scritto & mangiato
I RE MANGI
Supplemento al numero odierno de il manifesto
in collaborazione con Slow Food
In arrivo doni di cultura alimentare. Il vino solidale, il brevetto salvalatte e mille altre storie da gustare
DICEMBRE 2004
scritto & mangiato
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in collaborazione con Slow Food
Direttore responsabile Sandro Medici Direttore Mariuccia Ciotta Gabriele Polo Supplemento a cura di Francesco Paternò Grafica Daria Sorrentino Illustrazione di copertina Laura Federici Pubblicità concessionaria esclusiva Poster srl tel. 06/68896911 fax 06/68308332 Stampa Sigraf srl Via Vailate, 14 Calvenzano (Bg) Chiuso in redazione il 11/12/2004
C’è modo e modo di fare regali, naturalmente. Alla vigilia, il giorno Marche, passando per alcuni precetti religiosi che diventano pretesti e di, insomma sempre. Abbiamo così chiamato i nostri amici di Slow bugie. Altri regali sono sconcertanti, tanto sono utili. Prendete quelli Food, lassù nella Langhe con cui lavoriamo per produrre e regalarvi che raccontiamo a pagina 11, basati su un principio limpido: la conquesto supplemento trimestrale, e abbiamo chiesto loro se si potevadivisione del sapere. Un ingegnere cubano inventa una sostanza mirano immaginare dei doni alimentari che non fossero il solito ricco colosa: mescolata al latte appena munto, lo rende conservabile dalle 8 cesto da ricchi, i migliori vini da collezione e cose così. Da Bra a alle 24 ore senza la necessità di avere un frigorifero. Un banale elettroRoma è subito partita una fitta corrispondenza che si è infine adagiadomestico per noi del nord del pianeta, provate a immaginare cosa ta su alcune idee. Sapevate cosa è L’Insieme? E’ un vino rosso, un succede in tanti, troppi luoghi del sud. A Cuba si sono fatti così vino scomodo lo chiamano addirittura gli magnifici regali e il sistema è diventato a enologi di Slow Food, frutto di una inedita sua volta un regalo, con lo zampino della alleanza di alcuni vignaioli delle Langhe, Fao che ha finanziato il progetto. un’idea nata a tavola e diventata una L’idea è alla base di uno strano “concorFRANCESCO PATERNÒ avventura. L’Insieme non è il solito superso di innovazioni per lo sviluppo vino che si regala perché è Natale, ma perumano”, tenutosi in Nicaragua l’anno ché è un prodotto solidale, cioè un progetto che aiuta a finanziare scorso. Da lì sono uscite idee simili a quella per la conservazione del per esempio la lotta all’Aids. Con interventi su donne e bambini del latte dell’ingegnere cubano. Leggete a cosa serve il Coelmon, usato in Mozambico, attraverso la destinazione di una parte dei proventi della Guatemala, e ne riparliamo. Saltando qua e là, vi segnaliamo altre stovendita di questo rosso delle Langhe. L’Insieme è vino e progetto cui rie buone come il pane e l’irrinunciabile appuntamento con i libri da hanno aderito per ora una sessantina di cantine, l’obiettivo qui mangiare, cucinati con la consueta cura nonostante ci siano titoli dichiarato è allargare ancora la compagnia. dedicati alla bomba colesterolica americana, spesso alternativa agli Di regali così ne troverete diversi nelle pagine che seguono. Alcuni ogm. Infine, c’è una lettura su che cosa succede ai gamberi e su che sono doni in forma di storie, strettamente natalizie perché non è che cosa si fa per loro nel mondo, storiella che fa fare… un passo indietro. poi possiamo rifuggire il calendario: storie a tavola dalla Cumbria alle Una battuta, come i re mangi che stanno per arrivare. Buona lettura.
Bere insieme
4 Vino per bambini di Giancarlo Gariglio 5 Insieme a loro 6 I luoghi del caffè di Walter Bordo • Tazzina di qualità di Serena Milano 7 Il prezzo giusto 10 Pollo e basta di John Irivng 11 Saperi sapori di Marina Forti 15 Pane proprio di Andrea Scanzi 17 Sua maestà l’uovo di Geraldina Colotti 19 Avanti gamberi di Andrea Rocco 22 Mangiaprecetti di Loris Campetti 23 Verdi virtù di Franco Carlini
ripete da ottobre
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SCRITTO&MANGIATO
di Giancarlo Gariglio*
Vino per bambini
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L’INSIEME NASCE NELLE LANGHE, UN REGALO PER LA GOLA E UN PRODOTTO PER SOSTENERE ECONOMICAMENTE PROGETTI DI SOLIDARIETÀ, COMINCIANDO DALLA LOTTA ALL’AIDS
n vino – rosso – che smentisce qualche luogo comune. Come quello che dipinge i viticoltori piemontesi attenti solo al denaro, accumulatori intenti a piantare vigne ovunque, noncuranti del paesaggio, insensibili alla tutela della biodiversità. Un vino scomodo. Nato - a La Morra, nel cuore delle Langhe del Barolo - con intenti di solidarietà, eppure vissuto da qualcuno come mera operazione pubblicitaria. Si chiama L’Insieme ed è il frutto dell’inedita alleanza di alcuni vignaioli di Langa, un piccolo miracolo in una terra dove le case crescono isolate sui cocuzzoli e fino a pochi anni fa non ci si salutava tra dirimpettai. Qui la vita era grama ancora all’inizio degli anni Settanta, quando i tempi della Malora erano già lontani, e anche i giovani nati nel dopoguerra hanno dovuto arrabbattarsi in qualche modo per sbarcare il lunario. Con il rinascimento di Barolo e Barbaresco, e il successo di questi vini sui mercati di tutto il mondo, la musica è cambiata. Ma l’individualismo, che affonda le radici in secoli di stenti ma pure in una struttura fondiaria fatta di mille, spesso minute, proprietà, non è certo scomparso. Per questo il progetto L’Insieme – realizzare un vino cooperativo e solidale – appare, qui, come una piccola rivoluzione. “È un progetto nato a tavola. Era una sera del 1996 e chiacchieravamo del più e del meno. Cominciammo a parlare della situazione disastrosa del nostro patrimonio artistico, di come castelli imponenti, storicamente rilevanti, andassero letteralmente in pezzi, qui a due passi da noi. E noi ci sentivamo impotenti davanti a questo sfacelo”. Lo racconta così, l’inizio di questa avventura, Elio Altare, produttore tra i più carismatici e premiati di La Morra, ispiratore principale del progetto. Ma di che tipo di vino si tratta? Intanto, rientra nella categoria dei vini da tavola. Non sottosta quindi a nessun vincolo riguardo ai vitigni da utilizzare nella sua elaborazione. Per questo i nove produttori che aderiscono all’iniziativa sono liberi di sperimentare le soluzioni più innovative. L’Insieme è un figlio di Langa che non disdegna di strizzare l’occhio ai vitigni internazionali, così accanto alle varietà classiche della zona – nebbiolo e barbera –, troviamo i non autoctoni cabernet sauvignon, syrah, petit verdot. La volontà è quella di realizzare una sorta di vino da collezione, anche perché in bottiglia ognuno mette l’eccellenza della propria cantina, scegliendo le migliori partite e poi effettuando i tagli necessari. Ogni produttore può realizzarne al massimo 5000 bottiglie, e quindi questa non potrà mai essere l’etichetta di punta della sua azienda. Non si tratta, quindi, di uve conferite a una cantina e lavorate congiuntamente. Ogni produttore realizza una sua personale interpretazione de L’Insieme, poi lo imbottiglia con la propria etichetta e un logo personalizzato facilmente riconoscibile, ma la grafica e i colori sono uguali per tutti. Così come la filosofia che sta alla base del progetto e la sua finalità: sostenere economicamente progetti di solidarietà. Racconta ancora Elio Altare: “Abbiamo deciso di destinare in beneficenza una parte dei ricavi dell’unico prodotto che noi, viticoltori, siamo in grado di realizzare, il vino. Per ogni bottiglia uscita dalla cantina versiamo 5,16 euro (le vecchie 10 mila lire) in un fondo amministrato da un notaio. A fine giugno finisce la raccolta; poi un comitato formato da personalità legate al mondo del vino, che non sono produttori, vaglia le richieste di contributi pervenute durante l’anno da associazioni ed enti non profit, e fa la sua scelta. A questo punto il notaio provvede a destinare i fondi raccolti”. I primi beneficiari (nel 2004 sono stati 93 700 gli euro stanziati) sono stati Emergency e diverse Ong e Onlus che operano non solo all’estero, ma anche sul territorio di La Morra. Le prospettive de L’Insieme sono incoraggianti. Sempre più produttori chiedono di entrare a far parte del gruppo, indice di un successo crescente. Un successo che le nove cantine coinvolte nel progetto paiono gestire con saggezza. Restando in tema di “vini solidali”, un’altra iniziativa da menzionare è quella di Wine for Life. Si tratta di un progetto nato grazie alla Comunità di Sant’Egidio di Roma. I produttori
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di vino che vi aderiscono acquistano un bollino rosso che applicano sul loro vino più rappresentativo. Ogni bollino costa 50 centesimi, che permetteranno di realizzare Dream, il programma avviato dalla Comunità per curare donne, uomini e bambini ammalati di Aids. Per il momento, gli sforzi sono concentrati sul Mozambico, il paese africano che da dieci anni gode di una pace e di un sistema democratico (conquistati faticosamente con il contributo di un lavoro di mediazione in cui è stata impegnata proprio la Comunità di Sant’Egidio), e che per questo rappresenta un esempio di speranza per l’intero continente. Il programma di lotta all’Aids in Mozambico ha un approccio globale, che si fa carico delle debolezze strutturali del sistema sanitario e ambientali così comuni in Africa, provvedendo alla formazione del personale, alla presenza capillare sul territorio senza creare strutture sanitarie pesanti, alla nascita di una rete di sostegno ad ampio spettro, che include piani nutrizionali, educazione igienico-sanitaria e la terapia, con particolare attenzione alle donne, alle donne in gravidanza, ai nuovi nati e a gruppi di popolazione ad alta incidenza dell’infezione da Hiv/Aids (medici, infermieri, operatori sanitari, maestri, operai), decisivi per la sopravvivenza del Paese. Il primo obiettivo del programma è di curare le donne incinte e i loro bambini: proprio grazie all’avvio di questo progetto, oggi è possibile per la prima volta, in questa parte dell’Africa, vedere nascere bambini sani da madri sieropositive. L’assistenza alle madri non è rivolta solo alla salvaguardia delle loro salute; in un Paese dove la mortalità degli uomini adulti è elevatissima (un mozambicano su sette è oggi colpito dal virus Hiv/Aids), Sant’Egidio cerca di garantire nel tempo una fonte di reddito e una protezione per tutta la famiglia. Per fare un esempio: bastano 100 bollini per far nascere sano un bambino e 1000 per pagare un anno di terapia a una donna malata e aiutare l’intera famiglia a sopravvivere. Pertanto, il talloncino rosso apposto sulle bottiglie serve per far sapere a chi acquisterà un vino dallo scaffale di un’enoteca, o in un ristorante, che in quel momento sta contribuendo, oltre che al proprio piacere, alla lotta contro l’Aids in Africa. Per ora le cantine che hanno risposto all’appello sono una sessantina, ma il progetto è aperto a qualsiasi nuovo ingresso. Per maggiori informazioni, potete navigare sul sito Internet della Comunità di Sant’Egidio – www.santegidio.org – o scrivere all’indirizzo e-mail: wineforlife@santegidio.org. ● * Slow Food
Gianfranco Alessandria, Monforte d’Alba. Tel 0173 78576. Un giovanissimo, ma già considerato un grande barolista, grazie ai suoi vini potenti e generosi che non dimenticano di essere fini e piacevoli. Da 5 ettari di vigneto ricava circa 25 mila bottiglie. Il suo L’Insieme è frutto di un uvaggio di nebbiolo (40%), barbera (30%) e cabernet sauvignon (30%). Elio Altare, La Morra. Tel 0173 50835. Anche se non lo vuole riconoscere, è il leader del progetto L’Insieme, oltre che uno dei produttori più apprezzati d’Italia. Ha una mano davvero magica nella produzione non solo del Barolo, diventato celebre per le innovative tecniche di vinificazione usate, ma anche per la particolare interpretazione del Langhe Rosso. I vitigni impiegati per L’Insieme
Insieme a loro sono gli stessi di Alessandria, con l’aggiunta di dolcetto, syrah e petit verdot.
