CON LE MONDE DIPLOMATIQUE + EURO 1,50 Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1, Aut. GIPA/C/RM/23/2013
ANNO XLIII . N. 1 . GIOVEDÌ 2 GENNAIO 2014
EURO 1,50
Lettere dal fronte Sul Job Act di Renzi il dissenso dei giovani Turchi è di maniera
Boom di ascolti per il discorso di fine anno del presidente della repubblica: in 10 milioni davanti alla tv. Fallisce il boicottaggio di Grillo e Berlusconi. Napolitano difende il suo governo, ma sceglie il dialogo con l’antipolitica e legge le lettere delle vittime della crisi. Previsioni nere anche per il 2014. Che inizia con una pioggia di rincari PAGINE 2,3,4
RIFORME, L’URGENZA CHE NON SI VEDE
INTERVENTO Andrea Fumagalli a pagina 15
Massimo Villone
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SARDEGNA
Il Pd cerca il suo candidato Salta la candidatura della renziana Francesca Barracciu dopo la sua iscrizione nel registro degli indagati per l’inchiesta sull’uso dei finanziamenti ai consiglieri regionali. E adesso il partito non ha più ilsuo cabdidato per le elezioni regionali di febbraio. COSSU |PAGINA5
FINMECCANICA
Agusta, sfuma l’affare indiano Il governo indiano annullato l’acquisto di 12 elicotteri di Agusta Westland (gruppo Finmeccanica) per un valore di 560 milioni. La vicenda, finita sotto inchiesta per corruzione, ha portato all’arresto l’ex ad di Finmeccanica Orsi e dell’ad di Agusta Spagnolini SALVETTI |PAGINA 4
CIOTTI
Addio Roberto, chitarra blues È morto a 60 anni Roberto Ciotti, uno dei più dotati chitarristi italiani. Aveva collaborato con Bennato, De Gregori, Venditti. E aperto nell’80 i concerti di Bob Marley a Torino e Milano. Sue le colonne sonore di «Marrakesh Express» e «Turnè» di Salvatores. DIANA E DE LUCA|PAG. 12
VIVISEZIONE
Il gossip degli anti-animalisti Annamaria Rivera
C
ome premessa, occorre dire che il caso di «Caterina e la vivisezione» si configura come uno scandalo montato ad arte. Si potrebbe sospettare che sia una sorta di ritorsione per la vittoria ottenuta con la chiusura di Green Hill, dopo anni di lotte, repressione e manifestazioni, anche di massa. Ricordiamo che a metà luglio il mostruoso allevamento di cani beagle, destinati a esperimenti di ogni genere in tutta Europa, con sede a Montichiari, di proprietà della multinazionale Usa Marshall Farms Inc., è stato chiuso dalla magistratura, che ha incriminato i vertici dell’azienda. CONTINUA |PAGINA 6
/FOTO PAOLO POCE-SINTESI VISIVA
STATI UNITI
New York, inizia l’era liberal di Bill de Blasio N
on solo strade pulite e quartieri sicuri: «Abbiamo una missione più profonda: mettere fine alla diseguaglianza sociale ed economica che minaccia di distruggere la città che amiamo», ha promesso il nuovo sindaco di New York Bill de Blasio nel suo discorso d’insediamento. Aspettando l’inizio di «una nuova era progressista», gli occhi dell’America liberal sono puntati su di lui. La consapevolezza di muoversi su un palcoscenico più ampio di quello locale e di star intraprendendo un esperimento politicamente molto difficile, hanno guidato le scelte che de Blasio ha fatto finora rispetto a chi governerà al suo fianco. GIULIA D’AGNOLO VALLAN |PAGINA 7
MESSICO
Chiapas, a vent’anni dall’insurrezione zapatista. Viaggio nelle comunità ribelli dove la vita è più equa LUIS HERNÁNDEZ NAVARRO |PAGINA 9
CAMPAGNA ABBONAMENTI
La rivoluzione in tasca Da ragazza ciò che mi inorgogliva di più, formazione dell’istante che offre, diventata gosEmma Dante quando compravo il Manifesto, era l’etichetta: sippara come nella maggior parte dei giornali, «quotidiano comunista». Arrivare a scuola ma l’analisi critica, il punto di vista e il respiro con il Manifesto ben in vista piegato nella tainternazionale. Da anni uno dei miei appuntasca dei jeans un pò strappati era un modo per menti mensili è il 15 di ogni mese in cui esce Le manifestare a tutti la mia identità, il mio creMonde diplomatique tradotto dal Manifesto, do politico, le mie idee. Il Manifesto in tasca a conferma dell’attenzione alle questioni intermi faceva sentire rivoluzionaria. Col passare nazionali e terzomondiste che questo quotidiadegli anni, i contenuti diventavano prioritari no da sempre mostra di avere. Anche adesso a scapito delle apparenze e le etichette iniziavache ogni tanto leggo Le monde diplomatique no a darmi sempre più fastidio e a starmi stretin francese, mi è rimasta comunque l’abitudite. Ora, in questa fase della mia vita in cui sone di comprarne la versione italiana del 15 di no sempre meno attratta dalla frenesia dell’informazione, il Manifeogni mese. Consiglio ai lettori di abbonarsi e di non perdere l’abitusto rimane un compagno fedele, non più un simbolo da mettere in dine di leggere un quotidiano che ha dimostrato di essere un compatasca. Concordo in pieno con Schopenhauer che diceva: «leggere tutgno coerente e fedele. Abbonarsi al Manifesto permette a questa voce ti i giorni il giornale è inutile come guardare nell’orologio la lancetalternativa di continuare ad approfondire e a farci riflettere e perta dei secondi».Nonostante ciò uno dei pochi quotidiani che contiché no, a provare ancora quel brivido adolescenziale di sentirsi un nuo a leggere con interesse è proprio il Manifesto perché non è l’inpo’ di sinistra e di credere nella realizzazione dell’utopia comunista.
apolitano conferma nel suo discorso di fine anno la nota linea delle riforme istituzionali «obbligate e urgenti». Ma lo sono davvero? E quali? In ogni caso, non è dubbio che, se riforme si faranno, la spinta del Capo dello Stato sarà stata decisiva. Esprimiamo un dissenso, con la sola eccezione della legge elettorale. I punti sono tre: non è il momento giusto per mettere mano alla Costituzione; le riforme proposte in larga parte non sono utili e anzi dannose; la Costituzione va attuata, e non stravolta. Primo. Perché non è il momento giusto? Anzitutto, per un problema di rappresentatività del legislatore costituzionale. Questo parlamento è in assoluto il meno rappresentativo della storia della Repubblica. La Corte costituzionale ha già pronunciato l’illegittimità del Porcellum. Rimane formalmente intatta la legittimazione giuridica. Ma quella sostanziale e politica è colpita a morte, e lo sappiamo fin d’ora, anche prima che le motivazioni della sentenza siano note. Un parlamento delegittimato alle radici della sua rappresentatività può curare l’emergenza della crisi economica, che non tollera sospensioni o ritardi. Può fare una legge elettorale rispettosa della sentenza della Corte costituzionale. Ma non ha titolo a ricostruire dalle fondamenta la casa di tutti. Inoltre, la questione riforme si è impropriamente intrecciata sin dall’inizio con la sopravvivenza dell’esecutivo. Riforme fatte non perché duri la Carta, ma perché duri un governo. Il contorto percorso dei saggi e della legge speciale di revisione costituzionale è stato imposto dal governo. Lo sanno tutti che le mozioni parlamentari sul punto furono scritte sotto dettatura di Palazzo Chigi. Cosa impediva invece di partire con l’articolo 138 della Costituzione e le proposte da anni in campo, più o meno saggiamente riprese? CONTINUA |PAGINA 2
BIANI
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il manifesto
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LETTERE DAL FRONTE
Quirinale •
Il capo dello stato sceglie il dialogo diretto con i cittadini e con i malumori dell’antipolitica. E sorvola su Berlusconi decaduto
Auguri, ma non di rito Il tradizionale «buon anno» del presidente è ormai un passaggio politico decisivo. Napolitano, al suo ottavo discorso, ben consapevole del ruolo centrale che ha assunto, si difende, insiste sulle riforme, e sulla legge elettorale va incontro a Renzi
Andrea Fabozzi ROMA
«N
ei limiti dei miei poteri e delle mie responsabilità». Giorgio Napolitano ha scritto, e letto, per due volte questa formula nel suo discorso di fine anno; una doppia puntualizzazione imposta dal ruolo centrale che il presidente della Repubblica è ben consapevole di aver assunto nella vicenda politica italiana, e certo anche dalle critiche che per questo suo ruolo si attira. Si tratta però di puntualizzazioni tanto obbligate quanto vane: gli auguri del presidente Napolitano - tanto più all’ottavo, eccezionale capodanno - non sono il rituale omaggio alla tradizione, ma ormai un passaggio politico atteso, decisivo. Il messaggio dell’altra sera addirittura, secondo una lettura consonante con il governo Letta, dovrebbe rappresentare il punto di svolta per il rilancio dell’esecutivo. Del resto anche l’attenzione in negativo segnala l’accresciuta importanza del «rito»: alle fantasie di boicottaggio televi-
IL LEADER DEI 5 STELLE LANCIA LA CAMPAGNA PER LE EUROPEEE
Grillo attacca Napolitano, ma perde la sfida mediatica Carlo Lania ROMA
L
a si po' considerare l'ultima sfida del 2013 o la prima del 2014, fatto sta che comunque la si voglia vedere Beppe Grillo l'ha persa. L'invito rivolto agli italiani dall’ex comico perché non seguissero il tradizionale discorso di fine anno dal Quirinale per sintonizzarsi invece sul suo blog, è caduto nel vuoto, come del resto era prevedibile. Meno prevedibile che gli italiani si affollasero davanti agli schermi per sentire le parole di Napolitano più numerosi del solito, facendo registrare un aumento degli ascolti del 2,8% rispetto al 2012, segno che gli appelli rivolti da Grillo, ma anche dalla Lega, hanno sortito esattamente l’effetto opposto. Impossibile, invece, sapere quante persone hanno ascoltato il contro-discorso tenuto alle 20,30 del 31 dicembre - in contemporanea con la diretta dal Colle - dallo stesso Grillo sul suo blog. Blog con cui per alcuni minuti è stato impossibile connettersi probabilmente a causa dei troppi accessi, la cui reale entità però fino a ieri sera non è stata resa nota né dal capo del M5S né da qualcuno del suo staff. Del resto era chiaro che l'invito a disertare il discorso di fine anno dal Quirinale era solo l’ennesima provocazione del leader pentastellato, che ha comunque approfittato dell'occasione per lanciare la campagna elettorale per le elezioni europee e per tornare sui principali cavalli di battaglia del movimento: dall'attacco ai partiti e alla Corte costituzionale per i tempi lunghi con cui ha deciso sul porcellum, alla messa in stato di accusa del capo dello Stato. «A gennaio presenteremo l'impeachment contro Napolitano, spero che come Cossiga si dimetta prima. Non può permettersi di bloccare un paese», ha detto. Per il suo contro-discorso Grillo ha scelto un ambiente molto informale. Una stanza con una gigantografia dello stesso leader vestito da Garibaldi e una fotografia in bianco e nero. Lui, in camicia a quadri, promette di non dire parolacce (in realtà gliene scapperà qualcuna) e per una
volta di non urlare. Ma si tratta delle uniche concessioni. «Non faccio concorrenza al presidente della Repubblica io ho sempre fatto questi discorsi alla fine dell’anno. E’ lui che si sovrappone a una voce popolare», attacca subito. Senza risparmiare critiche a quanti ancora non votano il suo movimento: «Avete ancora il coraggio di votare per chi ha rovinato il paese?», chiede. «Continuate a farlo se volete, ma allora non vi lamentate». Grillo parla per 17 minuti e 51 secondi. Difende il lavoro svolto in parlamento dagli eletti del suo movimento che, ricorda, «si sono dimezzati lo stipendio e hanno restituito 42 milioni di euro di finanziamento pubblico». Poi rivendica la decadenza da senatore di Berlusconi e la richiesta di dimissioni del ministro Cancellieri per la vicenda Ligresti e infine chiede di andare al voto subito con il mattarellum. Ma è all’Europa che dedica la parte più forte del suo intervento. «L’euro non è un tabù», dice promettendo, in caso di vittoria, un referendum sulla moneta unica. «Se il M5S va in Europa ridarà all'Italia un ruolo centrale» assicura, promettendo anche di rivedere scelte già adottate: «Le politiche economiche europee sono contro gli interessi nazionali, dettate dagli interessi tedeschi - dice -, le ricontratteremo e se necessario disdetteremo accordi firmati da altri governi, come quello Monti». Infine Napolitano. La richiesta di impeachment del capo dello Stato è uno dei primi impegni presi dall’ex comico per l’anno nuovo. Obiettivo sul quale Grillo ha trovato fino a oggi il consenso dei falchi Forza Italia e probabilmente anche della Lega, che proprio in questi giorni deciderà se aderire o meno alla campagna del M5S. Intanto anche l’altra sera Grillo non ha mancato l’occasione per attaccare il capo dello Stato «colpevole» - ha spiegato - «di essersi fatto rieleggere contro al Costituzione» e di aver «battezzato il governo delle larghe intese con un pluriprocessato in seguito condannato per truffa fiscale». Lo stesso che, paradossalmente, adesso potrebbe avere come alleato nella richiesta di messa in stato d’accusa di Napolitano.
siovo da parte berlusconiana rispondono i dati di ascolto, che essendo in crescita segnalerebbero un successo tutto politico del presidente. Curioso poi che si tratti quasi dell’identico numero di teleascoltatori (circa 10 milioni) che hanno seguito l’equivalente messaggio del francese Hollande. Un presidente che è leader politico ed è eletto direttamente dai cittadini, ma il cui stringato discorso - 10 minuti, la metà di quello di Napolitano - cade in Francia nel quasi assoluto disinteresse politico. Da noi è diverso, e degli auguri dal Quirinale vanno colti anche i dettagli di scenografia e sceneggiatura: la scrivania presidenziale lasciata vuota, il dialogo diretto con i cittadini e con i malumori dell’antipolitica. Non è la prima volta che il presidente si sistema dalla parte dello spettatore-elettore per rivolgersi ai partiti nel loro complesso. Stavolta se possibile l’insistenza sulla necessità delle riforme è stata persino maggiore: Napolitano ne ha parlato come di un passaggio «obbligatorio e urgente». Altrimenti, ha aggiunto, è addirittura la «nostra democrazia» che «può rischiare la destabilizzazione». Il punto debole del ripetuto appello è che le riforme costituzionali sono state utilizzate, nell’anno che si chiude, come un gerovital per il traballante esecutivo, e sono poi rapidamente tramontate all’orizzonte una volta sfilatasi Forza Italia. Su questa pure traumatica cesura Napolitano sostanzialmente sorvola; nel discorso l’unica traccia della decadenza di Berlusconi, cioè dell’evento che ha segnato tutta la legislatura, è questa: «Molto è cambiato negli ultimi mesi nel cam-
In 10 milioni davanti alla tv. Dati di ascolto in crescita nonostante le fantasie di boicottaggio po politico». Per il presidente il Cavaliere è ormai affidato agli storici e i berlusconiani, che non possono dirsene sinceramente sorpresi, sono lo stesso assai arrabbiati e vagheggiano la messa in stato d’accusa (procedura il cui esito è segnato, visti i numeri in parlamento, ma che segnerebbe ugualmente in modo pesante il mandato di Napolitano). Il capo dello stato dice adesso che le riforme costituzionali serviranno al parlamento per «riguadagnare il suo ruolo centrale», però quando scende sul pratico raccomanda solo una più celere risposta delle camere ai desideri del governo. Cita le mozioni sulle riforme approvate a maggio come prova dell’adesione del parlamento al progetto riformatore, ma trascura di dire che quelle erano mozioni imposte dall’esecutivo con il ricatto della crisi e che prevedevano una quasi totale riscrittura della seconda parte della Costituzione. Ma quello che allora la maggioranza e i suoi saggi consideravano il minimo indispensabile è diventata un’urgenza non più urgente. Urgentissima resta invece per il settimo capodanno di fila la nuova legge elettorale. E può essere interessante che il presidente non abbia fatto riferimento stavolta a un accordo indispensabile nella maggioranza di governo. Al contrario ha detto di auspicare «la più larga maggioranza possibile». Sarà stato questo uno dei passaggi preferiti da Matteo Renzi, assieme al senso di urgenza complessivo trasmesso dal messaggio e dalle note critiche generalizzate verso i partiti. Anche perché, contemporaneamente, dall’«altro» messaggio di capodanno di un leader-non leader, quello di Grillo, è arrivata una decisiva apertura alla riforma più semplice del Porcellum, e cioè il ritorno al Mattarellum. Bisognerà adesso intendersi sulle correzioni a quel vecchio modello, comunque per Renzi e per la sua ricerca di un accordo al di fuori del perimetro di governo il nuovo anno comincia bene. Ma è il nuovo mese quello che conta.
RIFORME
La Costituzione va attuata, non stravolta DALLA PRIMA Massimo Villone L’ambizioso progetto - poi ampiamente ridimensionato nell’ultimo discorso di Enrico Letta per la fiducia - e il cronoprogramma iniziale di diciotto mesi furono barbacani a sostegno della pericolante strana maggioranza. Secondo. Perché le riforme proposte sono dannose, e non utili? Lo sono di certo per la parte che insiste su linee ampiamente smentite dagli ultimi venti anni, perseguendo obiettivi ormai agli antipodi di quanto sarebbe necessario. I problemi del paese vengono da una intrinseca fragilità della politica, e dei suoi attori. Frammentazione, feudalesimo partitico, personalizzazione estrema unita a debolezza delle leadership, evanescenza del progetto, perdita del radicamento non sono curati dalle comparsate televisive, da twitter o dai blog. E non si curano nemmeno blindando artificiose leadership di governo con numeri parlamentari falsati dai sistemi elettorali, o mettendo con norme costituzionali o di regolamento parlamentare la mordacchia a ogni voce non allineata. Eppure, è proprio questa la linea che si vorrebbe: uomo solo al comando, elezione sostanzialmente o formalmente diretta del leader con la sua beninteso obbediente - maggioranza, permanenza in carica per la durata del mandato, bipolarismo militarizza-
to. Nulla conta che il sistema non sia più bipolare, e che per venti anni proprio la linea proposta si sia mostrata fallace e ingannevole. Nessuno dei governi benedetti con il voto popolare è arrivato senza traumi a fine legislatura. Nemmeno quelli di Berlusconi. Terzo. Perché la Costituzione va attuata, e non stravolta? Ce lo dice l’Istat. Disoccupazione, povertà relativa e assoluta, pensionati a mille euro o meno, giovani o ex giovani che la pensione nemmeno la vedranno, ascensore sociale fermo, impossibilità per tanti di formare una famiglia, di affrontare un’emergenza medica, di mandare i figli all’università. Nessuna speranza di futuro. Collassa la prima parte della Costituzione, assai più di quella - la seconda - che si vuole riformare. Lo stesso Giorgio Napolitano parla di un anno difficile e drammatico, di unità e coesione sociale a rischio. Vero. Ma certo non perché i regolamenti parlamentari o le norme costituzionali sui decreti legge siano inadeguati. Piuttosto, perché milioni vivono nella disperazione. È la incapacità di dare risposte che soprattutto delegittima politica e istituzioni, e non viene dalle regole inadeguate, ma dalle priorità non assunte e dalle scelte non fatte. È perdere la speranza la causa prima della sfiducia in chi ci rappresenta e ci governa. È nel drammatico aumento delle diseguaglianze e dei bisogni inascoltati il rischio per l’unità e la coesione sociale. Se le risposte giuste arrivassero, da es-
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LETTERE DAL FRONTE
Lavoro •
Il tavolo con il governo e le parti sociali per la riforma degli ammortizzatori sociali è stato convocato il 9 gennaio. A fine mese il «Job Act» del Pd di Renzi
FIAT ACQUISTA L’ULTIMA QUOTA DEL 41%: ORA CHRYSLER È TUTTA DEGLI AGNELLI «Un accordo importante, di quelli che rimarranno nei libri di storia», lo ha definito l’amministratore delegato d di Fiat Sergio Marhionne. Dopo mesi di contrattazione, l’acquisto si è chiuso nella notte di ieri: Veba, il fondo previdenziale dei sindacati. otterrà 3,65 miliardi di dollari per cedere a Torino il 41,5% della Chrysler. Gli Agnelli sono diventati dunque proprietari dell’intera casa automobilistica di Detroit. Secondo l’accordo, Fiat pagherà 1,75 miliardi di dollari cash. Altri 1,9 miliardi arriveranno sotto forma di un dividendo straordinario Chrysler, istituito appositamente. Tra azioni e cash, Fiat spenderà un totale di 2,9 miliardi di dollari, ai quali si aggiungono gli 800 milioni di cash pagati dall’inizio dell’alleanza. In tutto il Lingotto spende dunque meno di 4 miliardi per ottenere la proprietà al 110% di un'azienda che nel ’98
i tedeschi di Daimler avevano pagato 36 miliardi di dollari. Quanto all’accordo sul dividendo per arrivare a 1,9 miliardi, Fiat rinuncia alla sua quota, pari a 1,1 miliardi, mentre i restanti 800 milioni spettano a Veba come secondo socio della casa di Detroit. Fiat non avrà bisogno dunque di varare nessun aumento di capitale per arrivare al 100% della storica casa automobilistica statunitense. Il prezzo complessivo di 3,65 miliardi di dollari è inferiore ai 4,2 miliardi ipotizzati dalle banche e ai 5 miliardi chiesti dal fondo assistenziale del sindacato nella trattativa. Grande la soddisfazione espressa da John Elkann: «Aspetto questo giorno sin dal primo momento, sin da quando nel 2009 siamo stati scelti per contribuire alla ricostruzione di Chrysler», ha commentato il presidente di Fiat. «Il lavoro, l’impegno e i risultati raggiunti da Chrysler negli ultimi quattro anni e mezzo sono qualcosa di eccezionale».
ITALIA 2014 · Bassi salari, aumento della disoccupazione, precarietà e povertà trionfanti: l’anno che ci aspetta
Il paese della crescita zero virgola Roberto Ciccarelli
U
n paese povero, stagnante, desertificato, senza ormai un'ossatura industriale, dove si conferma la tendenza storica ai bassi salari e alla bassa crescita. Stipendi bloccati, la disoccupazione al livello del 1977 (12,5%) destinata a crescere ancora (+0,1%), quella giovanile al terzo posto in Europa (con il 41,2%, subito dopo Grecia e Spagna), la povertà relativa che colpisce 9 milioni di persone mentre quella assoluta flagella la vita di altri 4, quasi un pensionato su tre (46,3%) con un reddito inferiore ai mille euro. I peggiori anni della sua vita non sono finiti. L'Italia si è risvegliata nel 2014 in un mondo non molto diverso da quello in cui viveva negli anni Cinquanta.
Privatizzazioni Nei borsini delle agenzie di rating, snodi della governance neoliberale imposta dal capitalismo finanziario, l’economia italiana viene valutata poco più di un titolo spazzatura. Insieme alla Bulgaria, a Panama e alla Colombia, il rating è una tripla B. Sebbene il fantasma dello spread sia stato domato, con un rapporto debito pubblico/Pil al 133%, l'Italia è vicina al default, non molto diverso da quello della Grecia. Per una stra-
Il ministro del lavoro Enrico Giovannini: «Le imprese non pensano di assumere a causa della crisi» na, e fatale, coincidenza, questi paesi quasi falliti, almeno secondo le regole capestro del Trattato di Maastricht, saranno alla guida dell'Unione Europea nel 2014. La Grecia di Samaras ha iniziato ieri. A Letta &Co. toccherà dal 1 giugno. Tutta la credibilità del governo, la merce più preziosa che lo Stato italiano vende oggi sui mercati, consiste nel mantenere il rapporto deficit/Pil sotto il 3% anche nel 2014. I guai seri, e non le fibrillazioni da operetta viste fino ad oggi, inizieranno quando la dittatura commissaria della Troika imporrà la «riforma delle riforme»: l'abbattimento del debito pubblico dall'attuale 133% al 60%, con tagli da 50 miliardi di euro all'anno per i prossimi 20 anni. Questo prevede il «Fiscal compact» votato nel 2012 da Pd e Pdl in Costituzione. Il piano di privatizzazioni stabilito con il decreto «Destinazione Italia» è una goccia nell’oceano: 12 miliardi di euro per il 2014, di cui 6 per ridurre un debito pubblico. 32 miliardi sono attesi in tre anni dalla spending review diretta dall’ex Fmi Carlo Cottarelli.
