scritto e mangiato giugno 2005

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Supplemento al numero odierno de il manifesto

in collaborazione con Slow Food

La complicitĂ necessaria tra consumatore e produttore. Come alimentarsi riscoprendo la filosofia del buono e salvaguardando la crescita delle piccole produzioni

Mi ti mangio GIUGNO 2005


Il vino contiene in sé un enorme patrimonio culturale, fatto di tecniche colturali, di vitigni antichi e autoctoni, di attente vinificazioni e di secolari tradizioni enogastronomiche, che non deve andare perduto, in quanto rappresenta una delle più cospicue ricchezze dell’agricoltura della provincia di Roma. La vite e il vino sono elementi inscindibili della tradizione, della storia, della gastronomia e del paesaggio di questo territorio, una campagna unica, tra mare, colline e vulcani spenti, con un terreno ricco di elementi nutritivi, particolarmente vocato alla coltivazione della vite. L’80% del vino laziale, circa 1.800 ettolitri, si produce nella provincia di Roma che conta 21.000 aziende ed una superficie complessiva di 18.600 ettari vitati. Tredici sono i vini a denominazione di origine controllata: Bianco Capena, Castelli Romani, Cerveteri, Cesanese di Olevano Romano, Cesanese di Affile, Colli Albani, Colli Lanuvini, Frascati, Genazzano, Marino, Montecompatri-Colonna, Zagarolo e, di recente istituzione, Nettuno. Garantire ed elevare il livello di qualità di questi vini è uno degli obiettivi che produttori ed istituzioni perseguono da anni con successo, ma non basta. Occorre maggiore diffusione e consumo nei ristoranti di Roma e della sua provincia, occorrono attività di promozione e marketing mirate, che valorizzino una produzione che non ha più nulla a che vedere con l’appellativo di “vino della casa”, che ancora oggi viene dato in numerosi ristoranti ai vini “romani”, dimenticando che vi sono sul mercato centinaia di vini della provincia di ottima qualità, se non di eccellenza. Per questi motivi la Provincia di Roma - in particolare gli Assessorati allo Sviluppo Economico e alle Politiche dell’Agricoltura – sono impegnati in una serie di attività finalizzate alla promozione ed alla valorizzazione non solo dei vini “romani”, ma di tutti i prodotti tipici del territorio. In quest’ottica rientra la serie di iniziative realizzate con l’Associazione Nazionale Città del Vino, la cui attività consiste proprio nel valorizzare le produzioni vinicole italiane, sottolineando lo stretto rapporto tra vino e territorio. Tra queste iniziative lo Stage Recevin, rete europea delle Città del Vino, destinato a giovani viticoltori europei, svoltosi quest’anno a Roma e nella sua provincia dal 2 al 6 maggio, la presentazione del IV Rapporto sul Turismo del Vino redatto a cura dell’Osservatorio sul turismo del vino ideato dalle Città del Vino e realizzato dal Censis Servizi e il concorso “Selezione del Sindaco”, finalizzato alla valorizzazione di piccole partite di vino, le cui sessioni di degustazione si sono tenute a Roma nei giorni 14 e 15 maggio e che ha consentito ai commissari internazionali di

www.provincia.roma.it

GORIAL

visitare la zona del Cerveteri Doc, un vino dalla storia millenaria, giacché la sua produzione risale all’epoca degli Etruschi. L’alleanza tra la Provincia di Roma e Città del Vino si esplica anche in una serie di altre iniziative, tra le quali la seconda edizione della Wine Tour Cup di golf, torneo per dilettanti che coinvolge i campi da golf situati nei pressi delle città del vino, durante il quale alle gare si alternano momenti di incontro con i prodotti tipici del territorio e i loro produttori. Altrettanto importante è il progetto di ricerca “Vinum” che coinvolge alcuni siti archeologici della provincia di Roma, nell’area del Comune di Tolfa, ed ha l’obiettivo di risalire al menoma della vite silvestre mediante l’intreccio di studi botanici e archeologici che vedono coinvolte le Università degli Studi di Siena e Milano. Un’occasione per promuovere oltre i vini gli altri prodotti tipici del territorio provinciale sarà anche la manifestazione PROVINCIARTIGIANA, prima mostra-mercato dell’artigianato artistico della provincia di Roma, che si terrà presso la Città del Gusto de Il Gambero Rosso dal 30 giugno al 2 luglio prossimo. Le degustazioni di vini in abbinamento con formaggi caserecci, di ricotta, cioccolata e distillati ed infine di gelato prodotto secondo la tradizione dei gelatai artigianali della provincia di Roma faranno da gustoso corollario ad una mostra dedicata agli artigiani artistici. Nella provincia di Roma ve ne sono circa 4000, per lo più piccole imprese a livello familiare, che sanno coniugare antiche tradizioni tramandate di padre in figlio con la creatività personale e il gusto per l’innovazione, così da dare vita a prodotti originali legati tuttavia alla cultura del territorio. Vi esporranno gli artigiani che hanno ottenuto di recente il marchio della Provincia di Roma AAMM, nato nell’ambito del progetto “Artigianato artistico per il merchandising museale”, finalizzato a rilanciare la produzione artigianale artistica della provincia mediante la commercializzazione nei punti vendita dei musei. Partendo da questa sua funzione originaria, il marchio ha assunto un più vasto carattere distintivo teso a garantire “l’artigianalità” e la provenienza territoriale dei prodotti creati dagli artigiani artistici della provincia di Roma. Si potranno quindi vedere ed acquistare prodotti artigianali in legno e cuoio, ceramica, vetro e metalli, in particolare ferro e rame, lavori realizzati da orafi e sarti, ma anche opere in travertino e peperino, che nell’antichità hanno reso famosi i marmorari romani anche oltre i confini laziali. Consapevole della necessità di sostenere e promuovere il mondo dell’artigianato, non solo per non vedere scomparire definitivamente arti e mestieri che per secoli hanno costituito una voce importante nell’economia di Roma e della sua provincia, ma anche per il suo ruolo culturale e turistico, dal momento che proprio la presenza delle botteghe artigiane consente di mantenere viva l’autentica fisionomia di un centro storico, l’Assessorato alle Attività Produttive della Provincia di Roma ha deciso di organizzare questa mostra, che vuole configurarsi come un appuntamento annuale da non perdere. E al fine di creare un contatto più diretto con il pubblico saranno organizzate anche dimostrazioni dal vivo della lavorazione di alcuni prodotti artigianali.