L’Insieme i vitigni sono gli stessi di Corino, con piccole variazioni percentuali.
Giovanni Corino, La Morra. Tel 0173 50219. Tel 0173 509452. I fratelli Corino, Giuliano e Renato, realizzano il grande Barolo Vecchie Vigne e un Barbera d’Alba di alto livello. Il blend de L’Insieme comprende, oltre ai classici tre vitigni (nebbiolo, barbera e cabernet sauvignon), il merlot (20%).
Mauro Molino, La Morra. Tel 0173 50814. Mauro e il figlio Matteo gestiscono una delle più belle realtà di Langa, anche grazie allo stupendo panorama che si gode dalla loro cantina, che si trova nella scenografica conca dell’Annunziata. Ottimi i Baroli prodotti (in particolare Vigna Conca e Gancia). Nell’interpretazione di Molino, l’uvaggio del L’Insieme è identico a quello di Silvio Grasso: nebbiolo (40%), barbera (20%), cabernet sauvignon (20%) e merlot (20%).
Silvio Grasso, La Morra. Tel 0173 50322. Federico e Marilena Grasso, insieme al figlio Paolo, lavorano una decina di ettari di vigne, da cui ricavano 60-70 mila bottiglie dei classici vini delle Langhe. Da ricordare il loro prodotto più importante, il Barolo Luciani. Per
Fratelli Revello, La Morra Tel. 0173 50276. Carlo ed Enzo Revello coltivano tre celebri cru di La Morra: Vigna Conca, Rocche dell’Annunziata e
Vigna Giachini. Le bottiglie prodotte raggiungono le 55 000 unità, ricavate da 11 ettari coltivati. Come nel caso di Elio Altare, per la realizzazione del L’Insieme, oltre a nebbiolo, cabernet e barbera utilizzano il petit verdot. Mauro Veglio, La Morra. Tel 0173 509212. Vicino di casa di Elio Altare, ottiene da tempo grandi risultati con Barbera e Barolo. È uno dei pochi produttori di La Morra a possedere anche un vigneto a Monforte (il cru è il Castelletto), grazie al matrimonio con Daniela, originaria del paese langarolo, che è anche la segretaria del progetto benefico. Mauro Veglio per L’Insieme utilizza gli stessi vitigni di Alessandria. La Morandina, Castiglion Tinella. Tel 0141 855261. Bella realtà di 20 ettari
che produce mediamente 70 mila bottiglie l’anno. Essendo fuori dal territorio designato dal disciplinare di produzione non può imbottigliare il Barolo, ma si rifà con un ottimo Barbaresco. Nel suo L’Insieme c’è una maggioranza di barbera (60%), con aggiunta di nebbiolo (30%) e syrah (10%). Giuseppe Caviola, Dogliani, Tel. 0173 70547. Enotecnico tra i più celebrati e richiesti in Italia, ha un’azienda di proprietà nel doglianese. Molto interessanti il suo Langhe Rosso Bric du Luv e il Dolcetto d’Alba Barturot. Nella sua interpretazione de L’Insieme miscela tre vitigni in identiche quantità: barbera, nebbiolo e pinot nero. Per maggiori informazioni: Tel. e fax 0173 509212 oppure www.linsieme.org
SCRITTO&MANGIATO
di Walter Bordo* GUATEMALA, GENTE CHE FATICA, CERCANDO TRA POSTI CHIAMATI LA DEMOCRACIA O, PER CHI SI SENTE UN PO’ INDIANA JONES, TODOS LOS SANTOS CHUCHUMATANES, DOVE SENTIRETE PARLARE L’ANTICO IDIOMA MAM
i dice che soltanto in Guatemala il mondo si creò in 28 maniere differenti, in 28 lingue; e che con 28 parole si chiamò Dio. E poi i colori. Quelli della natura, degli autobus e dei vestiti portati dai nativi. Qui le donne filano, tessono e ricamano con i fili dei colori dell’arcobaleno. Pare che esistano più di 500 tipologie di abiti tipici; le diverse etnie indossano vestiti che possiedono bellezza, originalità, senso del colore, vivaci contrasti. Avvicinandosi a queste popolazioni con rispetto, curiosità e voglia di capire, sarà più facile entrare nel mondo spirituale guatemalteco, ricco e complesso. La vita interiore di questo popolo è permeata da una profonda religiosità, impastata di rituali cristiani e credenze ancestrali, della quale solo i nativi possiedono le chiavi. Come nel rapporto con i morti, o meglio, con il luogo dove i defunti riposano, il cimitero: le tombe sono contraddistinte da colori sgargianti e ghirlande; visitarne uno dà l’impressione di passare in un posto dove la sera prima si sia tenuta una festa. Insomma, i colori fanno del Guatemala un posto davvero particolare: a che cosa assomiglia la stazione degli autobus di Antigua, più che a un deposito, a un gran circo di passaggio. Richiami, grida di chi indica la destinazione del proprio mezzo, colori ovunque, venditrici di ogni genere che salgono
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per proporre la loro eterogenea mercanzia. L’autobus è un piccolo mondo a sé. Questi vecchi cassoni americani originariamente utilizzati come scuolabus negli States, qui sembrano avere vita eterna; variopinti, sono qualcosa di straordinariamente distante dai torpedoni con aria condizionata e tv che percorrono le nostre autostrade. Ma sono mezzi che vanno ovunque, affrontando con lo stesso piglio deciso l’asfalto e i tratti fatti di “buche sterrate”, non così rari. Detto che città del Guatemala non merita più di un paio di giorni da dedicare a qualche museo (l’Archeologico, Popol Vuh e Ixchel) e che è una città trafficata e piuttosto inquinata, dirigete i vostri appetiti turistici altrove. Antigua (45 minuti da Città del Guatemala) è un palcoscenico barocco dove, all’ombra di vulcani sostanzialmente tranquilli, sopravvivono storie d’altri tempi, tradizioni Maya spesso ancora autentiche. Le strade di selciato sconnesso sono affiancate da antiche case patrizie (da vedere Casa Popenoe) o da altre basse e colorate. Molti arrivano qui con il loro bagaglio da occidentali, le loro ansie di fare, ma tutto quello che hanno intorno, la gente, la natura, li porta a rallentare, ammaliati dal silenzioso trascorrere delle giornate lungo le strade o al fresco dei patios. La città che stregò gli spagnoli, l’antica Santiago de Los Caballeros (primo nome di Antigua), ha dimensioni orizzontali,
contenute, che a volte esplodono in larghe piazze, mentre gli sviluppi verticali trovano motivo in moltissime chiese e campanili (anche se il più delle volte, ormai, si tratta di ruderi). Antigua è un salto repentino nel XVI secolo. Ci si arriva percorrendo una strada che scende a rotta di collo, con curve difficili affiancate da rassicuranti vie di fuga in salita, pronte a salvare l’automobilista distratto. Per scoprirne l’anima vera, bisogna provare a pensare antigueños, oltrepassare i grandi portoni che celano spesso lunghi corridoi avvolti nella penombra o sbirciare dietro porticine anonime che offrono inattese immagini barocche. Fascino coloniale e volti andini si fondono nella vita e lungo le strade della città. Visitate il Mercado de Artesanìas (non dimenticate di contrattare sempre), sul lato occidentale della città; gli occhi si perderanno tra tessuti e huipiles (gli antichi vestiti delle donne Maya) dai mille colori. Ammirate i bassorilievi bianchi su fondo ocra del convento di Nuestra Señora de la Merced, all’interno c’è la più grande fontana (27 metri di diametro) di tutto il Centro America. Seduti su una panchina del Parque Central, volgete lo sguardo verso il palazzo della Capitaneria Generale, il municipio (che ospita il Museo de Santiago ed è affiancato dal piccolo Museo del Libro Antiguo) e la Cattedrale. Non mancate la visita al Convento de las Capuchinas (anche perché a distanza di pochi metri trovate la Cuevita de los Urquizù, uno dei migliori
I luoghi del c caffè di Serena Milano* RADICI ANTICHE, IL RAGAZZO DELCARDAMONO, ANDATA E RITORNO
Tazzina di qualità uando siamo arrivati a Huehuetenango, ad attenderci c’era Manrique Lopez, un ragazzo giovanissimo con la faccia rotonda e due orecchie un po’ sporgenti. Impacciato, aveva sfilato da un borsone un sacchetto di cardamomo e ci aveva parlato del suo paese, a cinque ore di distanza, e del tentativo di qualche famiglia di coltivare qualcosa che non fosse caffè, per uscire dal vortice della miseria. Una miseria legata alle logiche della borsa di New York, che sta quotando il caffè a prezzi più bassi di trent’anni fa, e alla debolezza di tutto il dipartimento, la cui economia è basata sulla monocoltura cafetalera da quasi trecento anni. La gente di Huehuetetnango ha radici antiche: sono perlopiù indigeni Mam, Akateco, Chuj, Kanjobal, discendenti dai
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Maya e tutti con un proprio idioma. Popoli usciti da poco (dicembre 1996) da trentasei anni di guerra civile e di oppressione. Le loro terre sono state tra le più martoriate dal conflitto, in particolare negli anni Ottanta, quando il generale José Efrain Rios Montt (un cristiano evangelico salito al potere con un colpo di stato) ha introdotto la politica della “terra bruciata”. I villaggi sospettati di proteggere o sostenere i guerriglieri antigovernativi (e quasi sempre si trattava di villaggi Maya) erano letteralmente rasi al suolo: uomini, donne e bambini uccisi, gettati in grandi fosse e bruciati. Oggi la maggioranza di questi popoli è analfabeta e vive senza le più elementari strutture sanitarie e scolastiche. Durante il nostro viaggio nei loro paesi sperduti, fatti di poche case di cemento
lungo vie sterrate, bambini addossati ai muri che guardano i rari stranieri di passaggio, vecchi appisolati e, in giro, solo galline e cani magri che si trascinano in cerca di scarti commestibili, il giovane Manrique era stata la nostra guida. Oggi, esattamente tre anni dopo quel viaggio, al Salone del Gusto di Torino (ottobre 2004), lo stesso timido ragazzo del cardamomo si è presentato con una dozzina di produttori di caffè e, di fronte a una platea di giornalisti, ha preso il microfono e ha parlato senza indugi, in un italiano imprevedibilmente scorrevole, spiegando concetti importanti - come l’origine, la qualità, la tracciabilità - analizzando con precisione la situazione economica dei produttori del Presidio di Huehuetenango, raccontando i mille passaggi attraverso i quali sale il prezzo del
caffè, arrivando a raggiungere le cifre pagate per una tazzina al bar di un qualunque paese occidentale, cifre lontanissime dai pochi quetzal pagati ai produttori guatemaltechi. E alla fine ha chiuso con una richiesta di civiltà per la sua gente e per la fatica dei produttori del Presidio di Huehuetenango: “Prezzo giusto, prezzo giusto, prezzo giusto” è stato l’appello finale del suo intervento. La forza di quel ragazzo, che in pochi anni ha imparato una nuova lingua e, senza timidezza, ha saputo presentarsi in un paese straniero e pretendere rispetto per il lavoro della sua gente è già di per sé un grande risultato per i primi tre anni di attività del Presidio di Huehuetenango. Un Presidio nato per valorizzare una delle migliori aree di produzione cafetalera del mondo: cinque municipi guatemaltechi al
confine con il Messico, tra i 1500 e i 2000 metri di altitudine: San Pedro Necta, La Libertad, La Democracia, Todos Santos Cuchumatanes, Cuilco. Ricavato da piante di Coffea arabica (delle varietà Typica, Bourbon e Caturra), il caffè del Presidio è coltivato in piccoli appezzamenti, all’ombra di alberi ad alto fusto. La raccolta è manuale: le ciliegie sono staccate una ad una e riposte in ceste di vimini legate ai fianchi. I chicchi sono estratti dalle bacche artigianalmente, attraverso un delicato processo di fermentazione, che inizia quattro ore dopo la raccolta e dura 24-26 ore. Dopo la spolpatura, i grani seccano al sole per almeno tre giorni, continuamente rivol● tati con un rastrello. * Slow Food
