante, dal momento che la maggior parte degli Ogm vengono utilizzati insieme ad una miriade di altre sostanze anche nella preparazione degli alimenti più comuni. Se la moltiplicazione degli ingredienti, la cui presenza spesso sfugge alle etichette, è una propensione classica dell’industria alimentare, il ricorso a processi di lavorazione che prevedono l’utilizzo di forti fonti di calore, ha come effetto la creazione di veri e propri “Ogm-fantasma”. Gli “Ogm-fantasma” sono sostanze transgeniche a tutti gli effetti ma non più identificabili come tali, dal momento che la trasformazione industriale ha reso irriconoscibili le proteine o i segmenti di Dna ai quali si fa riferimento durante gli esami di laboratorio per stabilirne la natura transgenica di una sostanza. Nonostante il nome, gli Ogm-fantasma sono prodotti che tutti conosciamo come gli oli vegetali, l’amido e gli zuccheri. Prima del 18 aprile olio di colza, amido di mais o glucosio di provenienza esclusivamente transgenica potevano essere commercializzati tranquillamente senza alcun obbligo di etichettatura. Con i nuovi regolamenti, viene riconosciuta l’origine Ogm anche nei casi in cui questa non è più rintracciabile. La soglia dello 0,9% è un livello massimo introdotto per esonerare dall’obbligo di etichettatura i prodotti nei quali gli Ogm sono una “presenza accidentale o tecnicamente inevitabile”. Questa soglia è applicabile solo agli Ogm che hanno ottenuto l’autorizzazione ad essere commercializzati. Per gli Ogm non ancora autorizzati ma ritenuti sicuri si applica una soglia di tolleranza più bassa, pari allo 0,5%. Fantasma o no, i prodotti Ogm destinati al consumo umano costituiscono solo una piccola parte degli Ogm che arrivano in Europa. In termini europei il business degli Ogm riguarda quasi esclusivamente i mangimi animali. Si calcola che intorno all’80% degli Ogm importati in Europa - soia, mais, colza e barbabietole - vengano utilizzate per la preparazione di mangimi animali. Solo in Italia arriverebbero ogni anno circa xxx tonnellate di soia, sempre per mangimi. Tutto questo ben di Dio finora passava inosservato, ovvero non doveva essere etichettato come mangime Ogm. Ottenerne l’etichettatura non è stato per nulla facile. Si è combattuto sia nel Parlamento europeo che nella Commissione. Il fatto di essere riusciti a regolamentare un’area strategica del mercato Ogm è una vittoria importante. Altrettanto importante, anzi cruciale, è stato il fatto di aver imposto l’etichettatura della presenza di Ogm anziché della loro assenza, come si premeva da più parti. Se fosse stata approvata l’etichetta “Ogm-free”, si sarebbe perso il controllo del mercato Ogm e la libertà di scelta dei consumatori si sarebbe limitata a sporadiche “aree protette”, che più che a garantire l’assenza di Ogm, sarebbero servite a giustificare prezzi più elevati. Inoltre l’onere della prova “Ogm-free” avrebbe costituito una specie di rebus scientifico-amministrativo. Infatti per rintracciare gli Ogm occorrono informazioni specifiche sull’Ogm che si vuole cercare, ovvero informazioni su come è stata prodotta la modificazione genetica e su quali sostanze sono in grado di rilevarla. Ed è difficile immaginare le aziende produttrici di Ogm fornire volentieri questo tipo di informazione riservata a chi vuole fare dell’Ogm-free. Eppure c’è una zona d’ombra nel quadro legislativo europeo in materia di Ogm, una sorta di asimmetria ingiustificata che riguarda i prodotti derivati da animali nutriti con mangimi Ogm. Se l’Ogm dell’olio di mais deve essere etichettato come derivante da Ogm anche quando il calore ha distrutto ogni traccia di Dna utile a stabilirne la natura transgenica, la carne, il latte e le uova di un animale nutrito con Ogm non sono soggetti ad alcun obbligo di etichettatura. E’ chiaro che una mucca che ha mangiato Ogm non è una mucca geneticamente modificata. Anche se il sentire comune tende all’idea che “siamo quello che mangiamo”. Sarebbe stato molto più semplice, addirittura tra-

