scritto e mangiato settembre 2011

Page 1

scritto & mangiato

Supplemento al numero odierno de il manifesto

in collaborazione con Slow Food

Gustosi viaggi nei formaggi, dove curiositĂ fa rima con qualitĂ

Il salto dellatte SETTEMBRE 2011



scritto & mangiato

3

in collaborazione con Slow Food

Le illustrazioni di queste pagine sono di Paolo Pineschi, che vive e lavora a Roma dove svolge la sua attività di architetto. Dal 2001 è associato dello studio AKA a Roma. Il manifesto via A. Bargoni 8 00153 Roma tel. 06 687191 Direttore Norma Rangeri Vice Direttore Angelo Mastrandrea Direttore responsabile Valentino Parlato Supplemento a cura di Francesco Paternò Grafica Tag design Daria Sorrentino Illustrazione di copertina Laura Federici Pubblicità concessionaria esclusiva Poster srl 00153 Roma via A. Bargoni 8e tel. 06 68896911 fax 06 58179764 Stampa Sigraf srl via Redipuglia, 77 Treviglio (Bg) Chiuso in redazione il 31/8/2011

4 Formaggi immortali di Andrea Pezzana 5 Mozzarella bianca? di Roberto Rubino 6 Sottiche di Gianna Ferretti 7 Gusto di fermento di Serena Milano 10 Cacio Ciminà di Piero Sardo 11 Salers, Auvergne di Lucia Penazzi 12 Le settanta stagioni di Michele Corti 13 Diverso è giusto di Luca Angelini 14 Imbrattato di cacio di Loris Campetti 15 Chef St. Clair di Geraldina Colotti

n Francia, su tutti i libri di civilisation leggerete che c’è un tipo di formaggio per ogni giorno dell’anno e anche più, con copertura di bisestili o di imprevedibili errori di calendario. Nel supplemento, cagliato con i nostri amici di Slow Food, vi raccontiamo storie di latte e di latticini, di formaggi per ogni stagione e naturalmente di tutte le stagionature. Il pretesto, perché c’è sempre un pretesto e la vita stessa è fatta di pretesti, è Cheese, l’appuntamento internazionale tra le vie e le piazze del centro storico di Bra in Piemonte, che Slow Food organizza per quattro giorni (dal 16 al 19 settembre). L’idea è di raccontare cosa ci sia dietro ogni formaggio di qualità. Un luogo in cui si ascolta, si assaggia, si osserva, si impara, si parla, si chiede e si risponde. E dopo si compra e si vende. Per prepararvi meglio, leggete queste pagine. Ma per tornare all’esagono a forma di, facciamo tappa nell’Auvergne, cuore verde della Francia, regione conosciuta per le sue montagne di origine vulcanica e le sue stazioni termali, ma anche per il suo patrimonio caseario che rappresenta un quarto della produzione francese in denominazione di origine controllata. Una storia che ruota intorno al nome magico di salers: la maestosa mucca dal pelo di un bel colore rosso acajou e dalle corna a forma di lira. Se poi avete DI FRANCESCO PATERNÒ nostalgia di cose italiane, a fianco trovate l’altra storia di un nostro Mosè, colui che nella sua vita di settanta stagioni ha cagliato fiumi di latte, per lui e per noi. C’è chi definisce il formaggio il “vino dei cibi”. E’ davvero così? Una prima risposta la si può trovare in queste pagine, dedicate a capire quali siano le differenze tra formaggi prodotti con tecniche tradizionali e con utilizzo di latte qualitativamente eccellente, rispetto a produzioni industriali che utilizzano prodotti già fortemente trasformati, conservanti, additivi e aromi. Un’altra domanda cui azzardiamo una risposta è: il formaggio fa male? E il colesterolo dove lo mettiamo? Chiaro che siamo di fronte a un alimento ad alta densità calorica, dunque da mangiare con attenzione e consapevolezza, “vista la nostra costante tendenza alla riduzione dei fabbisogni nutrizionali – avvertono i nostri amici di Slow Food - legata a uno stile di vita globalmente poco attivo”. Fra le tante discussioni che il formaggio accende (si può dire?), ce ne è una che abbiamo affidato al nostro Campetti: formaggio con il pesce, ma perché? Jamais, è la sua posizione bene articolata, anche se la partita resta apertissima e insomma, ne potrete discutere anche voi a tavola o meglio ancora in cucina, prima dell’uso. A chiudere libri, da fare magari a sottilette e gustare con il resto. Buona lettura.

I

Stagionature


4scritto&mangiato

Formaggi immortali o scrittore e giornalista radiotelevisivo americano Clifton Fadiman, vissuto tra il 1904 e il 1999, parlando del formaggio, lo definì «il salto del latte verso l’immortalità». Questa prospettiva di visione e valutazione del formaggio può costituire un approccio interessante anche dal punto di vista nutrizionale. Ci serve infatti un aiuto nell’orientare i nostri stili di consumo al di là dei segnali spesso discordanti che lo considerano un alimento pericoloso e off limits o, al contrario, un interessante oggetto di consumo molto utile per la sua continua e immediata disponibilità e per la facile conservazione. Chi ne teme gli effetti “dannosi” per la salute dà una maggiore importanza all’alto contenuto di grassi, prevalentemente saturi, e alla correlazione epidemiologica tra un elevato consumo di formaggio e l’incremento del rischio cardiovascolare, ricordando che il consumo di formaggio è stato correlato alla frazione più “cattiva” di colesterolo, quella Ldl. Chi invece desidera promuoverne un maggior utilizzo indica la possibilità di scegliere prodotti più magri (anche se va detto che il formaggio magro non esiste per definizione), magari addirittura “alleggeriti” o light, di cui l’utilizzo può essere più frequente e sicuro. Certamente un alimento ad alta densità calorica come il formaggio deve essere utilizzato con attenzione e consapevolezza, vista la nostra costante tendenza alla riduzione dei fabbisogni nutrizionali, legata a uno stile di vita globalmente poco attivo. Bisogna però tenere a mente che esistono significative differenze tra formaggi prodotti con tecniche tradizionali e con utilizzo di latte qualitativamente eccellente, rispetto a produzioni industriali che utilizzano prodotti già fortemente trasformati, conservanti, additivi e aromi. Un’altra definizione da ricordare è quella del dottor Andrew Weil, medico esperto in salute pubblica e direttore del Centro di medicina integrativa dell’Università dell’Arizona. Weil definisce il formaggio «il vino dei cibi», ricordandoci come sul risultato finale facciano la differenza moltissimi fattori indipendenti: la materia prima di origine, le pratiche di raccolta e trasformazione, le tecnologie produttive, le modalità e i luo-

L

ghi di conservazione, l’amore e la cura nell’intera filiera produttiva. Gusto, aspetto e salubrità del prodotto finale sono fortemente correlati con l’attenzione al prodotto e il rispetto dei tempi fisiologici di maturazione. La salubrità del latte è direttamente correlata alle modalità di allevamento e di nutrimento degli animali col cui latte verrà successivamente prodotto il formaggio. È stato dimostrato come l’utilizzo di un’alimentazione più naturale (basata sul pascolo libero, sull’utilizzo di foraggio fresco quando disponibile, su mais e orzo di qualità, su semi vegetali, ad esempio di lino) che eviti prodotti insilati permette la produzione di latti più ricchi in Cla (Acido linoleico coniugato). Il Cla è un acido grasso con 18 atomi di carbonio e due doppi legami; a differenza dell’acido linoleico non coniugato i doppi legami nel Cla sono coniugati, quindi separati da un solo legame semplice invece di due. Il Cla è sintetizzabile in laboratorio a partire dall’acido linoleico, ma è possibile una produzione naturale, ritrovandolo in vari alimenti, perlopiù nei prodotti lattiero-caseari e nelle carni dei ruminanti. La produzione è correlata alla presenza di substrati bioidrogenabili durante la ruminazione e quindi, in ultima analisi, alla composizione della dieta dell’animale da latte. IL Cla è un composto che può contrastare in modo importante la tendenza al rialzo del colesterolo Ldl, già ricordato come particolarmente nocivo alla circolazione e alla buona funzionalità cardiaca. Un lavoro pubblicato nel 2010 dal Centro per le malattie dismetaboliche dell’ospedale Brotzu in collaborazione col dipartimento di Biologia sperimentale dell’Università di Cagliari ha effettuato uno studio coinvolgendo una sessantina di volontari divisi in due gruppi, che hanno consumato ogni giorno per tre settimane una porzione di un formaggio di origine ovina prodotto con latte di animali allevati secondo le indicazioni sopra ricordate. Un primo gruppo, composto da individui con colesterolemia normale, non ha evidenziato variazioni nel proprio stato di salute. Il secondo gruppo, che aveva prima della ricerca livelli di colesterolo cattivo moderatamente superiori alla media, è riuscito a ridurre il colesterolo Ldl del 10%.

di Andrea Pezzana

Il lato A e il lato B di un alimento a forte densità calorica da utilizzare con attenzione e consapevolezza

Tornando al grande ruolo delle tecniche produttive per definire il livello di salubrità di un formaggio, uno stimolo interessante ci viene offerto dal modello preventivo e integrato, che sta alla base della definizione della dieta “antiinfiammatoria” promossa dall’Health Science Center dell’University of Arizona. La cornice generale di riferimento scientifico è quella che propone un’attenzione costante al rapporto tra cibo, salute e ambiente, e promuove una sensibile riduzione del consumo di alimenti di origine animale, senza scelte vegetariane strette oppure obbligate. La base dell’alimentazione quotidiana deve essere costituita dal consumo diario di cereali (soprattutto integrali e a basso indice glicemico, quindi tali da indurre un più contenuto incremento dei valori di glicemia dopo i pasti), vegetali e frutta freschi e di stagione, legumi (che costituiscono una ottima fonte proteica soprattutto se consumati con cereali nell’ambito dello stesso pasto o della stessa portata) frutta secca, grassi vegetali salubri (olio extravergine di oliva, altri oli vegetali di qualità ottenuti con spremiture a freddo). Oltre all’origine vegetale, un altro criterio di scelta importante è quello di preferire in assoluto i cibi che hanno subìto processi trasformativi industriali più contenuti, meno “tecnologici e più vicini in aspetto, gusto e consistenza alle materie prime da cui derivano. Passando poi agli alimenti di origine animale, fermo restando un utilizzo prevalente di pesce (2-

3 porzioni alla settimana, scegliendo esclusivamente pesci di piccola taglia), altre fonti proteiche possono essere costituite da un’alternanza di uova, carni bianche o rosse di qualità, latti fermentati e formaggio. Proprio riguardo al formaggio si ribadisce l’importanza di consumare natural cheese, formaggio prodotto naturalmente, in alternativa alle tipologie di formaggi “trasformati” che nel mondo anglosassone sono denominati processed cheeses, prodotti non a partire da latte sale e caglio, ma da formaggi fusi, addizionati di modificatori di consistenza e aromi per adattarli a forme, gusti, stili di consumo meno consapevoli e poco attenti alla qualità del prodotto. In conclusione possiamo affermare che il latte diventa immortale in modo diverso rispetto al prodotto da cui trae origine. Pur essendo consigliato un utilizzo attento alle quantità e alle frequenze di consumo (in media 2-3 porzioni alla settimana di 60-150 grammi circa in base al tenore in grassi del prodotto, da ridurre in caso di documentato rialzo dei valori di colesterolo), possiamo dire che anche in questo caso il processo produttivo fa la differenza: il contenuto inevitabile di grassi e sodio può essere compensato dall’apporto di nutrienti o sostanze utili (Cla, batteri probiotici, enzimi). Ancora una volta la curiosità, la ricerca di produttori di qualità, la lettura degli ingredienti può esserci di aiuto nella scelta di un prodotto più salutare e piacevole.