posti per assaporare la cucina locale, peraltro non memorabile). Poco distante dal centro è la Casa K’ojom che raccoglie tutto ciò che è musica guatemalteca. Lungo la strada che conduce a Huehuetenango vale la deviazione il Lago Atlitlàn che da queste parti “vendono” come uno dei più belli al mondo, e forse non hanno tutti i torti. Circondato da una catena di vulcani, è attorniato da graziosi villaggi tra i quali Panajachel, destinazione prediletta dagli hippy negli anni ’60. Prima di affrontare la vertiginosa discesa verso il lago, dedicate un po’ di tempo al mercato di Sololà, dove gli indios portano i loro manufatti. E se la vostra passione sono gli acquisti, non tralasciate una puntata a Chichicastenango (sede del bazar più famoso, anche se per alcuni non più così autentico) dove, capitando al momento giusto, potrete assistere a uno dei tanti riti che gli indios celebrano nella chiesa di Santo Tomás o nel santuario di Pascal Abaj. Huehuetenango non si può certo definire la destinazione più bella del viaggio, ma è un ottimo “campo base” per visitare i luoghi del caffè. Dirigetevi quindi, con accompagnatore, a vedere le piantagioni di San Pedro Necta, La Libertad, Cuilco, La Democracia e, per chi si sente un po’ Indiana Jones, Todos los Santos Chuchumatanes (e bisogna proprio avere la compagnia di tutti i santi per vivere qui), dove sentirete parlare l’antico idioma mam. La vita di questa gente è una fatica continua, una tribolazione sopportata con incredibile serenità, resistenza e dignità; sguardi fieri, grandi lavoratori, ospitali, gente che, per sfamarsi, coltiva il mais in posti impossibili. Al ritorno porterete con voi ricordi straordinari fatti di visi, sguardi, mani e cuori indios che vi faranno apprezzare di più la tazzina del caffè quotidiano, imparando a cogliere le sfumature aromatiche che fino a ieri vi erano sfuggite, nuances profumate che ● raccontano di varia umanità. * Slow Food
Il prezzo giusto
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oltivare un buon caffè non basta: bisogna trovare torrefattori disponibili a pagare un prezzo adeguato e a comprare direttamente presso i produttori (operazione meno comoda e più rischiosa) e a tostare il caffè verde in purezza per comunicare e valorizzare la sua origine (oppure in una miscela con altre origini ben specificate in etichetta). Ci sono voluti anni per trovare qualcuno disponibile alla scommessa. Il primo esperimento è stato fatto con Bernie della Mea (Caffè del Doge, Padova e Venezia, tel. 049 9126188) che ora propone regolarmente il mono-origine di Huehuetenango nel suo caffè di Venezia (via San Polo) e, durante il periodo di esposizione di Salvador Dalì, presso la caffetteria di Palazzo Grassi, sempre a Venezia. Il secondo che ha deciso di acquistare il caffè del Presidio è stato Andrea Trinci (Torrefazione artigiana di caffè e cacao, Cascine di Buti, Pisa, tel. 0587 722026), che lo lavora con l’antico sistema a legna. E proprio Trinci – assieme ad altri tecnici e torrefattori – accompagnerà il Presidio nella sua seconda fase: la realizzazione di una torrefazione presso la Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino, meglio conosciuta come Le Vallette. Gestita dalla cooperativa sociale Pausa Caffè, l’azienda (perché di questo si tratta, di una vera e propria attività di impresa) coinvolgerà direttamente sia i detenuti delle Vallette (che impareranno il mestiere del torrefattore) sia i produttori di Huehuetenango, che riceveranno il 50% degli introiti dalla vendita del caffè tostato e macinato. Il primo caffè delle Vallette sarà in vendita nel mese di aprile del 2005, promosso dalle condotte Slow Food di tutta Italia e distribuito da negozi, enoteche e da alcuni punti vendita Coop del Piemonte. Per informazioni, info@caf● fehuehuetenango.org.
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Ouverture
secondo Scholtès.
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ome antipasto, delicato flan di zucchine
e carote servito aperto, per svelare la ricca crema al formaggio. Ma il vero spettacolo comincia ancora prima. Scholtès presenta il forno con doppia apertura laterale. La prima porta, in acciaio inox satinato, offre discrezione e protezione dal calore; mentre una seconda porta, in vetro trasparente, permette di controllare ogni fase della cottura con la massima visibilità e senza alcuna dispersione di calore. Il design compatto ed elegante esalta l’armonia della vostra cucina. Il meglio è servito garantisce Scholtès. www.scholtes.it
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SCRITTO&MANGIATO
UNA STORIA CHE VIENE DALLA CUMBRIA, NORD OVEST
UN PICCOLO REGALO
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SULLA NOTTE DELLA VIGILIA, TRA CHRISTMAS CAKE, GINGER WINE E UN POSTO IN CUCINA
comunque, lui non aveva più bevuto, tranne che a Natale, quando ci dava dentro come gli altri. “È morta la nonna – esclamò mia madre, tornato alla festa. Almeno, mi sembra morta. Non si muove. Andate a vedere”. “Mi dispiace, ma adesso no! – fece mio padre. Adesso c’è da preparare il pranzo di Natale per i bambini”. “Ma qualcosa dovrò pure fare, no?”. “Sì, devi cucinare il pollo!”. “No, intendevo dire che dobbiamo chiamare il medico, l’impresario di pompa funebri, che ne so...”. “Ma no, il giorno di Natale non verrebbe nessuno. Aspettiamo domani. Sta’ tranquilla, in questo momento il tuo posto è in cucina”. Mio padre poi aggiunse: “Succede sempre qualcosa il giorno di Natale. L’anno scorso è scoppiato un tubo per il freddo. Quest’anno è quella donna a metterci il bastone tra le ruote!”. Ma lo disse sorridendo, mentre Jimmy Wilson, pur ubriaco, non sembrava tanto contento. Mia madre, intanto, non c’era più. Era alle prese col pollo. All’una ci sedemmo a tavola per il pranzo. Finalmente, eccolo servito il grande pollo: una coscia qua, un’ala là. “È più saporito dell’anno scorso” disse Kathleen. “No, è più insipido” disse Mary. Ad accompagnare il pollo: il gravy, sugo d’arrosto liofilizzato, cavolini di Bruxelles, che si mangiavano anch’essi una volta all’anno e che tutti odiavamo, bread sauce, salsa di pane, carote, patate arrosto, piselli… Elementi-alimenti di architetture precarie che ognuno assemblava sul proprio piatto. Per tradizione, a chi capitava la forcella del pollo spettava il diritto di esprimere un desiderio. “Voglio l’atlante Reader’s Digest” pensai con l’ossicino in mano. Dopo la altrettanto tradizionale pennichella post-prandiale, mio padre mi disse: “Facciamo due passi. Forse è meglio che andiamo a controllare tua nonna”. C’era poco da controllare. Stesa nel letto, aveva il viso candido come la neve fuori, e la pelle del collo ossuto era flaccida. A me ricordava il pollo nella scatola di cartone. “È più bianca di ieri” avrebbe detto Kathleen. “E molto più fredda” avrebbe aggiunto Mary. E poi arrivò il momento del Christmas Tea, pasto che si consumava verso sera con sottaceti, prosciutto, gelatina alla frutta, e, soprattutto, gli avanzi del pranzo: insalata di pollo, tramezzini al pollo, tartine di pollo… Entrò Jimmy Wilson e dichiarò: “Avete visto il telegiornale? Sciagura aerea negli Stati Uniti! Più di venti morti!”. “Non sarebbe Natale senza qualche disgrazia – sentenziò mio padre. Da qualche parte c’è sempre un poveraccio che non può godersi la festa”. I due poi si appartarono e si misero a confabulare sottovoce. Vidi Jimmy tirare fuori dei biglietti verdi. Sterline? Più tardi, mio padre mi chiamò a sé e mi fece sedere sulle sue ginocchia. “Oggi mi ha chiamato Santa Claus – mi disse. Dice che si è scordato di portarti un certo atlante. Sempre che tu sia d’accordo, mi ha dato l’incarico di prendertelo io domani”. “Ma non devi occuparti della nonna domani?” chiesi. “Eh già” sospirò mio padre, addentando un panino al pollo. ● * Slow Food
di Marina Forti COME LA CONDIVISIONE DI UNA CONOSCENZA DIVENTA IL MIGLIORE DEI REGALI POSSIBILI IN CAMPO ALIMENTARE. LA STORIA DELLO STABILAK E DEL COELMON, INVENZIONI NATURALI
Saperi sapori
DELL’INGHILTERRA, l giorno di Natale, a casa mia, si mangiava pollo. Niente tacchino, niente oca, niente fagiano (e a pensare che la nostra contea — Cumbria nell’estremo nordovest dell’Inghilterra — è sempre stata ricca di selvaggina). No, pollo, solo ed esclusivamente pollo. Strano ma vero: il pollo lo mangiavamo una volta all’anno, quel giorno e basta. E lo consideravamo un gran lusso. Quel Natale, come tutti gli altri, mio padre il pollo l’andò a ritirare presso una fattoria di campagna la settimana precedente il grande giorno, e lo portò a casa in un’enorme scatola di cartone. Noi bambini – le mie due sorelle e io – guardammo l’uccello curiosi: ne palpammo la carne, ne accarezzammo la pelle, ne verificammo la consistenza. “È più grosso dell’anno scorso” disse Kathleen. “No, è più piccolo” ribatté Mary. Alla vigilia, in casa, si spandevano gli odori suoni colori della festa. Bing Crosby auspicava un Natale bianco, le palle metalliche scintillavano sull’albero, e la torta natalizia, la Christmas Cake, che si cuoceva al forno, riempiva il tinello con un profumo inebriante di uva passa, frutta secca e brandy. Un’aria di relax e di attesa, quindi. La vigilia era anche l’unico giorno in cui mio padre anticipava il ritorno dall’ufficio. Verso sera, imbacuccati per difenderci dal gelo, io e lui facemmo una passeggiata fino all’offlicence, il negozio di vini e liquori annesso al pub del quartiere, per fare compere. Ovvero, per fare fuori tutta la gratifica natalizia, comprando per le feste ogni sorta di bevanda, alcolica e non: birra, whisky, vino, vodka, gin, seltz… “E il ginger wine, non lo prendiamo?” chiesi. Il ginger wine, una bibita a base di zenzero, piaceva alla nonna materna, che abitava a cento metri da noi (cosa che non era mai andata a genio a mio padre). “No, quest’anno non mi sembra il caso”. In effetti, in quei giorni la nonna stava male, molto male. Confinata a letto, più pazza, più cattiva che mai, ci stava lasciando. I vecchietti che uscivano dal pub gonfiavano le guance, battevano le mani per scaldarsi, e pisciavano contro il muro. Tra loro c’era Jimmy Wilson, il nostro vicino di casa, venuto a fare la scorta di bevande anche lui. Un tipo grande e grosso dalla faccia rubiconda, Jimmy passava le sue giornate dall’allibratore. Era capace di scommettere su tutti i cavalli di una corsa per poi raccontare a casa che aveva puntato su quello vincente. Tutti, compresi noi bambini, conoscevamo il trucco, ma sua moglie ci cascava sempre. “Buon Natale! – tuonò col suo accento rustico. La nonna come sta?”. “Non bene” rispose mio padre. “Per me, ha pochi giorni da vivere – affermò Jimmy con un cinismo che mi sorprese. Scommetto che crepa il ventisei o il ventisette”. “No, per me crepa prima – rispose mio padre, con un cinismo che non mi sorprese, visto il rancore che portava verso sua suocera. Ci rovinerà il giorno di Natale, quella donna. Vedrete. Allora, quanto vuoi scommettere, Jimmy?”. Quella sera si ripetè il solito rito. Mio padre prese un piatto, ci appoggiò sopra due pezzi di shortbread, tipico biscotto burroso scozzese, e un bicchierino di whisky, e lo pose davanti al caminetto. “Se arriva Santa Claus, almeno fa uno spuntino” disse prima di mandarci a letto al primo piano. Il giorno dopo, il venticinque, all’alba, fu ancora lui, più eccitato di noi a chiamarci. “È passato Santa! Venite”. Scendemmo ruzzolando per le scale e, puntualmente, trovammo il piatto pieno di tracce di polvere di carbone con i biscotti mezzi mangiati e il bicchiere vuoto. Poi scartammo i regali. Trovai tutte le cose che avevo chiesto a Babbo Natale nella letterina che gli avevo scritto quell’estate. Tutte tranne una, quella che desideravo di più: l’atlante Reader’s Digest. Ero deluso ma feci finta di nulla. Poi, da programma, arrivarono i vicini di casa per scambiare gli auguri, per bere e per cantare. Mancava solo mia madre che era andata a sincerarsi delle condizioni della nonna. Tornato dalla guerra, mio padre aveva avuto dei problemi con l’alcol fin quando mia madre non gli diede un secco ultimatum. “George, hai una famiglia da sfamare e un mutuo da pagare. O smetti di bere o non ci vedi più!”. La nonna era venuta a vivere vicino a noi proprio in quel periodo: secondo mio padre, per controllarlo. Da allora,