D

Basta che non c’è scritto di Maria Tarantino C’È UNA ENORME ZONA D’OMBRA NEL QUADRO LEGISLATIVO EUROPEO IN MATERIA DI OGM, CHE RIGUARDA I PRODOTTI DERIVATI DA ANIMALI NUTRITI CON MANGIMI OGM. PERCHÉ LA CARNE, IL LATTE E LE UOVA DI UN ANIMALE NUTRITO CON OGM NON SONO SOGGETTI AD ALCUN OBBLIGO DI ETICHETTATURA. IL LAVORO DI GREENPEACE

sparente, indicare il tipo di mangime utilizzato per nutrire il bestiame. Dopo tutto questo avviene già nel caso del biologico, dove si riesce ad indicare non solo quello che hanno mangiato i polli ma anche se hanno potuto scorrazzare liberamente nell’aia. Il regime alimentare e la somministrazione di sostanze medicinali costituiscono la base dell’etichettatura dei prodotti biologici. Nel caso degli Ogm una cosa del genere viene trattata come una richiesta impossibile, assurda. E la questione si sposta subito sull’impossibilità di dimostrare gli effetti che nutrirsi di mangimi Ogm potrebbe avere sugli animali. L’unico fatto certo è che non esistono studi scientifici sugli effetti a lungo termine di questo tipo di alimentazione. Il problema è che nessuno preme affinché

questi studi vengano realizzati. Nell’attesa della verità, l’unica cosa certa è che il consumatore che vuole evitare prodotti derivati da animali nutriti con mangimi Ogm, per qualsiasi motivo intenda farlo, si trova nell’impossibilità di esercitare la propria libera scelta. Alla faccia della trasparenza e della difesa della salute. In pratica lo sforzo di etichettare i mangimi Ogm si vanifica allo stadio successivo, ovvero quello dei prodotti derivati. Il perché di questa scelta va forse cercato nelle cifre, nei milioni di tonnellate di soia che ogni anno approdano in Europa e che sono destinate quasi esclusivamente alla preparazione dei mangimi. In Italia, il porto dove approda la quasi totalità dei mangimi italiani è Ravenna. Nel 2002 in Italia sono arrivate più di quattro milioni di tonnellate di soia destinata alla preparazione di concimi animali. Quasi due milioni e mezzo provenivano dall’Argentina, il resto dagli Stati Uniti e dal Brasile. Quanta di questa soia è geneticamente modificata? Per averne un’idea basta considerare che l’Argentina è uno dei più grandi produttori di soia Ogm. Dal 18 aprile tutti i mangimi Ogm devono essere etichettati. Informazione importante ma inutile, dal momento che sarà praticamente inaccessibile ai consumatori, che sono i soggetti del mercato più ostili agli Ogm. Così, il vero mercato Ogm si allinea ai criteri europei di tracciabilità pur restando invisibile per che vuole vederci chiaro. ●

Marble Floor #100, 1999 C-print on aluminium, 115 x 155 cm

di M. T. VITA DIFFICILE PER QUEI CONSUMATORI EUROPEI CHE VOGLIONO CAPIRE DOVE SONO GLI OGM. UNA BREVE GUIDA E UNA SERIE DI INDIRIZZI INTERNET DOVE ANDARE A GUARDARE

a vita è difficile per tutti i consumatori che vogliono capire in quali prodotti vanno a finire gli Ogm. Attualmente sono circa 15 gli Ogm autorizzati all’interno dell’Unione europea. Una decina attende ancora l’approvazione. Tra quelli che già dovrebbero essere giunti sui banchi dei nostri supermercati ci sono soia, mais e colza. Il sito della Commissione europea indica chiaramente il nome scientifico dell’Ogm, il suo utilizzo, l’azienda che ha presentato la domanda di autorizza-

L

zione e la data di approvazione. Guardando più da vicino la tabella si capisce che soia, mais e colza non saranno utilizzati come tali ma come “derivati”. Conclusione rassicurante, dal momento che devono essere rari i pacchetti di soia e colza allo stato puro. I nostri Ogm arrivano ai supermercati sotto forma di derivati. Ma quali? Per questo tipo di informazione è inutile perlustrare il sito della Commissione europea. Ancora più inutile telefonare al laboratorio scientifico della Commissione, il JRC di Ispra, dove sono

stati messi a punto i protocolli per la tracciabilità degli Ogm. È probabile che qui si conosca fin nei minimi dettagli se un certo tipo di Ogm finisce nella pasta, nelle crocchette o nei biscotti. Dopo tutto è da lì che hanno dovuto estrarlo per verificare che la percentuale e il tipo di Ogm fossero quelli dichiarati dal produttore. Eppure di queste cose non si parla volentieri, chissà per difendere quali interessi. Se la “trasparenza” istituzionale ha i suoi limiti, è sempre possibile cercare altrove. Per avere informazioni a misura di con-