5

a un po’ di anni non c’è giornale o canale televisivo che non abbia il proprio servizio sull’enogastronomia, la rubrica dedicata all’ultima scoperta di un prodotto raro e ricercato. Questa mole di informazioni lascerebbe sperare in un aumento della conoscenza e della consapevolezza anche intorno alla qualità del latte e dei formaggi, ma la realtà sembra andare nella direzione opposta. Verso la fine dello scorso anno, il grana padano e il parmigiano reggiano hanno ottenuto dallo stato l’autorizzazione a distribuire agli “indigenti” 200 000 mila forme di formaggio. A spese, naturalmente, del contribuente. Motivo: eccesso di produzione e di giacenza. A parte che a un aumento di produzione corrisponde sempre una diminuzione della qualità, non crediamo che questa operazione abbia contribuito al miglioramento dell’immagine, soprattutto del parmigiano reggiano. A marzo siamo stati chiamati a far parte di un concorso sulla mozzarella di bufala. La giuria era composta da esperti di alto livello. Il giudizio è stato quasi unanime: il 70% delle mozzarelle in gara non era all’altezza e in tutte si riscontrava un sentore metallico di fondo misto ad amaro. L’episodio sarebbe passato inosservato se non avessimo riscontrato, anche in altre degustazioni, questo sentore in paste filate prodotte in tutta Italia. Stranamente lo stesso difetto sta diventando una costante anche nei pecorini industriali, a latte pastorizzato e con fermenti. La gran parte della produzione della paste filate da latte bovino è concentrata nel Lazio, Campania, Basilicata, Calabria, Puglia e Molise, regioni dove c’è una grande tradizione di trasformazione del latte bovino e dove tale livello produttivo non è supportato da un’adeguata produzione di latte, che arriva o dall’estero o da altre regioni. Sappiamo che il latte bovino in questi ultimi anni ha raggiunto livelli minimi di qualità: l’alimentazione con silo-mais e l’alto livello di produzione della vacca sono i fattori principali che determinano il più basso contenuto di aromi e sostanze nutrizionali nel latte. Nonostante la modesta qualità del latte, fino a qualche anno fa l’abilità dei casari riusciva comunque a dare personalità ai prodotti. Ma poiché in questo settore la concorrenza è forte, i produttori hanno cercato di fronteggiare il mercato abbassando i prezzi e, quindi, i costi. In un momento in cui si parla tanto di tipicità, ci si aspetterebbe una diversificazione che parte dalla varietà della materia prima, il latte. Perché, contrariamente a quanto comunemente si pensa (in fondo questo alimento è considerato una commodity), c’è molta diversità da un latte all’altro, in quanto l’Italia non è tutta pianura e, soprattutto, non tutte le vacche sono alimentate con insilati di mais. Invece, paradossalmente, si è assistito a un cambiamento nella tecnica

D

di produzione: via il siero innesto e giù con l’acido citrico. Il risultato è quello che si può immaginare: all’assenza di sapore per colpa di un latte insipido si associa una mancanza di vitalità per la scomparsa della flora lattica. E non accade solo nell’industria. Un produttore, che lavora il proprio latte, non usa insilati e ha vacche brune, alla domanda sul perché usasse l’acido citrico ha risposto candidamente che questa tecnica semplifica le operazioni di lavorazione e accontenta anche i consumatori, perché la pasta è più dolce. Naturalmente non è tutto così, le eccezioni ci sono un po’ dappertutto – il fior di latte di Agerola, ad esempio, continua a essere prodotto praticando la maturazione naturale della pasta – ma la deriva è preoccupante, tanto è vero che oggi è molto difficile trovare un fior di latte capace di

di Roberto Rubino

Misteri della gastronomia: certo, la clorofilla è vietata, ma è un prodotto naturale e non fa danni. Perché la qualità sta diminuendo

Mozzarella

sbiancata trasmettere un’emozione. Ricapitoliamo: la qualità delle paste filate e di altre tipologie di formaggi sta diminuendo ma i consumatori continuano normalmente a comprarle, così come gran parte della stampa continua a magnificare i prodotti “tipici”. Verrebbe da pensare che ci troviamo di fronte a un falso problema, probabilmente siamo i soliti radical chic che storcono il naso più per dimostrare che devono dire qualcosa che perché hanno realmente qualcosa da dire. Magari! Invece il consumatore si è talmente abituato a quella qualità delle paste filate, cioè senza sapore, dolce e bianca, da non accettare prodotti diversi. Accade che in Puglia i trasformatori pretendono dai produttori un latte bianco e sempre uguale, in altri termini munto da vacche frisone alimentate con silo-mais. Non vogliono il latte di animali al pascolo, prodotto da brune o pezzate rosse. Per la verità sapevamo che l’industria casearia non amava il latte giallo,

segno di pascolo e di alto contenuto di beta-carotene e di polifenoli, oltreché di antiossidanti, ma finora, quando arrivavano in caseificio queste partite di latte molti si “limitavano” a utilizzare la clorofilla che ha funzione sbiancante. Perché la mozzarella deve essere bianca! Misteri della gastronomia. Certo, la clorofilla è vietata, ma è un prodotto naturale e non fa danni. Il salto ora è enorme e gravido di conseguenze. Se gli allevatori dovessero cedere al ricatto, addio biodiversità e qualità. Ma, soprattutto, dovremmo ammettere di avere fallito e che tutta questa informazione produce effetti contrari a quelli auspicati. Per quello che ci riguarda, stiamo notando un abbassamento della qualità generale e l’insorgere di difetti finora quasi sconosciuti. Sulla qualità non c’è molto da sperare. E questo non solo perché i consumatori non sono esigenti come dovrebbero, ma soprattutto perché i produttori, che sono in

forte crisi, sono convinti che si possa uscirne diminuendo i costi e non, invece, recuperando la qualità del latte, proprio aumentando i costi e, quindi, il prezzo del latte. Fino a quando i consumatori non saranno capaci di leggere questa deriva, sarà difficile assistere a un’inversione di tendenza. Sintomatica a questo proposito la questione del bitto. I produttori storici sono stati costretti a uscire dal consorzio e hanno presentato ricorso alla Ue perché vogliono continuare a produrre il bitto secondo la tecnica tradizionale: niente fermenti e concentrati. Insomma, è successo esattamente il contrario di quello che auspichiamo che avvenga: i produttori storici escono dal consorzio e quelli che hanno cambiato lo storico disciplinare ne sono diventati i custodi. Inoltre, anche se non ne conosciamo nei dettagli le cause, è probabile che i regolamenti sull’igiene, uniti a un latte sempre più povero di nutrienti, stiano creando problemi nella fase di acidifica-

zione, con ripercussioni sul gusto e sul retrogusto. Che il pacchetto igiene abbia influito sui processi di acidificazione è fuori discussione, soprattutto nelle piccole aziende, laddove il casaro fa molto affidamento sull’empirismo. La tecnica utilizzata è sempre la stessa, ma il latte sempre più igienizzato, ha una carica microbica insufficiente ad avviare l’acidificazione della pasta e spesso il casaro non arriva a comprendere che non è sbagliata la tecnica, ma il latte e le condizioni ambientali in cui avviene la lavorazione. Nei sistemi industriali, dove da molti anni il latte è più pulito, è cambiata non solo la qualità del latte ma forse anche quella dei cagli e dei fermenti. È troppo presto per dare una spiegazione più tecnica al fenomeno. Sarebbe già importante prendere atto che il problema esista, ma dubitiamo anche di questo. Molto meglio dire che siamo i più bravi al mondo e che i nostri formaggi sono unici. Fino al prossimo scandalo o difetto.


6scritto&mangiato

ttribuiamo il termine imitation cheese o cheese analogues a prodotti che per l’aspetto e per alcune caratteristiche, oltre alla destinazione d’uso, sono simili ai formaggi ma hanno una diversa composizione. Infatti le proteine e i grassi del latte sono parzialmente o totalmente sostituiti da proteine vegetali (ad esempio proteine di soia) e da grassi e oli vegetali. Gli imitation cheese, formulati e realizzati per rispondere a specifiche richieste del mercato e di alcuni consumatori, devono la loro produzione alle conoscenze acquisite nella fabbricazione dei processed cheese, una particolare tipologia di formaggio fuso costituito da miscele di formaggi fusi a caldo con aggiunta di emulsionanti e altri ingredienti. Il primo processed cheese fu prodotto all’inizio del 1911 dallo svizzero Walter Gerber per risolvere problemi di stabilità e conservabilità di formaggi che dovevano essere esportati o conservati per lungo tempo. Nel 1916 Kraft brevettò le prime fette di formaggio fuso, commercializzate a partire dagli anni Cinquanta. Da allora lo sviluppo di questo tipo di prodotti è aumentato esponenzialmente per vari motivi. Sono facilmente standardizzabili, presentano una lunga shelf-life, ridotti sprechi di lavorazione, possono essere confezionati facilmente e porzionati in diverse forme. Sulla base degli ingredienti impiegati, i processed cheese possono essere suddivisi in varie tipologie, i pasteurized processed cheese sono costituiti da miscele di formaggi con grassi anidri derivati dal latte e additivi. I pasteurized processed cheese food contengono latte in polvere, siero in polvere, ingredienti che permettono di ridurre il contenuto di formaggio nel prodotto finito. Gli imitation o analogues sono prodotti utilizzando proteine e grassi vegetali. In relazione agli ingredienti utilizzati (grassi e proteine derivate dal latte o da fonti vegetali) e alle procedure di fabbricazione impiegate, gli imitation cheese sono classificati in diverse categorie. A partire dagli anni Settanta le tecnologie produttive hanno permesso di simulare vari tipi di formaggi tra cui il cheddar, il parmigiano, la mozzarella, il formaggio blue, brie, bel paese, e camembert. Il successo degli imitation cheese può essere attribuito a diversi fattori: 1. sono ingredienti economici impiegati nei fast food e nei piatti ready-meal dove sostituiscono il formaggio; 2. hanno costi più bassi dovuti all’uso di oli vegetali più economici rispetto al grasso ottenuto da materie prime del settore caseario. Contribuisce al loro successo anche il costo relativamente basso delle apparecchiature necessarie per la loro produzione e l’assenza di un periodo di maturazione; 3. i sostituti del formaggio si contraddistinguono inoltre per la loro versatilità (fusione, spalmabilità, eccetera);