i sono tanti modi di intendere il “dono”. Condividere un sapere, ad esempio: in tempi di brevetti e proprietà intellettuale, dono può essere mettere a disposizione di altri un’invenzione geniale e utile, una conoscenza - brevettata, perché bisogna pur combattere i pirati del mercato, ma volontariamente ceduta. Si pensi ad esempio all’ingegnere cubano che ha inventato lo Stabilak. Sotto questo nome va una sostanza che mescolata al latte appena munto permette di conservarlo tra 8 e 24 ore, in mancanza di frigoriferi, senza che vada a male e cominci a sviluppare germi nocivi. L’invenzione è semplice e del tutto naturale. Si basa su quello che ora anche la Fao chiama Sistema Lactoperoxidasi. Lactoperoxidasi è una proteina del latte ed è un enzima, una di quelle sostanze che “attivano” processi di trasformazione nelle cellule. Il Sistema si basa sull’incontro tra la proteina, ioni di thiocianato (presenti nel fegato) e la reazione di questi con l’ossigeno prodotto dai leucociti (o globuli bianchi del sangue). In questa reazione, l’enzima lactoperoxidasi attiva un sistema di difese naturali presenti nel latte di tutti i mammiferi. L’enzima Lactoperoxidasi è approvato dal Codex Alimentarius della Fao, che lo considera del tutto innocuo per la salute umana. Dunque: l’ingegner Pastor Ponce Ceballo, PhD del Centro Nacional de Sanidad Agropecuaria (Censa) di Cuba, ha trovato il modo di usare questo enzima per farne un prodotto che ha chiamato appunto Stabilak. Si presenta sotto forma di una polverina o di compresse, in entrambi i casi da sciogliere nel latte appena munto. Ci sono due possibili formule, Stabilak 1 o 2, e in entrambi i casi si presenta in bustine ermeticamente sigillate in due possibili dosi: una per 50 litri di latte, l’altra per 500 litri. L’uso è semplicissimo, e il latte a cui viene aggiunto può essere conservato tra 8 e 24 ore dopo la mungitura in temperature che variano tra i 20 e 34 gradi centigradi: quanto basta per trasportarlo dove sarà pastorizzato e consumato, o trasformato in formaggio o altri latticini. L’uso è evidente: nelle economie agricole di zone remote, o comunque dove gli allevatori non hanno accesso alla catena del freddo, mettere questa polverina nel latte appena munto abbassa il rischio di malattie causate da microroganismi patogeni, permette agli allevatori di fare miglior uso del latte - ad esempio produrre latticini - anche se non dispongono di frigoriferi, diminuisce le perdite (il latte buttato via perché andato a male), aumenta la quantità di cibo disponibile al consumo. E’ efficace con il latte di mucca, pecora, capra, bufalo e cammello. A Cuba è usato dal 1992, ormai un terzo del latte fresco prodotto nel’isola viene trattato con Stabilak, cioè tra 60 e 80 milioni di litri in un anno, con risultati eccellenti e senza danno alla salute degli umani - anzi, con vantaggio. I cubani hanno calcolato che così evitano una perdita quantificata nell’equivalente di 8.000 tonnellate di latte in polvere che andrebbe importato se quel latte andasse a male per mancanza di sistemi di refrigerazione. Il costo poi è irrisorio: i cubani lo hanno calcolato in circa 0,5 centesimi di dollari per 100 litri di latte. Il sistema è riconosciuto come efficace e sicuro - la stessa Fao, che ha sponsorizzato le ricerche, nel ’98 ha lanciato un “programma globale lactoperoxidasi” per incoraggiare la diffusione di questo sistema - che in effetti ora è usato in una ventina di paesi (in gran parte latinoamericani ma anche in Vietnam). Lo Stabilak cubano ha ricevuto diversi premi tra cui, nel 2002, quello dell’Organizzazione mondiale per la proprietà intellettuale (Ompi) a Ginevra. Dove sta il “dono”? Nel fatto che l’istituto cubano è disponibile a fornire il metodo a chi interessa. Tra novembre e dicembre ad esempio il dottor Pastor Ponce e altri ricercatori del Censa sono andati in missione in Colombia, con tanto di campioni di Stabilak, a incontrare consorzi di allevatori interessati a usare il loro metodo. Anche in questo caso la conoscenza sarà ceduta, a prezzo politico, a chi ne farà un uso sociale e di interesse pubblico: è un caso di “cooperazione Sud-Sud” - in effetti lo scambio è facilitato da un programma chiamato “Ideass” e realizzato dalle Nazioni unite per appoggiare i processi di sviluppo umano (www.ideassonline.org). Del resto Stabilak è solo un esempio di “innovazione di utilità pubblica”. Altri esempi sono quelli presentati l’anno scorso nella prima edizione di una strana Fiera, il “Concorso di innovazioni per lo sviluppo umano” promosso in Nicaragua. A volte, l’innovazione sta nel metodo: come il progetto avviato proprio in Nicaragua di abbinare la coltivazione di un certo albero tropicale, il Jicaro, con l’allevamento: l’albero dà ottimi frutti (ricchi di una proteina vegetale) di cui si usa il seme (per farne gallette) e la polpa, ha una grande chioma ombrosa ma piantato a distanze di 3-6 metri permette al sole di raggiungere il terreno e lasciar crescere l’erba per il pascolo. Altre volte si tratta di vere e proprie invenzioni, innovazioni tecnologiche: come il sistema naturale per disidratare i limoni messo a punto da una cooperativa di produttori di agrumi in Guatemala chiamata Coelmon. Far essiccare i piccoli limoni tropicali - là li chiamano limon criollo, la varietà Citrus aurantifolia L., originaria dell’Asia ma adattata da tempo al centro America - è una tradizione della zona, ma il metodo inventato dalla cooperativa permette di disidratare completamente in modo naturale e impacchettare un prodotto che poi serve per la cucina - da certe minestre a piatti di carne o insalate - o per preparare tè e bevande, per uso domestico o per l’industria. Ora loro esportano i loro limoni disidratati negli Stati uniti e in molti paesi del Golfo. Anche in questo caso il metodo è semplice. ●
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di Jonh Irving*
Pollo e basta
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Ouverture
secondo Scholtès.
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ome antipasto, delicato flan di zucchine
e carote servito aperto, per svelare la ricca crema al formaggio. Ma il vero spettacolo comincia ancora prima. Scholtès presenta il forno con doppia apertura laterale. La prima porta, in acciaio inox satinato, offre discrezione e protezione dal calore; mentre una seconda porta, in vetro trasparente, permette di controllare ogni fase della cottura con la massima visibilità e senza alcuna dispersione di calore. Il design compatto ed elegante esalta l’armonia della vostra cucina. Il meglio è servito garantisce Scholtès. www.scholtes.it
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UN CONCORSO ENOLOGICO PER VALORIZZARE I VINI DELLA PROVINCIA DI ROMA Ben noto già agli Etruschi e da questi assai apprezzato, come dimostrano i disegni sul vasellame ritrovato nelle tombe di quel misterioso popolo, il vino fu protagonista anche nella vita dei Romani: vino sulle mense di patrizi e plebei, vino sugli altari per ingraziarsi le divinità. Non per nulla tutta l’Italia era chiamata allora Enotria, terra del vino e il Lazio antico ed in particolare il territorio che oggi è la provincia di Roma era un germogliare di viti. D’altra parte, considerata la sua formazione geologica e la posizione geografica particolarmente favorevole, con il mare da un lato, le montagne alle spalle che la proteggono e un susseguirsi di dolci colline alternate a fertili pianure, questo territorio mostra da secoli una spiccata vocazione per le colture mediterranee: la vite e l’olivo. Ancora agli inizi del Novecento, Roma appariva all’estasiato visitatore come un’immensa vigna: c’erano vigne a Villa Glori e a Villa Borghese e le feste tipiche del vino come l’Ottobrata Romana, in occasione della vendemmia, spesso si celebravano dentro le mura: non c’era bisogno di anda-
re ai Castelli in carrettella per trovare una fraschetta, un’osteria o un prato dove fermarsi a bere il vino appena fatto, a mangiare e a ballare il salterello. Un’immagine fantastica e incredibile da epoca dell’oro per chi conosce la Roma odierna, ancora affascinante e ammantata di verde, dove tuttavia delle vigne non rimane che il ricordo in certa toponomastica: via delle Vigne Nuove,Via di Vigna Stelluti,Vigna Clara e tante altre. Ormai per vedere i filari di vite carichi di grappoli bisogna andare in provincia, dove il paesaggio è quasi ovunque caratterizzato da vigneti che producono vini di ottima qualità. E’ per promuovere questa produzione così diversificata e qualificata che gli Assessorati alle Attività Produttive e all’Agricoltura della Provincia di Roma e il Comune di Genzano di Roma, in collaborazione con l’Associazione Italiana Sommeliers, hanno organizzato il Primo Concorso Enologico della provincia di Roma per la concessione della distinzione “Provincia di Roma – Baccus amat colles” e del Premio Speciale “Grappolo d’Oro Gino Cesaroni”, che
ED ECCO I SEI VINI CHE HANNO OTTENUTO IL MAGGIOR PUNTEGGIO NELLE CATEGORIE MESSE A CONCORSO Categoria bianchi D.O.C e D.O.C. Superiore vendemmia 2003
Categoria rossi D.O.C. riserva e invecchiati
La Selva Coop. Viticoltori – Colli Lanuvini D.O.C. Superiore Via della Selva, 160 – Genzano – tel. 069396085
Cantina Villafranca s.r.l. – Castelli Romani D.O.C. barrique “Tenuta Gasperini” 2001 Cecchina di Albano Laziale – via Villafranca, 14 – tel. 069344277-8
Categoria bianchi I.G.T. Lazio vendemmia 2003
Categoria rossi I.G.T. Lazio vendemmia 2002 – 2003
Cantine Conte Zandotti – I.G.T. Malvasia del Lazio “Rumon” Via Colle Mattia, 8 – Roma – 0620609000 – 20609178
Fontana di Papa Vini d’Italia – I.G.T. Lazio rosso “Calathus” 2002 via Nettunense, km 10,800 – Ariccia – tel. 0693478211
Categoria rossi D.O.C. vendemmia 2002 – 2003
Categoria rossi I.G.T. Lazio invecchiati
Az. Agr. Pesoli Giulio – Castelli Romani D.O.C. “Aureo” 2002 Via Appia Antica, 100 – Ariccia – tel. 069363294
Cantina Cerveteri soc. coop. a.r.l. – I.G.T. Lazio rosso “Tertium” 2000 Vai Aurelia, km 42,700 – Cerveteri – tel. 06994441
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si è svolto a luglio di quest’anno. La finalità del concorso è principalmente quella di stimolare i viticoltori e gli operatori vinicoli della provincia di Roma verso un miglioramento qualitativo, sia della viticoltura e della vinificazione, sia nell’ambito della conservazione e della qualità del prodotto finale e di valorizzare i vini migliori, favorirne la conoscenza, l’apprezzamento e la commercializzazione congiuntamente con la promozione del territorio. Infatti, accanto ai vigneti potremo scorgere ruderi di ville e acquedotti romani, abbazie, castelli e palazzi rinascimentali, cosicché la scoperta dei vini potrà essere anche una buona occasione per visitare graziosi borghi medievali, ammirare opere d’arte di illustri maestri del passato o di geniali ignoti e magari fermarsi a degustare la saporita cucina romana, semplice, ma gustosissima, i cui piatti, anch’essi di antica tradizione, si sposano naturalmente con i vini locali.