Mai dire mais

16

sumatore si finisce sul sito di Greenpeace, dove dal 18 aprile vengono raccolte informazioni sugli Ogm effettivamente etichettati. Sembra paradossale ma sono gli attivisti di Greenpeace, con i fondi dei loro sostenitori, ad attuare quella “difesa dei consumatori” che ci si dovrebbe aspettare da istituzioni che fossero davvero al servizio di quella maggioranza di opinione pubblica che è contraria agli Ogm e che vuole evitarli. Sul sito viene finalmente spiegato dove potrebbero trovarsi mais e soia transgeniche, ovvero nell’amido modificato di

mais, nella lecitina di soia (E322), nei mono e digliceridi degli acidi grassi, nel destrosio, nello sciroppo di mais, nell’olio di soia e di mais. Alla fine, i prodotti che potrebbero contenere ingredienti Ogm si estendono ad alimenti comuni come il cioccolato, i biscotti, la margarina, i gelati. Proteine estratte dalla soia vengono aggiunte a molti alimenti industriali a base di carne, come il ripieno dei ravioli. La farina di soia viene utilizzata nel 90% dei prodotti da forno. La lecitina di soia serve per emulsionare le parti oleose e quelle acquose in prodotti come gelati o budini. Il mais sotto forma di amido compare nei condimenti preconfezionati, nella maionese e anche in alcuni alimenti per neonati. La farina di mais viene usata nei fiocchi di cereali e nei prodotti da forno come il pane. L’olio di mai serve per addensare salse e gelatine. Cosa emerge dalle visite ai supermercati? I primi paesi ad esibire le nuove etichette Ogm sono Francia, Germania, Belgio, Olanda e Gran Bretagna. Si tratta di prodotti come preparati per torte, salse, oli vegetali, margarine, patatine, caramelle, bibite analcoliche, coloranti per cibi, sciroppi. In alcuni casi si tratta di marche americane, in altri di marche di grandi catene di supermercati europee. Per quello che riguarda carne, uova e latte, Greenpeace sta cercando a convincere i maggiori produttori ad utilizzare mangimi non geneticamente modificati. In pratica, si tratta di incoraggiare i produttori a creare una certificazione volontaria della carne, delle uova e del latte. E la cosa sembra funzionare, dal momento che diverse grandi marche hanno introdotto etichette “non-Ogm” per la carne di vitello, di maiale, per alcuni tipi di pollame e per le uova. ● Per maggiori informazioni: www.greenpeace.it per i prodotti etichettati Ogm in Europa http://ogm.greenpeace.it/prodotti.html per la lista di prodotti italiani non a rischio http://ogm.greenpeace.it/new/presentazioneliste.php