A

Sottiche? 4. i prodotti sostitutivi possono essere progettati anche per soddisfare esigenze dietetiche particolari intervenendo nella formulazione (senza lattosio, a basso contenuto calorico o di grassi saturi, senza colesterolo o arricchiti in minerali). Le formulazioni per ottenere gli imitation cheese vengono studiate da team di tecnologi alimentari e produttori alla ricerca del blend che riproduca il più possibile le caratteristiche organolettiche dei formaggi autentici. Processed e cheese analogue presentano una tecnologia produttiva simile. La prima fase è per entrambi la formulazione: si tratta di una fase legata alle richieste dell’acquirente e che richiede ottime conoscenze delle materie prime e del processo produttivo al fine di ottenere un prodotto con caratteristiche uniformi. Gli ingredienti si disperdono in acqua per ottenere un prodotto uniforme e vengono riscaldati. Durante questa miscelazione si addizionano gli altri ingredienti fra i quali un posto di primaria importanza è rivestito dagli emulsionanti, i più utilizzati sono il citrato di sodio e i polifosfati di sodio. Nella formulazione possono essere utilizzate anche componenti isolate dal latte, in particolare la caseina che con le sue proprietà funzionali contribuisce alla struttura del formaggio. In alcune formulazioni è impiegato anche il lattosio il quale non può superare il 4% nel prodotto finito. La scelta degli oli vegetali è guidata da criteri nutrizionali, economici e fisico-chimici. È importante la scelta di oli poco sensibili alla termo-ossidazione. Si utilizzano oli di semi di soia, cotone, miscele di olio di palma e stearina di palma con un

di Gianna Ferretti

Imitation cheese, prodotti che assomigliano a quelli originali ma che hanno una diversa composizione, a cominciare dalle sottilette

contenuto medio in acidi grassi saturi del 60%, e percentuali minori di acidi grassi insaturi, più sensibili alla perossidazione lipidica. Nella formulazione è ammesso l’uso di idrocolloidi o amidi modificati che migliorano la consistenza e la stabilità del prodotto. Ulteriori ingredienti sono i conservanti tra cui la nisina. Sono impiegate anche fibre e amido restistente (soprattutto negli imitation cheese). La miscela viene quindi riscaldata fino a 74-78°C per 6-7 minuti al fine di ottenere la pastorizzazione del prodotto. In questa fase vi è anche l’aggiunta di aromi e coloranti (il più utilizzato è l’annato, estratto da una pianta tropicale) che consentono la classificazione dei formaggi in funzione del periodo di stagionatura e del contenuto in grassi. Spezie o erbe possono essere aggiunte a fine produzione per dare sapori particolari; in alternativa si utilizzano direttamente degli aromi. Negli ultimi anni per ricreare i sapori peculiari di diversi formaggi, si sono utilizzati anche degli enzimi ottenuti da ceppi microbici ed enzyme

modified cheese. Questi ultimi sono costituiti da una cagliata di formaggio, trattata con enzimi (proteinasi, peptidasi e lipasi) che permettono una produzione elevata di molecole che impartiscono l’aroma dei formaggi. Quello degli imitation cheese un fenomeno di cui non si conoscono con precisione le proporzioni. Negli anni Novanta, la quota di mercato dei formaggi d’imitazione si era stabilizzata a circa il 7% negli Stati Uniti e circa il 3% in Europa. A fette, grattugiato o fuso, il formaggio è diventato molto popolare. Grazie ai loro bassi costi gli analogues sono quindi aumentati nelle filiere produttive. La crescita dei prodotti ready meal negli ultimi anni ha contribuito inoltre a un incremento della domanda di formaggi e loro sostituti come ingredienti alimentari. Si è stimato che circa 20 000 tonnellate di imitation cheese o cheese analogue siano consumati ogni anno nei vari paesi dell’Unione Europea. Negli Stati Uniti la maggior produzione riguarda gli analoghi della mozzarella impiegati nella produzione della pizza. La produzione

annua di analoghi della mozzarella è stata stimata in 80 000 tonnellate e ha superato del 20% il quantitativo totale della mozzarella tradizionale prodotta negli Stati Uniti. Circa il 60% degli imitation cheese sono utilizzati come ingredienti per la pizza. Altri trovano applicazione principalmente in salse al formaggio per prodotti congelati, come farcitura di panini serviti nei fast food, come ingredienti in sughi, condimenti e piatti pronti.

Fonti bibliografiche - Fox PF, Guinee TR, Cogan TM, Mc Sweeney PLM 2000. In: Fundamentals of Cheese Science”, An Asen publication. 445-450. -Hans-Peter Bachmann Cheese analogues: a review. 2001 International Dairy Journal Volume 11, 505-515 - Mc Carthy J (1990) Imitation cheese products. IDF Bulletin No. 249, Brussels, 45-52. - Rupesh S. Chavan and Atanu Jana.2007 Cheese Substitutes: an alternative to natural cheese - A Review. Int. J. of Food Science, Technology &Nutrition, Vol.2,25-39


7

vete notato che i formaggi tendono ad assomigliarsi sempre di più? Non stiamo parlando dei formaggi industriali, ma anche di quelli artig ianali, a latte crudo, prodotti con tecniche specifiche, con specie e razze animali diverse, a volte addirittura in alpeggio. Vi siete accorti che sempre più spesso avvertite, al fondo, un sentore omogeneo di fermentazione che in alcuni casi tende al dolciastro del lievito, della crosta di pane? Che cosa sta succedendo? Abbiamo difeso il latte crudo, stiamo lavorando per valorizzare le razze locali, le tecniche tradizionali, l’allevamento al pascolo… Che cosa ci è sfuggito? Un ingrediente piccolo, invisibile, che si usa e poi scompare dal formaggio. Tanto che non va neppure segnalato in etichetta: i fermenti. I fermenti sono quei batteri che trasformano il latte in formaggio. Si trovano naturalmente nel latte, sulle mani del casaro, sulle mammelle degli animali, sul secchio usato per la mungitura, sugli attrezzi in legno… Oggi, però, la maggioranza dei casari non munge più a mano, il legno è spesso bandito dai caseifici, il latte passa di tubo in tubo, di acciaio in acciaio: attraversa un ambiente igienicamente perfetto, che azzera la flora batterica. «In un millilitro di latte normalmente c’erano un milione di batteri e di questi 800 000 erano batteri lattici» spiega Giampaolo Gaiarin, referente di due Presìdi trentini. «Oggi nello stesso millilitro ce ne sono meno di 100 000, mentre i batteri lattici sono 40, 30, 20 000, a volte pari a zero». Così bisogna aggiungere i fermenti anche nel latte crudo, proprio come accade dopo la pastorizzazione. In sintesi, si usano i fermenti perché il latte è troppo pulito. Ma anche perché, in questo modo, il

Dicitura da leggere

A

Gusto di

fermento di Serena Milano

Si usano i fermenti perché il latte è troppo pulito. E anche perché, in questo modo, il processo di caseificazione è più sicuro. Ma il palato?

processo di caseificazione è più sicuro, il risultato è più costante e si abbassa la percentuale di difetti finali. E poi perché consulenti, tecnici, autorità sanitarie e consorzi da qualche tempo hanno iniziato a caldeggiare questa pratica, come soluzione di tutti i mali. Una scorciatoia che omologa il gusto, azzera i difetti e fa la fortuna delle multinazionali che producono i fermenti. Basta una telefonata, si indica la tipologia di formaggio che si vuole ottenere (semi-duro, molle, caciotta, fontal…) e si riceve la bustina adatta. Le stesse aziende forniscono il caglio, gli additivi, i trattamenti in crosta, le muffe, il fumo liquido.

olti anni addietro si erano diffuse alcune notizie giornalistiche che avevano creato grande preoccupazione tra i consumatori: i formaggi si producono con i manici di ombrello, i formaggi fusi si ottengono da formaggi ammuffiti, i grattugiati dalle croste di formaggi vecchi, eccetera. A parte i manici di ombrello, dove evidentemente si confondeva l’uso della caseina (derivata dal latte) per la produzione di materiali molto duri come appunto i manici d’ombrello o le palle da biliardo, talvolta ciò era vero… La definizione internazionalmente riconosciuta di questi prodotti recita: «I formaggi fusi o formaggi spalmabili sono ottenuti per macinatura, miscelazione, fusione ed emulsificazione, con l’aiuto di calore e agenti emulsionanti, di una o più varietà di formaggi e con una scelta degli ingredienti o additivi riportati nei paragrafi seguenti…». Ben diversi sono i preparati alimentari a base di formaggio dove i costituenti possono essere o non essere di natura lattiera, permettendo quindi l’aggiunta di grassi vegetali e l’aggiunta di dosi massicce di caseina (che è limitata al 5% nei formaggi fusi). Attenzione quindi a leggere la dicitura sulla confezione oltre al nome commerciale del prodotto: se si desidera un prodotto esclusivamente di origine lattiera deve comparire la dizione di “formaggio fuso”. Quindi è tutto oro (fuso) quel che luccica? Certamente no. Specie con i preparati alimentari, la frode è sempre in agguato. Il processo si presta bene al riutilizzo di prodotti caseari non altrimenti commerciabili, al reimpiego di prodotti derivanti da errori di caseificazione, alla fusione di prodotti scaduti o invenduti che dopo toelettatura (cioè ripulitura delle parti alterate) si presentano come nuovi, eccetera.