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di Andrea Scanzi egalare a un amico, o a un’amica, un pane che si è fatto da soli, è quasi sempre una buona idea. A meno che non si sia letto il primo racconto di Cattedrale, Raymond Carver. Racconta di un pomeriggio trascorso insieme da due coppie, Jack e Fran, Bud e Olla. Jack è collega di Bud, Bud li invita a casa, Fran non vorrebbe andarci. Olla ha appena avuto un bambino, che Jack descrive come “il più brutto che avessi mai visto”. Bud e Olla vivono in campagna, hanno un pavone, Joey, da qui il titolo del racconto (Penne). L’incontro risveglierà l’istinto materno di Fran: vorrà un figlio, e da quel giorno nulla per Bud funzionerà più come prima. E il pane? Sentendosi in dovere di portare qualcosa, in qualità di ospite, Fran dona alla coppia “una pagnotta del pane che faccio io”, ed è come se dentro quella pagnotta ci fosse tutto il disprezzo per quell’invito di cui avrebbe fatto a meno (eppure le cambierà la vita). Se non si legge questo racconto, o lo si legge senza farsi condizionare, regalare il pane resta un’idea notevole. Di fronte a un pane fatto da un “non professionista”, cioè da chi non è fornaio, la persona comune resta enormemente attonita. E’ la stessa reazione che ha Bud: “Se la girò e rigirò come se fosse la prima pagnotta che avesse mai visto”. Non si capisce bene perché, ma fare il pane da soli è ritenuto, ancor oggi, praticamente impossibile. Qualcosa di esoterico, misterioso, degno dell’adorazione più totale. E’ anche per questo che regalare un pane “proprio” è un’ottima idea: stupisce il destinatario e, al contempo, appaga l’ego del mittente. Il massimo. Ma è così difficile farsi il pane da soli? No, ma questo non va mai detto; di fronte alle domande insistenti sul “come hai fatto a farlo?”, occorre perpetuare il mistero, lasciare intendere che “non è stato facile, ma alla fine ce l’abbiamo fatta”. Mantenere un basso profilo, fingere umiltà, lasciar capire che forse un giorno anche il destinatario sarà “degno” di realizzare il pane da solo. Comportatevi sempre così. Avvicinarsi al pane è anche un modo perfetto per avvicinarsi all’arte culinaria globalmente intesa. Il pane, quando viene bene, è qualcosa che appaga profondamente il cuoco, lo fa sentire “quasi bravo”, lo induce a sperimentare nuove ricette. Come in tutte le cose, esistono anche qui delle scorciatoie. Esistono farine arricchite, specifiche per il pane; nella confezione, c’è anche una strana (ma efficacissima) mistura, com-
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UN REGALO D’ALTRI TEMPI OVVERO PIÙ ATTUALE DI QUELLO DELLA SIGNORA FRAN. IL PANE COME PORTA PRINCIPALE PER AVVICINARSI ALLA CULTURA CULINARIA, FACILE MA NON LO È
Pane
proprio prendente lievito secco, germe di grano macinato e pasta acida essiccata; è sufficiente seguire le istruzioni per arrivare a un pane degnissimo, decisamente competitivo. Bello, bravi, ma troppo facile. E’ un po’ come giocare sporco, non diverte. Meglio conoscere dall’interno il pane, le sue difficoltà e le sue incognite. Decisiva la scelta degli ingredienti, che sostanzialmente – a parte l’acqua e altri “arricchenti” (olio, miele, latte, burro, sale, zucchero, malto) – sono due: farina e lievito. Sembra facile, non lo è. La farina: quella industriale è troppo abburattata (ovvero crusca e cruschello, ricchi di sostanze, vengono separati dal resto della farina bianca per mezzo del buratto: la più purificata è la 00, la meno è la 2, in quella integrale si è salvato l’involucro esterno). Alle industrie conviene macinare con cilindri metallici, la cui velocità di rotazione è altissima: così si ottengono farine bianchissime, ma si perdono anche tutte le sostanze nutritive (il nucleo esterno, detto germe, e l’involucro esterno, detto crusca) e del chicco di frumento resta solo la parte centrale, l’endosperma, pressoché interamente amidacea. Molto meglio (anche se più costose) le farine
biologiche ottenute con la macinazione a pietra, più lenta e senza il rischio di surriscaldamento, che compromette le qualità lipido-vitaminiche. Per fare il pane è fondamentale il glutine, che si genera dall’unione delle proteine del cereale con l’acqua, e il glutine migliore è quello del frumento (grano). Di conseguenza, qualsiasi pane, anche quello che vi spacciano per “sola segale”, deve avere per forza una percentuale di frumento. Per i ciliaci, e non solo per loro, esiste il “grano dei faraoni”, il mitico Kamut; l’ha trovato quarant’anni fa una coppia del Montana, in Portogallo, pare provenisse da un ritrovamento archeologico in Egitto, era conservato dentro un’antica tomba egizia. Il kamut è proteico e meno allergenico, ma ha tre difetti: è caro, si trova difficilmente e si sbriciola. Anche sul lievito, la scelta più facile (e consigliabile all’inizio) è quella di usare i classici “panetti” reperibili in ogni supermercato, anche se quel suffisso “di birra” è ormai pleonastico, considerato che oggi il lievito si ottiene mediante la coltura di ceppi di microrganismi (saccaromyces cerevisae, funghi dello zucchero) in laboratorio. Un tempo si faceva dal mosto del vino o
della birra (da qui il nome), c’è chi lo fa ancora e in quel caso il lievito – più sano e meno “carnivoro”, il pane verrà con più “buchi” - si presenta in granuli ed è detto secco: va attivato con acqua tiepida, a 3739°, per quindici minuti. Lo zucchero incentiva l’attività lievitante, il sale la inibisce. Il massimo sarebbe fare il pane con il lievito naturale come le nostre nonne, cioè preparare un “ceppo” di pasta madre con farina e acqua e aspettare tre-quattro giorni (l’impasto lieviterà “da solo”, è così che i fenici scoprirono – per caso – il pane): fatelo solo quando siete sufficientemente abili e avete molto tempo libero. Sulla quantità dell’acqua, si capisce da soli quando è sufficiente, basta che la pastella lievitante sia compatta e non appiccicosa. La fase d’impasto è decisiva (e noiosa, se avete il Kitchen Aid siete salvi). Si dice che il pane venga solo nel forno a legna. Non è vero, viene meglio ma è molto più difficile, e poi in pochi hanno un forno a legna in casa, quindi: forno a gas (meglio) o elettrico (si fa lo stesso). Affidatevi a qualche buon libro di ricette e provate. Sbagliate, riprovate. Applauditevi. E regalate. Possibilmente, con più entusiasmo della signora Fran. ●
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Sua maestà l’uovo
nche il grasso va tagliato a piccoli dadi e messo da parte. Si taglia la polpa del tamarindo a pezzettini da tenere in ammollo in acqua calda. Cinque minuti dopo bisogna spremerli per liberarli dalle fibre e dal cuore del frutto. Si conserva il liquido. Pazienza, ho appena cominciato…” Pazienza, si tratta di preparare un sorpotel, un piatto che “traduce tutti i pregiudizi religiosi o civilizzatori” con cui si scontrano alcuni animali, compresa la mucca. Pazienza, perché questa curiosa fricassea va fatta raffreddare e poi riposare anche sei settimane in frigorifero. Un piatto da gustare pagina per pagina, abituandosi al sapore della nostalgia. Non ce ne saranno altri, dopo. L’autore, Manuel Vázquez Montalbán, è scomparso un anno fa sulla via di Bangkok. Millennio (Feltrinelli), il libro in cui compare la ricetta, è un po’ il suo testamento, il primo di due volumi “in sé compiuti”, recita il risvolto di copertina. Troviamo il detective buongustaio Pepe Carvalho sulla via di Kabul, sempre in compagnia del solito Biscuter. Fuggono da un’accusa di omicidio, e intanto ne approfittano per gustarsi paesaggio e cibo. Inseguiti da mafie, sette e servizi segreti, non faranno però soste tranquille. Abbastanza, comunque, perché ogni riga sia un continuo rimando politico e culturale, ironico e pungente. Non a caso, in quest’avventura lungo i confini tormentati di Israele, Libano, Turchia, Afghanistan, Pepe e Biscuter assumono la falsa identità dei celebri personaggi di Flaubert, Bouvard e Pécuchet. “A cosa ti fanno pensare le definizioni giustizia infinita o libertà duratura?”, chiede Pepe al suo assistente. “Due esagerazioni assolute, capo. – risponde Biscuter – Non so cosa stia capitando agli americani, se si pensa ai bei film che facevano, e ancora fanno, e a tutto quello che hanno inventato per la salute e a come operano i cuori a Houston e al tenore Carreras a Seattle…”. Ben altri punti forti made in Usa meriterebbero di essere menzionati. Prima di tutto, Sua Maestà l’Uovo, intorno a cui ruota la “cerimonia gastronomica del breakfast all’americana”. Una vera delizia (e una bomba al colesterolo) è l’Eggs Benedict, dal nome del signore per cui – si dice – le abbia create un vecchio cuoco italiano: servono uova, bacon molto fritto, olio, avocado e… un supplemento di fegato oppure di ginnastica. Consiglio e ricetta sono riportate nel libro di Stefania Aphel Barbini, Una casalinga a Hollywood (Guido Tommasi editore). Molte le pagine spassose, specie quelle che descrivono il menù di San Valentino. Il 14 febbraio, infatti, “gli americani ci vanno giù pesante” e tutto si trasforma in “cuoricino”. Splendori e miserie “dell’America che mangia”, raccontate con garbo e ironia dall’enogastronoma - una delle autrici di Rai-Sat Gambero Rosso Channel – che ha lavorato a lungo negli Stati Uniti: un paese – dice – che detesta moltissimo ma che altrettanto ama. Negli Stati uniti, però, oltre alla bomba colesterolica, si rischia anche quella Gm, l’alimentazione geneticamente modificata. L’inganno a tavola di Jeffrey M. Smith (Nuovi Mondi Media, prefazione di Vandana Shiva), insegna come smascherare “le bugie delle industrie e dei governi sulla sicurezza dei cibi geneticamente modificati”. Nei ristoranti Usa, per evitare cibi Gm, il volume consiglia di chiedere innanzitutto: che olio usate in cucina? Se, la risposta è: olio d’oliva mischiato a quello di colza, è consigliabile andare altrove, perché i semi di colza sono fra gli Ogm più
gettonati. Argomento principe usato dai sostenitori dei cibi Gm? Il bene comune, ovviamente. Con l’aiuto della genetica – dicono – si potrebbero nutrire gli 852 milioni di affamati indicati nel rapporto Fao 2004. Come se nel mondo mancassero le risorse, come se non fosse un problema di indirizzare le scelte agroalimentari in favore del bene comune e non del profitto, risponde il volume. Per non parlare, poi, della salute. L’esito di molti esperimenti compiuti sui topi – notoriamente capaci di adattamento – sembra tutt’altro che rassicurante. Ce n’è abbastanza, insomma, per declinare la “generosa” offerta di Monsanto e consimili e optare per le “ricette siciliane di ieri e di oggi” consigliate nel volume La cucina del sole di Eleonora Consoli (Dario Flaccovio Editore). Piatti di mare e di terra, semplici o elaborati: dai Fegatini al marsala, alla Pasta col sugo finto, col pomodoro asciutto o col cavolfiore fritto. “E’ in Sicilia che si trova la chiave di tutto”, diceva non a caso Goethe. Per chi fosse comunque alla ricerca di cibo… allucinogeno, il posto migliore è l’astronave di Ijon Tichy, protagonista del pirotecnico romanzo di Stanilslaw Lem, Memorie di un viaggiatore spaziale (Marcos y Marcos). Specialità consigliata… un pezzetto di manzo che, gettato fuori bordo, continua a girare intorno al razzo come un satellite artificiale. Ma nel corso dell’avventura, tra immortalati e microperpetuatori, potrete anche accompagnare l’eroe a cena dal Priore. Un pasto per così dire rustico: una gamba di tavolo in fricassea, “piuttosto fibrosa”. Come si avrà modo di scoprire, infatti, i “mobili della brughiera circostante, diventando selvatici, assumevano per lo più un aspetto carnoso”. Un pasto che vi predisporrà alle elevate dispute filosofiche e teologiche di cui abbonda questo gustoso romanzo, più psichedelico di un sogno da fungo peyote. Una volta a terra, si potrà invece