18

19

SCRITTO & MANGIATO

Vita da eucalipto

Marble Floor # 11: 2000, C-print on aluminium, 110 x 171 cm, unique print

C

RICET TE PER GLI O CCHI

I contadini del semi-arido hanno seri problemi di sostentamento economico, dovuti principalmente alla siccità e a un terreno impoverito da anni di pratiche agricole che ne hanno distrutto la fertilità. Inoltre, la monocultura di eucalipto, bisognosa di ingenti quantità di acqua, ha contribuito a ridurre ulteriormente le risorse idriche. Problemi che riflettono la situazione generale delle “campagne affamate”, qui come in altre zone rurali del mondo sfavorito: contadini stritolati da una concorrenza economica sproporzionata e da rapporti di filiera grandemente squilibrati. La maggior parte dei poveri e i tre quarti di chi si trova in condizioni di insicurezza alimentare vive nelle campagne. L’agricoltura è il luogo in cui si giocano questioni cruciali, uno dei settori che più evidenzia i guasti prodotti dal processo di mercificazione del sistema alimentare. Dice perciò Lembo: “Bisogna superare il modello di agricoltura volta al profitto, e favorire invece un sistema finalizzato al soddisfacimento dei bisogni primari, che ibo e acqua. “Un binomio tenga conto dei cicli di produzione e inscindibile nella lotta alla riduzione dei consumi, occorre utilizzare povertà a sud del pianeta le acque reflue, costruire impianti a circome a nord”, dice l’econocuito chiuso”. Aumentando la produttimista Rosario Lembo intervità con i modelli di agricoltura rainfed, venendo a un convegno in tema, organizsenza irrigazione, che forniscono ancora zato in Sicilia da Antonio Presti. Un il 60% dell’alimentazione mondiale, “si binomio inscindibile principalmente darebbe una svolta significativa alla pronelle periferie del mondo globalizzato. duzione di alimenti del pianeta e si Come segretario del Comitato italiano garantirebbe quindi una giusta sicurezza contratto mondiale sull’acqua, Lembo è alimentare”. promotore di un’iniziativa complemenL’opinione prevalente lega il concetto di tare al programma "Fame zero”, lanciato sicurezza alimentare soltanto alla dispodalla presidenza di nibilità e alle scorte Lula in Brasile: un di Geraldina Colotti di derrate e al conmilione di cisterne trollo sanitario dei destinate alle comuprodotti. Invece, nità rurali che vivo- LE RELAZIONI PERICOLOSE afferma l’economino nelle zone semista, il cibo sicuro aride come Norte TRA ACQUA E CIBO, “così come il ciclo de Minas e Altodi produzione degli Medio Vale do UN BINOMIO ATTRAVERSO alimenti di cui ci Jequitinhonha. Un nutriamo, è strettaprogetto di “forma- CUI PASSA LA LOTTA mente legato al zione e mobilitaziociclo e alle problene sociale, che mira ALLA POVERTÀ DEL PIANETA. matiche dell’acqua a promuovere sotto diversi aspetti: nuove modalità di UN BINOMIO INSCINDIBILE le caratteristiche del cooperazione nostro attuale decentrata, solidale, SOPRATTUTTO modello di agricoltra i cittadini del tura, i rapporti con Nord e del Sud del NELLE PERIFERIE l’ecosistema, (cioè Mondo”. L’idea, racl’inquinamento e il conta adesso DEL MONDO GLOBALIZZATO ciclo dell’acqua), i Lembo, è nata al livelli dei consumi e Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre le caratteristiche dei prodotti che portia“nel corso di un colloquio con Frei Betto, mo in tavola”. Inoltre, quando “i consuconsigliere speciale del presidente brasimatori dei paesi ricchi vogliono in tavola liano, che si batte per consentire ai 176 tutto l’anno alcune primizie ortofrutticomilioni di suoi concittadini di mangiare le, occorre ricordare che, in un chilo di tre volte al giorno”. E combattere la grano vi sono in realtà 100 litri d’acqua. povertà, “vuol dire garantire a tutti i In un arrosto di circa un chilo, 13.000 componenti del nucleo famigliare l’aclitri di acqua, necessari a produrre quella cesso quotidiano, continuo e adeguato quantità di carne”. Lo stesso ragionamenall’acqua potabile e al cibo, due aspetti to vale per i consumi virtuali di acqua dei della sicurezza alimentare”. più poveri: per i fagiolini, le fragole, gli

agrumi, prodotti in molti paesi del sud del mondo, in particolare l’Africa subsahariana, a rischio idrico o con scarsa disponibilità d’acqua. Il 20% di acqua impiegata dai paesi poveri in agricoltura, viene esportata all’estero in forma di alimenti e prodotti. Gli Stati uniti - tra i più grandi esportatori agricoli - mandano all’estero 4 volte più acqua di quanta ne utilizzi l’Egitto. Ne consegue, dunque, che “più del 70% dell’acqua del pianeta è utilizzata per garantire sicurezza alimentare a meno di 1/3 della popolazione mondiale. E, per giunta, buona parte del cibo prodotto viene poi distrutto”. In gran parte dei paesi occidentali - dove l’acqua è sufficiente sia per la vita che per le attività commerciali e industriali - è nella produzione agricola ad uso alimentare che si verificano gli sprechi maggiori di risorse idriche e i maggiori livelli di inquinamento. “L’attuale modello di produzione agricolo, che non è certo finalizzato alla sicurezza alimentare, utilizza il 69% dell’acqua potabile”, dice Lembo, e aggiunge altri dati: “Si calcola che la quantità di acque annua effettivamente utilizzata in agricoltura e necessaria alla produzione primaria, nel caso specifico di coltivazioni cerealicole, sia dai 1.000 ai 3.000 metri cubi per tonnellata di alimento prodotto”. L’Italia destina a usi agricoli il 50% dei prelievi acquiferi. Eppure la produttività per ettaro, in proporzione all’acqua prelevata, è fra le più