M

Un kit di bustine e fialette per trasformare il latte in formaggio. Per farvi un’idea, leggete queste parole tratte dalla pubblicità on line di due aziende che producono fermenti. (la Chr. Hansen, leader mondiale, e l’Amaltea, di scala nazionale). «Chr. Hansen (leader mondiale, ndr) propone otto linee di colture di alta qualità per caseifici, riuscendo a coprire ogni tipologia di formaggio: paste molli, feta, semi-cotti, cottage-cheese, cheddar, paste filate, emmenthal e paste dure. (…) Siamo in grado di coprire l’intero spettro di colori: per il settore lattiero-caseario in particolare offriamo soluzioni coloranti con sfumature che vanno dal giallo all’arancio per i formaggi, e colori che trasmettono visivamente l’aroma di frutta fresca per gli yogurt e i latti fermentati. (…) La nostra gamma di aromi aiuta i produttori a personalizzare i propri prodotti caseari, per contraddistinguere e rendere uniche le caratteristiche del loro marchio». «Amaltea (azienda che opera su scala nazionale, ndr) è specializzata nel trasferimento su scala industriale delle tecnologie artigianali dei formaggi italiani. Con l’utilizzo di fermenti lattici selezionati dai formaggi tipici, riprodotti in laboratorio e in seguito liofiliz-

zati, con l’uso dei cagli specifici è possibile produrre su scala industriale prodotti del tutto simili a quelli tradizionali». Questo è un linguaggio che conosciamo bene e che avevamo sempre associato alle produzioni industriali. Non dovrebbe essere un lessico vicino al lavoro dei pastori, degli artigiani, dei casari che lavorano sugli alpeggi. E invece non è così. Anche nei piccoli laboratori, perfino sugli alpeggi – insieme ai silos di magimi – sono arrivate le fatidiche bustine. Le abbiamo scovate sulle Alpi, sui Pirenei, un po’ dovunque. Cosa c’è nelle bustine? Ceppi di batteri estratti dal latte prodotto chissà dove nel mondo, selezionati e moltiplicati da laboratori specializzati. Ma se proprio non si riesce a produrre formaggio senza un’aggiunta di fermenti, queste bustine sono l’unica soluzione? Assolutamente no. Esistono alternative che rispettano la biodiversità e non omologano il gusto. Alternative riconducibili all’antica tradizione della “madre”. Come per il pane e per l’aceto, è possibile preparare una sorta di “madre del formaggio”, l’innesto (che può essere ricavato dal latte o dal siero). «Per ottenere il latteinnesto» spiega ancora Gaiarin «occorre usare il latte di due o tre

allevatori. Lo si riscalda fino a 6365°C, poi lo si lascia raffreddare scendendo a 45-48°C e raggiungendo la condizione ottimale per la moltiplicazione dei batteri. Questa temperatura va mantenuta costante fino a quando inizia la coagulazione. Poi si travasa e si mette in frigorifero l’innesto. A differenza della madre per il pane, il latte-innesto va fatto fresco ogni due giorni, al massimo ogni tre giorni». È una pratica tutto sommato semplice, ma certo significa lavoro in più, attenzione, scrupolo e rigido controllo dei tempi e delle temperature. Perché allora non è così diffusa? Perché quasi nessuno la insegna e la promuove? In primo luogo perché dietro l’uso delle bustine c’è un mercato forte, con aziende potenti che finanziano in modo importante gli istituti di ricerca. E poi, perché alla fin fine la fatica in più non è giustamente remunerata. Il tema dei fermenti, infatti, è assolutamente sotto traccia: pochissimi ne conoscono l’esistenza e l’importanza, anche tra gli esperti. E ricadiamo nel solito eterno problema: è il livello di competenza, di conoscenza del consumatore a decidere del livello di qualità, di integrità, di salubrità dei prodotti alimentari che acquista.




10scritto&mangiato

Cacio Ciminà C

alla situazione storica. Grazie anche all’aiuto del ingegnere Giorgio Botta, si è presto giunti alla redazione del disciplinare e alla sottoscrizione da parte dei produttori del marchio comunale. Ma ci si rende subito conto che se la De.Co è utile per dare ordine e credibilità alla produzione, da sola non basta a innescare efficaci processi di valorizzazione. Ed ecco l’idea di dar vita a un Presidio Slow Food: viene coinvolta la condotta di Reggio Calabria, una condotta giovane e piena di voglia di fare, guidata con pacata energia dalla fiduciaria Cristina Ciccone, e si bruciano i tempi per dar vita al Presidio in vista di Cheese 2011. Dopo i primi assaggi, la visita in loco, la riunione con istituzioni e produttori, il via libera al progetto. Il caciocavallo di Ciminà sarà dunque a Bra tra i formaggi d’eccellenza. Abbiamo posto una sola condizione, e cioè che il marchio vada soltanto sui formaggi stagionati almeno un mese. Ma qui occorre fare un poco il quadro della situazione produttiva. Il caciocavallo in quest’area esiste da tempi immemorabili. Siamo nella Grecìa calabra (il nome stesso di Ciminà è di origine greca: kyminà, ovvero luogo dove abbonda il cumino selvatico o ciminaia) ed è facile pensare che queste terre siano state potentemente contaminate da influenze balcaniche sin dai tempi della colonizzazione ellenica. E com’è ormai certo, il caciocavallo trova il suo antenato nel kashkaval, una pasta filata presente ancor oggi dalla Macedonia alle isole del Egeo, la cui origine ci porta direttamente alle popolazioni nomadi della steppa. Si fanno caciocavalli egregi in tutta la Calabria, o meglio in tutto il Sud Italia e la tecnica è più o meno la stessa per tutti. Ma sarebbe molto superficiale pensare a un unico prodotto per tutte le località, come purtroppo ha fatto la Dop caciocavallo silano, che ha azzerato tutte le specificità in nome di una chimerica ricerca di massa critica produttiva importante. Il solito miraggio produttivistico che, invece di stimolare varietà e territorialità, pensa bene di stendere un banalizzante velo di uniformità. La tecnica di lavorazione dei caciocavalli in Calabria, dicevamo, è sostanzialmente uguale, ma le differenze le fanno i pascoli, i climi, le mani dei casari, le razze. A Ciminà ad esempio il caciocavallo si fa a due testine, un formaggio piccolo, allungato, chiuso da due nodi terminali, direi caso unico nel panorama caseario. Ma non è solo questa la caratteristica del prodotto: qui si coagula ancora il latte in gran parte con caglio di capretto e nella maggioranza dei casi si è soliti aggiungere un po’ di latte di capra.

di Piero Sardo

La tecnica di lavorazione dei caciocavalli in Calabria è sostanzialmente uguale, ma le differenze le fanno i pascoli, i climi, le mani dei casari, le razze. Ecco dove

Il problema da risolvere del nascente Presidio è l’abitudine a consumare questo formaggio fresco, se non freschissimo, destinandolo perlopiù alla griglia. Invece con qualche settimana di stagionatura acquista sentori inebrianti e lunghi di sfalcio, di fiori gialli, di nocciola: caratteristiche che giustificano il fatto che il caciocavallo di Ciminà resti tale, legato a un luogo preciso, il suo. Sono ancora 30, dicevamo, i produttori: qualcuno ha tre o

quattro animali e il caciocavallo lo fa per sé e per i vicini, qualcuno, come Nicola Siciliano ha oltre 200 bovini da latte e un caseificio modernissimo. Qualcun altro poi, come Antonio Pisto, alleva una decina di animali perlopiù al pascolo, ma non sa fare formaggio: porta il latte in paese dalla suocera ottantenne, Domenica Spanolo, che non sa bene neppure dove sia la stalla né quanti animali allevi il genero. «Mi portano il latte appena munto» ci dice «e faccio cacio fin che ce n’è». Ma che formaggi! Tra i più netti e intensi del luogo per profumo e sapore. Dunque molto lavoro ci attende ancora: mettere a norma un buon numero di laboratori, incrementare la produzione di caciocavalli più grandi, destinati a una stagionatura prolungata, aiutare i produttori a far uscire i loro formaggi dal mercato puramente locale: ma quando abbiamo partecipato alla riunione di avvio del Presidio, con una dozzina di agricoltori presenti, dalle loro facce, dalla calma convinzione con cui hanno aderito al progetto, dalla determinazione che si percepiva nell’aria, abbiamo sentito che qui, a Ciminà, all’ombra del monte Tre Pizzi che sovrasta l’abitato, si svilupperà un bel Presidio.

heese, una ?era internazionale che in quattro giorni racconta che dietro ogni formaggio di qualità c’è un pezzo di pianeta, con il suo clima, il suo territorio, le sue particolarità, la sua storia, le sue donne e i suoi uomini e ciò che loro nel tempo hanno imparato e capito sui luoghi che abitano, gli animali che allevano, le persone che nutrono. Cheese è un evento in cui si ascolta, si assaggia, si osserva, si impara, si parla, si chiede e si risponde. E dopo si compra e si vende. Cheese (www.slowfood.it /cheese), dal 16 al 19 settembre, è una manifestazione a ingresso libero tra le vie e le piazze del centro storico di Bra. Sono a pagamento l’ingresso alla Gran Sala e all’Enoteca, i Laboratori del Gusto, gli Appuntamenti a Tavola e i Master of Food.