IL MURO DELLE AZIENDE IN CRISI COSTRUITO DALLA FIOM DAVANTI AL MNISTERO DEL LAVORO /FOTO EIDON
Disoccupazione strutturale Il terremoto avverrà nello scenario della «stagnazione secolare» descritta da uno responsabili della crisi mondiale, l'ex segretario al Tesoro Usa Lawrence Summers.Dopo il -1,8%, nel 2014 la crescita da prefisso telefonico, (la Commissione Europea dice lo 0,6%, l’Istat lo 0,7%, il governo si sbilancia con l’1,1%) non produrrà nuova occupazione. Anzi, sarà la disoccupazione ad aumentare.Il 30 dicembre l'Inps, l'Istat e il ministero del Lavoro hanno diffuso il rapporto sulla coesione sociale che conferma l'esistenza di un mercato del lavoro con sempre più disoccupati. Gli occupati invece hanno i salari congelati, 1.304 euro per gli italiani e 968 euro per gli stranieri. Il salario netto mensile è rimasto stabile per i primi (+4 euro) ed è in calo di 18 euro per i secondi, i valori più bassi dal 2008. Peggiora anche il divario di genere: gli uomini guadagnano in media 1.120 euro, le donne 793. Da queste retribuzioni sono esclusi 2 milioni e 744 mila disoccupati (+636 mila rispetto al 2011), per non parlare degli autonomi. Per la Cgia di Mestre, dal 2008 a giugno 2013, 400 mila lavoratori indipendenti hanno cessato l'attività. In cinque anni e mezzo di crisi la contrazione è stata del 6,7% su un totale di 5.559 milioni di lavoratori a partita Iva. Ogni 100 lavoratori autonomi, 7,2 hanno cessato l'attività. La crisi iniziata nel 2008 ha spazzato via 1.158 milioni di posti di lavoro, al ritmo di 577 al giorno. Un rapporto di Confartigianato sostiene che nel 2013 siano raddoppiati: 1.118 al giorno. A settembre erano fallite 8900 imprese.
Secondo l'Osservatorio dei lavori dell’associazione 20 maggio, solo nell’ultimo anno hanno perso il lavoro 63 mila tra partite Iva (-21.446) e lavoratori a progetto (-45.137). Dei 250 mila posti di lavoro “atipici” persi in 6 anni circa 150 mila sono ragazzi sotto i 29 anni (60%) a cui si aggiungono altri 99 mila lavoratori tra i 30/39 anni (39%). I redditi dei quasi 650 mila contratti a progetto iscritti alla gestione separata si attestano sui 9.953 euro lordi annui a fronte della media di 18.073 euro. I più colpiti dalla crisi sono i giovani tra i 15 e i 24 anni, e i giovani adulti fino ai 34 anni. Secondo il rapporto sulla coesione sociale, i lavoratori dipendenti sotto i 30 anni sono diminuiti dal 18,9% al 15,9%. Nell'ultimo quadriennio i “giovani” a tempo indeterminato sono passati dal 16,8% al 14%. Nel vasto campo della precarietà, ormai l'unica forma per ottenere un impiego, la trasformazione è compiuta: nel primo semestre 2013 il 67% dei rapporti di lavoro era a tempo determinato.
Il bengala difettoso «Lotta alla disoccupazione giovanile» annunciò Letta il 26 giugno 2013 presentando un pacchetto di norme ad hoc. Gli esiti sono al momento più che deludenti. Sarà il refrain anche del 2014, in attesa del 1,5 miliardi di euro destinati alla «Garanzia giovani» un programma europeo che finanzierà la misura aurea del rilancio dell'occupazione: l'apprendistato (tirocini e stage entro quattro mesi dalla laurea o diploma). È ancora l'idea della riforma Fornero: da questo strumento irrisorio per creare occupazione in
IMMIGRATI · Consegnate al senatore Luigi Manconi che le porterà a Napolitano se la politica, le istituzioni, e la stessa Costituzione trarrebbero nuova vitalità. Mancando ancora le risposte, nessuna riforma sarebbe a tal fine utile. L’unica medicina davvero obbligata e urgente è una buona legge elettorale che avvii - e il processo non sarà breve né indolore - il risanamento della politica. Una legge che sia scritta tenendo conto che la rappresentatività, e non un artificiale decisionismo forzosamente riduttivo della diversità e del dissenso, è oggi cruciale per consolidare le istituzioni vacillanti. Dare voce, non mettere bavagli: così si riassorbono le pulsioni distruttive che Napolitano giustamente richiama. Lo impone tra l’altro oggi la Corte costituzionale, ma già prima il buon senso.
Dal Cie di Ponte Galeria due lettere al Quirinale ROMA
D
ue lettere per sollecitare il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a intervenire perché cambi la legge sull'immigrazione. A scriverle sono stati gli immigrati reclusi nel Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria, a Roma, che ieri l'hanno affidata al senatore Luigi Manconi, presidente della commissione diritti umani del Senato che la prossima settimana le consegnerà al capo dello Stato. Nella prima lettera, firmata dai 16 immigrati marocchini provenienti
da Lampedusa che nei giorni scorsi si sono resi protagonisti di una forma di protesta clamorosa cucendosi le labbra. «Egregio presidente, le scriviamo per evitare il rimpatrio in Marocco che sarebbe per noi troppo difficile dopo aver fatto un viaggio così doloroso» per arrivare i Italia, dicono i migranti. Nel testo si sollecita il capo dello Stato a intervenire per cambiare la legge Bossi-Fini sull'immigrazione anche se, prosegue il gruppo di marocchini, «ci rendiamo conto che i tempi del parlamento non ci permetterebbero di usufruire delle eventuali modifiche».
«Eppure abbiamo diritto a vivere una vita normale», scrivono i migranti che spiegano anche come, dopo essere partiti dal loro Paese d'origine, siano arrivati in Libia per poi sbarcare a Lampedusa ed essere trasferiti prima a Caltanissetta e infine al Cie di Ponte Galeria dove sono tuttora rinchiusi. E dal quale sperano di uscire grazie a un intervento di Napolitano che possa regolarizzare la loro posizione. Analoghi i contenuti della seconda lettera, scritta questa volta dai restanti 70 immigrati di varie nazionalità presenti nel Cie romano. c.l.
Italia, ci si aspettano miracoli, al punto da stanziare risorse per introdurlo al IV e V anno dei professionali. Il bilancio 2013 è stato catastrofico: gli occupati sono solo il 2,4% nell'ultimo trimestre 2013, 57.843 in tutto, -7% rispetto al 2012. Al governo sostengono che c’è stata una ripresa negli ultimi mesi, ma è irrisoria. Le imprese non assumono perché temono che gli apprendisti facciano causa e vengano assunti. Un classico nel precariato italiano. Vale per tutti. Per questo il governo Letta ha modificato questa norma della riforma Fornero. Per rendere più flessibili i già flessibilissimi «giovani» e regalare alle imprese uno stato di eccezione permanente. Tutto inutile. Lo ha ammesso lo stesso ministro del Lavoro Enrico Giovannini in un'intervista a Il Sole 24 ore del 31 dicembre. L'arma finale contro la disoccupazione giovanile si è rivelata un bengala difettoso. Le imprese che avrebbero dovuto assumere 100 mila giovani, alla fine ne hanno contrattualizzati 15.300 a tempo indeterminato e solo 3 mila sono a contratto a termine. Le imprese, dice Giovannini, non assumono a causa della crisi. Ciò non cancella il regalo che gli ha fatto il governo, come ha denunciato il giuslavorista Piergiovanni Al-
Chiara Saraceno: «Il sussidio contro la povertà previsto dal governo sa di vecchia politica» leva in un'intervista a Il Manifesto del 1 luglio scorso. Letta vuole combattere la disoccupazione stabilendo che i contratti a termine possano essere usati in alternativa al contratto a tempo indeterminato. Per questo ha prorogato il primo contratto fino a 24 mesi. Una volta spremuto il lavoratore, sostiene Alleva, l’azienda può prenderne un altro e fargli fare la stessa fine.
Alta ricattabilità La violenza esercitata dalle imprese sui singoli non verrà ridotta da incentivi frammentari erogati a pioggia. Nell’ambito dell’applicazione della «Garanzia giovani» il governo ha annunciato di pensare ad una riforma dei centri per l’impiego. Un’idea che è stata raccolta anche da Renzi che a fine gennaio dovrebbe dare corpo al suo fumoso «Job Act». Secondo l’Isfol, oggi solo circa il 3% delle nuove assunzioni passa dai Centri per l’Impiego. Chi non ha lavoro è lasciato da solo dallo Stato, una monade impazzita persa in un’universo indifferente. Un’elaborazione Datagiovani su dati Eurostat dimostra che, per ogni disoccupato, lo stato investe circa 200 euro l’anno, a differenza di Germania (3 mila) e Francia (2.200). Questo è un altro degli esiti della totale deregolamentazione del mercato del lavoro e dell’assoluta mancanza di tutele sociali. In attesa di un molto vociferato rimpasto di governo, il 9 gennaio Giovannini incontrerà le parti sociali con l'obiettivo di estendere queste tutele a 3,5 milioni di precari. In un’articolo sulla voce.info, la sociologa Chiara Saraceno ha definito inadeguati i fondi per finanziare il sostegno di inclusione attiva (Sia): 120 milioni in tre anni per una «social card» a disposizione delle famiglie con Isee di 3 mila euro. Anche il totale di 800 milioni per il contrasto alla povertà bastano appena per un anno. Dovrebbero essere usati per una misura universale, contro la povertà e la disoccupazione, stabile e non provvisoria come sono tutte le sperimentazioni in Italia. Servirebbero almeno 8 miliardi all’anno per finanziare una misura di reddito minimo e un chiarimento terminologico sulla differenza tra reddito minimo e il concetto di sussidio ai poveri. Se questa è la sua intenzione, conclude Saraceno, il governo lo dica. Sapendo che quest’ultimo spot a favore dell’ipocrisia generale, non servirà ad arginare i danni del ricatto del lavoro e della sua assenza.
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ITALIA Braccio di ferro tra governo e Aiscat sui pedaggi. Lievita l’Iva sui distributori da ufficio. Via ai saldi: nel 2013 chiusi 12 mila negozi di moda IL PASTICCIO AGUSTA
Antonio Sciotto ROMA
L’India ritira la commessa dei 12 elicotteri
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se anche gli ultimi dati dell’anno, provenienti in particolare dall’Istat, ci hanno confermato il progressivo impoverimento degli italiani – a cui contribuisce un sostanziale «blocco» o congelamento di buste paga e pensioni – questo non vuol dire affatto che per consolarci si fermino anche i prezzi, le tariffe, o le tasse più rognose (tipo quelle, ancora in parte «misteriose», che ci attendono per voci come la casa o i rifiuti). Tutt’altro: il 2014 si annuncia come un anno di aumenti, a cominciare (sono scattati ieri) dalle autostrade. Un problema, a ben vedere, che non riguarda solo chi si mette in viaggio per piacere, ma che si ripercuote su chi usa le quattro ruote per lavoro o per trasportare merci. Quindi, come in un crudele domino, significherà altri rincari. I pedaggi autostradali aumenteranno in media del 3,9% in più, ma si tratta appunto di una media, che rischia di essere come quella del pollo. Infatti ci sono tratte il cui biglietto lieviterà fino all’8% in più, e altre che (per fortuna) non subiranno rincari o li registreranno sotto l’1%. Il ministero dei Trasporti e delle Infrastrutture ha fatto sapere che addirittura le richieste da parte dei concessionari arrivavano fino al 18%, e il governo avrebbe fatto in modo di convincerli –almeno in questa fase – a contenere il più possibile i rincari. Il «caso limite» si registra per la Padova-Venezia, dove il rincaro sfonda il 200% (si passa da 95 centesimi a 3 euro). «A fronte di richieste che per alcune tratte arrivavano al 18% – ha spiegato il ministro Maurizio Lupi – l’incremento si è fermato a una media del 3,9%». A breve sono previsti incontri con l’Aiscat, l’associazione delle concessionarie, «con cui
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a fine dell’anno si chiude con l’amarezza dell’ennesima occasione mancata. L’uscita dal tunnel della crisi non si vede. È rimasto solo il povero Letta a pronosticare mirabolanti crescite economiche del 2% a partire dal 2015. Forse comincia a maturare un qualche pudore. L’Europa non riesce a diventare il soggetto istituzionale e politico capace di ri-assumere i princìpi costitutivi che l’hanno ispirata: Spinelli, De Gasperi e, più recentemente, Delors. Si va avanti con accordi che arrivano sempre troppo tardi, oppure che eludono il nocciolo del problema. Vedremo alle prossime elezioni europee se i partiti socialdemocratici e di sinistra (italiani) sapranno suggerire l’unica cosa seria per la sopravvivenza della stessa Europa: un bilancio pubblico autonomo di almeno il 3-5% del Pil Ue, finanziato da una imposta europea su di un’ampia base imponibile (Iva e web tax), tentando di assegnare alla Bce un ruolo e un compito pari a quello della Fed. La fine dell’anno ci consegna l’ennesima fiducia alla legge di stabilità (inutile). Mille rivoli di spesa, di entrata, sotterfugi, quadro macroeconomico completamente sballato. Immaginare la crescita con degli avanzi primari dell’ordine di 4 punti di Pil, cioè riduzione della domanda aggregata, è un esercizio coraggioso quanto quello di Icaro di avvicinarsi al sole. Tutti, ma proprio tutti, hanno chiesto al governo di scegliere poche cose da fare, e su di esse investire il Paese e il Parlamento. In qualche misura si aveva consapevolezza della difficoltà della situazione e, pur all’interno delle strette maglie dei vincoli europei, si chiedeva solo del sano pragmatismo. Appena eletto, il governo di
Giorgio Salvetti
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FOTO SINTESI VISIVA
PREZZI E TARIFFE · Il ticket in autostrada aumenterà fino all’8%. Più salati anche snack e caffè
Nuovo anno, arrivano i rincari avviare un dialogo per verificare strade nuove e consensuali rispetto agli attuali automatismi di adeguamento delle tariffe». Gli aumenti, approvati con decreto dai ministeri dei Trasporti e dell’Economia, oscillano dunque da punte che superano l’8% a casi in cui non si verifica nessuna variazione. A parte il caso della Padova-Venezia, è la Strada dei Parchi (A24 e A25) a registrare il maggior incremento dei pedaggi (+8,28%), seguita dalla società Centropadane (+8,01%, in Emilia e Lombardia). Aumenti ben oltre la media anche per le Autovie Venete (+7,17%), Cisa (A-15) e Cav (Concessioni autostradali venete): entrambe +6,26%. Sulla rete di Autostrade per l’Italia, che gestisce 2.965 chilometri, i pedaggi aumentano del 4,43%. Per la già citata Padova-Ve-
nezia, l’aumento-boom assorbe anche gli investimenti per la realizzazione del Passante di Mestre. Inoltre, spiegano fonti del ministero dei Trasporti, la decisione è stata presa per mettere fine al «trucchetto» messo in atto da molti automobilisti, che uscendo e rientrando in autostrada riuscivano a evitare il pedaggio. Nessun rincaro, al contrario, per il Consorzio Autostrade Siciliane Messina-Catania e Messina-Palermo, Autostrade Meridionali (Sam) e per la Asti-Cuneo. Incrementi più bassi della media si registrano sull’autostrada Torino-Ivrea-Valle d'Aosta (+0,82%) e sulla Brescia-Padova (+1,44%). Ma non basta, perché aumenti si attendono anche in altri settori: sale ad esempio la bolletta della luce, seppure di un limitato 0,7%, pari a 4 euro l’anno. Rincari
L’INDAGINE COLDIRETTI
Cenone «magro», tagliato del 20% Per il tradizionale cenone gli italiani hanno speso quest’anno a tavola quasi 1,6 miliardi di euro, il 20% in meno rispetto al 2012. I dati vengono da Coldiretti. Il 68% dei nostri concittadini ha optato per il cenone a casa, appena il 6% al ristorante e il 3% per cento in agriturismo. Il 59% degli italiani ha speso per il cenone di Capodanno come nel 2012, ma c’è un 18% che ha tagliato fino alla metà della spesa e un 6% addirittura oltre. E infine c’è un 10% che è arrivato a spendere fino al 50% in più.
CRESCITA, ITALIA FUORI DALL’EUROPA
Il bilancio economico del 2013? È tutto nero: Letta non ci aggancia al treno della ripresa Roberto Romano
larghe intese, poi di intesa, molti giornalisti si sono spinti a vedere la democrazia cristiana. Forse, ma Letta non avrebbe mai fatto parte della sinistra DC di DonatCattin, Martinazzoli. Le sue policy, l’incapacità di scegliere, dire tutto e il contrario di tutto, lo avvi-
Nel decennio 20032013 l’area euro è cresciuta del 10%, mentre l’Italia ha perso un punto cina molto di più alla democrazia cristiana dorotea. Sentire Confindustria sostenere che l’Italia è stata investita da una guerra non è strano. Fa clamore che non l’abbia detto prima. I sindacati erano arrivati prima, in particolare la Cgil con l’istituzione di un forum di economisti di oltre 200 persone che ha realizzato il libro bianco per il lavoro. Avendo concorso alla stesura del libro bianco, posso ben dire che l’idea di cosa fare c’è. La politica pensa ad altro: leopolde, web democracy, glocale ed altre stupidate. Pochi lo ricordano, ma l’Italia ha accumulato un gap di crescita economica rispetto all’Europa impressionante. Non sto parlando della crisi intervenuta nel 2007
che ha bruciato 8 punti di Pil, ma del fatto che il nostro Paese cresce strutturalmente meno dell’Europa. Questo è il punto centrale della crisi. Per dare conto della profondità dell’arretratezza dell’Italia rispetto all’Europa, basta ricordare che tra il 2003 e il 2013 l’area euro è crescita del 10%, mentre l’Italia ha contratto il proprio Pil di un punto. Confindustria inizia la sua analisi dal 2007 per evidenti interessi, ma il ritardo dell’Italia affonda nella despecializzazione della struttura produttiva, costringendo il paese ai margini del capitale europeo. Diversamente non sarebbe spiegabile il gap di produzione industriale dalla Germania di ben oltre 20 punti, che diventa ancor più grave se consideriamo i beni strumentali, che sfiora il 30%. In altre parole, l’industria italiana è stata investita dalla crisi ben prima della crisi economica internazionale. L’effetto è quello di un progressivo impoverimento a cui poco ha potuto il bilancio pubblico. La riduzione del Pil procapite dell’Italia tra il 2001 e il 2012 è pari al 16,8%, contro una media europea del 3,6%. La Grecia, con tutto quello che è capitato, ha visto ridurre il suo Pil procapite del 13,8%. Quindi l’Italia è seduta sulle macerie di una crisi di struttura che non ha pari tra i paesi europei. Sicuramente si poteva fare
molto di più con la fiscalità generale, ma alla fine non più di tanto: se il paese non cresce, non c’è reddito da tassare e distribuire. Il pareggio di bilancio rivendicato come un «grande obbiettivo» da Letta è beffardo, perché nasconde la matrice della crisi: l’economia ita-
La soluzione? Un bilancio autonomo del 3-5% del Pil Ue, finanziato dall’Iva e dalla web tax liana da troppo tempo non è più una economia europea. Per un po’, via privatizzazioni, ha beneficiato delle rendite, ma con le rendite non si accumula reddito. L’effetto è devastante: un tasso di disoccupazione reale del 22%, cioè 6 milioni di persone in cerca di lavoro. A queste condizioni è «comico» il dibattito sulla disoccupazione giovanile. Al netto della «stupidità» della riforma Fornero su previdenza e mercato del lavoro, il dramma dei giovani italiani è persino più serio degli effetti della legge Fornero: la domanda di lavoro delle imprese italiane è qualitativamente troppo bassa rispetto alla formazione dei nostri ragazzi. Se importiamo tutta la tecnologia, cosa ne facciamo dei giovani che formiamo? Nulla.
anche per gli snack, i caffè e le bevande dei distributori automatici, con l’Iva che passa dal 4 al 10%. L’imposta di bollo sugli investimenti nei conti titoli sale inoltre dall’1,5 al 2 per mille. Nessun aumento in vista invece, quest'anno, per il canone Rai. Oggi scade la possibilità di versare l’acconto Irap che doveva essere saldato entro il 2 dicembre. Entro il 24 gennaio andrà invece pagata la cosiddetta «mini-Imu» nei Comuni che hanno aumentato l’aliquota nel 2013. E oggi, va ricordato, partono i saldi, da cui i commercianti si aspettano una qualche boccata di ossigeno. Confesercenti sottolinea in una nota che il 2013 è terminato con la cessazione di oltre 11.900 imprese della distribuzione moda, al ritmo di quasi 1.000 negozi chiusi ogni mese.
Per questo sarebbe di grande utilità combinare politica economica (industriale) e sociale (riforma dello stato sociale), ma è una sfida che necessita di un punto fermo. Mi permetto di riprendere un appunto sui liberisti del mio maestro S. Ferrari, alunno di Riccardo Lombardi e già vice direttore dell’Enea: dobbiamo riconoscere che la società in cui viviamo, rappresenta un risultato della vostra preminenza pluridecennale sul piano delle politiche economiche, culturali e sociali; avete ampliato l’appartenenza al ceto proletario di quelli che una volta erano il così detto ceto medio, nel senso che viveva secondo modelli imitativi del ceto abbiente. Mentre nei decenni precedenti una cultura progressista era riuscita a portare la classe operaia a raggiungere livelli di vita confrontabili con quelli della classe media, ora abbiamo conseguito un risultato opposto. Non solo sul piano economico, ma anche in materia di dignità e diritti. Non abbiamo la pretesa di avere la verità in tasca; sappiamo anche che sul fronte progressista sono stati compiuti molti errori. Molti di noi stanno riflettendo per evitare di ripeterli, elaborando percorsi coerenti con i valori di giustizia, libertà ed eguaglianza che ci uniscono. A questo punto, assicurandovi la massima comprensione e il pieno rispetto umano, sentiamo tuttavia l’obbligo di chiedere una vostra disponibilità a ritirarvi in riflessione e lasciare, almeno per ora, il campo delle responsabilità politiche. Se in questa nuova funzione ritenete di avere bisogno di supporti, di scambi e di confronti, siamo ovviamente pienamente disponibili. Un modo per dire che il problema non è solo nostro.
l governo indiano ha annunciato di aver annullato il contratto per l’acquisto di 12 elicotteri di Agusta Westland (gruppo Finmeccanica) per un valore di 560 milioni di euro, ma ha accettato il ricorso all’arbitrato internazionale per risolvere il contenzioso. La vicenda riguarda una commessa finita al centro delle indaginI della magistratura italiana che avevano portato all’arresto con l’accusa di corruzione dell’ex amministratore delegato di Finmeccanica Giuseppe Orsi e e dell’ad di Agusta Bruno Spagnolini (in attesa del processo). A questo punto l’affare che coinvolge uno dei maggiori gruppi industriali italiani impegnato nel commercio anche di forniture militari è sul punto di saltare. Agusta però considera la decisione delle autorità indiane non del tutto negativa. Il ricorso all’arbitrato infatti potrebbe riaprire in extremis una partita che sembrava del tutto persa. I rapporti tra Italia e India sono già messi a dura prova dalla questione dei due marò accusati di avere ucciso due pescatori. I militari Massimiliano Latorre e Salvatore Girone hanno appena incassato l’accorata vicinanza del capo dello stato Giorgio Napolitano nel suo messaggio di fine anno e hanno passato la sera dell’ultimo sulla terrazza dell’ambasciata italiana a Nuova Delhi tra botti e brindisi insieme alle compagne, ad amici e parenti. Hanno ricevuto in dono alcune magliette del Milan hanno guardato il video-messaggio commosso dell’equipaggio della portaerei Cavour. Per le autorità italiane sono degli eroi. Per gli indiani sono due persone imputate per omicidio. Due punti di vista opposti. Proprio come nel caso degli elicotteri Agusta. Qui però ad agire per prima è stata la magistratura italiana. Secondo il pm Eugenio Fusco, per ottenere quella commessa vinta nel 2010 l’azienda italiana avrebbe pagato tangenti per 51 milioni di euro grazie a degli intermediari e con l’assenso dei dirigenti di Agusta e Finmeccanica. Al momento sono stati consegnati e sono già in servizio 3 elicotteri Aw 101, altri tre sono pronti alla consegna, mentre 6 sono ancora in lavorazione. Le autorità indiane già nel febbraio scorso avevano però deciso di sospendere i pagamenti. Il 20 novembre Agusta aveva nominato un suo arbitro, l’ex giudice della corte suprema e ex presidente dell’Alta Corte dello stato del Kerala B.N. Srikrishna. Ieri anche il governo indiano ha deciso di nominare come arbitro per la sua parte l’ex giudice della corte suprema B.P. Jeevan Reddy. La decisione è arrivata dopo un vertice tra il ministro della difesa indiano A.K. Antony e il primo ministro Mohamad Sing. Per il sistema Italia nel suo complesso si tratta di una figuraccia che se possibile diventa ancora più imbarazzante dopo le grottesche dichiarazione rilasciate ieri da alcuni parlamentari. L’affare milionario degli elicotteri serve solo da pretesto per una lite tra i centristi Gianfranco Librandi (Sc) e Aldo Di Biagio del gruppo «Per l’Italia», ex Sc. Il primo chiede le dimissioni del ministro della difesa Mario Mauro: «Invece di andare in giro a spender soldi e far campagna elettorale pro domo sua avrebbe fatto bene a occuparsi di questa vicenda». Il secondo difende il ministro ricordando che tutto risale al governo Monti. Daniela Santanché invece se la prende con la spettacolarizzazione delle inchieste della magistratura che provocano danni al paese e coglie l’occasione per invocare la riforma della giustizia.