l rito dell’alimentazione declinato in tre volumi. Natura morta con prosciutto, pane o limone, pesci e frutti di mare al tramonto sulla riva, e tavole imbandite nei secoli da grandi o anonimi pittori, proposti in un libretto collettaneo edito da Sellerio. Luca Mariani, Agata Parisella e Giovanna Trapani, appassionati di arte e fornelli, lo intitolano Pittura in cucina. Gustose ricette per gli occhi e il palato illustrate da un dipinto commentato a lato dagli autori. Un gradevole excursus gastro-pittorico nel vasto panorama della “natura morta”, che i primi caravaggeschi chiamavano “La pittura del naturale”. Qualche assaggio? Sinfonia di faraona con frutta autunnale, tagliolini al nero di seppia con ragù d’aragosta o ravioli di zucca e pere con salsa di noci, un piatto associato a una Natura morta con zucca, pere e noci, del Pitocchetto (Giacomo Ceruti, 1698-1767): su un grezzo tavolo da cucina, protagonisti assoluti “ma senza alcuna enfasi pittorica”, i componenti di una merenda contadina, “prodotti spontanei (e per questo magicamente preziosi) della natura”, appena colti dai campi. Ma se il frigorifero è vuoto? Si può sopravvivere. A riempirlo pensa Francesco Gungui, un giovane cuoco acculturato, suggerendo mille soluzioni gustose - in poco tempo e poca spesa - in un libro illustrato da lui medesimo, Io ho fame adesso!, A pubblicarlo è Guido Tommasi, l’editore che nelle fiere cattura i visitatori con gli assaggi ricavati da antiche e introvabili ricette. La presentazione di Allan Bay rivolge allo chef un solo rimprovero: l’uso del dado da brodo. Per il resto, ogni cosa è al suo posto: piatti unici hard e soft, consigli per cene fra amici e gradevoli commenti dell’autore. Fenomenologia del mangiatore di bistecche, invece, nel Manuale del carnivoro di Carla Pagani (Castelvecchi), che spiega in salsa biblica, scientifica e antropologica, l’origine del senso di colpa indotto dai vegetariani nei carnivori. Chi scagliò la prima pietra? Quel frustrato di Caino, vegetariano ante litteram, che si sfogò sul godereccio Abele, amante - si presume - di abbacchio e coratella. Le controversie, si racconta, sorsero proprio in cucina, e si sa come andò a finire la storia… Vegetariani, in alto i cuori e i pomodori: “Mangiare è uno dei quattro scopi della vita - recita un proverbio cinese - quali siano gli altri tre nessuno lo ha mai saputo”. Meno che mai le bestie che aspettano di (ge.co.) essere mangiate…

I

basse d’Europa. L’acqua prelevata per usi irrigui in Italia “sarebbe sufficiente a soddisfare i bisogni idrici di 180 città grandi come Roma”. In sostanza, l’agricoltura assorbe troppa acqua, in parte proveniente da risorse idriche superficiali e immagazzinata in acquiferi. E un uso così intensivo della risorsa, “intacca grandemente la disponibilità futura di acqua dolce a livello globale”. Ridurre lo spreco di risorse idriche è dunque fondamentale. Ma come? Intanto raccogliendo l’acqua piovana in cisterne come nel progetto in Brasile, e poi informando e formando gli agricoltori all’utilizzo delle tecniche di protezione dell’ambiente. Cibo e acqua, un binomio inscindibile, governato da logiche mercantili e dalla mancanza di consapevolezza. Fondamentale, dunque è anche collegare i saperi alternativi e responsabili, diffonderli tra i produttori, gli amministratori e i consumatori. Per questo, nella prima settimana di luglio 2004, nasce la prima facoltà dell’Università del bene comune, diretta da Riccardo Petrella e Rosario Lembo. In Italia avrà sede ad Abano Terme (www.contrattoacqua.it), in Brasile presso l’università di Unisinos, a qualche centinaio di chilometri da Porto Allegre. Un progetto non accademico ma formativo, basato su un’idea di “convivialità”, di “fare insieme” una “nuova cultura dell’acqua” e dell’alimentazione. ●

8° PALIO DEI VINI FRIZZANTI “MATILDE DI CANOSSA – GHIRLANDINA D’ORO” L’8° Palio dei Vini Frizzanti “Matilde di Canossa – Ghirlandina d’Oro” si è svolto a Reggio Emilia – Hotel Mercure Astoria dal 27 al 29 maggio scorsi. Il Concorso, a carattere nazionale, è stato organizzato dalla locale Camera di Commercio con la collaborazione dei Consorzi dei Lambruschi di Reggio Emilia e Modena, della Provincia di Reggio Emilia, dell’Enoteca Regionale Emilia Romagna e dell’Associazione Italiana Enologi. Al Concorso hanno partecipato 120 Aziende con 511 campioni provenienti da 23 province di 8 regioni italiane.