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in collaborazione con Slow Food

Direttore responsabile Sandro Medici Direttore Mariuccia Ciotta Gabriele Polo Supplemento a cura di Francesco Paternò Grafica Daria Sorrentino Illustrazione di copertina Laura Federici Le immagini che illustrano il numero sono tratte dal catalogo Roma. L'area OstienseTestaccio, Un patrimonio urbano tra memoria e progetti, Edizione Croma, Università Roma Tre/ Edimond Pubblicità concessionaria esclusiva Poster srl tel. 06/68896911 fax 06/68308332 Stampa Sigraf srl Via Vailate, 14 Calvenzano (Bg)

Complicità può suonare male, ma questa è l’ultima ricetta che piccola produzione che è poi la missione dei Presidi di Slow ci propongono i nostri amici di Slow Food con cui insieme Food, un movimento cui aderiscono già oltre duemila soggetti. abbiamo cucinato questo supplemento trimestrale. Complici di Certo che fare tutto da soli, cioè fare i complici, è un po’ difficiche? E di chi? Provate a pensarvi in un supermercato, o dal dro- le. Per questo è bene che ci siano degli interventi di salvaguardia ghiere all’angolo (se ancora esiste, non spazzato via dalla gran- e di valorizzazione che coinvolgano anche le istituzioni. Sia de distribuzione) o al mercato. Interno giorno per una spesa nazionali che quelle della Unione europea, fin giù ad arrivare che contemplerà vari prodotti, scelti in base a: 1) al prezzo? 2) al per esempio alle scuole con le loro mense e le loro scelte per i palato? 3) o altro? I nostri cuochi prefenostri figli. Tant’è che i racconti riti suggeriscono che, per scegliere al offerti da questo supplemento parlameglio, dovremmo avere tutti un po’ no di cucine di casa nostra come di FRANCESCO PATERNÒ più di strumenti e puntare appunto a storie lontane, dai Sami del nord una complicità con il produttore. Una Europa ai fortunati studenti di una sorta di terza via alimentare che garantisca un rapporto diverso scuola di New York, lontana mille miglia dai fast food del vectra ciò che viene coltivato e ciò che arriva sulle nostre tavole. chio Mac. Poi ci sono storie che sollevano dubbi e discussioni Un controllo più diretto, che scavalchi magari l’etichetta (lì viste addirittura dall’interno della americanissima catena Waldove esiste e sia pure veritiera), per affrontare quell’agricoltura Mart - e altre che sfidano la gigantesca caccia al tonno di cui i diventata un’attività industriale, “svincolata - come scrive per giapponesi sono temibili maestri - oltre che voraci consumatori esempio Piero Sardo da Bra - dalle necessità reali di chi ‘man- del tipo. Infine, una manciata di libri che non guasta mai, gia’”. Insomma, una ricerca che abbia il sapore di una riscoper- gustosi fin dal modo in cui vengono raccontati, e un’avvertenta, sia essa personale, sia essa una difesa del territorio e della za: leggeteci anche a digiuno.