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SARDEGNA ELEZIONI REGIONALI · Nel totonomi rettori, ex assessori e l’ex segretario della Fnsi Franco Siddi
IN CORSA
Salto nel voto, il Pd cerca il paracadute
Cappellacci ci riprova Murgia sfida i dem
Costantino Cossu CAGLIARI
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rancesca Barracciu, quarantenne dirigente del Pd, aveva davanti a sé una strada che sembrava tutta in discesa. A fine settembre aveva vinto le primarie che dovevano designare il candidato del centrosinistra sardo alla guida della regione. La campagna elettorale è iniziata da prima dell’estate e si concluderà con le votazioni il 16 febbraio. Barracciu era la candidata renziana, scelta dal popolo dei gazebo quando l’attuale segretario non era alla guida del partito. Una renziana della prima ora. Al suo schieramento si era aggiunta l’area del Pd che fa capo a Renato Soru, l’ex presidente della regione eletto nel 2004 e poi sconfitto nel 2009 dall’attuale governatore, Ugo Cappellacci. Contro Barracciu, invece, era scesa in campo la corrente bersaniana, al momento delle primarie ancora molto forte e guidata in Sardegna dall’ex socialista Antonello Cabras, che aveva candidato il sindaco di Sassari, Gianfranco Ganau. Barracciu aveva vinto con il 44.32% (22.808 voti), staccando di dieci punti Ganau, che si era fermato al 32.31% (16.792). Sembrava fatta, e invece, appena dieci giorni dopo, la candidata del centrosinistra aveva ricevuto un avviso di garanzia nell’ambito della seconda tranche dell’inchiesta aperta dalla Procura di Cagliari sul presunto uso a fini personali che diversi consiglieri regionali avrebbero fatto dei finanziamenti destinati ai gruppi. Peculato è l’accusa che viene mossa nei confronti di una quarantina di consiglieri, di quasi tutti gli schieramenti politici. Alcuni sono anche finiti in carcere perché la magistratura ha ritenuto che esistesse un serio pericolo di inquinamento delle prove da parte degli indagati. Per conto suo, Barracciu aveva subito collaborato con i magistrati, spiegando che lei quei sodi (pubblici) non li aveva spesi per sè e che sarebbe stata in grado di dimostrare senza problemi la sua innocenza. A partire dal momento in cui la candidata del Pd alle elezioni regionali riceve l’avviso di garanzia, contro di lei si apre un serratissimo fuoco di fila. I primi ad aprire il fuoco sono quelli di Sel, immediatamente seguiti da Italia dei valori e dai Rossomori (una formazione autonomistica con coloriture indipendentistiche che si ispira al pensiero di Emilio Lussu). Tutti chiedono le dimissioni di Francesca Barracciu: un’indagata, sostengono, non può correre alla guida della Regione. Va detto che Sel, Idv e Rossomori da mesi erano in polemica con il Pd, che aveva preferito le primarie di partito a quelle di co-
CAGLIARI
M
entre il Pd corre il rischio di spaccarsi nel tentativo di trovare un candidato governatore, due liste hanno già messo in campo il loro leader. Una è quella della rinata Forza Italia, che sarà guidata dall’attuale presidente della giunta, Ugo Cappellacci. Fedelissimo di Berlusconi, ha ottenuto l’investitura del Cavaliere. In Sardegna gli alfaniani sono di fatto inesistenti, e perciò nel suo campo Cappellacci dovrà vedersela solo con la lista presentata da Mauro Pili, ex presidente di giunta, anche lui Forza Italia (governò la Sardegna dal 1999 al 2004) e capo di uno schieramento dissidente autoctono, Unidos, tutto sardo, senza sponde romane. La particolarità delle elezioni regionali sarde è però la scesa in campo della scrittrice Michela Murgia, che guida una lista, Sardegna possibile, dichiaratamente indipendentista. Autrice Einaudi e vincitrice di un premio Campiello con il romanzo Accabadora, Murgia vuole per la Sardegna un futuro da stato sovrano e indipendente. Durissima la sua contrapposizione al partito di Renzi: «Il Pd - scrive la candidata governatrice sul suo blog - è un partito italiano, e come tutti i partiti italiani pensa che la Sardegna sia un problema dell’Italia. Per questo i suoi deputati hanno votato a favore del potenziamento dell’occupazione militare sull’isola, proteggendo gli interessi economici e bellici di altre nazioni a discapito della nostra salute e della sovranità del nostro territorio». «Per questo - scrive ancora Murgia - il Pd ha sposato e sta continuando a sostenere la peggiore politica vetero-industriale sul rifinanziamento del carbone e i progetti di trivellazione di ampie fette del territorio per la ricerca di gas. Il problema del Pd è identico a quello del Pdl: entrambi non hanno alcuna idea della Sardegna come soggetto storico protagonista del suo destino». Buio totale, invece, sul fronte del Movimento 5 Stelle. I grillini in Sardegna sono divisi in due fazioni: quelli della prima ora, timorosi di inquinamenti opportunistici delle liste, e i fautori di un’apertura a nomi ed energie nuove. A pochi giorni dal termine ultimo per la presentazione delle liste, tutto è ancora da definire. Non è iniziata nemmeno la raccolta delle firme (obbligatoria per legge per i partiti che non hanno consiglieri uscenti). E a questo punto il rischio che M5S resti fuori dalla competizione elettorale è più che reale. C. Co.
La scrittrice guida una lista indipendentista. Alle urne si andrà il 16 febbraio
/FOTO TAM TAM. A DESTRA, MICHELA MURGIA. SOTTO, FRANCESCA BARRACCIU E UGO CAPPELLACCI
La renziana Francesca Barracciu, mollata anche da un pezzo del partito, si ritira dalla corsa alla presidenza. Ma ottiene da Renzi l’ultima parola sulla scelta del nuovo candidato alizione escludendo dalla partita tutte le altre forze. Per loro le indagini della magistratura erano quindi un’occasione per ottenere ciò che invano avevano chiesto prima: apertura di un tavolo di coalizione per cercare un candidato governatore unitario come conseguenza del ritiro di Barracciu. Il Pd risponde picche alle richieste dei tre alleati. Ma nel frattempo accadono alcuni fatti decisivi. Matteo Renzi e Gianni Cuperlo si scontrano per la segreteria e la geografia interna del Pd sardo viene sconvolta. La corrente bersaniana (o almeno il grosso di quella corrente) passa armi e bagagli al campo renziano. L’ex bersaniano Ganau, avversario di Barracciu alle primarie, diventa uno dei grandi elettori di Renzi in Sardegna. Altrettanto fanno Cabras e il segretario regionale del Pd, Silvio Lai: da Bersani a Renzi nel giro di poche settimane. E se in un primo momento gli ex bersaniani passati al campo renziano, quello di Barracciu, sembrano sostenere in maniera convinta la candidata designata
dai gazebo, non si tarda molto a capire che il consenso intorno al suo nome viene a sfaldarsi. Per l’ex schieramento bersaniano è l’occasione per rimettere in discussione il risultato delle primarie, che li aveva visti perdenti quando ancora, solo pochi mesi prima, erano anti renziani. Ma nemmeno Soru, vicino a Renzi ben prima della battaglia del sindaco contro Cuperlo, sembra più tanto convinto di sostenere Barracciu. La giovane dirigen-
te Pd, durante i colloqui per definire le alleanze, aveva aperto al Partito sardo d’azione (Psd’Az), che nella legislatura in corso ha governato con Cappellacci. Per questo motivo Soru entra in frizione con Barracciu. L’ex governatore non vuole i sardisti nella coalizione. Non dimentica infatti che, oltre a governare con la destra, il Psd’Az è stato, durante la sua presidenza, tra i più irriducibili avversari della legislazione di protezione delle coste dalla speculazione immobiliare varata in quegli anni. Circolano, inoltre, sondaggi che darebbero Barracciu nettamente perdente contro Cappellacci, che nel frattempo ha deciso di correre per un secondo mandato forte dell’investitura diretta di Silvio Berlusconi, di cui resta un fedelissimo. Barracciu smentisce quei numeri. Ma la macchina della sfiducia va avanti, spinta anche da Sel, Idv e Rossomori. Sino alla drammatica direzione regionale di giovedì scorso, ultimo giorno del 2013, a Oristano, al termine della quale, a mezzanotte inoltrata, Barracciu getta la spu-
gna: «Mi ritiro. So che sto facendo la cosa giusta perché sto salvando il mio partito», dichiara. Ma aggiunge che da Renzi ha ottenuto la garanzia di poter esercitare un rigido diritto di veto sul nome del nuovo candidato e anche sulla composizione della coalizione di centrosinistra. E spara a zero contro Antonello Cabras e Renato Soru. «E’ stata loro - dice - l’iniziativa di cercare di portare il Pd a una spaccatura insopportabile sul mio nome. Siccome voglio che il Pd e il centrosinistra vincano le prossime elezioni, faccio un passo indietro. Un partito spaccato avrebbe significato sconfitta sicura». Particolarmente duro l’attacco di Barracciu contro l’ex alleato Soru: «Non consentirò a nessuno, e in particolare a chi ha perso le elezioni nel 2009, di fare la morale agli altri. Non consentirò di escludere dalle liste persone o partiti, ad esempio il Psd’Az, non graditi a personaggi come questi». Bisogna dire però che mentre sul punto Psd’Az Soru non ha mai nascosto il suo dissenso politico
con Barracciu, sulla questione indagini l’ex presidente della giunta, che ha anche lui una vicenda giudiziaria aperta per presunti illeciti fiscali che secondo i magistrati sarebbero stati commessi dall’azienza di cui è presidente, Tiscali, ha sempre difeso la candidata designata dalle primarie. Ma «con metà del Pd e tutti gli alleati contro spiegano ambienti vicini a Soru la sostanza del caso Barracciu è politica, non giudiziaria». A questo punto, una nuova direzione, convocata forse già per domani, dovrà scegliere il nuovo candidato. I nomi che si fanno sono quelli dei rettori delle università di Sassari e di Cagliari, Attilio Mastino e Giovanni Melis, dell’assessore al Bilancio della giunta Soru, l’economista Francesco Pigliaru, del segretario della Federazione nazionale della stampa, Franco Siddi, dell’ex assessore alla programmazione, sempre giunta Soru, Carlo Mannoni, e del sindaco di Carbonia, Salvatore Cherchi. Ma è tutto apertissimo e non sono escluse altre candidature.
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ITALIA CARCERE · Ad Ascoli Piceno negata anche la lettura del quotidiano «il manifesto»
CARCERE
Due piccoli passi, ma nella giusta direzione
Se Eco diventa pericoloso Mario Di Vito ASCOLI PICENO
Sandro Gozi, Federica Resta
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etture di evasione nel carcere di massima sicurezza. Una lettera indirizzata alla direttrice del manifesto Norma Rangeri da Ascoli Piceno per denunciare la mancata consegna del manifesto e l’accesso negato alla lettura del capolavoro di Umberto Eco Il nome della Rosa al boss siciliano Davide Emmanuello, «ristretto nel regime di tortura del 41 bis» dopo essere stato condannato a tre ergastoli per altrettanti omicidi, più qualche reato «minore» legato al traffico di droga. Il mittente è un detenuto comune, Pasquale De Feo, perché «la direzione non farebbe mai partire una lettera del genere». La denuncia ha il sapore della libertà offesa: «Per ragioni oscure – scrive De Feo – la direzione del carcere ha sospeso ad Emmanuello la distribuzione del manifesto quando gli arriva tramite posta». Non solo: «Qualche mese addietro, gli rifiutarono di fargli leggere il libro della biblioteca del carcere Il nome della rosa di Umberto Eco, perché ritenuto pericoloso dall’area educativa». Messa così, siamo ai limiti della triste fama che le carceri italiane portano cucita addosso: luoghi «disumani e degradanti». De Feo insiste, e richiama alla memoria le prigioni di Antonio Gramsci durante il Ventennio: «A lui permettevano di avere quattro libri in cella e in libertà di leggere tutti i libri della biblioteca. Parliamo di ottant’anni fa. Siamo nel terzo millennio e ci sono ancora le censure. Credo che
«Il nome della rosa» vietato a detenuto. La direzione: «Non è un problema di contenuti» il motivo sia tutto nell’ordinamento politico; nel sistema penitenziario non adorano tutto ciò che si volge a sinistra». La storia ha già fatto nella giornata di ieri il giro del web, dopo che qualche giorno fa era stata lanciata dal sito «Le urla dal silenzio» e anche dalla giornalista Francesca De Carolis, che aveva già fatto cenno a questa vicenda in un post uscito sul suo blog «L’altra riva» alla fine di ottobre. Dal carcere di Ascoli, però, negano fortemente che il problema risieda nei contenuti del romanzo di Eco e del quotidiano comunista. «I detenuti al 41 bis – spiegano – non hanno accesso a tutto, come i detenuti comuni. I libri devono rispettare determinati parametri e tutto questo solo ed esclusivamente per motivi di sicurezza», e in effetti risulta difficile credere che il giallo storico più venduto di sempre possa essere considerato una lettura «pericolosa» dietro le sbarre. Diverso il discorso legato al manifesto, e anche su questo la direttrice del carcere Lucia Di Feliciantonio è impegnata a fare luce già in queste ore. Il «carcere duro», secondo l’ordinamento penitenziario italiano, si articola su più livelli, a seconda della pericolosità sociale del detenuto. In molti, ad esempio, non hanno accesso ai quotidiani locali «sempre e solo perché in passato si sono verificati episodi gravissimi di minacce o peggio ancora». Ad Ascoli, intanto, la direzione sta verificando le affermazioni di De Feo, e i dubbi aumentano di ora in ora, insieme ai particolari più inquietanti. A leggere le cronache, infatti, viene fuori che qualche mese fa, Salvatore Calone – 44 anni, condannato per tentato omicidio, detenuto al 41 bis tra il 2001 e il 2010, attualmente in carcere a Padova, fratello del pentito di camorra Ciro – ha denunciato a Giampiero Calapà del Fatto Quotidiano il mancato accesso a un libro che aveva richiesto: Il nome della rosa di Umberto Eco. Troppa paranoia oppure nelle pagine del romanzo c’è davvero un messaggio da decifrare? Tra paventate querele e questio-
S
/FOTO TAM TAM
ni deontologiche irrisolte («Le notizie su quella lettera comunque non sono state verificate», tuonano ancora da Ascoli), l’unico dato certo che emerge è la condizione devastata e devastante del sistema carcerario italiano, ormai al collasso:
il sovraffollamento è arrivato a quota 134% (dati Antigone del 2013), le misure alternative al carcere per i detenuti in attesa di giudizio vengono quasi sistematicamente scartate dalle procure del Belpaese, l’Europa minaccia sanzioni pesantissi-
me, gli episodi di violenza da parte dei secondini sono diventati un classico della cronaca giudiziaria, gli appelli all’amnistia lanciati soprattutto dai Radicali e amplificati da Napolitano cadono sempre nel vuoto.
VIVISEZIONE
aranno pure piccoli passi, la riduzione della popolazione quelli del decreto carceri il penitenziaria ma anche quel cui esame comincerà il reinserimento sociale necessario prossimo 7 gennaio in commisper evitare la recidiva e rendere sione giustizia alla camera. Ma la pena una misura utile alla socertamente, vanno nella giusta cietà oltre che al condannato. direzione e con la procedura «acRilevanti sono, inoltre, le misucelerata» del decreto-legge, che re volte a garantire la tutela dei consente l’immediata applicaziodiritti nei luoghi di detenzione, ne di alcune norme essenziali rendendo più incisiva la tutela per ridurre il sovraffollamento giurisdizionale rispetto al diritto penitenziario. Opportuna e attedi reclamo e affidando alla magisa è la rimodulazione della discistratura di sorveglianza funzioni plina degli illeciti minori connesdi garanzia anche nei casi di inersi agli stupefacenti, dopo la Finizia dell’amministrazione peniGiovanardi puniti con sanzioni tenziaria (e si tratta di ipotesi tutcosì elevate da alimentare, essi t’altro che infrequenti). Sotto soltanto, un flusso rilevantissiquesto profilo, altrettanto impormo di ingressi in carcere. Importante è l’istituzione del Garante tanti - anche in termini di «civiltà nazionale dei diritti delle persogiuridica» - sono ne sottoposte a mipoi le misure volte sure limitative delNei decreti varati a consentire la libertà personal’identificazione dal governo misure le, con cognizione degli stranieri deestesa non soltantenuti direttamen- importanti. Ma ora to alle carceri ma te in carcere, così vanno approvati anche ai centri da sottrarli a queld’identificazione la «pena aggiunti- amnistia e indulto ed espulsione, alle va» e del tutto incamere di sicurezgiustificata consistente nel tratteza, agli ospedali psichiatrici giunimento nei centri d’identificadiziari, agli istituti penali e le cozione ed espulsione (oggi anche munità di accoglienza per minofino a 18 mesi) per mere esigenrenni. Il Garante dovrà quindi asze di identificazione. sicurare che l’esecuzione di miImportante la valorizzazione sure limitative della libertà persodelle misure alternative alla denale - nelle forme, con le procetenzione, realizzata «stabilizzandure e nei luoghi più vari- avvendo» l’esecuzione domiciliare per ga nel rispetto della legge, del difine pena ed estendendo i casi di ritto internazionale e, soprattutaffidamento al servizio sociale to, della dignità umana. anche rispetto a pene residue di Pur non delineando una rifor4 anni, così da favorire non solo ma organica del sistema penale e penitenziario – che sarebbe certamente necessaria ma che richiede un iter parlamentare più complesso e non può passare quindi per la decretazione d’urgenza - il provvedimento agisce su alcuni dei principali fattori del sovraffollamento dovuti a una politica penale espansiva tanto quanto recessiva sul fronte dell’inclusione sociale, del welfare e dell’accoglienza degli straniecuso «L’uomo al contrario [degli ri. Con il risultato, quindi, di crialtri animali] ha imparato a poco minalizzare la marginalità sociaa poco a estendere gli ideali di giule e di rendere il carcere una mistizia a tutti gli esseri umani, comsura socialmente selettiva, come presi quelli dalla pelle diversa» è dimostra la composizione della contraddittoria oppure è il frutto popolazione penitenziaria, fatta di un grave lapsus. Egli, infatti, colin prevalenza da stranieri e sogloca questa frase dopo un passaggetti socialmente ed economicagio nel quale scrive: «nessuna spemente vulnerabili. Per il sovrafcie animale estenderà mai alle alfollamento e il degrado che ne catre specie i diritti di supremazia ratterizza le condizioni, il carceche la natura lungo la sequenza re non solo si dimostra del tutto della selezione naturale le ha conincapace di promuovere- come cesso». Forse che gli esseri umani dovrebbe secondo Costituzione «dalla pelle diversa» (diversa da - il reinserimento sociale, ma adchi?) appartengono a una famidirittura rischia di favorire la reciglia altra da quella di Homo Sadiva, come ha dimostrato più volpiens? En passant, aggiungiamo te Luigi Manconi. In tale conteche il teologo sembra ignorare sto, una radicale revisione delle che certi primati, in particolare i politiche penali e penitenziarie è bonobo studiati da Frans de allora – come ha scritto il Capo Waal, conoscono sentimenti e dello Stato- non solo un dovere comportamenti quali altruismo, giuridico e politico ma, addirittucompassione, empatia, gentilezra, un «imperativo» morale cui la za, pazienza, sensibilità, perfino politica deve assolvere con assomoralità, estesi anche al di là delluta priorità e con la consapevola loro specie. lezza che su questo campo si gioIn sostanza, Mancuso ripropoca la partita più importante per ne come universale la vecchia diuna democrazia liberale e rispetcotomia natura/cultura, tipicatosa dei diritti e della dignità mente occidentalocentrica, scoumana. Con questo provvedinosciuta a tanta parte dell’umanimento e con il decreto-legge di tà, che ha elaborato, invece, ontoluglio (che ha ridotto l’area della logie e cosmologie fondate sul pacustodia cautelare ed esteso, per radigma della continuità. Questa converso, la sfera di applicaziodicotomia è stata abitualmente arne di alcune misure alternative, ticolata in funzione di una serie di vincendo quelle presunzioni antitesi complementari quali inastratte di pericolosità contrarie nato/acquisito, eredità/ambiena un diritto penale «del fatto» e te, istinto/intelligenza, spontaneo/ non dell’autore), il Governo ha artificiale: opposizioni arbitrarie, fatto molto. che discendono da un’ideologia Il Parlamento deve ora agire legata a una forma peculiare di racon non minore determinaziozionalità - quella strumentale ne, anzitutto approvando definiche raramente si è interrogata o tivamente i disegni di legge sulla ha messo in questione il proprio custodia cautelare e sulle pene arbitrio o la propria parzialità. detentive non carcerarie, già voE’ proprio la razionalità strutati dalla Camera. E inoltre apmentale - figlia del cogito cartesiaprovando i provvedimenti di amno, a sua volta erede della «filiazionistia e indulto necessari a restine giudaico-cristiana, dunque satuire alle condizioni delle nostre crificalista» - che produce oggi un carceri quel minimo di umanità livello tale di assoggettamento e senza il quale la pena rischia di mercificazione dei non umani divenire, come ci insegna la Corche, per citare ancora Derrida, te europea dei diritti umani, vera «qualcuno potrebbe paragonarli e propria tortura. ai peggiori genocidi».