Cheese, 16-19 settembre

iminà, 700 abitanti, 30 allevatori e produttori di caciocavallo: sono numeri che sintetizzano perfettamente una situazione assai singolare. Infatti questo piccolo comune calabro offre una percentuale di popolazione attiva dedita all’agricoltura, e in particolare alla zootecnia, che ci riporta alle statistiche dell’Italia dell’anteguerra. Ma non pensate di trovarvi di fronte a una realtà sociale primitiva, come forse i numeri lascerebbero intendere. Ci troviamo in un’area economicamente depressa, la Locride, dove l’emigrazione è stata devastante, soprattutto per i piccoli borghi dell’entroterra, quelli non lambiti dal flusso turistico balneare che favorisce i centri costieri. Anche Ciminà è stata svuotata dalla fuga delle famiglie in cerca di lavoro: l’area edificata si presenta al primo sguardo molto più grande dei 700 abitanti accreditati. Case vuote, che si riempiono soltanto ad agosto, quando gli emigranti tornano a respirare l’aria dell’Aspromonte; case abbandonate, soprattutto nelle frazioni; pochi servizi, pochissime strutture ricettive. Un paese destinato all’estinzione. Ebbene così non è: questa comunità ostinata e orgogliosa si è stretta attorno all’unica risorsa vera del luogo, la produzione di formaggio, suo vanto e possibilità di riscatto. Il merito di questo atteggiamento va in gran parte alle istituzioni locali. Ciminà è uno dei comuni più virtuosi della Calabria, si lavora per riassestare strade ed edifici pubblici, in chiare ristrettezze di bilancio, ma con oculatezza e con una visione progettuale. In questa ottica il caciocavallo è stato messo al centro delle iniziative di valorizzazione e sviluppo, senza cullarsi in sogni di un possibile turismo che fatica a svilupparsi o di una notorietà difficile da acquisire. «Così» ci dice il vicesindaco «invece di investire migliaia di euro per ingaggiare un cantante famoso o una star della televisione, come soprattutto al sud è prassi abituale, abbiamo deciso di investire quanto possibile sul nostro formaggio». Sono partiti dalla considerazione che il loro prodotto non era conosciuto al di fuori dei mercati locali: un prodotto eccellente (a detta di tutti i consumatori abituali) da latte crudo locale, da animali che ancora conoscono il pascolo, lavorato in modo artigianale, ma non contemplato sui “sacri” testi che censiscono il patrimonio caseario italiano. Allora si parte con una De.Co, la denominazione cara a Gino Veronelli, un po’ meno a noi di Slow Food, ma che in ogni caso rappresenta un grandissimo passo avanti rispetto

C


11

iamo in Auvergne, cuore verde della Francia, regione conosciuta per le sue montagne di origine vulcanica, le sue stazioni termali, ma anche per il suo patrimonio caseario che rappresenta un quarto della produzione francese in denominazione di origine controllata con il cantal, il saint-nectaire, il formaggio blu d’Auvergne, la forma d’Ambert e… il salers, denominazione più piccola in termini di volume. In questo ricco panorama si cela la pepita del sistema tradizionale salers: la salers, maestosa mucca dal pelo di un bel colore rosso acajou e dalle corna a forma di lira. Razza storica e rustica, questa mucca è rinomata per il suo istinto materno molto sviluppato: impossibile mungerla senza la presenza fisica del suo vitello accanto! Grazie al suo fitto pelo riccio, resiste agli inverni freddi e rigidi che caratterizzano i pascoli degli altipiani del Massif Central. Le elevate proprietà caseabili del suo latte, molto ricco in materia proteica, hanno reso celebri i formaggi dell’Auvergne e in particolare il salers, di cui il tradition è la versione originale, quella prodotta solo con il latte della razza locale. Il vitello di razza salers ha una funzione simbiotica con il lavoro dell’allevatore nella produzione del formaggio salers tradition. La tecnica di mungitura delle salers, effettuata esclusivamente a mano, è peculiare a questa razza. Il vitello è accompagnato verso la madre per sollecitare la secrezione lattea attaccandosi alla mammella. Il piccolo è allora legato alla zampa anteriore sinistra della madre e può cominciare l’operazione di mungitura: al vitello non resta che attaccarsi all’unica mammella lasciata a sua disposizione. In maggio le mandrie migrano verso i pascoli erbosi degli altipiani dell’Auvergne lasciando riposare i campi e i pascoli a valle; tutto il fieno necessario per sfamare la mandria durante l’inverno sarà falciato e raccolto. In malga, le mucche non ruminano che le straordinarie varietà di flora che si trovano su questi pascoli di alta montagna. Sono munte due volte al giorno per una produzione quotidiana totale di circa 10 litri di latte; il latte di una mandria di circa 40 capi produrrà una sola forma di formaggio al giorno di circa 40 chili. Il latte viene lavorato e trasformato a crudo nelle malghe, dette, in questa zona, burons, edifici in pietra situati nei luoghi più impervi delle montagne dell’Auvergne. La stagionatura di queste grosse forme di formaggio si conta in mesi se non in anni, ed è necessaria e fondamentale per lo svilupo aromatico. In termini di qualità organolettica, la diversità floreale di ogni pascolo, la ricchezza microbiologica di ogni gerla di legno e il savoir-faire artigianale caratteristico di ogni produttore contribuiscono a rendere ogni salers tradition un formaggio unico con profili e caratteristiche aromatiche distinti. Questi formaggi sono pastosi e sviluppano, anche dopo la sta-

S

di Lucia Penazzi

Nel cuore verde della Francia, la denominazione di formaggio più piccola e più buona, dal nome della maestosa mucca dal pelo rosso

ra) e il savoir-faire di cui hanno vissuto migliaia di auvergnat, la popolazione occitana che ha abitato queste valli. Attualmente la produzione salers tradition è diventata marginale. Questo fenomeno, in atto da ormai mezzo secolo, è dovuto a un insieme di cause iscrivibili nella tendenza industrial-produttivista che ha caratterizzato la storia recente dell’agricoltura. Lo spopolamento delle montagne, i costi elevati e la conseguente rarefazione della manodopera sapiente ne sono gli effetti princi-

l’abbandono della produzione del salers tradition è legato al nostro Bel Paese: l’incremento del consumo di proteine animali nell’alimentazione quotidiana degli italiani e la conseguente esplosione della domanda di carne bovina ha spinto gli allevatori a orientarsi verso la produzione di vitelli de carne e quindi a selezionare le riproduttrici non più in funzione della qualità del latte, ma in funzione della loro attitudine alla riproduzione. Il tutto ovviamente condito da politiche agricole comunitarie che attraverso l’uso di-

e pronto ad accogliere il germe di un Presidio. Il convivium locale di Clermont-Ferrand, tra i più attivi in Francia, ha già l’esperienza della lenticchia bionda della piana di Saint-Flour, uno dei Presìdi francesi storici. Il formaggio salers tradition, entra a far parte dell’Arca del Gusto nel 2010, e diventa Presidio nella primavera del 2011. Il suo obiettivo è valorizzare e far conoscere il salers tradition e il suo particolare sistema di produzione, migliorare la selezione dei capi, mantenere coeso il collettivo di produttori e allargarne il numero,

Salers,

Auvergne

gionatura, aromi complessi ma sempre delicati. Si ritrova, al naso e in bocca, una preponderanza di note vegetali (erba, fieno e aglio), fruttate (noce, nocciola e agrumi), lattiche, ma anche note animali, speziate e pepate con sfumature affumicate. Il latte delle salers è particolarmente adatto alla produzione casearia e nel medesimo tempo ogni mucca nutre il suo vitello, in un sistema completo e autosufficiente. Produrre in alpeggio formaggi di qualità non è per nulla facile. La tentazione di abbandonare gli scomodi burons per limitarsi al lavoro a valle è forte, mettendo a rischio la tutela del paesaggio e la sopravvivenza di un sapere antico, in altre parole il capitale, inteso come mezzo di produzione (la ter-

pali. Negli anni Cinquanta, con la comparsa delle prime latterie, le fattorie furono sollecitate a rivendere il loro latte e cessare la fabbricazione di formaggio. Il passo successivo della decomposizione del sistema salers è l’introduzione in Auvergne, a partire dagli anni Sessanta, delle razze da latte specializzate (come la holstein, una vera macchina da latte, ma meno adatta all’alpeggio e alla produzione di formaggi di grande qualità). Alla salers, razza meno produttiva e non adatta alla mungitura meccanica, gli allevatori iniziarono a preferire altre razze, spesso su suggerimento dei tecnici delle camere dell’Agricoltura. Come se non bastasse un’epidemia di brucellosi, negli anni Sessanta, decimò il numero dei capi. Un altro fattore che favorisce

storto dei sussidi, spingevano a dimettere un’attività come la produzione di formaggi d’alpeggio, considerata vetusta e antieconomica. In realtà la produzione di salers tradition, per quanto richieda capacità e spirito di adattamento, ha sempre garantito un modello economico stabile e sicuro, come possono testimoniare la decina di produttori sopravvisuti. In occasione della prima edizione di Euro Gusto (Tours, 2009), salone di Slow Food France, una produttrice di salers tradition presente sulla manifestazione incontrò dei produttori di tutta Europa implicati nei progetti della Fondazione Slow Food per la Biodiversità Onlus, entusiasmandosi e proponendosi di presidiare gli ultimi produttori rimasti. In Auvergne, il terreno è fertile

favorendo l’installazione di nuove generazioni di allevatori. L’altro punto di forza su cui il convivium locale vuole puntare è quello del valore aggiunto di questo formaggio haute couture: fattorie indipendenti che non utilizzano prodotti di sintesi, che diffondono la conoscenza delle tecniche agricole locali e che favoriscono un allevamento sostenibile per la natura e per gli uomini e la preservazione dei paesaggi. La mobilitazione è lanciata e il gruppo si attiva, last but not least, per valorizzare la mungitura manuale come gesto agricolo e come elemento particolare della relazione tra l’uomo e l’animale, elemento, il cui valore non si iscrive in un registro contabile, perché, appunto, come direbbe Totò, siamo uomini e non ragiunat.


12scritto&mangiato

osè Manni, classe 1933, è molto di più del decano dei caricatori d’alpe del bitto; è un’icona vivente, un bene culturale personificato. Un vero patriarca, e non solo per via di quel nome biblico, né per la serie di generazioni di Manni – detti Pinarei – restituita dalle carte dell’archivio parrocchiale di Gerola, che consente di risalire fino a tale Bartolomeo, nato nel 1737. Negli ultimi dieci anni la sua immagine è comparsa ovunque si parli di bitto: pubblicazioni, giornali, siti, comunicazione di eventi, poster. Non è mai ritratto con le mani in mano: trionfante con una forma del suo bitto, con le sue capre orobiche, con l’inseparabile secchio di legno che non ha voluto sostituire con uno di plastica, alluminio o acciaio.