ritrovare il gusto di una piadina o di un cannolo sfogliando la guida di Flavia Amabile, Mangiare per strada (Airplane), il primo atlante del fast food all’italiana per un pasto “veloce ma goloso”: gastronomie, mercati, pasticcerie e l’elenco dei migliori produttori, dalla Sicilia al Ponente Ligure. Niente, però, potrà eguagliare il gusto della pölsa, una specialità di trippa e galantina, la cui formula segreta sa mandere in visibilio il più inveterato degli anoressici. La si trova nel romanzo dello svedese Torgny Lindgren, La ricetta perfetta (Iperborea). Una storia elegante e malinconica, costruita sul filo dell’ironia, che parla di verità note e verità impalpabili, di personaggi temibili o solo immaginati. Tutto prende avvio con la lettera di un caporedattore che accusa un collaboratore di aver inviato per anni notizie inventate. Ma è solo l’entrée di portate ancor più sostanziose… E per finire, un buon caffè o un tè. Il libro di casa Tutto sul caffè, a cura di Clelia d’Onofrio (Editoriale Domus), racconta in 365 giorni e altrettante ricette la storia del mitico chicco. La leggenda vuole che sia nato in Etiopia e si sia poi diffuso in tutto il mondo. L’agenda accompagna il suo percorso proponendo ogni sabato una ricetta al caffè. E poi, aneddoti, racconti, canzonette per mantenersi svegli per tutto il 2005. Oro verde di Alan e Iris MacFarlane (Laterza), è invece un viaggio antropologico alla riscoperta delle gustose foglioline che, dall’Himalaya, si sono poi diffuse in tutto il mondo. In Cina, i pani di tè erano usati come moneta per le transizioni commerciali fin dai tempi più antichi (i cinesi utilizzavano banconote molto prima che nascesse la cultura occidentale). Oggi, i pani sono ancora moneta corrente in alcune aree remote dell’Asia centrale. Un’idea da riprendere a metà mese, quando il peso della busta paga si sarà già ridotto a quello di una ● bustina di tè.
di Geraldina Colotti LA TAVOLA, LA CULTURA DELL’ALIMENTAZIONE, LO SNACK VISTI DALLE PAGINE DI MILLE E UN LIBRO. LETTURE DA DEGUSTARE E CONDIRE, RICORDANDO LE “ESAGERAZIONI ASSOLUTE” DI PEPE
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Comodità e qualità garantita dall’Azienda Agricola Boschi. Franco Timoteo Metelli ti aspetta anche il sabato e la domenica per una visita guidata alle sue cantine. Potrai gustare i nobili vini e i piatti tipici della cucina bresciana nell’Osteria del Bosco” graziosissima trattoria nella corte della sua cantina.
You can fry ‘um, you can boil ‘um, you can steam ‘um, you can broil ‘um, you can bake ‘um, you can stew ‘um, you can ‘Shrimp is the food of the sea - you can barbecue it, boil it, broil it, bake it, saute’ it. There is shrimp Kabobs, shrimp Creole, shrimp Gumbo... osì, e per altre 40 ricette, Bubba racconta a Forrest Gump la versatilità dei gamberetti (e ne inizia la fortuna). Grazie anche al film di Zemeckis (esistono ristoranti Bubba Gump Shrimp da Miami a Manila), i gamberi sono diventati il piatto di mare più consumato negli Stati Uniti: oltre 500 milioni di chili all’anno. Non sempre è stato così : “ Se si guarda alla storia del mangiare gamberi negli Usa, in origine era considerato un cibo da poveri – ci dice il professor Robert Lee Maril, direttore del Dipartimento di Sociologia della East Carolina University e autore di due libri sull’economia dei gamberi - Pensate alla cucina Cajun di New Orleans, che oggi è così di moda in America. Prima era la cucina dei poveri, fatta di quello che si poteva trovare in fossi e lagune, gamberi, granchi, altri pesci che venivano chiamati nel loro insieme “pesci spazzatura”, “pesci di scarto”. Ma in generale non si mangiava molto pesce o crostacei in America. Poi durante la Seconda Guerra Mondiale negli Usa c’è stata una carenza di carne, sostituita da pesci e gamberi. Lì è iniziata la fortuna dei gamberi, che venivano considerati un cibo di lusso perché i prezzi erano alti”. Oggi i gamberi sono anche diventati “global food” per eccellenza, oggetto di guerre commerciali, di spostamenti di lavoro e di investimenti, causa di emergenze ambientali e lavorative. Il 5 agosto scorso dal porto di Santa Margherita Ligure non sono partite le barche da pesca. 12 pescherecci a riva, i pescatori con le braccia incrociate. Era il primo sciopero italiano dei gamberi. I pescatori sammargheritesi (ai quali si sono uniti colleghi di Lavagna e Sestri Levante) protestavano contro le politiche commerciali dei grossisti di pesce, che avevano deciso di tagliare i prezzi di acquisto dei pregiati gamberi imperiali da 45 euro al chilo della primavera agli attuali 25 euro e lanciavano un allarme per la concorrenza delle “barche sulle ruote”, cioè i gamberi surgelati che arrivano al mercato in camion. Dall’altra parte del mondo, con un referendum approvato il 2 novembre scorso i cittadini dell’Alabama hanno per la prima volta nella storia inserito i gamberi in una carta costituzionale. La Costituzione dello Stato dell’Alabama ora prevede che la pesca dei gamberi sia promossa e protetta dalla concorrenza di altri paesi. Di guerre dei gamberi si è iniziato a parlare, già tanto tempo, fa nel cuore dell’industria della pesa americana, il Golfo del Messico. Qui storicamente i pescatori di gamberi si dividevano tra quelli che pescavano nelle baie e quelli d’altura. E quelli d’altura, come racconta Robert L.Maril, fin dagli anni ’40 (probabilmente in coincidenza con l’aumento di domanda di gamberi) hanno iniziato a sconfinare in Messico, a scontrarsi con i pescatori messicani e a corrompere la guardia costiera messicana. Negli anni ’70 la tensione si è spostata sui vietnamiti. Arrivati in massa dal Vietnam del Sud dopo la sconfitta ad opera del Vietnam del Nord, nella terra del loro alleato non
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hanno avuto una grande accoglienza. Quando i pescatori texani della baia di Galveston si sono impauriti per la concorrenza dei più affamati vietnamiti sono arrivati attacchi alle barche vietnamite, sotenuti dal Ku Klux Klan. Bruce Springsteen (in The Ghost of Tom Joad) ha raccontato una delle vicende più tragiche, quella di un pescatore di gamberi vietnamita di Seadrift (che nella canzone Galveston Bay diventa Seabrook) che uccide due texani per difendere la sua barca, viene assolto e rischia la vendetta degli altri bianchi. Ispirato alla vicenda è anche il film di Louis Malle, Alamo Bay. Ironicamente, la progressiva accettazione ed integrazione dei vietnamiti nella comunità di pescatori del Golfo del Messico avviene quando inizia la parabola discendente della pesca di gamberi, e sono adesso (tra gli altri) i vietnamiti del Vietnam a colpire e affondare i pescatori vietnamiti del Texas. All’orizzonte appaiono infatti ben più formidabili concorrenti, i gamberi di allevamento provenienti dai paesi in via di sviluppo. Diventata in pochi anni un’industria da
sui modi con cui vengono allevati e le conseguenze mediche, ecologiche e sociali degli allevamenti intensivi. E’ noto che l’acquacoltura (chiamata con enfasi, anche dalle organizzazioni internazionali, “la rivoluzione blu”) ha avuto grande sostegno ed è stata vista come un’alternativa alla pesca a strascico dei gamberi, una pratica altamente distruttiva dei fondali marini e di decine di specie di pesci che hanno la sfortuna di bazzicare i preziosi gamberetti. Il problema è che, come risulta da un recente e documentato rapporto della Environmental Justice Foundation (EJF), l’industria del gambero è stata ed è pochissimo regolata, ancor meno attenta alle conseguenze ambientali, spesso fonte di corruzione di autorità locali, di violenze sulle comunità che praticano coltivazioni tradizionali e che si oppongono allo “shrimping” indiscriminato, a volte di condizioni di lavoro subumane. Non è raro imbattersi in Tailandia in decine di stagni e laghetti abbandonati, pieni di fanghiglia puzzolente. Sono exallevamenti di gamberi. La Tailandia, che
Avanti
di Andrea Rocco DA PESCI SPAZZATURA A GLOBAL FOOD PER ECCELLENZA, IN NOME LORO SI COMBATTONO GUERRE CRUENTE, COMMERCIALI E NON SOLO ALCUNE FINITE PURE AL CINEMA
gamberi 50-60 miliardi di dollari, localizzata principalmente in Asia e America Latina (i principali produttori mondiali sono, nell’ordine, Tailandia, Cina, Indonesia, Vietnam, Bangladesh, India, seguiti da Ecuador, Messico e Brasile) l’acquacoltura ha conquistato un posto di rilievo sui mercati ricchi: circa un terzo dei gamberi consumati negli Usa e una percentuale simile in Europa, proviene dagli allevamenti. Sono così arrivate le reazioni della lobby dei pescatori Usa. Riuniti nella Southern Shrimp Alliance (di cui sono diventati curiosamente alleati anche gli ex-nemici, i pescatori messicani e i vietnamiti del Texas), i pescatori hanno fatto presente che il crollo dei prezzi dei gamberi locali (il valore del “raccolto” del 2002 è stato di 550 milioni di dollari, contro i 1250 del 2000), la perdita di quote di mercato e il “dumping” praticato a dir loro dai paesi asiatici minaccia “non solo un’industria, ma un modo di vita, centinaia di comunità della costa e centinaia di milioni di dollari di investimenti”, per non dire alcune decine di migliaia di voti solidamente repubblicani. E in questo anno elettorale, gli “shrimpers” sudisti hanno ottenuto quello che volevano: a luglio sono state imposte tariffe del 93% sui gamberi vietnamiti, e del 112% su quelli cinesi, del 68 % su quelli brasiliani e del 28% su quelli indiani. Tariffe inferiori sono state imposte sui gamberi tailandesi ed ecuadoriani. Immediata la reazione delle altre “lobbies”. Quella degli importatori, distributori e venditori di gamberi importati ha inondato i giornali con pubblicità che dicevano “Le tariffe sui gamberi vi faranno perdere l’appetito” e confrontavano il costo di un piattone di gamberi fritti prima ($10.99) e dopo ($15.99) l’imposizione delle tariffe. Ma a far perdere l’appetito per i gamberi dovrebbero essere anche le notizie
è passata in pochi anni da allevamenti estensivi al modello semi-intensivo e poi a quello intensivo, ha visto un declino della produzione, piagata da malattie e da declini di produttività. Per restare competitivo, il settore si è spostato sempre più a sud, distruggendo migliaia di ettari di mangrovie, impiegando manodopera immigrata (da Laos e Cambogia), abbandonando gli allevamenti non più profittevoli. Oggi il 70% degli stagni sono abbandonati, nel solo Golfo di Tailandia del nord ci sono 40.000 ettari di allevamenti non più attivi e il 90% degli allevatori in fallimento. Il Vietnam sta percorrendo la stessa strada, spinto dal governo che invita e incentiva i contadini coltivatori di riso a passare ai più redditizi gamberi (oggi la terza voce dell’export vietnamita). I gamberi vietnamiti sono stati inoltre oggetto di embargo da parte europea per l’alto contenuto di antibiotici. E per tutti i paesi produttori c’è allarme per la distruzione della foresta di mangrovie (solo in Tailandia si sono persi 65 mila ettari) e per i residui chimici dell’allevamento gettati in mare. E non sono le sole preoccupazioni. Molti degli oltre 2 milioni di immigranti illegali in Tailandia, soprattutto birmani e cambogiani, privi di qualsiasi diritto (persino di registrare i propri figli nel paese di origine) si occupano di gamberi, pesca, allevamento o trasformazione. In Ecuador, Edgar Mora, funzionario dell’organismo di controllo costiero di Machala è stato minacciato a mano armata dagli allevatori di gamberi. Ed è dello scorso settembre la notizia di un brutale attacco a sei pescatori e attivisti brasiliani da parte di vigilantes assunti da una grande società di acquacoltura a Curral Velho nello stato di Ceara. I pescatori sono stati rapiti, ammanettati e ● pestati dai vigilantes.