Il gossip degli anti-animalisti DALLA PRIMA Annamaria Rivera Per ispirazione, come sembra, d’interessi assai corposi, il caso della studentessa gravemente malata, insultata in rete dagli immancabili mentecatti per aver difeso la sperimentazione su animali, è stato artificiosamente gonfiato dai media di ogni tendenza, che ne hanno stravolto il senso e le proporzioni reali, riducendolo a gossip da vacanze di Natale. Nel corso di questa blaterazione scandalistica, che parte da un presupposto indimostrabile – gli autori degli insulti virtuali sarebbero rappresentativi dell’«animalismo»- si sono perse densità e profondità dei dilemmi e della stessa elaborazione teorica dell’antispecismo. La quale ha antecedenti assai illustri: fra tutti basta citare la Scuola di Francoforte. Pochi sono stati finora i commenti, da parte non antispecista, che si siano misurati con la complessità della questione. Si sa, è tipicamente italiano prendere la parola pubblicamente su qualsiasi tema – e su questo più che su altri - pur non avendone alcuna competenza. Come prototipo del genere di articoli che si pretendono colti ed equidistanti, ma che scontano una conoscenza approssimativa del dibattito antispecista e non solo, assumiamo quello del teologo Vito Mancuso: Sull’"antinaturalismo” degli animalisti, apparso il 29 dicembre scorso su La Repubblica e ripreso nella prima pagina di MicroMega online. Per cominciare: Mancuso dà per scontato che a insultare Caterina Simonsen siano stati «gli animalisti», mentre la sola cosa certa è che sono esponenti della vasta categoria di imbecilli che, grazie alla volgarità dilagante e alla caduta dei freni inibitori indotta dalla rete, vomitano insulti contro chicchessia. Non solo: il teologo si rivela al-
quanto ignaro degli orientamenti, teorie, dibattiti che attraversano il mondo, assai eterogeneo, degli interessati alla sorte dei non umani. Così che, non distinguendo tra zoofili, animalisti, antispecisti, infila tutti nel medesimo calderone. Dà per scontato, per esempio, che ad accomunare gli «animalisti» sia il fatto di «volere per gli animali gli stessi diritti dell’uomo». E invece vi è una corrente antispecista, perlopiù d’ispirazione anticapitalista, marxista e/o libertaria, che rifiuta di parlare di diritti animali e pone l’accento sui processi di liberazione, riguardanti umani e non umani. Inoltre, Mancuso attribuisce abusivamente agli «animalisti», quale tema etico fondamentale che li caratterizzerebbe, la questione violenza/nonviolenza: dilemma serio, ma che, almeno in questo articolo, è trattato in modo discutibile, proiettando sugli altri – gli «animalisti»- una questione che è sì centrale, ma anzitutto nel suo pensiero. Di conseguenza, egli assimila, quali vittime della violenza umana, patate, cipolle, batteri, topi e primati (gli ultimi due non nominati esplicitamente, ma la sperimentazione animale, si sa, ha loro tra le vittime principali). In realtà, se il teologo si fosse confrontato con qualche buon saggio, non necessariamente antispecista in senso stretto – per
esempio, con L’animale che dunque sono di Jacques Derrida -, saprebbe quali siano le domande principali: gli altri animali sono capaci di gioire, soffrire, comprendere? Non sono forse delle singolarità irriducibili? Altrettanto convenzionale è la concezione mancusiana dei non umani. Non per caso egli, tra tutti i filosofi che, almeno a partire da Montaigne, si sono posti la questione, cita proprio e solo Kant: ovvero colui del quale Theodor W. Adorno ha criticato l’odio e l’avversione per gli animali, e la morale priva di compassione o commiserazione. Tra i tanti passaggi di questo articolo improntati al senso comune, la frase «A parte quella umana, nessuna specie cesserà mai di seguire l’istinto sotto cui è nata» appare non troppo degna di uno scritto che si pretende colto. Da lungo tempo studiosi in vari campi, compresi gli etologi, hanno messo in discussione la nozione di istinto, ammettendo che numerose specie animali possiedano intelligenza, sensibilità, intenzionalità, singolarità, capacità di simbolizzazione e di empatia, nonché cultura: intendendo come elemento minimo basilare di quest’ultima l’attitudine a elaborare soluzioni differenziate per risolvere uno stesso problema nel medesimo ambiente. Inoltre, l’affermazione di Man-
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STATI UNITI Parte l’esperimento progressista promesso dal nuovo sindaco. Ieri la cerimonia di insediamento. Tutti gli occhi dell’America liberal puntati su di lui
BILL DE BLASIO DAVANTI ALLA SUA CASA DI BROOKLYN, CON FAMIGLIA AL SEGUITO, PER IL GIURAMENTO DA SINDACO DI NEW YORK /REUTERS
la questione della diseguaglianza sociale e, più in generale, i problemi delle grandi città. In altre parole, New York come l’anti Detroit. Rispetto a metropoli disastrate dalla chiusura delle fabbriche, dal declino delle manifatture, dalla disoccupazione e dall’esodo di un’enorme percentuale della popolazione, come è successo nella capitale del Michigan, New York ha sicuramente vantaggi enormi: finanza, immobiliare e turismo sono i motori della sua economia (motori che la politica di Michael Bloomberg ha favorito incondizionatamente). E, nella sua scommessa di far funzionare me-
Giulia D’Agnolo Vallan NEW YORK
«P
ossiamo diventare il Dna dell’America del futuro». Dando il via alla cerimonia d'inaugurazione, sulle scale foderate di tappeto blu del municipio di New York, Harry Belafonte ha cristallizzato l’atmosfera che, dopo otto anni di Rudolph Giuliani e dodici di Michael Bloomerg, accoglie il nuovo sindaco della città, Bill de Blasio. «Oggi è l’inizio di una nuova era, di un viaggio trasformazionale. Abbiamo visto l’America lottare con la propria coscienza per diventare il meglio di stessa. Credo che le basi del compimento di quel destino siano qui a New York. Per questo non dobbiamo permettere che Bill de Blasio fallisca. Abbiamo tutti molto da fare, mettiamoci al lavoro», ha detto l’attore e attivista afroamericano. «Con la sua famiglia Bill de Blasio rappresenta il futuro di questa città e del nostro paese», gli ha fatto eco, anche se in tono meno militante, Bill Clinton chiamato a officiare il giuramento di de Blasio (che aveva lavorato al ministero dell'abitazione durante la sua presidenza e diretto la campagna di Hillary al Senato). Dalla bibbia di Roosevelt usata per il giuramento, alle molteplici citazioni di Fiorello La Guardia, al discorso battagliero della nuova public advocate Letitia James e del nuovo comptroller, Scott Stringer, la promessa di un nuovo corso è stata unanime. Lou Reed e John Lennon (Imagine) facevano parte della colonna sonora e sul palco è stata anche invitata Dasani, la dodicenne homeless protagonista di una serie di seguitissimi articoli che il New York Times ha appe-
Non solo strade pulite e quartieri sicuri: «Abbiamo una missione più profonda: mettere fine alla diseguaglianza» na dedicato alla drammatica situazione dei senzatetto. «Sognare in grande non è appannaggio esclusivo dei privilegiati. È nostro dovere, in municipio, fare sì che i quartieri siano sicuri, le strade pulite e i trasporti pubblici funzionino. Ma abbiamo una missione più profonda: mettere fine alla diseguaglianza sociale ed economica che minaccia di distruggere la città che amiamo», ha esordito de Blasio nel suo breve discorso. Annunciando l’inizio di «una nuova era progressista», l’ha però anche collegata alla tradizione di Franklin Roosevelt e dell’amatissimo sindaco Fiorello La Guardia. E ha garantito: «La mia promessa di mettere fine al racconto di due città, non era retorica elettorale. È il mio obbiettivo e lo raggiungeremo insieme». Il nuovo sindaco ha quindi annunciato alcune delle iniziative che intende affrontare subito - l’estensione del numero di giorni pagati per i lavoratori in malattia, la costruzione di abitazioni a costi moderati, lo stop alla chiusura degli ospedali, l’apertura di nuovi ambulatori, la riforma del dipartimento di polizia e l’istituzione di asili e dopo scuola gratuiti da finanziarsi con un aumento delle tasse di chi guadagna più di mezzo milione di dollari all’anno
Potrà contare su un’elite di contribuenti molto ricchi più aperti all’idea di lievi aumenti fiscali
New York, inizia l’era de Blasio («un aumento pari a circa tre dollari al giorno, ovvero il costo medio di un cappuccino alla soya da Starbucks»). Facendo appello allo spirito battagliero dei newyorkesi, de Blasio ha ricordato le grandi crisi recenti: collasso fiscale, attacchi terroristici e disastri naturali: «Adesso siamo di fronte a una crisi altrettanto grave, e per risolverla ci vuole un approccio drastico. La comunità va ricostruita dal basso verso l’alto, non viceversa». In effetti, il senso di un’epocalità di questo cambio di guardia è molto forte. «Tutti gli occhi dei liberal sono puntati sulla New York di de Blasio» è il titolo di prima pagina del New York Times di ieri, che ben riflette come l’esperimento progressista promesso dal nuovo sindaco sia visto, anche a livello nazionale come un test di iniziative politiche di sinistra intese ad affrontare
SPESE · Il budget del predecessore: 650 milioni di dollari Quanto costa fare il sindaco di New York per tre mandati, vale a dire dodici anni? Circa 650 milioni di euro, se si è miliardari. Dalle nostre parti, in Italia, siamo ormai abituati alle guerre alla casta e alle polemiche legate alle spese dei rappresentanti dei cittadini: per questo il dato americano, potrebbe portare a credere che si tratti di un consuntivo pesante per la popolazione americana. Invece l’ex primo cittadino di New York, Michael R. Bloomberg – che è un miliardario – di soldi per fare il sindaco di New York, e per diventarlo, ne ha spesi tanti, ma tirandoli fuori direttamente dai suoi corposi conti in banca. Dal portafoglio particolarmente fornito sarebbero infatti usciti 630 milioni di dollari: in qusto caso a fare i conti in tasca all’ex sindaco è stato il New York Ti-
mes. Non tutte le spese appaiono in linea con l'attività di sindaco: ad esempio il predecessore di De Blasio pare avesse una grande passione per i pesci tropicali e solo 62mila dollari erano messi in conto per pulire gli acquari che aveva voluto nel suo studio. Bloomberg per altro, nei suoi 12 anni da sindaco, si era pure dato lo stipendio, simbolico, di un dollaro, a fronte dei 200 e passa milioni che aveva dovuto spendere per le due successive campagne elettorali. L’ex sindaco amava viaggiare comodo, spendendo parecchio per i viaggi d’affari o rappresentanza (pochi giorni in Cina gli sono costati 500mila dollari), ricevimenti e spese varie (compresi i pranzi e le cene per i suoi collaboratori, per un totale di quasi 800 mila dollari).
glio New York anche per chi ci vive, ci lavora e non guadagna milioni di dollari all’anno, de Blasio può contare su un’elite di contribuenti molto ricchi più aperti all’idea di lievi aumenti fiscali di quanto non lo siano analoghi miliardari in altre zone del paese. La realizzabilità di parecchie delle iniziative promesse da de Blasio dipenderà anche da loro, una potente fascia di cittadini che per background e realtà sociale (a prescindere dalla scelta di partito) sono più affini a Bloomberg che all’ex public advocate di Brooklyn. La consapevolezza di muoversi su un palcoscenico più ampio di quello locale (evidenziata anche dal ruolo centrale dato alla presenza di de Blasio in una recente riunione tra i sindaci delle maggiori città americane e Barack Obama) e di star intraprendendo un esperimento politicamente molto difficile, hanno evidentemente guidato le scelte che de Blasio ha fatto finora rispetto a chi governerà al suo fianco. La più discussa, e discutibile, è quella del nuovo capo della polizia, William J. Bratton, già commissioner di Rudolph Giuliani con cui aveva architettato le stesse pratiche (stop and frisk, quality of life…) contro ha fatto campagna elettorale lo stesso de Blasio. Opportunistica o no, la nomina di Bratton è però la garanzia più forte che de Blasio poteva dare a chi temeva che un’amministrazione progressista riportasse New York allo stereotipo degli anni bui del disordine e del crimine. Per il resto, la squadra che sta mettendo insieme molto gradualmente, è in contro tendenza non solo rispetto a quella di Bloomberg, reclutata quasi per intero dal settore privato, ma anche rispetto al trend populista/giovanilista dell’antipolitica ossessionata dal «nuovo» che va forte a Washington. Si tratta infatti di persone che hanno già lavorato all’interno di municipi passati per Koch, Dinkins, persino Giuliani. Ne fa parte per esempio Zachary Carter, un pubblico ministero afroamericano di Brooklyn, che aveva condotto casi importanti come quello contro la polizia nell’abuso dell’haitiano Abner Louima o quello contro il finanziere truffa Jordan Belfort. L’educatrice settantenne (anche ex preside e insegnante) Carmen Farina eredita il problematicissimo assessorato dell’istruzione, uno degli uffici dove Bloomberg ha fatto più danni. È vero che uno dei vicesindaci (assessorato dell’abitazione), Aliacia Glen, viene da Goldman Sachs, ma era quella che alla banca d’investimento si occupava delle liason per lo sviluppo delle case a basso costo. Più lento dei suoi predecessori, e lui stesso senza un curriculum manageriale, a costo di non essere trendy (perora l’età media è di sessantuno anni) de Blasio sta mettendo insieme un gruppo di gente che sa lavorare sodo e conosce bene il sistema ipercomplicato che dovrà navigare.
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il manifesto
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INTERNAZIONALE MEDIO ORIENTE · Nuova missione del segretario di stato Usa John Kerry, deciso a presentare una bozza di “accordo quadro”
APPELLO
Israele pronto a cedere 300mila arabi
Diritto al ritorno, sbarrate le porte di Gaza
stinesi in Israele scenderebbe dal 20 al 12% della popolazione totale. Israele, ha aggiunto il quotidiano, sta studiando gli aspetti legali della proposta e continua a discuterne con gli americani, sotto la spinta del ministro degli esteri e leader dell’ultradestra Avigdor Lieberman da sempre contrario a cedere territori «vuoti» di Israele e a favore del «transferimento» di popolazione palestinese.
Michele Giorgio GERUSALEMME
I
l governo Netanyahu, nel quadro di un accordo definitivo con l’Anp di Abu Mazen, è pronto a cedere parti del territorio israeliano al futuro Stato di Palestina in cambio delle (ampie) porzioni di Cisgiordania in cui sono situati gran parte degli insediamenti colonici. Lo ha rivelato ieri un quotidiano di Tel Aviv, Maariv, alla vigila dell’arrivo nella regione del Segretario di stato Usa John Kerry, pronto, si dice, a presentare alle parti la bozza di un “accordo quadro”. In verità il premier israeliano e i suoi ministri più che a «scambi territoriali per la pace» meditano la “ces-
La proposta, nel quadro di un accordo definitivo con l’Anp, è rivelata dal giornale Maariv
Netanyahu darebbe anche il Triangolo della Galilea in cambio di porzioni di Cisgiordania sione” di popolazione araba allo Stato di Palestina. Questa proposta, ha aggiunto Maariv, al momento non è in cima all’agenda dei colloqui tra Netanyahu e Kerry ma è stata discussa «ai livelli più alti» tra Israele e Stati Uniti. Si tratta di una soluzione in linea con l’idea che Netanyahu (e non solo) ha di Israele e dello Stato di Palestina e che il premier non ha certo nascosto in questi ultimi anni: Israe-
DONNE PALESTINESI A UN CHECKPOINT DI BETLEMME /REUTERS
le dovrà essere lo Stato degli ebrei e la Palestina (ciò che resterà disponibile dei territori occupati per questo possibile futuro Stato) dovrà accogliere i palestinesi, inclusi i profughi che vivono nei Paesi arabi. Anche per questo il primo ministro insiste che Abu Mazen dovrà riconoscere Israele quale «Stato del popolo ebraico». Non solo nella destra ma anche in altre forze politiche israeliane è radicato l’orientamento che non rico-
PRAGA · Ucciso da un’esplosione in casa sua
Muore l’ambasciatore palestinese, è giallo no ceco dopo il decesso del massimo rappresentante palestinese in Repubblica Ceca, mostra appoche ore dalla notte di pieno l’imbarazzo con cui viene san Silvestro è esploso un vissuta la rappresentanza delordigno nella nuova resil’Anp nel Paese. Fin dall’inizio dedenza dell’ambasciatore palestigli anni ’90 la politica estera dei nese Jamal Al-Jamal, che stava governi cechi si è contraddistintraslocando con la sua famiglia ta per uno spiccato orientamennel nuovo appartamento situato to pro-israeliano. Di qualunque a Suchdol, uno dei quartieri resicolore politico fosse il governo di denziali di Praga. Il diplomatico, turno, i premier e i ministri degli arrivato a Praesteri sono stati ga soltanto in sempre ricevuti Fonti del governo ottobre 2013, è con i massimi onomorto poche ceco hanno smentito ri a Tel Aviv e la Reore dopo il ricopubblica Ceca rapvero. Indenni la pista terroristica, presenta uno degli gli altri mem- ma le indagini sono alleati più fedeli delbri della sua falo Stato ebraico. miglia presenti appena iniziate La tendenza pronell’appartaisraeliana si è ultemento. riormente rafforzata negli ultimi La dinamica dell’esplosione due anni. La Repubblica Ceca è non è stata ancora confermata stata infatti l’unico Paese memma alcune fonti della polizia parbro dell’Ue a votare nel 2012 conlano di una cassetta di sicurezza tro l’adesione dello Stato Palestiesplosa nel momento in cui Janese all’Onu, mentre il presidenmal Al-Jamal tentava di aprirla. te della Repubblica Milos Zeman Secondo questa versione la casè conosciuto per il suo forte sentisetta proveniva dalla sede delmento anti-islamico, che lo ha l’ambasciata e la vittima non portato a dire in diverse occasioavrebbe prestato attenzione a un ni di considerare Yassir Arafat aldispositivo di sicurezza contenula stregua di Adolf Hitler. to al suo interno. Verso sera è staInfine Praga è stata negli ultita infine organizzata l’evacuaziomi anni al centro di diverse opene di alcune abitazioni limitrofe razioni di intelligence e di mistifial luogo dell’esplosione, in quancazione legate allo scacchiere to all’interno della villa sarebbemediorientale. L’episodio più noro stati trovati (a più di sei-sette to è senz’altro il falso incontro ore dall’arrivo delle forze dell’ortra il chargé d’affaire iracheno a dine) dei nuovi ordigni. Una notiPraga e uno degli attentatori alle zia diffusa dal sindaco di Praga Torri Gemelle Mohamed Atta sulTomas Hudecek, ma che nel mola possibilità di cedere ad Al-Qaemento in cui scriviamo non ha da le armi chimiche possedute ancora ricevuto conferma. da Saddam Hussein. La notizia, Fonti del governo ceco hanno costruita in collaborazione con i poi smentito che l’esplosione sia servizi di sicurezza cechi, era stariconducibile a una pista terrorita divulgata a livello internaziostica, affermazioni che sembranale per dimostrare il presunto no decisamente premature e prelegame tra il governo iracheno di concette a indagini appena iniallora e Al-Qaeda, giustificando ziate. Nonostante i rumor e le così l’invasione del 2003. Grazie prese di posizione non ufficiali al radicato orientamento prodel governo, la dinamica delisraeliano del governo ceco e del’esplosione rimane ancora tutta gli apparati di sicurezza locali, da decifrare e analizzare. Praga è un terreno propizio per Il silenzio ufficiale dei massimi episodi di guerra sporca o per vertici della politica e del goveroperazioni sotto falsa bandiera.
noscere come cittadini a tutti gli effetti il milione e 600 mila palestinesi (chiamati arabo israeliani) che abitano, peraltro da generazioni se non da secoli, nel territorio dello Stato. Sono cittadini da “trasferire”, in buona parte. La possibile “cessione” di cui scriveva ieri Maariv non riguarda poche migliaia ma centinaia di migliaia di persone - 300 mila secondo alcune fonti - che vivono nel cosiddetto «Triangolo», una porzione di territorio della bassa Galilea adiacente la Cisgiordania, che include cittadine e villaggi come as Kafr Qara, Umm al-Fahm (la seconda città araba di Israele dopo Nazareth), Tayibe e Qalansawe. È un area che, durante gli eventi bellici del 1948, Israele avrebbe voluto lasciare alla Giordania che aveva occupato la Cisgiordania e che invece rimase sotto controllo israeliano con gli accordi di armistizio del 1949. Con la cessione del Triangolo, il numero dei pale-
TEL AVIV
Si aggravano le condizioni di Ariel Sharon Le condizioni di salute dell’ex premier israeliano Ariel Sharon - in coma da sette anni - si sono molto aggravate ieri. Un portavoce del centro medico Tel ha-Shomer (Tel Aviv) ha confermato le prime informazioni divulgate dalla televisione Canale 10, limitandosi a precisare che l’ex primo ministro e falco della destra israeliana è stato colpito da una forte disfunzione renale. I medici - che un mese fa hanno compiuto un intervento chirurgico su Sharon – dicono di essere impotenti di fronte al progressivo e rapido deterioramento delle sue condizioni fisiche. Dopo essere stato colpito da un ictus, Sharon (85 anni) è in coma dal gennaio 2006. m. g.
In passato l’idea della cessione del Triangolo è venuta fuori più volte, scatenando le proteste dei palestinesi in Israele. Da parte sua Abu Mazen si rifiuta di riconoscere Israele come Stato del popolo ebraico e il trasferimento di popolazione. Il presidente dell’Anp nelle ultime ore, intervendo alle celebrazioni per la fondazione del suo movimento politico, al Fatah, ha ribadito la propria opposizione a qualsiasi accordo provvisorio con Israele. Chiede che si giunga a un accordo definitivo con la creazione di uno Stato palestinese che abbia Gerusalemme est per capitale e a una «soluzione equa» (non meglio precisata) della questione dei profughi basata sulla risoluzione 194 delle Nazioni Unite che sancisce il “diritto al ritorno”. Abu Mazen vuole anche che sia dislocata una forza internazionale lungo i confini tra Palestina e Israele. Ha anche minacciato di avviare «azioni giuridiche e diplomatiche» contro «il cancro» degli insediamenti colonici israeliani. Intanto resta un mistero l’esplosione che ieri a Praga ha ucciso l’ambasciatore palestinese, Jamal al Jamal. L’Anp invierà oggi una equipe di esperti per investigare assieme con la polizia ceca.
Jakub Hornacek PRAGA
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Sud Sudan/CARNEFICINA A SFONDO TRIBALE PARTITA DA JUBA
Sull’orlo del baratro, ma si apre una speranza per i negoziati di pace Rita Plantera
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entre raffiche di arma da fuoco fanno ancora eco all’inferno di Bor - città fantasma inaccessibile alla stampa - il nuovo anno si apre con la speranza, seppur labile, di negoziati di pace tra i ribelli fedeli al vice-presidente Riek Machar e il governo sud sudanese di Salva Kiir. Dopo circa due settimane di scontri violenti che hanno messo a ferro e fuoco lo stato più giovane dello scacchiere geopolitico internazionale e anche il meno sviluppato, è Addis Abeba ad ospitare le delegazioni di ambo le parti per mettere a punto i dettagli di un cessate il fuoco sotto la pressione dei governi occidentali e di quelli regionali. L’ultimo dell’anno si era chiuso con pesanti combattimenti che avevano costretto l’esercito governativo a una ritirata strategica dalla città di Bor - a circa 200 chilometri dalla capitale Juba - e capitale essa stessa dello stato dello Jonglei, ricco di risorse petrolifere non sfruttate e teatro del massacro etnico del 1991. Fin dal suo esplodere - a metà dicembre - il conflitto che sta trascinando il Paese nel baratro di una lunga guerra civile tra scontri violenti nelle zone strategiche di produzione di petrolio, massacri, stupri, esecuzioni sommarie di civili e soldati e fosse comuni scoperte a Juba, Bor e Malakal, la principale città dell’Upper Nile, si è caratterizzato per una recrudescenza di violenza etnica tra i membri della tribù Dinka del presidente Salva Kiir e quella dei Nuer di Machar, nonostante gli sforzi da più parti per negoziare un cessate il fuoco . In un’intervista alla Bbc il capo della missione di pace dell’Onu in Sud Sudan, Hilde Johnson, ha sostenuto che il conflitto ha le sue radici in «una lotta politica che richiede una soluzione politica» e fatto appello a entrambe le parti per «un grande sforzo di riconciliazione nazionale» al fine di risolvere le ragioni storiche delle attuali divisioni. Sarebbero almeno 1000 i morti e circa 200.000 gli sfollati in circa due settimane di scontri tra i sostenitori del governo e i ribelli del White Army considerati fedeli a
Machar, pesantemente armati con fucili automatici e granate a propulsione. I negoziati di pace appena all’avvio e con la mediazione del blocco dell’Africa orientale – l’Inter-Governmental Authority on Development (Igad) - si annunciano ardui considerando anche le ultime dichiarazioni di Salva Kiir che ha definito la guerra «senza senso» ma al contempo ha escluso la possibilità di una condivisione del potere con i ribelli e respinto le richieste di questi ultimi di liberare un certo numero di loro fedelissimi arrestati nelle settimane scorse. Gli scontri ricordano la faida esplosa nel 1990 all’interno del Sudan People’s Liberation Movement (Splm), il gruppo ora al potere che ha combattuto l’esercito del Sudan nella guerra civile, quando, al seguito di Machar a capo della fazione scissionista, i Nuer a lui fedeli massacrarono a Bor appartenenti all’etnia Dinka. L’epicentro politico di questa nuova carneficina a sfondo tribale è stata Juba. Da lì le violenze si sono irradiate rapidamente nelle zone produttrici di petrolio, dividendo il paese lungo le linee etniche del gruppo Nuer e Dinka, i due principali di più di 200 gruppi etnici che con le loro lingue e tradizioni diverse convivono accanto a cristiani e musulmani facendo del Sud Sudan uno stato privo di una cultura dominante. In un susseguirsi di atrocità che rievoca lo spettro dei decenni di guerra con il Sudan e che portarono alla secessione del Sud Sudan nel 2011, gli Stati vicini così come Stati uniti - strenuo sostenitore della lotta per l’indipendenza del Sud Sudan - e Onu continuano a premere per porre un freno a un conflitto politico-etnico che a cavallo tra il vecchio e il nuovo anno ha riaperto un nuovo focolare di attrito in Africa. Mentre l’Unione Africana ha espresso sconcerto che la più giovane nazione del continente si trovi coinvolta così presto in un conflitto di questo tipo esprimendo timori che la situazione possa decadere in «una guerra civile vera e propria». Timori che per molti analisti sono già realtà sin dallo scatenarsi di questo ennesimo turbinio di violenza con cui il mondo ha salutato il 2014.