M

Mosè è inconfondibile sia per la folta barba che, nonostante l’età, conserva tonalità bionde, sia per l’incarnato rubizzo. Porta sempre – quindi anche nel giorno del nostro incontro – il cappello, anche al chiuso, come i contadini di un tempo: sino a qualche anno fa una calotta di feltro, oggi un modello di foggia più “cittadina”, scelto forse perché impermeabile. Sin qui l’icona esteriore del montanaro di una volta, ma dietro c’è molto altro. Non è azzardato affermare che Mosè, con il suo stile di gestione del pascolo e di lavorazione del bitto, ha rappresentato un punto di riferimento preciso e forse insostituibile: il bitto storico è il bitto fatto come lo fa Mosè all’alpe Trona soliva, alpe che carica da decenni. Da ragazzo, invece, saliva a Larecc, un’alpe oggi in abbandono nella lecchese Val Varrone, al di là della cresta che ci sovrasta mentre par-

liamo. Larecc era già caricata da suo nonno, del quale non ricorda, però, se fosse casaro. Trona e Larecc: i Manni, in un secolo, hanno cambiato solo due alpeggi. Mosè è prossimo alle settanta stagioni di alpeggio. Le prime in tempo di guerra, epoca in cui i ragazzini di 9 o 10 anni facevano già i cascìn (pastorelli). Terminata la guerra, ha iniziato a fare bitto suo fratello Eliseo, classe 1930, poi lui, quando aveva quindici anni. Nella sua vita ha cagliato fiumi di latte perché è stato casaro anche presso la latteria del paese, Cosio, dove tutt’oggi la famiglia ha un’azienda zootecnica e trasforma direttamente il latte in burro e formaggio di latteria. Grazie alla loro reputazione, i Manni non hanno difficoltà a commercializzare anche la produzione invernale. Come quasi tutti i ribelli hanno compreso che la trasformazione e la vendita

diretta consentono non solo di valorizzare meglio il proprio latte, ma anche di sottrarsi ai condizionamenti delle latterie industriali. Anche in fondovalle il metodo Manni è legato alla tradizione: gli animali consumano quasi esclusivamente fieno aziendale per cui gli acquisti di mangimi e foraggi sono ridotti al minimo, e di conseguenza pure i costi, non si spinge la produzione, si cura la qualità del latte e del prodotto finito. In tutti questi anni Mosè ha continuato a operare secondo quanto imparato dal padre, adattando quel tanto che era necessario alle nuove condizioni. Nel frattempo, gran parte degli altri allevatori si lasciava convincere a modernizzarsi, a considerare l’alpeggio un residuo del passato, buono per mungere contributi alla Regione, a considerare pascoli e animali come risorse da spremere per rica-

Le settanta stagioni

di Michele Corti*

L’altra storia di un nostro Mosè, che da ragazzo saliva a Larecc e che nella sua vita ha cagliato fiumi di latte

varne il maggior profitto possibile. Alla venerabile età di settantotto anni, Mosè corre dietro alle capre, lavora intensamente. Allo scarico dell’alpeggio rompe ancora una volta con il bastone di legno ricurvo le boascie, “torte” di sterco bovino, per favorire la fertilizzazione del pascolo. Ribelle pacifico, è a suo modo un maestro di saggezza; più che le sue parole, però, insegnano il suo stile di vita e di lavoro, immersi in una cultura in cui vengono prima le bestie e il pascolo nèt (pulito) e portati avanti seguendo un ritmo antico. Questa non è agiografia: da Mosè, su all’alpe Trona soliva si reca tutte le estati parecchia gente, qualcuno forse incuriosito dagli aspetti esteriori del personaggio, ma la maggior parte interessata alla sostanza, non di certo alla barba e al secchio di legno. E dire che per anni alcuni colleghi hanno dato dei “trogloditi” a Mosè e ai suoi. All’alpe non ci sono dipendenti, solo figli e nipoti. Quando sono salito a Trona per l’intervista, nella prima metà di luglio di quest’anno (2011), è stato Paolo Ciapparelli che mi accompagnava, a scorgere per primo Mosè: «Sono di vedetta, come sempre, li vedi su la?». Mosè scrutava la valle dall’alto con il nipote quindicenne. Li raggiungiamo e scopro che il ragazzo sta «facendo la scuola del bitto»: munge qualche mucca – «solo due o tre, non sono ancora

bravo», sottolinea con modestia –, va a radunare le capre – «quello è fatica!» – e a fare legna, e sta imparando a caseificare dalla zia. «Così si tramandano le cose, vale più di una scuola» commenta Mosè, che ci sta ascoltando. Il nipote non trascorre tutta la stagione con Mosè. Sta a Fenile, una frazione di Gerola, e ogni tanto viene a Trona a trovare il nonno, e a fare pratica. La sorella, più grande, sale in alpeggio già da sette anni, nel 2007 l’avevo già vista mungere di lena. Di bitto e di alpeggi questi fratelli hanno sentito parlare fin da piccoli, anche perché il padre è stato pastore in diverse alpi della zona. «Hai una tua capra?» chiedo al ragazzo. «Proprio mia no, ma una l’avrei; a me piacciono le camosc, ma anche le farinèl»1. Bastano queste parole a far capire che la “malattia” l’ha già contagiato. Gli domando se si è fatto una sua idea sulla questione del bitto storico e cosa pensa dell’altro bitto. La risposta è piena di candore: «Io mangio solo il bitto del nonno». Da una decina d’anni Mosè ha passato le consegne di casaro alla figlia Antonella, che speravo di incontrare, ma lei e la sorella maggiore, madre del ragazzo, sono andate a portare alla casera le forme di bitto preparate ieri. Chiedo allora a Mosè qualcosa su questo passaggio. Mi racconta che, quando si rese conto che la figlia era ormai esperta e che se la sentiva di lavorare in piena autonomia, si disse tra sé e sé: «Mei amò», ancor meglio. E nessuno degli acquirenti del bitto di Trona soliva si accorse, quell’anno, che era cambiata la mano… Conferma la stessa Antonella, che incontriamo dopo aver lasciato Mosè e nipote al calécc. È con la sorella: gerla in spalla, tornano dalla casera. Siccome le gerle non sono vuote – le fascere e altri attrezzi devono essere riportate al calécc ogni volta – la conversazione non può durare troppo. Antonella ha preso le redini dell’azienda quando era ancora molto giovane: donna, con un padre anziano e un fratello che ha la forza fisica per svolgere il lavoro di due persone ma soffre per una disabilità mentale, non è stato certo facile. Anche lei ha imparato guardando. Quanto all’autopercezione di ribelle, subito mi dice che non si mette a discutere con “gli altri”, «le sta sul so» (ognuno si fa gli affari suoi); poi, però, aggiunge: «o tee de litigàa tutt i dì» (se no dovresti litigare tutti i giorni). Evidentemente una forte tensione c’è, ma si preferisce non far scatenare il conflitto interno a un gruppo sociale – gli alpeggiatori e gli allevatori – tutto sommato ancora ritenuto unito. Su un punto Antonella, come già l’anziano padre e i Gusmeroli, si esprime però senza esitazione: quando chiedo cosa si provi a essere chiamati ribelli del bitto risponde che «è un complimento».

1

Varietà di colorazioni del mantello

*Estratto ripreso da I ribelli del bitto, Slow Food Editore 2011


13

l nostro obiettivo è dimostrare che possiamo nutrire il mondo, e nutrirlo meglio, utilizzando la biodiversità. Quando una cosa è utile, la si rispetta e la si conserva». Sintetizza così la sua missione il belga Émile Frison, direttore generale di Bioversity International, organizzazione internazionale sulla biodiversità in agricoltura impegnata in 18 paesi del mondo. La nostra chiacchierata, in una pausa dei lavori del secondo Forum Internazionale Expo a Milano “Food Security and Agro-Biodiversity”, non può che partire dalla Conferenza di Nagoya (Giappone) sulla biodiversità, conclusasi solo pochi giorni prima del forum milanese.

I

Diverso

è giusto

questione di tecnologia, ma di come quella tecnologia viene utilizzata, con che obiettivi e a beneficio di chi.

Molti hanno salutato la Conferenza di Nagoya come un successo, ma sono stati fatti davvero passi avanti? Fino all’ultimo l’accordo a Nagoya è rimasto in forse. Poi, su pressione del Giappone, si è riusciti a varare il protocollo access and benefit sharing sull’utilizzo delle risorse genetiche. Non è un protocollo perfetto, ci sono aspetti migliorabili. Ma è importante che sia stato approvato, visto che i negoziati andavano avanti da sei anni. Il nostro interesse è l’agrobiodiversità e il suo utilizzo per migliorare la vita di tutti su questo pianeta. È essenziale che l’accesso alla biodiversità sia multilaterale, perché tutti ne siamo dipendenti, al di là di ogni confine politico o geografico.

Forse è anche questione di chi conduce le ricerche, se una struttura pubblica o un’impresa privata. È vero. Ma, in Uganda, ad esempio, è un istituto di ricerca pubblica finanziato dal governo ugandese a condurre le ricerche sulle banane Gm. Noi stiamo collaborando con loro, apportando conoscenze sulle tecniche tradizionali e la lotta biologica. Abbiamo anche lavorato per introdurre in Tanzania, dall’Honduras, banane resistenti ad alcuni parassiti e per diffonderne in Africa altre con un’alta percentuale di beta-carotene, che erano già presenti nell’area del Pacifico. La tecnologia va bene, però se possiamo utilizzare quel che c’è già in natura, è meglio.

Basterà, il trattato, per porre fine alla biopirateria e alla brevettazione dei semi? Il punto importante del trattato è che stabilisce un meccanismo di azione in caso di uso non legale della biodiversità. Dopo averlo ratificato, i vari paesi potranno adottare misure di comportamento. Perché è così importante la biodiversità in agricoltura? Il problema dell’agricoltura, a livello mondiale, è che è tutta concentrata su cinque o sei colture e su poche varietà per ciascuna di esse. È vero che produciamo sempre più calorie, ma non un cibo ricco di micronutrienti, in grado di garantire una buona salute. La nostra dieta è troppo semplificata. Un altro dei grandi problemi dell’agricoltura mondiale è la mancanza di investimenti. Ma da dove bisognerebbe cominciare? Ho appena ricevuto un rapporto di Olivier De Schutter, lo special rapporteur on the right to food dell’Onu. Dice che è necessario cambiare il tipo di investimento in agricoltura: non più rivolto solo al modello industriale ma anche all’agroecologia, a un’agricoltura che utilizzi una più ampia varietà di piante, per soddisfare non solo la quantità, ma anche la qualità del cibo, tenendo conto anche dei valori e delle identità culturali delle popolazioni rurali, della loro dignità e del loro diritto a vivere una vita piena. Forse questa è ancora una visione minoritaria, ma mi fa

di Luca Angelini

In nome dell’agroecologia. Intervista a Émile Frison, direttore generale di Bioversity International