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Assessorato Agricoltura SeSIRCA
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LA CAMPANIA, TERRA DI OLI DOP
a Campania si colloca per quantità di olio prodotto al quarto posto tra le regioni italiane, con oltre 400.000 quintali l’anno, provenienti da 73.000 Ha di oliveto e 9 milioni di piante di olivo: ma al di là del freddo dato statistico, per avere un chiaro segno della spiccata vocazione di questa terra per la coltura dell’olivo, è sufficiente percorrere le aree olivetate delle cinque province. In alcune zone la vetustà degli esemplari di ulivo, veri patriarchi vegetali a volte millenari, ci racconta imperturbabile le storie dei Fenici e dei Greci, poi dei Romani, che dalla unica terra scelta come Felix di tutta quella che era stata la Magna Grecia, ricavavano l’oro liquido. Un prodotto che, per le accertate qualità salutistiche, rappresenta, oggi, il fulcro della Dieta mediterranea, che fu scoperta proprio qui, in Campania, tra gli olivi del Cilento, dal celebre nutrizionista Keys. Questa antica sapienza, la vocazionalità ambientale, unitamente alla capacità professionale degli addetti al settore, trova oggi la sua massima espressione negli oli extravergini a Denominazione di Origine Protetta della Campania. Oggi sono tre gli oli che hanno già ottenuto il riconoscimento dalla Comunità Europea: Cilento, Colline Salernitane e Penisola Sorrentina; ma ve ne sono altri 5 in attesa della ufficializzazione: Colline beneventane e Sannio Caudino Telesino, in provincia di Benevento, Colli dell’Ufita e Terre del Clanis, in Irpinia, Terre aurunche, in provincia di Caserta. La Campania, pertanto, oltre ai vini, ai formaggi (tra cui primeggia la mozzarella), ai limoni, al pomodoro San Marzano, ecc., ha nell’olio di oliva un ulteriore elemento di forza che si integra perfettamente nella prestigiosa tradizione alimentare e gastronomica, che ha reso la regione nota in tutto il mondo.
OLIO DOP DELLA CAMPANIA: ECCO LE AZIENDE CHE LO PRODUCONO COLLINE SALERNITANE
(ELENCO AZIENDE CON LOTTI CERTIFICATI NELLA CAMPAGNA 2003-2004)
VAL CALORE s.c.r.l. IL NIDO DI ALFANI LA COMUNITÀ s.c.r.l. MASTROPIETRO LA TORRETTA s.c.r.l. SO le C s.a.s. di Contaldo Giuseppina & C. AZ. AGR. LA PETROLLA di Zecca Giuseppe AZ. AGR. PETROSINO SABATO BIOITALIA DISTRIBUZIONE s.r.l. DE LUNA GENNARO DI GIACOMO LORENZO AGRIOIL s.p.a. ORO DEL SELE AZ. AGR. FALCONE SETTIMIA NAIMOLI ANTONIO AZ. AGR. OLIVICOLA MAGLIO ANGELO RAFFAELE
via Donato Riccio 30 via Montevetrano 2 Loc. Varano via S. Sebastiano via Serroni Alto 24 c.da Cannito, 14 Lungotevere dei mellini, 44 Località Casarsa Località Isca del Mulino via Torre Fraz. Serradarce via Marzo c.da Cerreto via Nazionale 143 loc. Serradarce C.da Bosco Loc. Varano via Romandola, 8
Castel S. Lorenzo San Cipriano Picentino Campagna Controne Battipaglia Capaccio Roma Eboli Buccino Campagna Serre Roscigno Campagna Valva Campagna Campagna
SA SA SA SA SA SA RM SA SA SA SA SA SA SA SA SA
0828 944035 089 882343 0828 49740 0828 772066 0828 672615 0828 880171 06 3219608 0828 651006 0828 957434 0828 240091 0828 974747 0828 963086 0828 49705 0828 796800 0828 49041 0828 46071
SORRENTOLIO s.r.l. ALMAMATER BIO AZ. AGR. RUSSO SOLAGRI LA VILLANELLA p.s.coop. "LE TORE" AGRICOLA LUBRENSE s.a.s.
Via Nastro D'Argento 9 via T. Astarita, 32 via Piazza Montechiaro , 18 via S. Martino 8 via Partenope, 41 via Pontone, 43
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081 081 081 081 081
8072300 8088954 8028404 8772901 8075651
TORRE CANGIANI di Aldo Nunziata ERREZETAUNO s.r.l. TENUTA MONTECORBO p.s.c. a r.l. GALANO SALVATORE FRANTOIO FERRARO DI CARMELA INDOVINO s.a.s. Cooperativa Agricola "LE COLLINE DI SORRENTO" OLEARIA MASSESE s.n.c.
via via via via via
Sant'Agnello Meta di Sorrento Vico Equense Sant'Agnello Massa Lubrense Massa Lubrense, fraz. Sant'Agata sui due golfi Massa Lubrense Napoli Massa Lubrense Sorrento Vico Equense
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081 081 081 081 081 081
8080637 5339849 7646876 544548 8072591 8028039
via Casarlano, 10/B Rotonda Schiazzano
Sorrento Massa Lubrense
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081 8773793 081 8089242
NUOVO CILENTO SEVERINI PIETRO PALLADINO ALFONSO SERRA MARINA s.r.l.
loc. Ortale via G. Marconi, 55 via Bellavista fraz. Acciaroli C.da Archi
San Mauro Cilento Cava dei Tirreni Pollica Laureana Cilento
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0974 903239 089 467065 0974 904009 0974 832573
PENISOLA SORRENTINA
CILENTO
Vigliano, 1/A Chiatamone, 53/c Montecorbo, 90 Palomba, 3 G.B. della Porta, 21
Cosa significa DOP? Significa Denominazione di Origine Protetta. È un marchio istituito dalla Comunità Europea che garantisce, mediante rigorosi controlli, la provenienza, la genuinità, la tipicità, l’elevata qualità fisico-chimica ed organolettica dell’olio. Esso, infatti, è attribuito dalla Comunità solo agli oli di pregio prodotti in zone fortemente vocate alla coltivazione dell’olivo, da cui prendono il nome e traggono le loro caratteristiche di pregio. Quindi il marchio DOP garantisce al consumatore una scelta immediata e sicura. La produzione degli oli DOP è normata dai Disciplinari di Produzione, che sono dei veri e propri regolamenti cui tutti gli utilizzatori della DOP devono attenersi. A garanzia del consumatore l’intera filiera produttiva è sottoposta al controllo di un organismo terzo, cioè indipendente dal mondo della produzione, autorizzato dal Ministero.
Anche nel 2005 si terrà a Sorrento il Premio Sirena d’oro di Sorrento, l’unico concorso nazionale riservato ai soli oli DOP. Il Premio, riconosciuto dal Ministero ed organizzato dalla Regione Campania e dal Comune di Sorrento, è divenuto uno dei più importanti concorsi del settore. Infatti vede la partecipazione di centinaia di aziende in rappresentanza dei 30 oli DOP italiani. Ma il Premio rappresenta solo un momento, anche se il più prestigioso, di una serie di eventi (corsi e giornate di assaggio, laboratori del giusto, convegni, tavole rotonde, i ristoranti dell’olio, ecc.) che accompagneranno gli interessati alla scoperta dell’olio extravergine di oliva DOP e delle ricchezze alimentari delle aree a vocazione olivicola della Campania.