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na delegazione di 34 italiani è da tre giorni al Cairo in attesa di potersi recare a Gaza. La delegazione ha l’obiettivo di portare aiuti per l’ospedale Al Awda e manifestare solidarietà con il popolo palestinese ribadendo il diritto a poter tornare alle loro terre d’origini. Da tre giorni, invece siamo bloccati nella capitale egiziana, in balia di notizie contraddittorie. In pratica da tre giorni viviamo sulla nostra pelle, seppur in millesimi, quello che quotidianamente vivono i nostri amici palestinesi. Tutto questo nonostante la delegazione «Per non dimenticare… il diritto al ritorno» abbia richiesto da mesi tutte le autorizzazioni fornendo all’ambasciata italiana i documenti richiesti. Comprendiamo le difficoltà che sta vivendo l‘Egitto, in questi giorni abbiamo potuto toccare con mano la tensione e il timore che il paese possa cadere nella spirale della violenza. Rispettiamo il suo travaglio e non vogliamo fare nessun tipo di ingerenza sulle scelte interne di questa nazione. Rivolgiamo alle donne e agli uomini dell’Egitto la nostra piena amicizia e solidarietà. Questa nota si propone di parlare agli italiani. Lo vogliamo fare proprio in questi giorni di festa, in assoluto contrasto con una realtà fatta, sia in Italia che nel mondo, di continui soprusi, di negazione di diritti e di attacchi alla democrazia e alle libertà. Temiamo che nessun appello in questa direzione arriverà dalla massima autorità dello Stato italiano, il presidente Napolitano che, al contrario di quanto 31 anni fa fece un ben altro presidente, Sandro Pertini quando denunciò senza mezzi termini i responsabili dell’eccidio di Sabra e Chatila - non spenderà una parola sulle ingiustizie a cui è condannato il popolo di Palestina. Vogliamo in questo modo essere megafono di quanti normalmente non hanno voce: quelle donne e quegli uomini che vivono tanto a Gaza e in Cisgiordania quanto nei miseri campi in Libano, Siria e Giordania. Tutto questo accade nel più assoluto silenzio della comunità internazionale che in questo modo si rende complice e responsabile di quanto accade in questa parte del mondo. Un silenzio a cui non si sottrae il nostro Paese. Il governo italiano che si vanta di avere rapporti eccellenti con i Paesi dell’area, che stringe le mani dei vari capi di stato di questa regione e firma accordi con un Paese, Israele, che non rispetta i diritti umani e civili, ha qualcosa da dire in merito a questa situazione? Ritiene normale che a suoi cittadini possa arbitrariamente essere impedito il movimento da uno Stato “amico” senza ricevere nessuna spiegazione? Noi in tutta sincerità riteniamo che non sia assolutamente accettabile tutto ciò e che quindi è necessario che si levi con forza una voce di protesta e di condanna. Per non dimenticare… il diritto al ritorno *per informazioni 00201202057062, mail: tuttiagaza2013@gmail.com
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MESSICO ZAPATISMO · A vent’anni dall’insurrezione del 1 gennaio 1994, le «escuelitas» accolgono gli attivisti internazionali
Nelle comunità ribelli, più ricche di dignità Luis Hernández Navarro
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ella comunità Emiliano Zapata, nel caracol Torbellino de Nuestras Palabras, 30 famiglie zapatiste lavorano in forma collettiva. Possiedono in comune una piantagione di caffè, orti e circa 350 capi di bestiame. I suoi abitanti non ricevono aiuti governativi di nessun tipo, ma il loro livello di vita è molto meglio di quello dei villaggi priisti dei dintorni. Nella comunità c'è un piccolo negozio comunale i cui guadagni sono destinati alle opere di cui necessita il villaggio. Lì, come in tutte le altre regioni ribelli, le risorse delle cooperative servono per finanziare opere pubbliche come scuole, ospedali, cliniche, biblioteche o condotte per l'acqua. In tutto il territorio ribelle fiorisce un sistema autonomo di benessere basato su una riforma agraria de facto che privilegia l'uso comunitario di terre e risorse naturali, sul lavoro collettivo e sulla produzione di valori d'uso e in pratiche di commercio equo sul mercato internazionale.
Nei territori autonomi, una riforma agraria «de facto» privilegia l'uso comunitario di terre e risorse Nelle zone di influenza zapatista si è sconfitta la legge di San Garabato, che impone che i contadini debbano comprare a caro prezzo le merci di cui hanno bisogno e vendere a buon mercato i loro prodotti. Succede spesso che i coyote (intermediari commerciali abusivi) siano obbligati a pagare alle basi di appoggio ribelli per i loro raccolti, bestiame ed articoli artigianali, prezzi più alti di quelli che offrono alle comunità non organizzate. Le cooperative zapatiste hanno acquisito un vero parco di autoveicoli per spostarsi e trasportare la loro produzione. Nelle comunità ribelli è nata una coscienza ambientale. Si pratica l'agricoltura biologica ed è stato bandito l'uso di fertilizzanti chimici. Si effettuano lavori per proteggere i suoli. C'è una preoccupazione genuina e generalizzata per conservare boschi e selve. Come segnalano gli autori del libro Lotte molto altre: zapatismo e autonomia nelle comunità indigene del Chiapas: «le sfide della sostenibilità nella riproduzione comunitaria sottolineano la tensione tra la necessità di sussistere dentro lo schema socioeconomico esistente e il progetto di trasformazione di questo schema». Quello che lì si profila è, più che un modello economico zapatista, un processo endogeno e diverso delle priorità delle comunità, come alternativa alla sottomissione alla logica distruttrice del capitale transnazionale. Nei 27 municipi zapatisti non si beve alcool né si coltivano stupefacenti. Si esercita la giustizia senza l'intervento del governo. Più che sulla punizione, si pone l'accento sulla riabilitazione del trasgressore. Le donne hanno conquistato posizioni e responsabilità poco frequenti nelle comunità rurali.La rete di infrastrutture comuni di educazione, salute, agricoltura biologica, giustizia ed autogoverno che gli insorti hanno costruito al margine delle istituzioni statali, funziona con la propria logica, plurale e diversa. Le comunità zapatiste hanno formato centinaia di promotori di educazione e sanitari e di tecnici agricoli, secondo la loro cultura e identità. Tutto questo è stato possibile perché gli zapatisti si governano da se stessi e si autodifendono. Costruiscono l'autonomia senza chiedere permesso in mezzo a una campagna permanente di contrainsurgencia. Resistono alla perenne persecuzione di 51 distaccamenti militari e di programmi assistenziali il cui intento è creare divisioni nelle comunità in resistenza offrendo briciole. Tuttavia, alla fine di quest'anno si è scatenata una campagna di diffamazione che sostiene che niente di tutto questo è vero. Falsamente, si dichiara che gli zapatisti oggi vivono
peggio di 20 anni fa, che distruggono l'ambiente e che dividono le comunità. Si tratta dell'ultimo episodio di una guerra sporca vecchia quanto la sollevazione stessa. Le calunnie non reggono. Centinaia di testimonianze pubbliche dimostrano che le accuse contro i ribelli non hanno niente a che vedere con la realtà che i calunniatori diffondono. Per esempio, il pittore Antonio Ortiz, Gritón, è stato nella comunità di Emiliano Zapata tra l'11 ed il 16 agosto di quest'anno, nell'ambito della escuelita zapatista, e ha documentato l'esperienza vissuta in un commovente racconto diffuso su Facebook. L'ha sorpreso vedere che 30 famiglie indigene possedevano 350 capi di bestiame. Il pittore faceva parte di un gruppo di 1.700 persone che, ad agosto di quest'anno, hanno partecipato alla prima escuelita zapatista. Vi hanno partecipato anche Gilberto López y Rivas e Raúl Zibechi, i quali, dalle pagine de La Jornada, hanno condiviso le loro riflessioni. Lo stesso ha fatto la giornalista Adriana Malvido su Milenio, e la ballerina Argelia Guerrero su pubblicazioni alternative. Tutti hanno constatato in maniera diretta come vivono, lavorano, si istruiscono, si curano e pensano le comunità zapatiste. Per quasi una settimana i 1.700 invitati sono stati trasportati, ospitati e nutriti dai loro anfitrioni nelle comunità in cui hanno vissuto. Ognuno è stato accompagnato da un quadro zapatista che rispondeva alle loro domande e dubbi sulla loro storia, lotta ed esperienza organizzativa e traduceva dalle lingue indigene allo spagnolo. Questa esperienza si sta ripetendo questo fine d'anno e si ripeterà all'inizio del 2014. Un'iniziativa educativa di questa grandezza, che presuppone una pedagogia diversa da quella tradizionale, si può reggere solo sull'esistenza di comunità con una base materiale capace di accogliere gli invitati, di un'organizzazione con la destrezza e disciplina necessarie a realizzare un progetto così ambizioso, e migliaia di quadri politici con la formazione adeguata per spiegare la loro vita quotidiana e la loro proposta di trasformazione sociale. Dal basso, gli zapatisti stanno cambiando il mondo. La loro vita oggi è molto diversa da quella di 20 anni fa. È molto meglio. Negli ultimi due decenni si sono dati una vita degna, liberatrice, piena di significato, al margine delle istituzioni governative. Non lo stanno facendo in poche comunità isolate, ma in centinaia, distribuite in un ampio territorio. Da questo laboratorio di trasformazione politica emancipatrice c'è molto da imparare e di cui ringraziare. *Vicedirettore de La Jornada (www.Jornada.unam.mx) Twitter: @lhan55 (Traduzione "Maribel"-Bergamo)
IMMAGINI DAI TERRITORI ZAPATISTI «LIBERATI»/FOTO DI SIMONA GRANATI
EZLN · Camminare domandando, dalla rivolta alla resistenza
«Ya Basta», il grido degli indigeni dopo i botti di capodanno Geraldina Colotti
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ent’anni fa, in Chiapas, l’urlo zapatista nella notte di capodanno: «Ya Basta!». Adesso basta, grida un esercito indigeno, prevalentemente composto da contadini, nel sud del Messico. Dà l’assalto a quattro municipi – San Cristobal de Las Casas, Altamirano, Ocosingo, Las Margaritas – e ne occupa per poco altri tre. Poi se ne va da San Cristobal senza problemi, il 2 gennaio, evitando lo scontro con i militari, che intanto stanno bombardando le comunità. A Ocosingo e nei pressi di Rancho Nuevo, sede della più importante base militare della regione, invece, gli insorti devono combattere e subire perdite. Fa così la sua comparsa l’Esercito zapatista di liberazione nazionale (Ezln) e il subcomandante Marcos, con tanto di pipa e passamontagna. L’Ezln è nato il 17 novembre del 1983 nella Selva Lacandona, fondato dal comandante German e da un manipolo di donne e uomini in maggioranza indigeni e meticci. Proviene però da un gruppo guevarista attivo nel nord del paese fin dal 1969, le Fuerzas de liberacion nacional (Fln), che si è poi radicato nel Chiapas e nelle regioni vicine dalla fine degli anni ‘70. Un’organizzazione con
un classico programma marxista-leninista, che prevedeva la presa del potere politico e l’instaurazione di «una repubblica popolare e del socialismo». La storia dell’Ezln prenderà invece un’altra strada, segnando fin dai suoi primi passi una distanza dalle rivoluzioni di stampo novecentesco. L’insurrezione, si saprà in seguito, intedeva però di estendersi
La maschera del subcomandante, ironico, colto, mediatico, figlio della borghesia ai vicini stati di Oaxaca, Tabasco e fino alla capitale, fidando nell’appoggio della popolazione. Un obiettivo, quindi, nazionale, che avanza allora undici richieste («lavoro, terra, casa, alimentazione, salute, istruzione, indipendenza, libertà, democrazia, giustizia, pace») ed esige la destituzione di Carlos Salinas de Gortari (il «dittatore»), eletto nel 1988 con un’enorme frode. È stato lui a portare il paese verso il Trattato di libero commercio con gli Stati uniti e il Canada (Nafta) e alla riforma dell’articolo 27 della costi-
tuzione, nel 1992. Un balzo all’indietro a prima della Rivoluzione messicana, che sancisce la fine della riforma agraria e provoca manifestazioni e marce. Il 12 ottobre, la forza degli zapatisti è già evidente a San Cristobal de Las Casas tra le 10.000 persone che manifestano con l’Alianza nacional campesina independiente Emiliano Zapata (Anciez) e tirano giù la statua del conquistador Diego de Mazariegos. Marcos dirà poi che durante quelle mobilitazioni, tra settembre e gennaio, le comunità decidono di passare alla lotta armata e che la via della Selva ha avuto la meglio su quella urbana: il movimento – sostiene Marcos - aveva allora un ampio sostegno, però la società messicana non chiedeva agli zapatisti guerra ma pace e negoziato. Da qui la lunga riflessione dell’Ezln che lo porterà a optare sempre più per una lotta politica «che va dal basso verso l’alto», alimentata da pause e metafore, circolarità e cybercomunicazione. Un mese dopo quella prima insorgenza prende avvio la trattativa tra governo e Ezln che porterà agli accordi di San Andrés su «Diritti e cultura degli indigeni», firmati il 16 febbraio del ’96.Un punto, però, sempre disatteso dal governo nel corso di questi
vent’anni e nonostante i numerosi tentativi degli zapatisti per «andare al di là dello specchio truccato della realtà» (come disse Marcos allo scrittore Manuel Vazquez Montalban). Intanto, quell’iniziale programma è a suo modo andato avanti nei territori autonomi zapatisti. Contro venti e maree e a dispetto della forte repressione che continua a colpire le comunità. La «maschera» del subcomandante è entrata nell’immaginario internazionale. Colto, ironico, figlio della borghesia, l’uomo con la pipa ha nel frattempo squadernato a scrittori e giornalisti i suoi giudizi politici e la sua filosofia del «camminare domandando», «in basso e a sinistra» e senza pensare a prendere il potere. In questi giorni, nel suo ultimo comunicato ha attaccato la stampa asservita ai poteri forti. E i giornalisti non possono entrare all’«escueli-
ta» zapatista. Intanto, il Messico è semprenella morsa del neoliberismo. Il Nafta, i nuovi accordi del Pacifico e la svendita del petrolio pubblico sono al centro delle politiche di Peña Nieto. Le manifestazioni si susseguono. Il paese conta una quindicina di guerriglie. La più presente, l’Esercito popolare rivoluzionario (Epr), di orientamento marxista-leninista, ha anche un suo braccio legale ed è nata due anni dopo l’insurrezione zapatista. In altre parti dell’America latina, si scommette sul «socialismo del XXI secolo» messo in moto da Hugo Chávez in Venezuela. La ribellione civico-militare del Comandante, nel 92, è stato l’altro grande spartiacque di fine secolo, che ha rimesso al centro della scena gli ultimi degli ultimi. E ha riaperto la strada che sembrava chiudersi con la fine dell’Unione sovietica.
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CULTURE
STORIE DIMENTICATE
L’oscura via di fuga dalla nuda vita Günther Anders
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isogna sottolinearlo da subito: la disoccupazione, proprio questo destino di cui uno potrebbe credere che stringe in unità gli operai, è al contempo quel che inibisce la loro coscienza di classe. Infatti gli operai sono in concorrenza gli uni contro gli altri; gli operai contro i disoccupati; quelli che (assicurati da un salario minimo) fanno apologia del lavoro contro i declassés. Questa divisione afferisce all’immagine del tardo capitalismo proprio come la relativa concorrenza tra i trusts all’interno di uno stesso gruppo di datori di lavoro. (...) Questa circostanza di non essere, di non appartenere a nessun luogo, di non essere neppure più una cosa utilizzabile, non è la morte. Infatti come per una persona totalmente disperata, che viene trattenuta dal suicidio da un più profondo strato dell’io, così nell’operaio resta l’esistenza fisica come residuum. Solo in questo strato di esistenza che gli è rimasto può ora agire. All’inizio non reagisce, accumula. La povertà diventa rabbia senza un determinato oggetto di rabbia. Rabbia vendicativa senza un determinato oggetto contro cui arrabbiarsi. Infatti gli è impossibile decidere, nella basilare imprevedibilità del mondo attuale, chi lo ha portato in questa situazione. Ma ha bisogno di un oggetto di rabbia per superare la rabbia. Se non lo trova arriva ad inventarlo. E allora l’ebreo diventa l’oggetto della rabbia – in una certa misura a posteriori.
Dalla classe alla razza Il garzone ha appreso a diciassette anni a fare il falegname, ora ha ventitré anni. Non ha mai potuto tradurre in lavoro quel che ha imparato. Essere adulto significa per lui essere chômeur. Essere adulto significa per lui non avere né il diritto, né la possibilità di fare qualcosa. Non può sposarsi – non ha soldi. Non può lavorare. Non può restare in casa: sarebbe un oziare. Non può restare per strada – consumerebbe le suole. Non crescerà mai, non diventerà mai un adulte, une grande personne. Non bighellona solo nel suo vestito da garzone, ma anche nel suo volto da garzone. Non ha preoccupazioni, dal momento che lui non potrebbe porvi rimedio. All’improvviso gli si apre una via di fuga: viene nutrito, meglio che a casa, e anche (et cella) in modo serio; non soltanto in modo serio, ma anche in modo magico: ottiene l’uniforme; non soltanto in modo magico, ma anche in modo nobile: è della razza migliore, non solo nobile, ma anche potente: lui, ultimo degli ultimi, è destinato a essere un salvatore. Il suo pugno alzato conserva felicemente una direzione verso cui dover picchiare, felice di poter dare alla sua rabbia la legalità dell’onore e anche di dare un certo onore alla illegalità, picchia lì dove gli viene indicato. E non ha bisogno di nient’altro che di un nemico. (...) Dove l’operaio si distacca dalla cultura borghese, tenta di realizzare l’ideale che la rivoluzione borghese aveva formulato come teoria, e che le ideologie borghesi avevano da tempo abbandonato: quella dell’uomo di natura. Denudandosi in modo programmatico, si bagna nei laghi intorno a Berlino e vive nelle tende. Si trovano qui ine-
se che di fatto, pur non volendolo, è proletarizzato, si ferma allo stesso punto. La miseria unisce le classi, i diseredati difendono gli stracci dell’eredità). Che cosa c’era prima? Era occupato, ma non (come era, per esempio, nel caso dell’artigiano) con il suo mondo, o con l’ultimazione di un oggetto, ma piuttosto con la divisione di un mondo che non può vedere nel suo insieme , poiché sono solo minuscole parti. Era quindi occupato, ma proprio a causa della sua lunghezza e della sua intensità, questa occupazione non poteva costituire né una vita (nel senso di un’unità biografica) né la sua speciale vita . Doveva fare quel che anche ogni altro può fare. In che cosa avrebbe potuto ora, in quanto «libero», applicare la sua memoria? In una sola cosa: nel ricordarsi l’eccezionale, vale a dire la domenica. In queste condizioni non può essere un ricordo che restituisce il continuum di una vita, ma solo la sua sorella subalterna: la sentimentalità. La sentimentalità che è tanto banale, tanto comune come la sua vita quotidiana, che non teme, una vita che non dirige affatto in prima persona perché lui non viveva, almeno non in quanto lavorava, ma «veniva vissuto». E non è solo lui che non viveva, ma uno qualunque degli operai che faceva questo o quel lavoro; e il modello esemplare di questo uno qualunque era proprio Fritz Müller o quel nono operaio che rispondeva al nome di Schulz.
Nel tempo del gioco
FERNAND LÉGER, I COSTRUTTORI
Nell’arco di alcuni anni il nazismo riuscì a cancellare ogni traccia di coscienza di classe, sostituendola con il concetto di «razza». In questo saggio inedito in Italia, Günther Anders emigrato in Francia poco dopo la salita al potere di Adolf Hitler cerca di spiegare come la macchina propagandistica nazionalsocialista fosse riuscita a indicare a milioni di disoccupati e piccolo-borghesi impoveriti gli ebrei come il nemico da combattere. Un’anticipazione dall’ultimo numero della rivista «Micro Mega» MICRO MEGA
Non possono disporre neppure di un pezzettino di futuro. Senza direzione e senza oggetto, d’un tratto l’élan vital precipita ed esita tra le alternative di temerarietà e apatia. Non viveva nel suo mondo, ma nel mondo che «portava il colore dell’altra civilizzazione, quella degli altri». I suoi romanzi erano i cattivi romanzi borghesi, di cui erano riempite le sue domeniche. I suoi vestiti della domenica erano i vestiti che il suo capo indossava durante la settimana. Non viveva nel suo mondo, ma in quello degli altri, di cui non conosceva la storia, e i cui risultati e le cui scorie gli servivano come dimora. Di che cosa si deve occupare visto che ormai all’improvviso ogni giorno è domenica? Visto che lui – tentazione piccoloborghese – è un pensionato contro la sua stessa volontà? Infatti non può acquistare quotidianamente le distrazioni della domenica. Desidera – nella misura in cui ha abbandonato la coscienza di classe – la vita del piccolo-borghese perché è un pensionato e perché, non avendo avuto il tempo di vedere il suo proprio mondo, deve ormai intendere il mondo del borghese (Fenomeno parallelo: il piccolo-borghe-
stricabilmente legati il materialismo rivoluzionario, la cultura del nudismo e il culto della natura del movimento giovanile, come anche il neopaganesimo del movimento puramente popolare. In estate viaggiano in campeggio senza calze e senza costume da bagno, ma con il grammofono, la loro vita nomade e i loro apparecchi radiofonici risuonano nella notte del campeggio rischiarato dalla luna. L’abbronzatura dei loro corpi è eloquente del fatto che non lavorano più sotto l’ombra della fabbrica, e che le loro ferie non sono un periodo di ricreazione dal lavoro, ma piuttosto l’essere tagliati fuori dal lavoro. Vivono ancora solo in modo fisico, poiché non sono più nessuno e non valgono più di niente. Si capisce che sono pronti per quella teoria, per quella categoria che fa dell’autentico una virtù della fisicità, sono pronti per la teoria della «razza». E questo è tanto più comprensibile quanto più il concetto di razza transfuga attraverso i secoli, cioè attraverso la storia, la tradizione (alla quale loro non hanno preso parte) e si sofferma su qualcosa di preistorico (cioè d’inerente alle fonti). La speranza nutrita da Marx
di fare della classe operaia l’erede della storia intellettuale tedesca era un’illusione. La storia ha messo un termine a questa speranza a partire dalla storia stessa. Gli operai che sono diventati senza storia e senza tradizione, si vendicano sulla storia, e fanno un salto indietro nell’utopia. Non hanno nulla dietro di loro. Ovvero: non hanno nessuna tradizione. I loro padri e i loro nonni lavoravano come operai agricoli a est dell’Elba o in Pomerania. Sono arrivati in città come operai. Hanno ricominciato tutto da zero, senza reminiscenza. Non hanno nessuno stile di vita. Non sono stati modellati da nessuna religione o contestazione della religione, da nessuna morale o contestazione della morale. Erano solo uomini in un senso barbarico. La città in cui arrivano è appena più vecchia di loro. Anch’essa non ha nessuna tradizione, non può più modellarli nello stesso tempo in cui essa si modella, non può (come fa Parigi) renderli a posteriori eredi di un passato al quale loro in realtà non hanno partecipato. Non hanno niente davanti a loro. Non possono contare su nulla.
Dalla laicità all’antisionismo Il testo presentato in questa pagina è tratto da un saggio pubblicato nell’ultimo numero della rivista «Micro Mega» che il filosofo tedesco Günther Anders scrisse nel 1933, poche settimane dopo la sua scelta di emigrare, scelta conseguente alla salita al potere di Adolf Hitler. Il saggio fu un tentativo da parte del filosofo tedesco di spiegare come il nazismo era riuscito a distruggere la coscienza di classe, sostituendola con il concetto di «razza». Oltre a questo scritto, «Micro Mega» propone alcuni blocchi tematici. Il primo riguarda la laicità a partire dalla discussione pubblica sulla scuola, l’aborto, l’eutanasia (saggi di Cinzia Sciuto, Eduard Verhagen, Umberto Veronesi, Giovanni Reale, Chiara Lalli e Michele Martelli). Il secondo blocco è relativo al dualismo tra «sionismo» e «antisionismo» (con i contributi di Gianni Vattimo, Furio Colombo, Moni Ovadia, Guido Caldiron, Judith Butler). Il terzo blocco è relativo alla cosiddetta teoria dei beni comuni (Paolo Maddalena).
Il tempo vuoto – che un tempo era conosciuto solo come astrazione filosofica del tempo sempre già pieno – diventa qui nell’esistenza dello chômeur realtà. Poiché, mentre la vita è sempre e totalmente impegnata nel fatto di impegnarsi in qualcosa, e il tempo è la forma ordinata delle sue occupazioni, la vita è ora improvvisamente abbandonata a sé stessa e alla vuotezza del suo tempo che non avanza più ma resta fermo. Perché più la vita è disimpegnata, più il suo tempo trascorre lentamente. Ma non è concesso a questa vita senza particolarità e occupazioni di badare a sé stessa, non le è neppure concessa la riflessione in senso più ampio, poiché la riflessione ha sempre altri motivi: è scoperta di sé, coscienza, rimorso (Agostino), ricordo come reminiscenza della vita piena e sua unificazione biografica (Goethe), è scoperta del mondo interiore come rinunzia al mondo, abbandono alle nuances dell’interiorità propria conosciuta come disordine (Proust), è autodeterminazione nell’ascolto dell’imperativo morale (Kant). Ma qui la vita è solamente rimandata a sé stessa da qualcosa di altro da sé, da qualcosa di estraneo, e senza che lo abbia deciso. Non lo trova, non nel senso della autonomia kantiana, non lo rimpiange. È lasciata dal mondo e dall’idea stessa di un’occupazione. Non essendo altro che un reliquat, non ha nessun mondo interiore pieno, ma aveva giornate impegnate (per chi?). Non solo non è esercitata nella riflessione, ma, se anche intraprendesse questo percorso, non avrebbe alcun oggetto, non troverebbe niente perché non c’è niente da trovare. Questa vita infatti non era essa stessa niente e quindi doveva decidersi per un’occupazione in qualcosa di altro. Occupazione in che cosa? Se non con il sonno e il gioco, cioè con la morte del tempo e con l’inganno del tempo di vita tramite la sua sostituzione con quello artificiale del gioco, come coloro che girovagano senza una direzione. Preoccupandosi della vita (ci si preoccupa della cosiddetta vita nuda con il sostegno di disoccupazione e il sussidio), la si priva del diritto elementare, preumano, naturale, di preoccuparsi di sé stessa. Le patate vengono sia raccolte sia guadagnate: sono poste davanti allo chô meur come i leoni allo zoo. Traduzione di Micaela Latini
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CULTURE LE PROFEZIE DI ERICH SCHMIDT Eric Schmidt è un nome associato a Google. Con lui, infatti, Google è diventata la società che è. Recentemente è stato messo in disparte da Larry Page e Sergej Brin, i fondatori dell’impresa. Ha il vezzo di fare previsioni sul lungo periodo, che raramente si sono verificate. Ad esempio, affermò, a suo tempo, che Facebook e Twitter erano dei giochini e nulla più. Un errore che
oltre tutto
Google ha pagato caro, rimanendo al palo nello sviluppo dei social network. Per il 2014, la sua profezia è più cauta. Sostiene che l’anno appena iniziato vedrà il successo dei big data (cosa che già è in parte accaduta). Il pezzo forte riguarda invece le biotecnologie, che vedranno per Eric Schmidt uno sviluppo paragonabile a quello di internet ai tempi d’oro. Peccato che sono anni che ciò viene previsto, senza che questo diventasse una realtà.