molto piacere vedere che si sta facendo strada. Purtroppo, tutti gli studi economici in agricoltura sono ancora basati solo sull’aumento delle rese per ettaro. Non si tiene conto né dell’impatto sulla salute di una nutrizione non adeguata né delle conseguenze di un’agricoltura che impoverisce i suoli né dei servizi resi dagli ecosistemi e nemmeno, come ho detto prima, dei valori e delle identità culturali. Per quanto riguarda i cambiamenti climatici sono in molti a credere che solo gli Ogm potranno essere la soluzione, con piante geneticamente mo-

dificate per sopportare meglio la siccità, la salinità dei suoli o le inondazioni. Quando si parla di cambiamento climatico, bisogna tenere presente che non si parla solo di temperature medie in aumento. Ciò che già si sta verificando è una maggiore frequenza di eventi estremi, sia di siccità sia di eccessiva piovosità. Quindi, all’inizio della stagione, l’agricoltore non è in grado di sapere che tempo farà. Per questo bisogna avere una biodiversità, sia di specie sia di varietà, all’interno dei campi. Le piante, ad esempio, sono molto vulnerabili al momento della fecondazione dei fiori, che in genere dura pochi giorni. Se non tutte le piante del campo fioriscono nello stesso periodo, allora anche un’ondata di calore o di pioggia farà meno danni, perché colpirà solo una parte delle piante. La monocoltura, invece, espone a più rischi. Questo è particolarmente importante per i contadini dei paesi poveri. Lei parla anche di “intensificazione senza semplificazione”. L’intensificazione, cioè l’aumento della produttività, è neces-

saria. Ma serve un’agricoltura che, da un lato, produca un cibo più vario e quindi migliore dal punto di vista nutritivo e della salute. Ma dall’altro, che sia anche “biodiversa” per far fronte ai cambiamenti climatici; più sostenibile nel tempo e in grado di salvaguardare i suoli, gli ecosistemi e i servizi che essi garantiscono, come la capacità di immagazzinare carbonio o la presenza di impollinatori. Tutto questo si può fare con un’agricoltura basata sulla diversità, sulle sinergie fra le diverse specie. Gli Ogm non vanno nella direzione opposta? La genomica è uno strumento di ricerca importante, perché ha permesso scoperte utili anche per il miglioramento genetico con metodi tradizionali, come gli incroci. Quanto all’utilizzo per la produzione, ci sono casi in cui anche i piccoli contadini poveri potrebbero beneficiarne. Penso alle banane, che in un paese come l’Uganda sono il cibo di base e sono minacciate da alcune malattie. Essendo sterili, è molto difficile migliorarle con le tecniche tradizionali. Per cui la genomica potrebbe venire in aiuto. Non è una

Non c’è però il rischio che tutti gli investimenti in agricoltura si concentrino proprio sugli Ogm, trascurando altri settori, magari più importanti? In effetti, oggi più del 50% degli investimenti in ricerca per l’agricoltura sono privati. Ed è ovvio che l’industria privata investe dove c’è una possibilità di ritorno economico. Non le spetta certo di occuparsi della fame nel mondo. Purtroppo, gli investimenti pubblici sono scesi, sia nei paesi sviluppati sia in quelli in via di sviluppo, e sono quasi tutti diretti a replicare il modello agricolo dell’Europa e del Nordamerica. Mentre la diversità in agricoltura non è solo una diversità di specie e varietà, ma anche di saperi… Questa è la base di tutta l’agroecologia. Dobbiamo coniugare le conoscenze scientifiche con quelle tradizionali. Non possiamo arrivare dai contadini e dire loro: lasciate perdere quel che facevate prima, fate come vi diciamo noi. Se vogliamo avere un impatto sui più poveri dobbiamo rispettare le conoscenze tradizionali, l’ambiente, la complessità della natura. È molto più facile fare una prova sull’effetto di un fertilizzante su una sola varietà di grano, che capire la complessità di un agroecosistema agricolo con 20 specie diverse di piante coltivate e selvatiche. Ma dobbiamo riuscire a lavorare con la natura e sono le conoscenze tradizionali che ci possono dare la base di partenza.


14scritto&mangiato

i hanno sempre raccontato che quelli nati sotto il segno del cancro sono conservatori. Alla fine ho buttato la spugna e ho ammesso la colpa ancestrale. Per esempio, la mia idiosincrasia per il connubio tra pesce e formaggi – latticini in genere – in una stagione in cui invece l’accoppiata va per la maggiore, confermerebbe la teoria astrologica. Basterebbe fare un giro in internet per scoprire centinaia di piatti che mescolano con nonchalance salmoni, crostacei, molluschi, sogliole, calamari e ogni specie marina con pecorini, parmigiani, provole, caciotte e ricotta. Per non dire del burro, che l’”Ultimo tango a Parigi” (e una depravata tradizione francese che violenta i delicati frutti di mare con burro e panna) ha dichiarato buono per tutti gli usi. Per tutti gli usi pazienza, ma anche per tutti i gusti? E vero che in cucina come in amore quasi tutto è permesso. Quasi. Ricordo mio padre come un uomo integerrimo, quasi perfetto: avendolo perduto da bambino è normale che sia così. Se devo pescare nella mia memoria un suo difetto, devo confessare che metteva il parmigiano sulla pasta alle vongole e io mi vergognavo guardando la faccia del cameriere, nelle pochissime volte che mi aveva portato al ristorante. Pazienza, nessuno è perfetto. Se fosse ancora vivo mio padre, forse non dovrei più vergognarmi, neanche di fronte a un consesso di chef. Sono circondato da rieducatori che tentano di costringermi a fare un salto evolutivo nonché rivoluzionario, accettando finalmente e mettendo a valore le differenze, esaltando le trasgressioni: le regole vanno stracciate, interdit d’interdire. Il risotto con i scampi all’istriana, dicono persino i classici, prevede una modica grattugiata di parmigiano durante la mantecatura, naturalmente con un cucchiaio di burro. Che posso rispondere, se non proporre in alternativa ai due latticini una presa di ottimo zafferano? Comunque, è questo il punto a cui sono giunto con fatica, fate come vi pare ma lasciatemi storcere il naso. Oppure mi chiedo perché un pesce delicato come la sogliola debba essere colpevolmente affogato nel burro invece di consentirgli di esaltare il suo sapore con l’olio d’oliva – magari un delicato extra vergine ligure - solo perché una sedicente “mugnaia” ci ha tramandato la nefasta ricetta? Chi si crede di essere questa mugnaia? Ci sono villaggi ancora quasi immacolati di pescatori sardi di cui non riveleremo le coordinate per egoismo e tutela del paesaggio anche umano - si fa per dire, conoscendo quei pescatori – in cui va alla grande la mustela (Onos mediterraneus: pesce crepuscolare che può essere osservato a partire da 5 metri di profondità nelle praterie di Posidonia o sui fondi rocciosi) alla parmigiana: stesso trattamento della povera sogliola, affogata nel burro e in più ricoperta di parmigiano. Nelle

M

Imbrattato

di cacio notti di luna piena, in quel villaggio senza nome si sente come un pianto, un pungente lamento che ti prende allo stomaco come il burro fritto e ti sussurra “assassino”. E’ lo spirito della Grande Mustela che vaga nei cieli del Sinis senza pace. Eppure, questa storia del cancro conservatore non mi va giù. Così mi sono messo a studiare e ho riscoperto un grande filosofo greco: Archestrato da Gela, poeta e gastronomo del IV secolo avanti Cristo a cui dobbiamo la conoscenza di antiche ricette siciliane. Archestrato amava il pesce, con un occhio di riguardo per il gronco e specialmente per la sua testa – de gustibus… Evidentemente il suo segno zodiacale era diverso dal mio, perché nelle sue ricette proponeva persino rane pescatrici (code di rospo) ripiene di formaggio. Nel suo Edyphateia del 330 a.c. però, invitava a darsi una regolata in cucina con gli intrugli: se la prendeva con le genti di Siracusa colpevoli di condire il pesce con troppo formaggio “giacché costoro preparar non sanno i buoni pesci e guastan le vivande, ogni cosa di cacio essi imbrattando”. Dunque, le porcherie alimentari mescolando il vino con l’acqua santa si sono sempre fatte, non si tratta di essere conservatori o rivoluzionari. Purtroppo in quel di Catania non si prendono la briga di studiare il saggio filosofo, poeta e gastronomo di Gela e continuano a darci dentro, “ogni cosa di cacio essi imbrattando”. Si chiama “Ripiddu nivicatu”, lo descrivono come un piatto capace di cambiarti la vita e probabilmente è vero, si tratta di capire in che senso te la cambia: è un risotto al nero di seppia in cui c’è di tutto, dall’aglio alla cipolla, dal finocchietto selvatico al pomodoro (non in tutte le ricette), naturalmente le seppie e il loro nero, l’olio e il burro. Alla fine il risotto – se proprio volete provare, troverete in rete la ricetta in diverse varianti, io non collaboro – viene messo in una formina per essere modellato a mo’ di cono per essere poi ribaltato in un piatto da portata, si da somigliare all’Etna. Infine, e qui viene il bello (?), si circonda il vulcano con le seppie e si polverizza la sua sommità con ricotta e parmigiano (c’è chi preferisce il pecorino) perché non c’è Etna senza neve. Non bastando, si fa un buco in cima al vulcano e vi si rovescia qualche cucchiaio di salsa

di Loris Campetti

Pesce con formaggio? Mai, eppure va in cucina. Ma almeno non dimenticate le raccomandazioni di Archestrato da Gela di cottura. Alla faccia dei saggi richiami di Archestrato, e comunque in bocca al lupo ai curiosi. Un piatto certamente da fotografare, e basta. Mi ripeto che non devo esagerare con le fissazioni e da tempo ho smesso di predicare che il salmone affumicato può essere servito, invece che con i crostini spalmati di burro, con un filo d’olio d’oliva e alcuni profumi. Mangiatevi il salmone come vi pare, anche se… Non me la sento invece di negare che il caviale possa es-

sere saggiamente accompagnato da panna acida, né che le alici sott’olio o sotto sale rivivano sul pane imburrato. Invece, quando mi si rifilano dei totani o dei calamari nel cui ripieno siano stati subdolamente inseriti pecorini, provole o parmigiani, perdo la pazienza. Che ragione c’è? Perché mescolare gusti così diversi? Evidentemente si fa di tutto per far mangiare del pesce a chi non lo ama o non è abituato al suo sapore. C’è chi spalma i filetti di merluzzo con formaggini alle erbe – giuro che è vero – per poi passare l’intruglio ottenuto nell’uovo, quindi nel pane grattugiato e per ultimo nell’olio bollente. Neanche al gatto. E avanti con le zuppette di pesce infornate con generose fette di fontina e le lasagnette al salmone con “parmigiano quanto basta”. Quanto basta? Si può ribattere che la cucina francese ha poco da invidiare nel mondo, eppure non c’è ricetta di pesce che non preveda burro, panna, formaggi. Bella roba. Si pensi a un piatto classico d’Oltralpe come la buillabaise: il denso

brodo dal sapore fortissimo ottenuto da una lunga e spietata cottura e spremitura del pesce viene condito con del formaggio grattugiato. Vorremo mica mettere in discussione la buillabaise? Certo che no, liberi tutti. Purché ci si lasci mangiare il brodetto dell’Adriatico, magari preparato a San Benedetto del Tronto e accompagnato da fette di polenta molto solida che da quelle parti si chiama polentone. Oppure il caciucco livornese. Per tornare alla Francia, i frutti di mare di cui le acque del Mediterraneo e dell’Atlantico sono ricche, dalle cozze alle vongole, dai fasolari ai ricci, dalle ostriche ai piedi di porco, vengono sovente tramortiti in gratin e sautè in cui latticini d’ogni genere fanno bollicine biancastre e crosticine appetitose, l’ideale per banalizzare il gusto del mare. Meglio allora, potendoselo permettere, un plateau royal, con i suoi frutti di mare crudi e i crostacei semplicemente bolliti. Morale della storia: fate come vi pare, ma non dimenticate almeno le raccomandazioni di Archestrato da Gela.