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SCRITTO&MANGIATO
a vigilia di Natale si mangia pesce. Per devozione, è la cosiddetta cena “di magro”. Forse all’origine della vigilia, che fosse un qualunque venerdì o il giorno che precede particolari festività religiose, c’erano motivazioni serie, profonde. Forse. Di sicuro si può dire che nel corso del tempo, il fatto di far penitenza mangiando di tutto e in abbondanza, eccezion fatta per la carne, si è trasformato in un imbroglio clamoroso. Un’ipocrisia, tipica della cultura cattolica - ma non solo cattolica: anche gli ebrei non scherzano e lo scopriremo più avanti. Basti pensare al menù tipico per esempio nella mia regione, le Marche, la sera del 24 dicembre. Antipastini di mare, a seconda dei redditi: si va dai semplici crostini con burro e acciughe o aringa affumicata (questo era alle origini) a quanto di meglio oggi si possa chiedere a crostacei, frutti di mare e pesce azzurro. Come primo piatto, pasta con sugo di tonno e pomodoro ma, anche in questo caso, l’evoluzione del gusto, del “benessere” e del concetto di penitenza hanno portato all’introduzione dell’ormai classico spaghetto allo scoglio con dentro ogni bel di Dio (per sostenere l’attesa trepidante della di Lui nascita). Ed eccoci al secondo: frittura mista “di magro” che prevede obbligatoriamente una gran quantità di verdure, dai carciofi ai cardi, dagli zucchini alle melanzane e una altrettanto copiosa qualità di pesci, per la tradizione obbligatori i filetti di baccalà, a cui via via si sono aggiunte nuove specie, gamberi e calamari, spatola, acquadelle e quant’altro. In che consiste la penitenza? Nel fatto che per friggere si usa solo farina, oppure una pastella di farina e acqua (o latte). Niente uovo, oltre che niente carne. Vi par poco? Se non altro, la prescrizione cattolica che proibisce (anzi proibiva, oggi il rispetto del precetto introdotto il 4 dicembre del 1563 in un documento approvato l’ultimo giorno del Concilio di Trento, è facoltativo) di mangiar carne il venerdì ha favorito l’irruzione del pesce nelle tavole anche di famiglie non benestanti, quando fino a non molti decenni fa si faceva poco uso dei prodotti del mare, persino tra le popolazioni rivierasche. I primi a rispettare e a diffondere con impegno questa tradizione della vigilia, o devozione, o penitenza che dir si voglia, sono i pescatori marchigiani. Con un’eccezione, di cui si narrava tempo fa nelle trattorie dei porti della regione, da Ancona a San Benedetto del Tronto, da Fano a Porto Recanati. Tra la fine degli anni Cinquanta e i primi Sessanta, la pesca stava già diventando poco remunerativa per la semplice ragione che veniva fatta in maniera troppo intensiva, con reti troppo fini, con il sistema dello strascico. Cosicché, non pochi pescatori avevano preso la pessima abitudine di sconfinare e andare a buttare le reti nelle generose acque jugoslave, in particolare nella dirimpettaia Dalmazia. Va detto che a quel tempo, dalle parti di Ancona c’era un certo feeling con la Jugoslavia di Tito: c’era un buon rapporto tra le due popolazioni, addirittura più di dieci scuole di lingua serbocroata; subito dopo la seconda guerra mondiale, il 1º Maggio veniva organizzata una nave che portava un bel po’ di marchigiani a festeggiare il giorno dei lavoratori a Zara, con Tito e le compagne cuoche titine, nonostante i “Magnacucchi” fossero già sull’orlo dell’espulsione dal Pci. Comunque, qualsiasi cosa si pensasse di Tito, di una cosa almeno nessuno dubitava: sapeva proteggere il patrimonio ittico del mare jugoslavo che aveva suddiviso come in una scacchiera immaginaria e ogni anno in alcuni quadrati veniva imposto il fermo pesca. Si capisce, dunque, come mai i corsari marchigiani sconfinassero con le loro barche e le loro reti. Qualcuno ogni tanto veniva preso dai guardacoste di Tito e pagava per tutti ma si sa, l’occasione fa l’uomo ladro e quell’abitudine non è sopravvissuta a Tito e alla Jugoslavia. Ora, pare che uno di questi corsari fosse così spregiudicato da essere chiamato “il pescatore di pecore”. Arrivava così vicino alla costa jugoslava da riuscire, tra una triglia e un’orata prese nelle maglie della rete, a sparare alle pecore che pascolavano in riva al mare e a portarsela a casa. Leggende marinare? Pare di no, al punto che per convincere gli scettici quel bandito invitò a cena - era la vigilia di Natale - un bel po’ di amici e servì in tavola non i piatti tipici della sera del 24 dicembre di cui sopra, bensì la pecora in tutte le salse. Che l’animale fosse veramente jugoslavo era testimoniato dal fatto che parlava soltanto serbo-croato. Così, per una volta fu violata la prescrizione deliberata al Concilio di Trento. Chi si diverte a smontare le leggende marinare, naturalmente nega tutto. Magari adducendo motivazioni pretestuose: si sa che la gente di mare racconta fanfaluche e in più si sa che l’anarchia e l’anticlericalismo hanno lasciato segni profondi tra le Marche e la Romagna. Forse quel pescatore ha offerto pecora a tutti proprio per infrangere le leggi sacre della vigilia, e per rendersi credibile, precedentemente aveva insegnato alla povera bestia il serbo-croato.
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Mangiaprecetti
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Verdi
virtù di Loris Campetti STORIE, IPOCRISIE E MENÙ DELLE RELIGIONI. DAL CONCILIO DI TRENTO ALL’UNGHIA “FESSA” PASSANDO PER IL PESCATORE DI PECORE E IL CUSCINO D’ACQUA DELL’EBREO ORTODOSSO L’ipocrisia, dicevamo, non è un’esclusiva cattolica. Siccome “è scritto” che gli ebrei il sabato non devono lavorare e neanche accendere il fuoco e viaggiare (con l’esclusione di chi va per mare), e siccome per andare in automobile bisogna accendere il motore (il fuoco), ecco che degli ortodossi sui generis si sono inventati un cuscinetto tipo salvagente pieno d’acqua, meglio se di mare, che appoggiano sul sedile. Dell’automobile, così si può accendere il motore senza infrangere il precetto ma anche dell’autobus nel caso un ortodosso-ortodosso reputi impuro anche viaggiare su un mezzo che qualcun altro ha acceso. Con il cuscinetto d’acqua tutto è risolto e anche il precetto è rispettato. Ma tornando al cibo, è noto che agli ebrei (come ai musulmani, ecc.) è vietato mangiare carne di maiale e di tutti gli animali di terra non ruminanti le cui unghie “fesse”, cioè il cui zoccolo non tagliato, raspano il terreno. Oltre al maiale, dunque, anche la carne di cammello è impura ma pazienza, non sono molti i mangiatori di cammelli. Il maiale, dunque: è vietato mangiarlo e, in particolare in Israele, allevarlo. Così in un kibbutz, non si sa se di estrema sinistra o di ortodossi creativi, hanno deciso di costruire dei palchetti di legno sopra i quali allevare i suini. Suini che non possono raspare con le loro unghie fesse il terreno, il precetto è rispettato e il porco - dunque il prosciutto o il capocollo - purificato. Paese che vai ipocrisia che trovi. L’importante è rispettare i precetti e santificare le feste, facendo attenzione ai menù. ●
econdo Miriam Mafai, “nello Zambia centinaia di migliaia di persone rischiano di morire di fame, mentre i depositi locali del Pam (Programma alimentare mondiale) sono pieni di migliaia di tonnellate di mais che non può essere distribuito per l’opposizione dello stesso presidente dello Zambia, che lo ha definito ‘poisoned food’, perché geneticamente modificato”. Per la giornalista casi come questo “testimoniano della difficoltà di affrontare in modo razionale il problema della fame nel mondo e della dissennatezza di molti dei gruppi dirigenti di quegli infelici paesi”. La cosa curiosa è che queste righe vengano scritte a recensione di un libro (Jean Ziegler, “Dalla parte dei deboli”. Marco Troppa editore) che evidentemente non è stato capito o forse letto troppo di fretta. L’autore infatti, relatore speciale dell’Onu per il diritto all’alimentazione, spiega con chiarezza fin da pagina 23 perché fosse giusta la decisione dello Zambia: “Dietro l’operazione umanitaria condotta attraverso la fornitura di mais geneticamente modificato vi era la volontà della multinazionale Monsanto di penetrare nel mercato dello Zambia. Di fatto i contadini dello Zambia prelevano dagli aiuti umanitari la parte di mais che sarà utilizzata per la semina successiva … Ma le sementi
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geneticamente modificate sono protette da un brevetto mondiale detenuto dal trust Monsanto. I contadini dello Zambia, poveri come Giobbe, sarebbero stati strangolati dalle tasse che la multinazionale avrebbe avuto il diritto di esigere ogni anno … Il rifiuto opposto dal presidente dello Zambia ha quindi evitato una catastrofe finanziaria per i contadini”. Oltre a tutto, dato che nelle buone annate lo Zambia esporta in Europa e il mercato europeo non è particolarmente recettivo verso i cibi Ogm, ci sarebbe stato un danno ulteriore. A questo si aggiunge un altro difetto - che gli Ogm accentuano ma che è vero anche per le altre forme di intervento umanitario in questi paesi: la spinta verso le monoculture agricole, il cui effetto prevalente è di solito di impoverire le popolazioni locali, di arricchire solo le grandi imprese e comunque di mettere a rischio l’economia di interi paesi: avere spinto Costa d’Avorio e Ghana verso il tutto cacao o il Vietnam verso il troppo caffé, ha esposto questi paesi a micidiali oscillazioni di prezzi e a totale dipendenza da mercati che non controllano. Per capirlo meglio ci si sposti nel Kalimantan (un tempo chiamato Borneo). Qui i Kantu’ continuano ostinatamente a stare lontani dal “nostro” progresso: si sono opposti,
anche con un certo risultato, alle concessioni dei loro territori alle aziende del legno, decise dal governo indonesiano, e non hanno mai dato credito alla rivoluzione verde che proponeva loro di adottare il riso ad alta resa. Usano invece varietà locali, adatte a terreni secchi: ne hanno ben 44 varietà, “parenti” ma diverse. Ogni famiglia delle grandi e lunghe case villaggio ne usa in media 17, in due o tre differenti appezzamenti e la regola della comunità dice che i campi di una stessa famiglia non devono essere visibili l’uno dall’altro. Perché mai questa stranezza? Per un motivo molto semplice, ora codificato in regole: perché in tal modo ognuno dei campi si trova in un microambiente un po’ diverso e questo, insieme alla varietà delle pianticelle, assicura che mai, in nessuna stagione, tutto il raccolto vada perso per avverse condizioni climatiche. Detta in altri termini: la cultura di questa popolazione ha fatto della diversità una virtù e anzi una sorta di assicurazione sulla v ita. Esattamente l’opposto delle monoculture. Ma non è finita: i Kantu’ attorno alle case ci sono anche delle piccole piantagioni di caucciù, a suo tempo arrivate dal Brasile e lasciate libere, così che in queste si sviluppano anche altre piante non coltivate, come un tipo di bambù edibile; la ricca miscela di queste piante attrae animali selvatici tra cui un tipo di maiale particolarmente apprezzato come fonte di proteine. Il tutto all’interno di una cultura animistica, dove sette specie di uccelli della foresta sono gli intermediari con le divinità e perciò la loro caccia è proibita. Di fronte a una tale ricchezza di natura e cultura (e quello dei Kantu’ è solo uno dei molti casi citabili), mostra tutta la sua debolezza l’idea tipicamente occidentale, di aiuto e di risarcimento, anche quando volonterosa e politicamente corretta. Dalla Conferenza di Rio in poi il nord del mondo ha preso coscienza che la maggiore ricchezza naturale (la biodiversità) si addensa nei paesi più poveri e dunque ci si è posti il problema di avere con loro un rapporto equo, per esempio stipulando degli accordi monetari con i loro governi: investimenti o prestiti in cambio di libertà di ricerca e di incursione nel loro patrimonio vegetale. Quando poi ci si è resi conto che i governi spesso erano corrotti e che i risarcimenti non arrivavano a coloro che avevano custo-
di Franco Carlini LA CULTURA DELLA DIVERSITÀ CONTRO LE MONOCOLTURE, GLI INTERVENTI OCCIDENTALI DALLO ZAMBIA ALL’ANTICO BORNEO, L’IMPORTANZA DI LAVORARE “PER” LE COMUNITÀ E NON “SULLE” COMUNITÀ
dito i semi per millenni, si è cercato di stabilire degli accordi e nei casi migliori dei partenariati con le singole comunità locali. Ma basta assicurare a una tribù la distribuzione dei profitti che eventualmente deriveranno dalla trasformazione in farmaci? Forse no, pensano gli studiosi più avvertiti: no perché non sono soltanto i semi e i geni che fanno la ricchezza, ma l’insieme della cultura e dei saperi, e dei riti, che quei popoli hanno creato nel tempo. Non ci sono dunque soltanto delle pianticelle da salvare per gli orti botanici o da conservare nelle banche del germoplasma; la ricchezza è insieme naturale e culturale. In questo le comunità nord americane, specialmente del Canada, hanno ottenuto risultati e riconoscimenti sostanziosi, anche con operazioni “di chiusura”. Per esempio sono riuscite in alcuni casi a impedire che un disegno o un motivo ornamentale finisse sulle tazze da caffè, o che loro personaggi e suoni e nomi diventassero dei brand o delle mascotte per le industrie. Come ha scritto Thomas Graeaves, antropologo della Bucknell university in Pennsylvania, è finito il tempo degli etnografi che arrivano nelle comunità non invitati, come entomologi: “Coloro che conducono dei lavori sul campo nelle comunità indigene dovranno lavorare per le comunità e non sulle comunità”. ●
Accadì, digeribile che è un piacere.
Accadì è un piacere unico per tutti, soprattutto per chi non digerisce il latte. Grazie al suo gusto ricco e al basso contenuto di lattosio, Accadì è il latte naturalmente buono e leggero da digerire. Con Accadì l’Alta Digeribilità ha più gusto.
LA GRANDE PASSIONE PER L’ALTA QUALITÀ.