INTERVISTA · Un incontro con lo scrittore e giornalista messicano Diego Enrique Osorno
qualche banda di strada, ma di veri e propri eserciti privati equipaggiati con armi da guerra e elicotteri. Uno dei suoi libri è dedicato ad uno di questi «eserciti» criminali, los Zetas, attivi nel nordest del paese, di che si tratta? Nel caso specifico degli Zetas ci troviamo di fronte ad un gruppo di ex militari, provenienti prevalentemente dai corpi d’élite dell’esercito messicano, paracadutisti e commandos, uomini spesso formati in qualche prestigiosa
La vocazione globale dell’industria criminale Guido Caldiron
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escrive il suo lavoro sul mondo del narcotraffico messicano come «giornalismo infrarealista» che, sulla scia di quanto fatto in passato dal scrittore cileno Roberto Bolaño, mescola realtà e immaginazione, gusto narrativo e tecnica d’inchiesta. «Non basta vedere le cose con i propri occhi per poterle rac-
Dal traffico di cocaina a Wall Street, mentre continua la guerra per il controllo del territorio contare, se ciò a cui assisti è terrore allo stato puro: corpi fatti a pezzi, gente torturata, migliaia di morti - spiega al manifesto , prima di aggiungere - Bisogna metabolizzare il tutto e scavare oltre la superficie grazie alla cultura, alla poesia, all’immaginazione, a ogni altra risorsa di cui si dispone. Proprio Bolaño, che non era mai andato oltre Città del Messico, ha scritto alcune delle pagine più belle sul fenomeno dei narcos. Per questo lo considero la mia principale fonte di ispirazione». Diego Enrique Osorno ha solo trentatre anni, ma è considerato uno dei più importanti giornalisti latinoamericani. Ha pubblicato centinaia di articoli, cinque libri, uno dei quali pubblicato quest’anno nel nostro paese da La Nuova Frontiera, Z. La guerra dei narcos, e ha diretto il documentario El Alcalde. Negli ultimi quindici anni ha raccontato ogni giorno dalla città di Monterrey, capitale criminale del nordest del paese, le trasformazioni e lo sviluppo del narcotraffico in Messico. Nei suoi libri spiega come i narcos non siano più interessati soltanto al commercio di marijuana e cocaina, che volto ha oggi questo fenomeno? A partire dalla seconda metà degli anni Novanta il Messico, al pari di altri paesi dell’America Latina, ha assistito alla progressiva integrazione del narcotraffico nella nuova realtà del capitalismo selvaggio che ha preso forma a livello internazionale. Se prima di allora il fenomeno poteva godere soprattutto delle complicità o dell’appoggio di apparati statali corrotti, o del sostegno di governi e istituzioni collusi o apertamente «in affari» con i narcos, da quel momento in poi la connessione più importante si è avuta con il mondo imprenditoriale e con parte di quel circuito finanziario diventato sempre più centrale negli equilibri economici nel nord come nel sud del mondo. Per questa via, il narcotraffico si è in qualche modo globalizzato, trasformando la sua stessa «filiera produttiva» e il profilo dei suoi protagonisti. Vuol dire che l’economia della droga si è ristrutturata un po’ come un qualsiasi settore industriale? In qualche modo si. Consapevoli che il proibizionismo, che ha fatto fin qui la loro fortuna, potesse un giorno venire meno - come è successo di recente per la marijuana in alcuni Stati degli Usa e, nelle ultime settimane, in Uruguay -, i narcos hanno iniziato da
MESSICO, MONTERREY/FOTO REUTERS
tempo a differenziare le loro attività, affiancando sempre più spesso al traffico di droga quello di esseri umani e cercando di mettere le mani sul petrolio, sui gas naturali e sulla loro rete di distribuzione. Allo stesso modo, non solo sarebbe ridicolo pensare ancora ai narcos come dei gangster alla Al Capone, ma perfino il paragone con personaggi come Pablo Escobar, il primo vero «signore» della droga che negli anni Ottanta annunciò l’emergere del narcotraffico su scala internazionale, risulterebbe fuorviante rispetto alla realtà odierna. I narcotrafficanti di oggi, quelli che sono al vertice dei diversi «cartelli» territoriali che si sono spartiti la carta geografica del Messico, sono degli imprenditori armati che operano attraverso società per azioni. Al posto dei vecchi «padrini» che sembravano usciti da un film di Coppola, ci sono i consigli di amministrazione che muovono le loro pedine a Wall Street e che, contemporaneamente, non dispongono più di
FILOSOFIA · Una agile e tuttavia completa introduzione all’opera di Giorgio Agamben
La fortuna politica dell’erudizione Marco Pacioni
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inalmente un libro italiano su Agamben dopo i molti usciti all’estero. Lo ha scritto Carlo Salzani, - Introduzione a Giorgio Agamben, il melangolo, pp. 197, euro 15. Salzani è studioso che si è formato e ha lavorato fuori dall’Italia in un ambito, qual è quello della letteratura comparata, che nel nostro paese ha avuto poca fortuna. È infatti nella comparatistica oltre che nella filosofia politica delle accademie americane, britanniche, australiane che l’opera di Agamben viene letta e studiata. Ma Agamben è molto presente anche nei paesi di lingua spagnola, in Francia e in Germania. In quest’ultimo paese anche per il lavoro di edizione dell’opera di Walter Benjamin. Il libro di Salzani copre dunque una lacuna, aprendo la strada ad una conoscenza più sistematica del suo pensiero in Italia, dove la ricezione della sua opera è stata rapsodica, benché non priva di effetti interessanti fuori dalle aule universitarie e in particolare nel teatro, nelle arti visive e performative.
Un pensiero variegato Il libro di Salzani ha il merito di riunire i supposti due o addirittura tre Agamben che la critica internazionale ha talvolta individuato. Salzani ci presenta un Agamben variegato sì, ma molto coerente e per il quale l’ontologia, la politica e la poetica contribuiscono a costruire lo stesso discorso. Non soltanto coerente nella diverse discipline filosofiche, ma anche nei riferimenti teologici, giuridici, storici, letterari, artistici. Nella riconduzione a sistema delle tessere del mosaico che Agamben sta costruendo, sembrano crearsi due spazi attorno a tre libri. Rispettivamente:Idea della prosa, La comunità che vie-
ne eHomo sacer I nei quali si coagula meglio di altri da un lato lo stile del suo percorso teorico e dell’altro il ruolo della sua presenza pubblica dopo l’attenzione suscitata da Homo sacer I a partire dal 1995. Da una parte la poetica del pensiero di Agamben e dall’altra la presenza politica con i suoi calcolati, ma non per questo inadeguati eccessi (si pensi all’idea di «campo» sviluppata in Quel che resta di Auschwitz quale paradigma politico della modernità) forse memori del situazionismo di Debord che hanno permesso ad Agamben di essere recepito ben al di là del circuito filosofico politico universitario. Tra il libro che con più capacità anche letteraria condensa i temi della sua ricerca (Idea della prosa) e quello che inaugura il suo progetto politico (Homo sacer I), la filosofia di Agamben è da Salzani distinta in due periodi percorsi cronologicamente e sincronicamente. Potenza, comunità, biopolitica, paradigma, dispositivo, campo, profanazione, messianismo, uso, inoperosità: Agamben non inventa contenuti nuovi, ma di essi trasforma radicalmente la prospettiva attraverso il metodo di studio e lo stile argomentativo fino a non poter separare più il modo dall’oggetto. Ad esempio, è la stessa potenza, la categoria aristotelica della modalità che Agamben eleva a rango ontologico e antropologico facendone il termine chiave per comprendere il carattere più proprio dell’essere nel tempo e dell’umano nella biologia, nel linguaggio e nella storia. Riguardo lo stile e di come attraverso esso Agamben possa cambiare un contenuto già dato, si consideri il passaggio dall’espressione «forma di vita» a «forma-di-vita» nella quale si palesa visivamente uno dei tratti cruciali dell’intero edificio filo-
sofico di Agamben: la simultanea dimensione di distinzione e inseparabilità della vita dalla propria forma;il doppio vedere auscultare del pensiero che alla lettera divide l’umano senza scinderlo scorgendolo contemporaneamente legato a sé e in comunità agli altri.
Influenza indiretta La forza della presenza pubblica di Agamben è ancora più sorprendente se si considera che non si è mai posto a capo di gruppi d’opinione, né si è reso protagonista di un’intensa presenza mediatica. Come mostra Salzani, la sua influenza si è esercitata dalla distanza della ricerca in gran parte percorsa anche sul difficile e fascinoso terreno della filologia, dell’erudizione e di un’effettiva multidisciplinarità come ha ricostruito de la Durantaye nel suo fondamentale Giorgio Agamben. A Critical Introduction. È dallo studio, dall’insegnamento e dal fascino anche letterario dei suoi libri che Agamben è approdato alle pratiche politiche. Sotto questo punto di vista, Agamben è oggi un’icona di riferimento della filosofia contemporanea. È proprio all’idea di «contemporaneo» che Salzani si rivolge
nel capitolo conclusivo per formulare sinteticamente l’attualità e la presenza del pensiero di Agamben. Ma al di là della pur pregnante stilizzazione finale fatta da Salzani, l’attualità del filosofo italianio sta in quella che è stata definita, spesso con acrimonia, come una delle sue esagerazioni e cioè l’idea del campo quale paradigma biopolitico dei nostri tempi. Nella diffusione e nelle drammatiche vicende dei centri di detenzione da Guantanamo a Lampedusa, nella ricorrente costruzione di muri separatori, nel moltiplicarsi dei dispositivi di controllo informatico e biologico della vita degli individui, nell’ipertrofia del diritto che smarrisce così la sua legittimità, nella sua simultanea incapacità di dare uno status ai nati dai migranti, ai rifugiati, nel ricorso sistematico della legge all’eccezione, nell’uccidibilità economica decretata da un debito diventato fondamento del capitalismo finanziario: è qui che il pensiero di Agamben inchioda all’attualità non senza indicare possibili vie d’uscita sulle quali Salzani con merito si sofferma anche per offrire materia di risposta ai molti che vedono in Agamben un impolitico.
Un paese ostaggio delle milizie private di ricchi uomini d’affari e degli eserciti dei narcofrafficanti scuola militare degli Stati Uniti o nella Scuola di guerra del Guatemala, una delle più celebri e dure dell’intera America Latina, che hanno scelto di disertare o abbandonare le forze armate per raggiungere la rete del crimine organizzato. La loro preparazione è ora messa al servizio dei narcos. Nelle fattorie che una volta servivano per la lavorazione del mais, gli Zetas hanno creato dei veri e propri campi di addestramento paramilitare dove formano giovani banditi, talvolta poco più che adolescenti, che finiscono poi per diventare la «carne da cannone» delle guerre tra cartelli rivali che insanguinano il paese. Gli ex militari tirano le fila, ma a morire sono soprattutto questi giovani che la povertà e l’assenza di prospettive fanno affluire nei gruppi criminali, neanche si trattasse dell’ufficio di collocamento. Vuol dire che dei giovani scelgono volontariamente questa vita? Si, se non hanno niente di meglio all’orizzonte. Alla possibilità di trasformarsi in «macchine da guerra» per i narcos, sapendo che potranno morire o che nel migliore dei casi finiranno in galera, i giovani delle regioni più povere del paese non hanno che un’alternativa, quella di cercare di emigrare negli Stati Uniti. Anche questa scelta comporta però enormi rischi e sofferenze visto che gli Usa stanno cercando di chiudere la frontiera. Detto in altri termini, il ruolo assunto dal narcotraffico non rappresenta che l’elemento più visibile della crisi profonda che caratterizza il paese, segnato da una corruzione dilagante e da enormi diseguaglianze sociali. In Messico si vive una situazione paradossale e terribile. Da un lato abbiamo gente come Carlos Slim, il patron di una catena di ristoranti che è considerato uno degli uomini più ricchi del mondo, per capirci dieci volte più facoltoso di Silvio Berlusconi, o come Mauricio Fernandez, l’ex sindaco di San Pedro Garza Garcia, il municipio che vanta il più alto reddito pro capite del paese, cui ho dedicato il documentario El Alcalde, che dopo aver combattuto i narcos con i loro stessi mezzi, un esercito privato e violenza in larga scala, sogna di costruire un parco preistorico con tanto di dinosauri di plastica in un posto dove muoiono ogni settimana decine di persone. Dall’altro lato, in questo stesso paese gran parte della popolazione vive in miseria e immersa in un clima di terrore a causa della violenza dei narcos e della risposta altrettanto violenta che arriva dall’esercito e dalle tante «milizie di autodifesa» che sono nate tra i cittadini: una vera e propria guerra che ha fatto oltre quarantamila vittime in meno di dieci anni.Interi Stati del paese, come il Nuevo Leon, Taumalipas e Michoacan, sono di fatto nelle mani della criminalità: da queste parti regna la legge del più forte e una violenza cieca e selvaggia che non risparmia nessuno.
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il manifesto
GIOVEDÌ 2 GENNAIO 2014
VISIONI
Ritratti • È morto a 60 anni uno dei più dotati chitarristi italiani. Aveva collaborato
con Bennato, De Gregori, Venditti. E aperto nel 1980 i concerti di Bob Marley a Torino e Milano
Roberto Ciotti, nostro grande fratello bluesman
ROBERTO CIOTTI, SOTTO LE COPERTINE DI «WALKING» E «CHANGING» INCISI PER L’ETICHETTA DEL MANIFESTO CD
palco, incessante ancora fino a pochi mesi dalla morte, sia nei principali festival di settore italiani e europei, che negli infiniti tour che lo hanno portato a suonare ovunque nel mondo, incluse terre come l’ex Unione Sovietica e il Sudamerica. Attraverso le performance live Ciotti ha fatto conoscere a una platea spesso ’digiuna’ del genere, l’esistenza vitalissima del blues, trasformandosi in questo senso in una sorta di ambasciatore sincero della musica e della culture nero e afroamericana. Un percorso non didattico nelle forme, ma negli esiti. Anche nei riguardi di giovani artisti che sotto i suoi insegnanti con lui hanno avuto un percorso musicale quasi iniziatico, come nel caso del talentuoso (e troppo spesso prestato al pop...) Alex Britti. Ulteriore elemento di adesione al blues è stato il perpetrare, quasi rammentando storytellers mississipiani stanziali nelle loro terre, la sua presenza nel club capitolino del Big Mama, dove per tantissimi anni si è esibito a cadenza settimanale. L’ultima stagione artistica racconta di ripetuti viaggi sonori nel 2011 e nel 2012 in Senegal, presso l’importante Sant Louis Jazz Festival e di una fascinazione rilevante per i suoni afro, su cui Ciotti stava lavorando attivamente. Una ennesima strada da percorrere con la stessa modalità di sempre, testarda, appassionata e istintiva, assieme alla sua chitarra. I funerali dell’artista si terranno domani 3 gennaio alle ore 11 a Roma presso la Chiesa degli Artisti in Piazza del Popolo.
Gianluca Diana
U
n finale di 2013 triste per il mondo della musica italiana. È scomparso infatti all’alba del 31 dicembre a Roma, dopo una veloce quanto devastante malattia, il grande bluesman Roberto Ciotti. Una figura carismatica quella dell’artista capitolino, grazie ad una carriera più che quarantennale, iniziata nella capitale dei primissimi anni settanta. Gli esordi raccontano dei Blue Morning, un quartetto di stampo jazz-rock dove tra l’altro spiccava la presenza di un altrettanto giovanissimo Maurizio Gianmarco. In breve Ciotti intraprende il suo personale ed appassionato viaggio nel mondo del blues, iniziando a percorrere una strada all’epoca non consueta, ma che gli ha permesso di emergere con forza e carattere nel mondo complicato delle sette note. L’epicentro della nuova generazione è il Folkstudio di Trastevere dalla frequentazione prevalentemente cantautorale, tutti (o quasi) destinati a duratura gloria. Talmente significativa la differenza di stile ed evidente il talento che Ciotti portava con sé, che in pochi anni si
Oltre agli album, scrive le colonne sonore di «Marrakesh Express» e «Turnè» per Salvatores schiusero le porte di collaborazioni via via sempre di maggior rilievo: De Gregori, Bennato e poi Venditti fra gli altri. Un’attività frenetica che non si limita al lavoro come turnista nelle sale di registrazioni, Ciotti porta il suo blues in ogni angolo d’Italia. Il 14 giugno 1979 è fra gli ospiti del Concerto per Demetrio Stratos nel catino dell’Arena Civica di Milano: una esibizione ricordata da più parti come estremamente intensa ed evocativa (chi vuole può andare ad ammirarne un frammento della classe su YouTube cliccando Roberto CiottiShake it). Una presenza non casuale alla giornata in ricordo della voce degli Area, perché la sua prima fatica discografica Supergasoline Blues (1978), era stata incisa proprio per conto della Cramps, già etichetta di Stratos e soci, così come Bluesman, il secondo lp, appena l’anno seguente. Sono questi i due album in cui maggiore è l’aderenza ad una estetica e a una forma blues più tradizionale e ortodossa. Percorso poi che avrebbe non abbandonato, ma frammentato, ricomposto ed alleggerito nelle successive produzioni discografiche. Aggiungendo elementi sonori prossimi alla world music e inasprendo la ricerca della melodia in una modalità quasi pop, nel suo sviluppo artistico Ciotti ha voluto misurare se stesso anche all’interno di ripetute esperienze lavorative in ambito cinematografico. Tra le diverse colonne sonore da lui composte, spiccano in particolar modo i due lavori sotto la regia di Gabriele Salvatores Marrakech Espress e Turnè, quest’ultima scritta assieme al tastierista dei Dire Straits, Tommy Mandel. Oltre la corposa discografia del bluesman che consta di un totale di quattordici uscite, di cui ben tre con Il Manifesto cd (Changes, Walking, Behind The Door), a delineare quanto fosse aderente alla forma blues da lui amata, concorre non tanto la carriera da studio, bensì il percorso musicale in senso più ampio. Gli apici della sua carriera sono passati tanto attraverso le opportunità che lo hanno visto aprire i due concerti italiani di Bob Marley nel 1980, quanto nel lungo tour intrapreso con l’ex-Cream Ginger Baker nel 1983 e 1984. Ma ancora più attraverso l’attività live sul
RICORDO · I dischi con l’etichetta del manifesto, gli incontri capitolini al Big Mama
Il piacere di una vita sempre unplugged Flaviano De Luca
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a il numero d’ordine 002, il secondo dell’etichetta discografica il manifesto, l’album Changes di Roberto Ciotti, il nostro blues brother preferito, pubblicato nel 1996. Fu una scoperta strabiliante per i lettori, gli appassionati di blues e i semplici cultori della buona musica (e vendette oltre ventimila copie). Ciotti, uno dei chitarristi tecnicamente più preparati in circolazione, aveva già una prestigiosa carriera alle spalle, appena reduce da un tour americano con Ginger Baker, e arrivò nelle stanze di via Tomacelli insieme con Marco Tiriemmi, altro maniaco delle 12 battute, di Robert Johnson e Muddy Waters, gli idoli di entrambi. Tiriemmi gestiva il Big
Mama, la casa del blues capitolino, il locale di Trastevere dove noi della redazione facemmo almeno un paio di feste di compleanno del quotidiano, negli anni novanta, quelle feste che celebravano l’anniversario della fondazione, il 28 aprile 1971. In una, affollatissima e fumosissima, allegra per i buoni risultati elettorali, quella datata 1996, per i 25 anni del manifesto, Ciotti suonò a più riprese, incantando l’uditorio con i suoi brani da Underground a Rolls Royce, passando per King of Nothing, colonna sonora di Marrakesh Express di Gabriele Salvatores, e Treat me right ma soprattutto quelli che ancora non lo conoscevano si spellarono le mani per il finale, una lunghissima versione di Hey Joe (di Jimi Hendrix).
Con la nostra etichetta pubblicò altri due cd, Walking nel 1999 e Behind the door nel 2002, subì la perdita dell’amata moglie Odette e continuò a seguire quella sua strada musicale personalissima, avvicinandosi molto alle sonorità e atmosfere latine. Poi, nel maggio 2012, venne invitato al festival jazz di St. Louis, in Senegal dove ottenne un gran successo e nei giorni successivi a Dakar si esibì in alcuni apprezzati concerti, con jam session insieme ad alcuni musicisti locali (terminata alle 2 di notte!) che gli fecero una buona impressione. È tornato poi a suonare nel paese di Youssou Ndour per la settimana della cultura italiana e ha messo le basi per la registrazione di un album live, coi suoi amici musicisti senega-
lesi. Ha registrato numerosi provini e accarezzava l’idea di tornare al più presto a registrare nel vecchio continente prima che la malattia lo aggredisse…. «il mio è stato un istinto, un semplice accadimento, una necessità. Non avrei potuto fare altro» (scrive nella sua autobiografia Unplugged, una vita senza fili, edita da Castelvecchi nel 2007).
il manifesto
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VISIONI MICHAEL SCHUMACHER Sabine Kehm, manager del pilota ricoverato nell’ospedale di Grenoble, conferma che Schumacher resta in coma ma il lieve ottimismo di lunedì sembra confermato: «È stato monitorato tutta la notte - spiega - e il fatto che la pressione intracranica non sia aumentata è positivo. Le sue condizioni restano però critiche e sul futuro non ci si può sbilanciare».
CHRISTIAN BALE La 20th Century Fox annuncia quella che sarà una delle produzioni più sfarzose in uscita il 12 dicembre. Si tratta di «Exodus», un biblico «peplum» con Christian Bale nei panni di Mosè. La regia è affidata a Ridley Scott che promette un «nuova interpretazione dei sacri testi» a uso cinematografico. Del cast faranno parte anche Aaron Paul e Sigourney Weaver.
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JazzSet
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La comunanza del linguaggio? È questione di interplay Luigi Onori
BOX OFFICE 2013
Iron Man 3 più visto negli Stati uniti
KIEFER SUTHERLAND IN «24»
TV · Sarà sempre più globale nel 2014, fra digitale e il mondo virtuale del web
Il destino del piccolo schermo al tempo di Google Play S.Cr.
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i brinda a viale Mazzini visto che domani cade l’anniversario dei sessant’anni dall’inizio del «regolare servizio di trasmissioni». Era il 3 gennaio 1954 quando la prima presentatrice della Rai, Fulvia Colombo, annunciava la nascita della televisione. Il via con la rubrica Arrivi e partenze con Armando Pizzo e Mike Bongiorno giovane giovane, che appena un anno dopo costringerà gli italiani incollati al piccolo schermo con Lascia e Raddoppia... Sembra, anzi, è un’era geologica fa, anche perché nel corso delle ultime stagioni il mondo televisivo ha mutato linguaggi, concorrenti, utenti e target di riferimento. L’arrivo online di Google Play, insieme a Chili, il recente Infinity, ha dato la possibilità a chiunque possegga un computer o un dispositivo mobile, una libreria fra serie tv, film, concerti impensabile fino a ieri. Un passaggio epocale al quale la tivvù generalista (Rai, Mediaset) risponde con timide aperture - il digitale e il proliferare di canali monotematici o meno costringe comunque a
impostare i palinsesti in maniera meno rigida - ma non riesce ad affrancarsi a modelli stereotipati. Soprattutto nel mondo della fiction che pur risentendo della crisi, per il 2014 vanta un magazzino di titoli pronti o in preparazione che gira intorno ai caposaldi del teleromanzo tout court. Suore, preti buoni anzi buonissimi, nonni
I nuovi episodi di «24», questa volta Kiefer Sutherland indaga inquieto per le vie di Londra pazienti, pimpanti che non conoscono pannoloni e Alzheimer, oppure femme fatale o macho da iperscount. Raiuno inaugura l’anno con la nona stagione dagli ascolti sicuri di Don Matteo, Terence Hill con la tonaca si sposta per ragioni di budget dalla storica Gubbio alla vicina Spoleto. E reitera il mese dopo - a febbraio - con Un medico in famiglia, anche qui è la nona serie, dove Lino Banfi
MUSICA · Inaugura il «nuovo» Bruce Springsteen Se il 2013 ha visto una concentrazione di uscite discografiche mai registrate prima (è la crisi, poche sporche copie ma bisogna pur guadagnare...) le previsioni per il 2014 al momento viaggiano su ipotesi più che certezze. L’unica è l’uscita annunciata per il 14 gennaio del nuovo lavoro del boss «High hopes», anche se nel disco Bruce Springsteen accanto a tracce nuove rielabora pezzi già editi. Curiosa la strategia, per un giorno l’etichetta lo ha «reso disponibile all’acquisto» su iTunes - record di acquisti e di recensioni - e poi lo ha bloccato, fingendo l’errore. I marpioni del marketing. Il nuovo anno, comunque, dovrebbe portarci in primavera il ritorno degli U2 - con Danger Mouse alla consolle - e poi i Coldplay, Foo Fighters la «diva» Lana Del Rey e quella «tascabile» Kylie Minogue.