15

ibo per demoni e assassini in quattro thriller a sfondo sociale. Biancaneve deve morire, di Nele Neuhaus (Giano) è ambientato ad Altenhain, un piccolo borgo rannicchiato nella valle dei monti del Taunus, nella Germania centrale. In casa del commissario Oliver von Bodenstein, la figlia Rosalie ha fatto miracoli in cucina: al fegato d’oca arrosto con limetta e crema di mandorle è seguita una spuma di crescione con crostacei marinati e uova di quaglia. Rosalie si è però superata nella preparazione dei piatti principali: “La sella di capriolo con mélange di piselli, i cannelloni croccanti e il puré di carote e zenzero erano talmente buoni che neanche lo chef St. Clair in persona sarebbe riuscito a fare di meglio”. Nella fattoria di Pia Kirchloff, che fa squadra col commissario,

C

ne scompare, qualcuno cerca di ammazzare la madre di Tobias. Il grosso del paese si coalizza contro il ragazzo, e per lui si scatena l’inferno…Un romanzo avvincente che incrocia con perizia conflitti e destini del piccolo borgo, disposto a tutto pur di proteggere le proprie “oscure verità”. Anche I segreti di Juniper Lane, di Gammie McHovern (Garzanti) schizza il ritratto di una comunità di convenzioni e false apparenze, che vive nel quartiere residenziale di Juniper Lane, negli Stati Uniti. Anche in questo caso c’è qualcuno che esce di prigione dopo aver scontato dodici anni per un delitto che forse non ha commesso. Qui, però, si tratta di una donna, Betsy, accusata dell’omicidio della vicina Linda Sue. All’epoca del processo, tutte le circostanze erano contro Betsy, affetta da sonnanbulismo e forse – hanno sostenuto sia la difesa che i giurati – colta da un raptus di fol-

Chef St.Clair Christoph, il suo ragazzo, direttore del giardino zoologico, guarda la nutella e il burro salato con aria divertita e addenta il suo sanissimo pane nero con fiocchi di latte. Nella sala del Cavallino Nero, piena zeppa e avvolta dal baccano, la giovane cameriera Amelie serve una costata di manzo con cipolle e burro alle erbe. Intorno ai tavoli e al bancone è raccolta mezza Altenhain. Tutti lì a commentare il ritorno in paese del giovane assassino… Il Cavallino nero ha fatto fortuna sulla disgrazia del Gallo d’oro, la trattoria di Hartmut Sartorius: un oste di terza generazione che si dedicava anima e corpo al suo lavoro, si occupava personalmente della macellazione e della cucina, “mesceva il suo sidro e non aveva mai fatto un solo giorno di malattia”. Ma ora la facciata del ristorante è malridotta, l’intonaco si stacca dal muro e il portone, mezzo sfilato dai cardini, pende di traverso. Dove prima c’era un gran via vai di cameriere, ora c’è desolazione. Il posto è rimasto senza clienti. Nessuno ha più voluto mangiare o festeggiare dai genitori di Tobias Sartorius, un duplice assassino. Tobias è stato dodici anni in carcere, ma forse è innocente, perché della sera in cui sono stati commessi gli omicidi non ricorda nulla: solo che aveva bevuto con gli amici e che amava molto una ragazza di nome Stephanie, detta Biancaneve. Al suo ritorno nel borgo, gli avvenimenti però precipitano rapidamente: viene ritrovato lo scheletro di una ragazza, un’altra giova-

di Geraldina Colotti

Un panino, portato di nascosto a un cane da una bambina di quattro anni, e molte altre storie. Libri da divorare lia. Ma ora l’analisi del Dna ha stabilito che il capello trovato sul luogo del delitto non è di Betsy, e la donna è decisa a scoprire chi può averla incastrata. Al centro della vicenda, la metà di un panino trovato sul luogo del delitto. Anche Betsy – secondo le deposizioni dei testimoni - quand’era sonnambula di notte mangiava in modo compulsivo: “Cose voluminose”. Pacchi di carne cruda. Mezzo filone di pane. Hot dog. Un mucchio di cracker. Il cibo continuava a sparire dalla dispensa, lei si svegliava coperta di briciole ma non ricordava nulla. Nei lunghi anni di carcere, però, la donna ha imparato a superare le proprie insicurezze, inserita in una comunità di persone comunque più vera. E ora sa che non può aver compiuto quel delitto. Ma chi ha avuto interesse a nascondere la verità? In quel periodo di assenza da Juniper Lane, solo una vicina le è rimasta accanto e ha deciso di ospitarla: Marianne, una donna ossessionata dalla sicurezza e fissata con le ronde di quartiere. Durante una festicciola

a base di pizzette e punch al rhum, Betsy osserva i vicini di un tempo rimasti nel quartiere. Ognuno di loro ha il suo scheletro nell’armadio: un armadio laccato che nasconde ambizioni inconfessabili di vite alla deriva. Un panino, portato di nascosto a un cane da una bambina di quattro anni è invece al centro del romanzo Confessione, di Kanae Minato (Giano). La storia è ambientata in Giappone e costruita come in un film di Kurosawa. Protagonisti, i ragazzi di una scuola media e la loro professoressa di scienze, a cui viene uccisa la bambina. Adolescenti killer, che mescolano cianuro di potassio col riso al curry e sterminano l’intera famiglia, anche se non hanno più il palato fine e delicato dei giapponesi, in grado di riconoscere il sapore di ogni singolo ingrediente. Quei giovani, invece, sono “incapaci di distinguere un curry dolce da uno piccante”, dice la prof di scienze, con l’occhio freddo e impietoso di chi cerca vendetta. Nel corso della trama si alternano le voci degli adulti e quelle dei ragazzi. Filo conduttore simbolico, è il latte che il governo distribuisce ogni giorno in ogni classe e che i professori fanno bere agli alunni, compensando sì le carenze di calcio ma non quelle affettive. Tra madri frustrate e altre perbeniste, gli adolescenti consumano bento, cibo freddo di vario tipo e in piccole proporzioni, posto in scatole portavivande, acquistato nei supermercati o preparato a casa. Oppure mangiano onigiri, riso

bollito e pressato in grossi bocconcini di forma triangolare, sferica o cilindrica: ripieni di salmone, tonno, umeboshi (prugne giapponesi in salamoia dal gusto molto acidulo e salato) o altri ingredienti. O si rimpinzano di monaka, dolcetto tradizionale costituito da una cialda esterna a base di mochi (impasto di riso cotto al vapore, schiacciato e lavorato fino a raggiungere una consistenza elastica), farcita di solito con marmellata di azuki (piccoli fagioli rossi usati come ingrediente base di molti dolci giapponesi tradizioneli). Intanto, però, pensano a come far saltare in aria la scuola, dimostrando finalmente quanto siano incompresi e geniali. E soli. Ragazzi che spesso finiscono per diventare degli hikikomori: isolati che comunicano solo col cellulare o col computer e che escono di casa a notte fonda per fare incetta di junk food o di manga al minimarket più vicino, sempre aperto. Un romanzo potente e crudo che fotografa un paese a confronto coi suoi miti in declino con gli occhi di ragazzi come bombe innescate. E per finire, un altro giovane alla ricerca di se stesso in un’avventura ai confini del mondo, descritta nel romanzo La materia oscura, di Michelle Paver (Giano). Un romanzo teso e introspettivo, ben costruito sulle atmosfere, che si snoda tra Londra e l’Alto Artico e si conclude in Giamaica. Inizia nell’Inghilterra del 1937, dove s’incrociano i destini di cinque giovani di diversa estrazione sociale, decisi a com-

piere una spedizione scientifica fra i ghiacci più estremi. Voce narrante è Jack, giovane fisico di famiglia povera che ha dovuto abbandonare la ricerca e stenta a mettere insieme il pranzo con la cena. Per una serie di vicende sfortunate e dal sapore malefico, il ragazzo resta a lungo solo nel silenzio che precede la notte polare. Nel buio che si allunga, in compagnia di una muta di husky, fa i conti coi suoi demoni e con quelli che albergano nella baia disabitata. Per distrarsi, scrive sul diario e si prepara “cene luculliane”: stufato di vitello in scatola e spinaci, uova, pancetta, formaggio, focaccine di farina d’avena, ciliegie sciroppate con latte condensato, croccante al burro d’arachidi e tutto quello che gli viene in mente. Tutto pur di non sentire i passi pesanti della “presenza” cattiva che abita quel luogo. Tutto, pur di non mollare il suo progetto e rischiare di perdere l’amore dell’affascinante eroe biondo, Gus Balfour. Per lui, Jack sarà disposto a lottare e a sacrificare tutto.


L’ U n i t à d ’ I t a l i a è n e l n o s t r o c u o r e. Ogni giorno siamo orgogliosi di tutelare e valorizzare i mille capolavori del patrimonio enogastronomico sparsi n e l t e r r i t o r i o i t a l i a n o, n e i n o s t r i t r e m i l a p u n t i v e n d i t a . Sotto il nostro cielo sventola un ideale tricolore che profuma d’Italia.


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.