LAMBRUSCO SALAMINO DI SANTA CROCE 2003 CANT. SOC. DI S. CROCE - CARPI (MO)

MEDAGLIE D'ORO

PROSECCO DI CONEGLIANO VALDOBBIADENE "RIVA MORETTA" 2003 PERLAGE SRL - SOLIGO (TV)

OLTREPO PA VESE SANGUE DI GIUDA "BRONIS" 2003 CANT. SOC. DI BRONI SCARL - BRONI (PV) PROSECCO DI CONEGLIANO VALDOBBIADENE "COL TORRONT” 2003 AZ. AGR LE BERTOLE DI BORTOLIN G. & C. SS VALDOBBIADENE (TV)

VINI A DENOMINAZIONE DI ORIGINE CONTROLLATA

REGGIANO LAMBRUSCO "CONCERTO" 2003 MEDICI ERMETE E FIGLI SRL - REGGIO EMILIA (RE)

COLLI BOLOGNESI PIGNOLETTO 2003 AZ. AGR TIZZANO SRL - CASALECCHIO DI RENO (BO)

RENO MONTUNI "VILLA BASSI" 2003 AZ. AGR BASSI LUIGI - CALDERARA DI RENO (BO)

COLLI DI PARMA MALVASIA "CORTI DELLA DUCHESSA" 2003 CANTINE CECI SRL - TORRI LE (PR)

RENO PIGNOLETTO "VILLA BASSI" 2003 AZ. AGR BASSI LUIGI - CALDERARA DI RENO (BO)

COLLI DI SCANDIANO E DI CANOSSA MALVASIA "DAPHNE" 2003 MEDICI ERMETE E FIGLI SRL - REGGIO EMILIA (RE) COLLI PIACENTINI BONARDA 2003 CANTINA DI VICOBARONE SCARL VICOBARONE DI ZIANO P.NO (PC) LAMBRUSCO DI SORBARA "SIGILLO" 2003 CHIARLl 1860 - PRIVI. SRL - MODENA (MO) LAMBRUSCO DI SORBARA "CENTENARIO" 2003 CHIARLl 1860 - PRIVI. SRL - MODENA (MO) LAMBRUSCO GRASPAROSSA DI CASTELVETRO "L'ACINO" 2003 AZ. AGR VITIVINICOLA CORTE MANZINI - CASTELVETRO (MO) LAMBRUSCO MANTOVANO "MONT ALDO" 2003 CANTINE VIRGILI DI VIRGILI LUIGI E C. SNC - MANTOVA (MN)

VINI A INDICAZIONE GEOGRAFICA TIPICA EMILIA CHARDONNAY "BELLEI" 2003 AZ. AGR. PEZZUOLI - MARANELLO (MO) PREMIO SPECIALE "MATILDE DI CANOSSA GHIRLANDINA D'ORO 2004”

CHIARLI 1860 - PR.I.V.I. SRL MODENA (MO) MODENA LAMBRUSCO "CANTINE CENTENARIE" 2003 EMILIA LAMBRUSCO "NIVOLA" 2003 LAMBRUSCO GRASPAROSSA DI CASTELVETRO "CENTENARIO" 2003 . LAMBRUSCO GRASPAROSSA DI CASTE L VETRO "VILLA CIALDINI" 2003 LAMBRUSCO DI SORBARA CENTENARIO" 2003

EMILIA LAMBRUSCO "NIVOLA" 2003 CHIARLl 1860 - PRI.V.I. SRL - MODENA (MO) EMILIA MALVASIA 2003 ARIOLA SRL - CALICELLA DI PILASTRO LANGHIRANO (PR) EMILIA MALVASIA 2003 CANTINE CAVICCHIOLI U. E FIGLI SRL - SAN PROSPERO (MO) MODENA LAMBRUSCO "IL CASTELLO" 2003 CANT. SOC. DI S. CROCE - CARPI (MO) MODENA LAMBRUSCO "CANTINE CENTENARIE" 2003 CHIARLI1860 - PRI.V.I. SRL - MODENA (MO)


Aldo Biasi Com

Conad è una grande realtà cooperativa diffusa in tutta Italia. In ogni Conad uomini e donne che parlano da sempre la lingua della convenienza, della qualità e del servizio. E l’hanno imparata da te: standoti vicino, ascoltando i tuoi bisogni, rispettando i tuoi gusti.


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.