Marco Ranaldi
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n un tempo sospeso, memoria di fasti asburgichi e di splendori reali, l’antro magico della musica romantica, trovò nell’ispirazione della famiglia Strauss, quell’eco romantico, drammatico e triste che condusse per mano il passaggio di un’epoca e che ancora oggi è sinonimo involontario di allegria e di spensieratezza. Quasi come dal nulla e da tutta una cultura popolare di balli campestri, il signor Johan Strauss, assieme a Joshep Lanner, inventò un linguaggio che rimarrà unico nella storia della musica, impropriamente detto valzer ma che è molto di più. Dalla follia di quel signore, l’eredità passò nelle mani del figlio Johann e di un numero grande di fratelli che celebrarono le memorie di un popolo difficile, nobile e anche molto umano. Dalla loro morte in poi, le loro musiche invasero il mondo, unendo la delicatezza del movimento alla brillantezza delle me-
onnipresente insegue il solito stuolo di nipoti, pronipoti, zie e amici. Canale 5 risponde con - recitano i promo (giuro!) «la risposta italiana a Downtown Abbey. Il titolo? I segreti di Borgo Larici. Non servono commenti. E ancora Tredicesimo apostolo 2 - La rivelazione, mentre dal 10 gennaio si riaffaccia minaccioso il terzetto Garko/Arcuri/Torrisi con Il peccato e la vergogna 2. Sky - almeno - alza un po’ l’asticella, almeno ci prova; il prossimo progetto- nato fra le polemiche - è Gomorra. Le dodici puntate tratte dal best seller di Saviano in onda in primavera, si dice serviranno da lancio a un nuovo canale del gruppo di Murdoch dedicato alla produzione seriale di qualità. Per andare sul sicuro, d’oltreoceano atteso nel corso dell’anno, il ritorno di Jack Bauer, alias Kiefer Sutherland che per otto stagioni è stato protagonista assoluto di 24, plot conentrato sull’unità aristotelica di un evento - ad alto tasso di suspence - che si dipava nell’arco di una giornata. I dodici episodi saranno tutti ambientati a Londra. E ancora, in ordine sparso, arriveranno i nuovi episodi di Bones, The Originals (spin-off di The Vampire diaries) e Dracula. Sul fronte varietà sempre più frammentato ci si districa fra talent, reality, non si prevedono novità. Raiuno si (ri)mette nelle mani della coppia Fazio/Littizzetto ancora sul palco dell’Ariston a Sanremo (18-22 febbraio) e appioppa a maggio (Si può fare!) un altro show allo stakanov Paolo Conti, Canale 5 in quelle di (santa) Maria De Filippi (C’è posta per me, 11 gennaio). Auguri di buon anno... Si spera.
Ancora una volta Robert Downey Jr - che nel terzo capitolo dedicato al super eroe si cala nuovamente nei panni di Tony Stark, si dimostra al momento l’attore capace di garantire incassi monstre al botteghino. «Iron Man 3» - fonte Variety - risulta infatti il film più visto negli Stati uniti nel corso dell’anno appena passato con 1 miliardo e 200 mila dollari. A seguire nella classifica degli incassi arriva il secondo capitolo di «Cattivissimo me», con 918 milioni mentre terza è la seconda puntata della saga «The Hunger Games: Catching the Fire» (795 milioni). Il sesto «Fast & Furious», ultimo interpretato dal recentemente scomparso Paul Walker è quarto (476 milioni), quinto «Monster University (743), sesto l’«Uomo d’acciaio» (662), settimo è «Gravity» (395), ottavo «Thor: The Dark World (380), nono (ma appena uscito) il secondo «The Hobbit» (614). A chiudere la top 10 «The Croods» (587). TORRENT «HIT»
L’Hobbit viaggiatore è il più piratato Hollywood brinda a un 2013 mai così ricco negli ultimi anni - stimati incassi complessivi intorno agli 11 miliardi di dollari, e in contemporanea nel parallelo universo dei download «illegali» vengono resi noti i titoli dei film e delle serie tv più scaricate dell’anno appena passato. La cosiddetta «Torrent Freaks» ha incoronato il primo capitolo degli Hobbit come film dal maggior numero di download, ben 8.4 milioni. A seguire l’hit di Quentin Tarantino di «Django-Unchained» e il sesto «Fast& Furious». Anche le serie televisive hanno una loro reginetta «alternativa», è la terza stagione del «Il trono di spade» il cui episodio finale è stata scaricato da quasi 6 milioni di utenti. Altissima poi la «platea» di «Breaking Bad» fissata in 4 milioni e 200 mila download. Pirateria, certo, ma qualche executive da Hollywood sottolinea come ormai anche una copia «pirata» possa generare benefici promozionali non indifferenti.
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ltre il Mito. Scritti sul linguaggio del Jazz (LIM, pp. 151, euro 25) è un testo prezioso, utile, rigoroso ed illuminante. L’autore è il milanese Maurizio Franco (musicologo, didatta e saggista) ed appartiene alla schiera di studiosi italiani, oggi cinquantenni, che da decenni sta fornendo nuovi strumenti per la comprensione di una musica complessa e trasversale quale il jazz: Marcello Piras, Gianfranco Salvatore, Stefano Zenni, Claudio Sessa, Vincenzo Caporaletti, Luca Bragalini e Vincenzo Martorella. Franco approfondisce in forma saggistica alcune tematiche già affrontate in Il jazz e il suo linguaggio (Unicopli, 2005), riprende ed amplia sette studi già pubblicati cui aggiunge cinque lavori inediti, ottenendo un testo articolato ed organico. In esso si affrontano questioni «nodali» (suono e linguaggio del jazz; l’Interplay come creazione estemporanea collettiva; i processi creativi; retaggio africano, incroci afrolatini), questioni estetico-didattiche (nuova terminologia e prospettive di ricerca negli studi di V.Caporaletti; insegnare il jazz: una didattica audiotattile), singoli artisti del Novecento (Armstrong, Parker, Monk, Django Reinhardt, il Gaslini dodecafonico di Tempo e relazione, Enrico Intra e Le case di Berio). Da molti anni il musicologo milanese guida, con Intra, l’Associazione Culturale Musica Oggi, è direttore didattico dei Civici Corsi di Jazz, insegna in conservatorio, pubblica su im-
VIENNA · Nella Musikverein della capitale austriaca il tradizionale evento di capodanno
Sogno disneyano per Strauss lodie, vergate spesso di una nota dolente, sindrome romantica della profondità dell’animo straussiano. Però solo dal lontano 1939, la memoria asburgica rivive come in un capolavoro disneyano nella fastosa Musikverein di Vienna per il tradizionale Das Neujahrskonzert der Wiener Philharmoniker che è uno dei pochi eventi mondiali a non soffrire delle crisi recessive economiche. Eppure un concerto di tale portata, nato per celebrare la viennesità a dispetto dell’unificato stato germanico, ancora oggi ha il potere di incantare e di rimarginare antiche ferite delle storie delle genti. Dalla morte del mitico Boskovsky si sono alternati sul podio dei Wiener un numero di grandi direttori e lo scettro ambito pas-
sò per Maazel ma soprattutto per le mani di Karajan, già anziano ma forte di quello spirito che solo un forte direttore sa trarre dai canti sinfonici degli Strauss. Quest’anno, sul ritorno della strada di Efeso, si è fermato sul podio dei Wiener il direttore più acclamato dell’ultimo decennio Daniel Barenboim, argentino che non ha mai disdegnato di disegnare un progresso sonoro utilizzando le radici del sinfonismo romantico in molte sue sfaccettature. Barenboim ha diretto Moonlight Music dall’opera Capriccio; è toccato poi ai compositori viennesi Lanner e Hellmesberger jr. per poi passare all’unico straniero ovvero Leo Delibes. Fra fiori stupendi, coreografiche accattivanti vestite
portanti riviste di settore (dirige Musica Oggi) ed ha un’ampia esperienza anche nella produzione di concerti. Proprio da questa vastità di orizzonti teorico-pratici Maurizio Franco trae elementi per inquadrare il jazz «oltre il mito». Smonta, con argomenti inconfutabili, la visione della musica afroamericana quale successione di singoli geni innovatori e pone, invece, l’accento sulla dimensione sociale e collettiva del jazz. In questo ambito è centrale il concetto di «interplay», cioè quella rete di relazioni-invenzioni-stimoli che avvolge i solisti e li rende parte di una dinamica di gruppo. Franco stigmatizza, in proposito, la pratica (eurocentrica) di trascrivere e studiare gli assolo staccandoli dal loro contesto; diversifica e ben illustra i concetti di «estemporizzazione» (variazione di materiale melodico-ritmico dato) e di «improvvisazione» (creazione ex-novo); introduce le categorie di «suono frase» e «suono colore». Intenso e serrato sono l’argomentare per togliere incrostazioni aneddotiche e luoghi comuni critici (si leggano i saggi su Parker e Monk), lo sforzo per superare una didattica spesso modellata solo sul bop negando la trasformazione di forme e ruoli nel percorso del jazz, la tensione per creare strumenti che analizzino i parametri specifici della musica afroamericana non sempre mutuabili da quella europea. «L’universo creativo del jazz è (…) ben più ampio dell’ambito dell’improvvisazione solistica» (p.40). luigi.onori@alice.it
da costumi d’eté ancienne, il grande sogno viennese ha mancato in parte della magia. Sarà che anche il Concerto di Capodanno è da tempo un prodotto per turisti, sarà che Barenboim troppo sicuro del radicalismo wagneriano dal quale è ultimamente affascinato, ha dimenticato invece di infondere il leggero drammatico romanticismo che la musica degli Strauss richiede e sarà che oramai l’inflazione dei musicopanettoni (non ultimo quello orribile della Fenice di Venezia) influenza anche le scelte degli scrupolosi Wiener. Per tutte queste ragioni e per altre, la poesia di una musica unica nel suo genere, sapeva di macchips. È pur vero che anche il mito dell’eleganza di James Bond è oramai cambiato, anzi decaduto ma alla magia non si può togliere quello spirito che rende unico il sogno popolare, quello di volare a Vienna e sedersi a vedere come ancora quel progetto di Clemens Krauss, nato nel lontano 1939 abbia ancora il valore di unificare i popoli, ballando con una ruga in fronte.
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il manifesto
RI-MEDIAMO
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La terza età della Rai Vincenzo Vita
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EMILIA ROMAGNA
a televisione italiana iniziò i suoi programmi ufficiali il 3 gennaio del 1954, sotto il segno del Capricorno, tenace e caparbio. In un altro 3/1 entrò in scena Michael Schumacher, cui facciamo tanti auguri. E la Rai - come tutte le tv- deve molto a lui e allo sport, decisivo quest’ultimo a tenere alta, altissima l’audience. Dunque, domani la vecchia scatola compie sessant’anni, e fa ancora la sua porca figura. Auguri sì, ma con giudizio. Perché qui è proprio il caso di dire o si cambia o si muore. La crossmedialità, più semplicemente l’avvento della rete come paradigma cognitivo e di consumo dei nativi digitali, costringe la televisione classica, quella storica, a ripensarsi. Per non finire in cantina. L’era digitale ha moltiplicato i canali di diffusione e il video on demand attraverso internet muta la stessa morfologia del mezzo. La teoria del flusso, immortalata da Raymond Williams - uno dei migliori studiosi della materia - insieme al ritmo del palinsesto cessano di avere predominio ed egemonia dello e nello spazio comunicativo. Le piattaforme Vod saranno probabilmente una delle principali novità dell’anno appena cominciato. E sentiremo parlare di uno dei maggiori siti del mondo - Netflix- che già oggi produce alcune serialità eccellenti spesso scoperte in Italia da Rai4 di Carlo Freccero. Torniamo alle origini. La Rai, che si chiamò Eiar fino al 1944, battezzò nel ’54 la tv (la radio è degli anni venti), ma la tecnica aveva già da parecchio avviato prove e sperimentazioni, tanto che il primo trasmettitore televisivo entrò in funzione nella terribile estate del 1939 presso la stazione di Monte Mario a Roma. Poi la guerra e la censura fascista e nazista. Fino a che nel settembre del 1949, con una trasmissione dalla Triennale di Milano condotta da Corrado, iniziarono le trasmissioni con lo standard analogico a 625 linee. Tuttavia, passarono altri quattro anni e mezzo per la partenza ufficiale. Come mai il potente medium che ha plasmato il Novecento verso la modernità e la globalizzazione rimase nei laboratori così a lungo? In verità, le tecnologie pre-esistono alla loro stessa fortuna. La tecnica diventa manufatto commerciabile quando si incrociano gli interessi e i desideri della scienza di potere con l’industria e con la politica dei consumi. La tv a colori tardò enormemente in quanto ritenuta troppo costosa, stessa sorte per l’alta definizione del segnale, o per la radio digitale. Insomma, meglio tardi che mai: alle 11 del mattino di domenica 3 gennaio 1954 Fulvia Colombo da Milano e Nicoletta Orsomando da Roma pronunciano le parole di avvio sotto l’egida dell’allora presidente Cristiano Ridomi e del Vaticano, ovviamente. E sì, allora i ruoli erano ben precisi. La tv rispondeva al governo e alla Chiesa. Ciò, però, non significava solo sudditanza. Potevano muoversi e agire professionalità notevoli, tanto nei programmi e nelle news, quanto nell’eccellente struttura tecnica. E poi nacque, era il 1961, il secondo programma, mentre alla fine del 1979 si appalesò la terza rete. Insomma, quell’altra Rai che –grazie ai lungimiranti direttori Massimo Fichera ed Angelo Guglielmi- fece supporre che si potessero coniugare ascolto e qualità. Nel frattempo, l’agognata riforma del 1975 aveva tolto al governo il controllo formale, per consegnarlo al parlamento. Ma il pluralismo supposto finì e sfinì nella lottizzazione di un sistema politico in gran parte famelico, ma assai arretrato anche rispetto ai media. E la televisione si berlusconizzò, quasi al completo, salvo poche e spesso eroiche eccezioni. E ora, nella terza età e senza più l’alibi del Re Media, la Rai deve decidersi a diventare autonoma e ad uscire di casa, dalle varie case in cui si è nel frattempo accomodata. Nonché a rispettare l’articolo 21 della Costituzione.
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Mi dite quali sono le persone più importanti della vostra famiglia e mi dite perchè lo sono? Il papà, la mamma o anche i parenti. «Mia mamma Fiorentina è importante perchè mi ha fatto nascere e le voglio molto bene e mi posso confidare con lei come in un diario segreto». «Mia mamma Cinzia è importante perchè senza di lei non sarei nata e perchè le voglio un sacco di bene». «Mia mamma Carmela è importante per me perchè mi fa le coccole quando sono triste». «Mia mamma Barbara è importante per me perchè le voglio bene». «Mia mamma è importante perchè mi aiuta nei compiti». Ehi, per voi sono importanti solo le mamme? «Mio papà Eric è importante per me perchè mi vuole molto bene». «Mio
Lunedì 6 gennaio MARZABOTTO Epifania al Museo di Marzabotto nell’ambito delle iniziative promoesse dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna per le feste. ■ Museo Nazionale Etrusco, via Porrettana Sud 13, Marzabotto (Bo)
LAZIO Venerdì 3 gennaio, ore 11 4 GENNAIO 1944 In occasione del 70˚ Anniversario della deportazione del 4 gennaio 1944, deposizione di una corona al muro del Deportato (cimitero del Verano) nella giornata di venerdì. Il Comune di Roma mette a disposizione un pulmino per raggiungere il Cimitero. Appuntamento alla Scala dell’Aracoeli. ■ Scala del’Aracoeli, Roma
LOMBARDIA Giovedì 2 gennaio I FRATELLI MARX Dal 2 al 23 gennaio, la Fondazione Cineteca Italiana presenta «Il cinema dei fratelli Marx», rassegna dedicata ai comici statunitensi tra i più amati di sempre che, con un umorismo surreale e sopra le righe, hanno preso di mira l'ipocrisia della società e delle istituzioni. Dopo anni di spettacoli musicali e improvvisazioni comiche, i fratelli Marx – Chico, Harpo, Groucho, Gummo e Zeppo – arriveranno negli anni '20 a Broadway, dove porteranno tutta la loro ironia originale e anarchica. Negli anni '30 i Marx approdano a Hollywood, divenendo i protagonisti di celebri commedie come «Horse Feathers – I fratelli Marx al college», satira sui college americani e sulla loro mania del football e «La guerra lampo dei fratelli Marx» diretto da Leo McCarey, film dal messaggio antimilitarista che nel 1933, anno della sua uscita, fu proibito in Germania e in Italia per i suoi attacchi sferzanti alla retorica del patriottismo. ■ Mic – Museo Interattivo del Cinema, viale Fulvio Testi 121, Milano Giovedì 2 gennaio PELLIZZA Sono stati dieci anni di ricerca appassionata quelli che hanno portato Pellizza Da Volpedo alla realizzazione del Quarto Stato. La mostra allestita al Museo del Novecento ripercorre gli studi, i disegni e i tentativi che hanno preceduto l’opera divenuta un simbolo universale per tutti i lavoratori. E che ora diventerà uno dei simboli di Expo 2015. Ma Pellizza Da Volpedo non è soltanto l'imponenza del Quarto Stato: altre due tele, tutte da vedere in mostra al Museo del Novecento, di cui mentelocale è mediapartner, rappresentano le tappe fondamentali del percorso attraverso cui il pittore è approdato al suo dipinto più celebre. Le opere sono Ambasciatori della fame e Fiumana, esposta in prestito dalla Pinacoteca di Brera. Per la prima volta, le tre opere sono radunate in una stessa esposizione. Fino al 9 marzo. ■ Museo del Novecento, via Marconi, 1, Milano
TOSCANA Giovedì 2 gennaio MEDICI SENZA FRONTIERE Due mostre al Consiglio regionale aperte fino al 16 gennaio. Fame, epidemie, guerre, genocidi e terremoti: in cinquantasei scatti importanti fotografi documentano quarant’anni di lavoro di Medici Senza Frontiere. Le mostre «Da 40 anni all’inferno: non ci arrendiamo» e «Il cibo non basta», sono organizzate in occasione della Festa della Toscana 2013 ■ Consiglio Regionale, via Cavour, 2, Firenze Tutti gli appuntamenti: eventiweb@ilmanifesto.it
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le lettere
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Sola in sala parto INVIATE I VOSTRI COMMENTI SU: www.ilmanifesto.it lettere@ilmanifesto.it
Ci vorrebbero molti Khalid Come elettore di sinistra ero chiaramente disperato per il livello dei nostri politici, poi alla fine dell’anno è sbucato fuori un barlume di speranza. Io veramente me l’ho aspettavo dai grillini, invece l’ha prodotto il Pd! Il Faber del resto ha sempre indicato il dove possano nascere i fiori. Non sto parlando naturalmente di Renzi (guai!) ma del deputato Khalid Chaouki che si è chiuso nel Cie di Lampedusa, risolvendo così un piccolo-grande problema. A parlare come tanti intellettuali si potrebbe dire che ha vissuto fino in fondo la contraddizione, ma tal cosa i più la teorizzano, alcuni ormai anche da decine di anni, lui più concretamente è andato tra la gente, dentro il problema. Questo è il metodo politico, l’unico che può salvare la sinistra. Per quel che conto chiedo a tutti i nostri politici, a coloro che vogliono rappresentarci, di fare allo stesso modo, accetto anche, a fine anno sono magnanimo, che lo copino. C’è nell’azione di Khalid un richiamo alla democrazia diretta, un livello più alto della rappresentanza, un vivere cioè i problemi sulla pelle, il sentirli come fossero tuoi. Forse solo un sano federalismo può produrre una classe politica di tale stampo, che stando vicino ai problemi non può evitarli, non può far finta che. Per questo credo che la politica seria si debba e si possa declinare in futuro solo a livello più ristretto, più locale, più legato alla comunità la cui vita sociale deve organizzare. E tale politica futura non sarà per niente piccola politica, ma politica vera. Massimo Michelucci Massa
Non trovo nulla da eccepire se un’intera équipe di medici si sta prodigando al capezzale di Schumacher per salvargli la vita. Qualcuno potrebbe obiettare che se fosse stato un qualunque pinco pallino sarebbe già passato nel mondo dei più. Chi può dimenticare che al Sant’Eugenio di Roma un bambino è morto perché la mamma è stata lasciata un’ora in sala parto? Non siamo tutti uguali; possono scriverlo su tutte le Costituzioni e le cose continueranno ad andare così. Facciamola finita con le ipocrisie: io ormai ne sono consapevole e non guadagnerei nulla se pure Schumi fosse stato trattato come un cane, come molti altri mortali. Stessa cosa ho sentito affermare a proposito di Giovanni Paolo II dopo l’attentato del turco Alì Agca: difficilmente un comune mortale sarebbe sopravvissuto. Perché allora Fausto Coppi che aveva contratto una semplice malaria per debellare la quale bastava una pastiglia di chinino è stato lasciato morire? Perché la classe medica voleva punire l’affronto subito dal Dottor Locatelli? Porfirio Russo
Buon anno alla Scuola 0Tanti auguri di buon anno, in primo luogo alla scuola pubblica che risale le classifiche internazionali (per quello che valgono) grazie all’opera quotidiana di migliaia di insegnanti, dirigenti, ausiliari, operatori delle segreterie. Senza dimenticare gli studenti ed i genitori, impegnati nonostante i tagli che impoveriscono l’istruzione pubblica. Buon anno, perchè la politica si accorga che l’istruzione non è un costo ma un investimento. Un gruppo di insegnanti di Mestre e Marghera
Transfobia a Libero «Omelia choc: il prete dal del lei al trans», così si indigna il quoti-
diano Libero in un articolo a tutta pagina, commentando la notizia dei funerali di Andrea, transessuale ucciso a bastonate a Roma. «Monsignor Feroci, ci spiega Libero, celebra i funerali usando sempre il femminile. Alla faccia dei dettami della chiesa». Libero con questo suo stile «fascista» dove il perbenismo è sempre a senso unico e dove fa scandalo pure la «pietas umana» e crea indignazione una ovvia, scontata, normale forma di rispetto verso le persone transessuali. Passino i bunga bunga, le olgettine, le nipoti di Mubarak, che evidentemente, secondo gli zelanti giornalisti di Libero, rispondono perfettamente ai «dettami della chiesa», ma sia mai che un gay o una trans reclamino i loro diritti, ed esigano rispetto!! Simone Cumbo Città di Castello (Pg)
Le truppe coloniali Non c’è differenza etimologica tra soldato e mercenario. Entrambi sono pagati per essere disponibili a fare la guerra, come e dove gli verrà comandato. E’ solo una differenza di livello: quando ho fatto il soldato io la paga non bastava per le sigarette, oggi le truppe che la Nato manda a presidiare il suo impero sono ben pagate. E qui sorge uno scandalo intollerabile per l’oligarchia italiana: come si può permettere che un lavoratore abbia un lavoro ben pagato e «sicuro» (cioè stabile, perché i rischi li corrono anche i fonditori, i guidatori di autoambulanze e poliziotti)? Allora nasce l’idea, già ben collaudata negli altri settori dell’economia, di usare gli immigrati - in quanto tali - per abbattere livelli salariali, tutele e sicurezze, che in breve diverranno così insostenibili anche per gli altri lavoratori. Torneranno gli Ascari, di fascista memoria, da usare possibilmente nei ruoli più
I BAMBINI CI PARLANO
È importante per me Giuseppe Caliceti papà Antonio è importante perchè mi fa ridere». «Mia mamma è importante perchè è la mamma migliore del mondo. Mio papà Sebastiano è importante perchè gioca con me». «Mio papà perchè mi ha insegnato ad andare in bicicletta e facciamo dei giri bellissimi insieme». «Mio padre lavora molto per guadagnare i soldi per vivere lui, mia mamma e anche io e i miei fratelli». «Mio papà è importante perchè quando sono arrabbiata con la mamma, io posso andare da lui e non sono sola». E i fratelli e le sorelle? Nessuno li ha? O non sono abbastanza
importanti? «Mio fratello Peter è importante perchè non lo vorrei mai perdere». «Mia fratello David è importante per me perchè, anche se qualche volta litighiamo, so che mi vuole bene». «Mio fratello Michele perchè giochiamo sempre insieme e mi fa ridere». «Mio fratellino è importante perchè così siamo in due». «Mio fratello Emilio è molto importante per me perchè è molto piccolo e tenero». «Mia sorella Alessandra perchè giochiamo insieme». E gli altri parenti? «Mia zia Giorgia è importante perchè con lei faccio gite sul pulman per anda-
re ai mercatini di Natale in Trentino». «Mio nonno è importante perchè mi fa sempre da babysitter gratis quando i miei genitori vanno a vedere un film solo per grandi». «Mio zio Saulle è importante per me perchè fa delle battutine divertenti». «Mia nonna mi dà sempre ragione e non si arrabbia quasi mai, anche se rompo delle cose, lei dice: Vuol dire che si doveva rompere». «Mia nonna Caterina è importante perchè quando le parlo è tranquilla e mi ascolta guardando negli occhi, attentamente». «Mia zia Giovanna è importante perchè fa delle torte molto buone».
«Mia nonna Elvira è importante perchè è stata la mamma di mio papà e senza di lei non sarei nato neanche io». «Mio nonno Arturo è importante perchè sa giocare bene a bocce e ha insegnanto a giocarci anche a me». Adesso fate la stessa cosa con i vostri amici, i vostri compagni di scuola. «Nicola è molto importante perchè quando io ho un problema, lui mi ascolta e mi dà un consiglio». «Per me sono importanti tutti i miei amici perchè posso giocare con loro». «Il mio amico Antonio è importante perchè è molto bravo a giocare a calcio e quan-
rischiosi e per un pezzo di pane. Con il miraggio di una cosa che non costa nulla, perché ormai più a nulla serve, cioè la cittadinanza italiana. Certo i poveretti preferirebbero la Green Card americana che promette, ritornati civili, almeno qualche buon posto nella vigilanza o nella criminalità, ma tant’è, non si può pretendere tutto dalla vita. Naturalmente i risparmi di bilancio resterebbero in quello della difesa, per comprare qualche bombardiere in sovrappiù. Giorgio Carlin Torino
Abolire la Legge Fornero Grazie a voi e a Guido Viale per l’articolo del 24/12 sulla legge Fornero. Questa controriforma, per l’entità e la vastità dei danni che ha prodotto, che produce e che produrrà, è probabilmente la legge più nefasta, scellerata, iniqua e devastante dal dopoguerra ad oggi. Senza la sua abolizione in toto non potrà mai esserci alcun «inizio di ripresa» e coloro che sostengono il contrario ci propinano solo panzane. Dal neonato al vecchio pensionato dovrebbe essere interesse comune e prioritario su tutto e tutti battersi per la sua cancellazione, perché questa legge mina, uccide e disintegra il contratto sociale alla base della convivenza civile e pacifica dei cittadini nel loro insieme. Ma a mio avviso non basta neppure battersi per la revoca di questa misura: occorre, con l’ausilio e la collaborazione di un pool di avvocati, portare Monti e la Fornero di fronte a tutti i tribunali possibili, perché rispondano, anche personalmente, di questa rapina a mano armata (e poco importa che al posto della pistola abbiano impugnato «il potere») compiuta a danno dei lavoratori, dei loro figli e dei loro nipoti. Mariano Maggi Moneglia
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do in squadra c’è lui, la mia squadra vince quasi sempre». «Le mie amiche Teresa e Sonia sono importanti perchè mi capiscono». «I miei amici, tutti, sono importanti perchè sono miei amici e senza di loro a scuola mi divertirei meno». «L’Alice è importante per me perchè ha sempre delle belle idee di nuovi giochi da fare». Sono importanti anche degli animali o delle cose? «La mia cagnolina Penelope è importante perchè la conosco da quando ero piccola e le sono molto affezionata». «Il mio portafortuna segreto è importante perchè mi dà sicurezza». «I miei coniglietti Fiocco, Saponetta e Tip-Tip sono importanti per me perchè mi fanno tanto ridere». «Il mio orsacchiotto Trudy è importante perchè senza di lui non credo che alla notte riuscirei ad addormentarmi da sola».
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opo le anticipazione sul Job act del nuovo segretario del Pd Matteo Renzi, è cominciata una discussione a sinistra su come intervenire di fronte alla drammatica situazione occupazionale e soprattutto della caduta dei salari e redditi da lavoro. Alla proposta di Renzi hanno risposto, tra gli altri, i «giovani Turchi» del Pd e San Precario (sul suo blog ospitato dal sito del «Fatto quotidiano»). Vediamo i punti in discussione. Il modello di Renzi fa esplicito riferimento al modello danese, dove la protezione sociale per i lavoratori è particolarmente elevata come pure la flessibilità del lavoro. È il modello della flexsecuri-
Un dissenso di maniera sul Job act di Renzi
omogenee, non su scala nazionale, ma su base territoriale». Perché non avere il coraggio di proporre un salario minimo orario, su scala nazionale? Perché, di fronte al dato che la contrattazione nazionale copre poco più della metà degli occupati, si è ottusamente contrari a proporre chiaramente un minimo salariale che impedisca il dumping sociale verso il basso e il perpetuarsi della trappola della precarietà? La risposta sta nella covinzione fideistica che solo creando posti di lavoro si creano le condizioni per migliorare il welfare. Ovvero credendo che sia l’offerta a creare la domanda, come se fosse valida la legge di Say. Conclusione: un
Nulla viene detto su come adeguare il welfare state in tempi di diffusa precarietà. E poco viene proposto per aumentare i salari e i redditi da lavoro
Le indiscrezioni sulle proposte del segretario del Pd hanno
incontrato i dubbi dei giovani Turchi. Ma le divergenze riguardano solo gli ammortizzatori sociali da usare
intervento sul welfare non è in grado di definire una strategia in grado di rispondere alla domanda: come creare lavoro? Nell’analisi dell’attuale paradigma di valorizzazione capitalistica tra i giovani Turchi e Renzi vi è perfetta sintonia, stesso atterraggio: la differenza riguarda la policy, ma nello stesso quadro teorico social-liberista, tutto interno alle logiche di compatibilità di sistema. Entrambi si muovono ancora nella tradizione fordista, magari riverniciata di fresco: credono ancora nella separazione tra tempo di lavoro e non lavoro, tra produzione e riproduzione, tra produzione e consumo, tra salario e reddito. Entrambi non si rendono conto che oggi la ricchezza viene prodotta dallo sfruttamento della cooperazione sociale, ovvero delle economie di apprendimento e di rete; che la precarietà è soprattutto esistenziale perché rappresenta il paradigma della vita messa a lavoro e a valore (per pochi); che non può quindi esserci differenza tra politiche del lavoro e politiche di welfare e che la disoccupazione, come la precarietà, è attività produttiva mai o solo parzialmente remunerata: intervenire a sostegno al reddito significa oggi intervenire a sostegno dei salari e a favore di politiche per l’occupazione.
ty, cavallo di battaglia di Ichino ai suoi tempi d’oro, quando dettava la linea sul lavoro per il Pd, prima di passare nelle file di Monti. Renzi ribadisce di fatto la politica dei due tempi, più volte denunciata da «San Precario» e, oggi, finalmente, anche dai «giovani Turchi» del Partito democratico. Il primo tempo richiede ancora una volta la disponibilità a rinunciare ad alcuni diritti fondamentali, in vista di un secondo tempo che dovrebbe garantire, in un futuro irreale, una minima sicurezza sociale. Non stupisce quindi la proposta «rivoluzionaria» di Renzi (che ha subito ottenuto il plauso di Confindustria): i giovani neo assunti con contratto a tempo indeterminato devono rinunciare alle già scarse (post riforma Fornero) tutele dell’art. 18 contro il licenziamento indiscriminato, almeno per i primi tre anni.
La trappola della flessibilità Tale proposta trova la contrarietà sia di San Precario che dei «giovani Turchi». Secondo il primo: «in tal modo, non si fa altro che certificare ciò che è già prassi nel mondo del lavoro. Oggi, infatti, secondo i dati del Ministero del lavoro, l’80% delle assunzioni avvengono con tipologie precarie (solo il 2,4%, con buona pace di Fornero, per apprendistato, oltre il 60% per contratti a tempo indeterminato). Ciò significa che solo 2 su 10 hanno un lavoro stabile. Rendere instabile tale 20% per tre anni con la liberalizzazione dei licenziamento non sembra quindi una grande innovazione!» Sulla stessa lunghezza d’onda si collocano i giovani Turchi, quando scrivono «la maggior flessibilità alla lunga non ha prodotto maggiore occupazione …. La tesi tuttora in voga secondo cui un lavoro precario sarebbe meglio di nessun lavoro (...) è smentita da quasi tutte le ricerche più recenti: quanto più si passa da un lavoro atipico all’altro, tanto maggiori diventano le probabilità che scatti la cosiddetta “trappola della precarietà”, ovvero la permanenza in uno stato di discontinuità lavorativa». Fin qui tutto bene. Ma l’importante non è la caduta ma l’atterraggio. Le posizioni divergenti tra San Precario e i giovani Turchi cominciano quando Renzi auspica una riforma degli ammortizzatori sociali proponendo un unico sussidio di disoccupazione. Secondo San Precario, piuttosto che dell’allargamento del sussidio di disoccupazione, sarebbe necessario parlare di secur-flexibility, ovvero introdurre prima forme di garanzia incondiziona-
Un lavoro senza fine
Andrea Fumagalli ta di reddito, in grado di sostituire progressivamente l’attuale iniquo, distorto e selettivo (quindi inaccettabile) sistema di ammortizzazione sociale e solo dopo discutere di regolazione del mercato del lavoro. Sullo stesso punto, i giovani Turchi la pensano assai diversamente: «Desta un certo stupore che si immagini di sostituire gli ammortizzatori attuali con un sussidio di disoccupazione universale a parità di risorse. Quand’anche fosse possibile trovarne molte di più di quan-
te oggi disponibili (e non lo è), sarebbe preferibile far pendere la bilancia più dalla parte della creazione di nuovo lavoro che su misure di questa natura che (...) finirebbero per divenire un pozzo senza fondo che risucchierebbe ogni risorsa e con esse ogni residua possibilità di rilancio del paese». Le obiezioni dei giovani Turchi derivano dal vincolo di bilancio pubblico. Ah, se ci fossero più soldi! D’altra parte, anche loro hanno votato compatti le politiche di austerity, ieri di Monti e oggi
Abbonamenti 2014
di Letta. Tuttavia, i giovani Turchi non negano che ci sia anche una crisi dei redditi, ma paventano un possibile effetto sostituzione tra reddito e salario, a danno della busta paga del lavoratore. «Da questo punto di vista si può valutare l’introduzione di un “equo compenso” per tutte quelle professioni non coperte da contrattazione collettiva, affiancato dalla possibilità di concertare con i sindacati,(...), la possibilità di definire la retribuzione minima per professionalità
Fare affidamento sull’intervento statale come fonte di lavoro – come sostengono i giovani Turchi – può essere di aiuto ma non è il modo con cui fuoriuscire dall’attuale situazione. In un contesto in cui, lungi dall’essere alla «fine del lavoro», siamo piuttosto al «lavoro senza fine»: il problema non è «creare lavoro», ma piuttosto retribuire quel lavoro «produttivo», che oggi non è né certificato, né contrattualizzato, ma socialmente diffuso. Per questo è necessario e più efficiente realizzare un piano per il reddito minimo incondizionato più che un piano per il lavoro (che per essere realizzato deve comunque fare affidamento su uno Stato e una classe imprenditoriale, entrambi corrotti e incapaci) . L’obiettivo è archiviare la sequenza «risanamento, crescita, occupazione» non con la sequenza «occupazione, crescita, risanamento», ma con quella più efficace e equa «sicurezza sociale (reddito e servizi sociali), crescita qualitativa, risanamento (produzione dell’uomo per l’uomo)». Ancora una volta, il nuovo (sia che si tratti di Renzi o dei giovani Turchi) tende ad ammantarsi di vecchio, anzi d’antico.
il manifesto DIR. RESPONSABILE Norma Rangeri CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE Benedetto Vecchi (presidente), Matteo Bartocci, Norma Rangeri, Silvana Silvestri, Luana Sanguigni il nuovo manifesto società coop editrice REDAZIONE, AMMINISTRAZIONE, 00153 Roma via A. Bargoni 8 FAX 06 68719573, TEL. 06 687191 E-MAIL REDAZIONE redazione@ilmanifesto.it E-MAIL AMMINISTRAZIONE amministrazione@ilmanifesto.it SITO WEB: www.ilmanifesto.it TELEFONI INTERNI SEGRETERIA 576, 579 - ECONOMIA 580 AMMINISTRAZIONE 690 - ARCHIVIO 310 - POLITICA 530 - MONDO 520 - CULTURE 540 TALPALIBRI 549 VISIONI 550 - SOCIETÀ 590 LE MONDE DIPLOM. 545 LETTERE 578 iscritto al n.13812 del registro stampa del tribunale di Roma autorizzazione a giornale murale registro tribunale di Roma n.13812 ilmanifesto fruisce dei contributi statali diretti di cui alla legge 07-08-1990 n.250 ABBONAMENTI POSTALI PER L’ITALIA annuo 320€ semestrale 180€ versamento con bonifico bancario presso Banca Etica intestato a “il nuovo manifesto società coop editrice” via A. Bargoni 8, 00153 Roma
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L’ULTIMA
storie
Molhem Barakat Aveva 17 anni era un giovane fotografo, è morto in Siria mentre scattava il suo ultimo servizio da Aleppo. La Reuters gli aveva dato l’attrezzatura e lo pagava 10 dollari a immagine
MORTO SUL LAVORO
Mario Boccia
S
i chiamava Molhem Barakat, era nato a Istanbul e aveva 17 anni. Era bravo a fare le foto ed era diventato un collaboratore della Reuters. È morto ad Aleppo, la città dove viveva, il 20 dicembre scorso, mentre fotografava uno scontro tra gruppi ribelli e l’esercito siriano all’ospedale Kindi (i ribelli accusano i regolari di avere trasformato l’ospedale in una caserma e per questo lo avevano attaccato). Questa è la notizia nuda; una lunga didascalia sotto la foto di un ragazzino sorridente, in posa con la macchina fotografica con il teleobiettivo bianco, concessagli in uso dalla Reuters. Ma è davvero tutto qui? Nel breve articolo uscito su Repubblica on-line c’è un’informazione importante: Barakat prendeva 100 dollari per dieci foto trasmesse al giorno. A conti fatti sono 10 dollari a foto, più un bonus nel caso che qualcuna fosse pubblicata su testate importanti. Molti commentatori su carta e in rete, hanno copia-incollato con variazioni minime la stessa notizia d’agenzia. Qualcuno ha sbagliato la traduzione e barraks, per troppi, è diventato «barricate» invece che «caserma». Pazienza per la descrizione dei fatti, purché ci sia abbondanza di pseudo-poesia nei pezzi: «sorriso già adulto su un volto di bambino», «riccioli neri», «sogno infranto», «morire per una passione», «ritraendo vita e morte della sua gente ne era la coscienza», fino al top: «Lui è rimasto lì, piccolo e uomo insieme, accompagnato da un’arma micidiale che ora giace ricoperta del sangue del suo soldato». Ancora: «Molhelm e la storia si sono tenuti per mano, egli è stato i suoi occhi, monito futuro per le guerre NELLA FOTO che inesorabilmente verranno. È stato PICCOLA, il ragazzino che con le sue immagini RITRATTO DEL ha mostrato il mondo che vorrebbe malFOTOGRAFO grado tutto, riuscendo a catalizzare l’atMINORENNE tenzione sull’innocenza fanciullesca MOLHEM che si ritrova protagonista nel terrifiBARAKAT. cante teatro della morte». NELLA FOTO Oltre ai produttori di pessima letteraGRANDE, UNO tura, ci sono giornalisti che sanno fare DEI SUOI il loro mestiere. Sui siti e giornali ingleULTIMI SCATTI: si, per esempio. Rai News 24 se n’è acCOMBATTENTI corta e ha rilanciato, esprimendo dubARMATI bi sul ruolo della Reuters nella vicenTRASCINANO da, ma ormai la notizia è fredda e BaUN LORO rakat ha fatto l’ultimo regalo ai suoi daCOMPAGNO tori di lavoro: la sua faccia e la galleria FERITO IN UNO delle sue foto, pubblicate ovunque. SCONTRO CON Molhem Barakat e quelli come lui soL’ESERCITO no fuori dal sistema di difesa dei diritti DI ASSAD e della tutela della sicurezza sul lavoro, AD ALEPPO che pure ci appassiona, tanto che nes/REUTERS suno si pone domande a riguardo. Questo è un indicatore culturale del paese che siamo diventati. La proposta di collaborazione di una major dell’informazione diventa «un’opportunità di coronare un sogno» e non suggerisce altre riflessioni. Al contrario, il giornalista Corey Pein, nel suo blog dall’Inghilterra, arriva a porsi 19 domande, tutte piuttosto imbarazzanti per la Reuters. Ne aggiungerei solo una se non fosse inutile perché viola la privacy dell’azienda e altri principi sacri: quanto ha guadagnato la Reuters sul lavoro di Barakat? In tutti i conflitti recenti, i collaboratori locali sono presenze utili per le agenzie di stampa, perché costano poco e rendono molto. Possono essere bravi, ma è bene che non lo diventino troppo, perché devono restare gregari. Niente polizze di assicurazione, corsi di sopravvivenza, giubbotti antiproiettile, elmetti, alberghi, autisti, telefono satellitare etc. Niente riscatto e complicazioni diplomatiche in caso di sequestro. 10 dollari a foto, tutto incluso. Se dal loro lavoro esce una copertina pre-
stigiosa, si accontentano di un piccolo bonus e il resto è profitto per l’agenzia. Le cifre che guadagnano sono parametrate al costo della vita, che in Siria è basso, cioè pari al valore della vita stessa (dei suoi cittadini). Che Molhem Barakat sia apertamente schierato dalla parte dei ribelli è un vantaggio, perché seguendo suo fratello combattente può arrivare dove altri non potrebbero. Basta averne un altro come lui dall’altra parte e (se questo fosse un problema) l’obiettività è garantita. Che ci siano foto di combattimenti costruiti ad arte, fa parte del gioco. Anzi, saperlo fare è utile. Quante foto di combattenti in atteggiamenti improbabili abbiamo visto e chi è in grado di riconoscerle, al di fuori di pochi addetti ai lavori? E quante ne ricordiamo? (scivolano via senza lasciare tracce, simili nella riproposizione di cliché già visti in qualsiasi conflitto, si confondono tra loro; ma questo è un altro discorso) Che sia troppo schierato, invece, un problema potrebbe porlo. Di sicurezza, ad esempio, anche per gli altri colleghi. La giornalista e fotografa inglese, Hannah Lucinda Smith, sostiene di
aver conosciuto Molhem Barakat la prima volta che andò ad Aleppo, tanto da esserne diventata amica. Racconta di averlo visto «trasformarsi da ragazzino entusiasta a giovane uomo pieno di problemi, fermamente convinto di voler diventare un combattente islamico di Al Queda». A maggio scorso lo scrisse in un articolo: «il mio amico, aspirante terrorista suicida». Lo chiamò Ju-
Era convinto di voler diventare un combattente islamico di Al Queda, ha scelto la fotografia suf, nel pezzo, per «proteggerlo da quello che lui stesso stava dicendo». Poi cercò di convincerlo ad andare via da Aleppo, di scappare in Turchia, senza riuscirci. Poi Molhem non è più entrato in Al Queda, ma ha scelto la Reuters. Se si sia trattato di una scelta di campo, del prevalere di una passione o della voglia di emulare giornalisti e fotografi,
non lo sapremo mai. Aveva diciassette anni. Sul suo profilo Facebook c’è Katy Perry tra i cantanti preferiti; gli stessi gusti musicali di mio nipote, boy scout di nove anni. In un contesto di guerra niente è normale. La guerra non è «igiene del mondo», ma fogna a cielo aperto. Quella siriana lo è particolarmente, per l’intreccio di interessi che l’hanno determinata. Domenico Quirico, raccontando la sua esperienza di sequestrato su La Stampa, ci regalò una cronaca preziosa. Ogni dettaglio di quel racconto giustificava la sua presenza da inviato sul
COMITATO PROTEZIONE DEI GIORNALISTI · 70 i morti nel 2013 Il Comitato per la protezione dei giornalisti (Committee to protect journalists, Cpj) di New York, ha diffuso l’elenco dei giornalisti morti sul lavoro nel 2013. Sono 70 (74 nel 2012), ma su altri 23 casi si sta ancora indagando per accertare se possono essere considerati morti sul lavoro. Le cifre più alte sono in Siria (29), Irak (10) e Egitto (6). Il minorenne Molehm Barakat viene indicato come «freelance che pubblica tramite Reuters». Una definizione gradita agli avvocati della Reuters. Sull’età di Molhem il rapporto dice che «c’è un conflitto sul-
l’età del ragazzo che varia da 17 a 19 anni». Barb Burg, dirigente Reuters, ha dichiarato a Cpj che la data di nascita del ragazzo è l’8 marzo 1995, quindi che lui aveva 18 anni compiuti a maggio 2013, quando ha iniziato a «mandare foto» (submitting photos) alla Reuters e che comunque non era un «inviato dell’agenzia» (on assignment for Reuters), ma che le sue foto erano mandate «su un accordo ad hoc» (on an ad hoc basis) da intendere come contrattato volta per volta. A sostegno della dichiarazione di Burg, Cpj riporta
una notizia fondamentale: «la stessa data di nascita è scritta nel suo profilo Facebook, del quale abbiamo acquisito la schermata» (…). Reuters può quindi stare tranquilla: nessuno le chiederà il rimborso delle spese per il funerale di Molhem Barakat. Per completare il quadro, manca un testimone (forse basta un Tweet) che dica che il ragazzo i diecimila dollari per comprarsi quelle macchine se li era trovati da solo. Con estrema precisione, nel rapporto Cpj vengono riportate le circostanze e il luogo della morte di Barakat. Il 20 di-
cembre scorso, durante un attacco portato dai ribelli all’ospedale di Aleppo, considerato obiettivo militare in quanto: «trasformato in una caserma dell’esercito regolare». L’attacco è iniziato con l’esplosione di due combattenti-suicidi, ed è proseguito con combattimenti che si sono estesi a una vicina fabbrica di tappeti, dove sono morti sia Molehm Barakat che suo fratello soldato (la fonte citata è il Media Center dell’opposizione, riportato dall’Ap). Aspettarsi una rettifica da chi ha scritto di «bombardamento governativo contro l’ospedale civile di Aleppo», sarebbe corretto, ma è vano. m. bocc.
campo. Ma questa guerra, particolarmente pericolosa e difficile da raccontare, è stata più spettacolarizzata che analizzata. C’è un deficit di inviati, poche inchieste, poca descrizione e accertamento di fatti e molto «io narrante», con pathos dilatato. C’è anche scarso interesse del pubblico, e questo è un altro indicatore sociale grave che riguarda i modelli culturali dominanti (l’eccesso di pathos-egocentrico può essere conseguenza del tentativo di produrre una merce di successo). Non c’è da stupirsi se la voglia di protagonismo di un adolescente possa sbandare tra un fucile mitragliatore e un’attrezzatura fotografica da 10.000 dollari in concessione d’uso. Niente è più normale in guerra, o forse tutto è più palese, inclusa la brutalità del mercato. Molhem voleva esistere, affermarsi o semplicemente guadagnare qualcosa. Le offerte di mercato per un diciassettenne ad Aleppo erano quelle (oppure poteva scappare e finire nel Cie di Lampedusa?). Hannah Lucinda Smith confessa, con amarezza, di non averlo cercato quando è tornata ad Aleppo, ossessionata che una sua parola raccolta da una persona sbagliata potesse metterla in pericolo di sequestro. Una prudenza comprensibile. In passato le aveva scattato una foto: lui ha una mano fasciata dopo una caduta in motorino. Sembra un ragazzo della sua età. Scrive ancora che Molhem le aveva chiesto di lavorare insieme, ma che lei aveva sempre rifiutato per la responsabilità che non sentiva di prendersi nei suoi confronti. Alla Reuters devono aver pensato diversamente. Restano le sue foto e la voglia di vederne altre, soprattutto quelle lontano dalla prima linea. Da fotografo penso che sia soprattutto da quelle immagini che esce fuori la passione autentica di Molhem Barakat per la fotografia. Chi si ferma a scattare una foto al venditore ambulante di cibo, con il carretto tra le macerie di Aleppo o ai bambini che giocano, doveva poter crescere e fotografare ancora (o crescere e basta, facendo quello che gli pare).