I complici

Chiuso in redazione il 17/6/2005

4 La terza via alimentare di Piero Sardo • La difesa dei saperi di Raffaella Ponzio 6 La ragnatela in cucina di Alessandro Monchiero • Cibo studiato di Anne Cooper 9 Il giardino mio di George DeVault 11 Terre del nord di Anya Fernald 15 Gusti di Dakar di Ugo Vallauri 16 Viva l’etichetta di Franco Carlini 20 Tonni ranch di Maria Tarantino • Violare le norme 22 La parola indigesta di Geraldina Colotti • Per fiction


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La terza via alimentare è qualcuno tra gli addetti ai lavori (chef, artigiano, giornalista, gastronomo) convinto che una polpetta semicotta di carne macinata stipata in un panino stopposo e insipido possa essere preferita a due fette di pane casereccio imbottite di un buon prosciutto crudo? Non credo, a meno che qualcuno non voglia esercitare un esercizio di supremo snobismo. Eppure le preferenze di moltissimi consumatori, soprattutto giovani, vanno decisamente verso l’hamburger. Possiamo giustificare in modo sofisticato questa scelta: il Mac panino è facile, è economico, è supportato da massicci investimenti pubblicitari, è coinvolgente, è simbolico… Ma alla fine viene sempre da chiedersi come possa vincere anche sul versante del gusto. Perché – e qui sta il nodo del problema – molti, troppi, dichiarano tranquillamente di sceglierlo perché è buono. Non perché è facile, coinvolgente, simbolico ecc., perché piace di più della cotoletta alla milanese, di pomodoro e mozzarella o di pane e prosciutto crudo. Che cosa è successo allora in questo paese da vent’anni a questa parte perché mutassero in modo così radicale abitudini alimentari consolidate e antiche? È successo, come scrive Hanna Arendt, “che il filo della tradizione si è spezzato, noi dobbiamo scoprire il passato da soli”. Si è interrotto quel legame con la nostra storia alimentare che passava attraverso nonni, zie nubili, patriarchi. Ora che quelle figure sono state espulse dal nucleo famigliare e che i genitori non trovano più tempo da dedicare all’educazione alimentare, alla storia materiale, si è creata una cesura forte con le generazioni precedenti. Sono cose abbastanza ovvie, eppure non sono state ancora valutate appieno le conseguenze che questa mutazione culturale induce nel campo del cibo e dell’agricoltura: cibo e agricoltura, che sempre sono state legate in un connubio benefico (mangiare è il primo atto agricolo!), anche se in modo inconsapevole. Oggi dunque quel legame si è dissolto. L’agricoltura è diventata un’attività industriale, svincolata dalle necessità reali di chi “mangia”, e il consumatore si è trovato a esercitare le sue scelte

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di Piero Sardo* QUEL LEGAME DISSOLTO TRA CIBO E AGRICOLTURA, CON IL CONSUMATORE CHE SCEGLIE SENZA PIÙ STRUMENTI ADEGUATI. E SENZA STORIA

Difesa dei saperi Presìdi Slow Food sono oggi 265. Presenti in tutto il mondo, coinvolgono oltre 2000 piccoli produttori: casari della Valtellina e norcini della Garfagnana, risicoltori pakistani e pastori dei monti Tatra in Polonia, coltivatori di pistacchi dell’Etna e carcioficoltori della isole della laguna di Venezia, cafetaleros del Guatemala e raccoglitori di noci amazzoniche in Bolivia. Che cosa li accomuna? Sono piccoli artigiani o agricoltori e sono i custodi di antiche varietà di frutta e di verdura, come i coltivatori delle vecchie varietà di mele piemontesi della val Pellice e gli ortolani di Pardailhan in Francia, sono gli ultimi pescatori di salmone selvatico in Irlanda, oppure i fedeli allevatori del maiale di Mangalica della puszta ungherese. Sono i possessori di saperi e tecniche produttive, di ricette e rituali che tramandano di padre in figlio, come i malgari del Bitto in val Gerola, o i nativi nordamericani della tribù degli Anishinaabeg che raccolgono il riso selvatico in alcuni laghi del Minnesota. Sono i custodi della biodiversità alimentare del nostro pianeta e le loro produzioni sono a rischio di estin-

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di Raffaella Ponzio* I PRESIDI SLOW FOOD, UN MOVIMENTO CHE COINVOLGE OLTRE DUEMILA PICCOLI PRODUTTORI IN TUTTO IL MONDO

zione. Slow Food li trovati e li ha riuniti in Presìdi, piccoli gruppi che si propongono uniti sul mercato accomunati da un disciplinare di produzione severo. Li ha portati alle sue manifestazioni per farli conoscere, li ha raccontati e, due anni fa, ha costituito la Fondazione Slow Food per la Biodiversità Onlus con la Regione Toscana per sostenere questi progetti in tutto il mondo. I bisogni sono simili: la necessità di

ricavare un reddito equo dal proprio lavoro mantenendo in vita tradizioni produttive, magari diseconomiche e inadeguate per la competizione sul mercato ma ecosostenibili e di alta qualità, e la necessità di conservare dimensioni produttive ridotte, capaci di garantire il rispetto dell’artigianalità e dell’autenticità. A cinque anni dall’avvio dei Presìdi in Italia quello che si sta proponendo come un vero e proprio movimento ha fatto un ulteriore passo in avanti. Nel mese di maggio oltre 300 produttori dei Presìdi italiani hanno riunito i primi “Stati Generali”, sono stati ospitati dalla Regione Sicilia e dai piccoli comuni dei Nebrodi per tre giorni di seminari e dibattiti. Si sono confrontati e raccontati, con l’aiuto di esperti – veterinari e tecnologi alimentari, agronomi ed enologi –, mettendo sul piatto le loro difficoltà. È proprio così necessario allestire laboratori tutto acciaio e ceramica nelle malghe? È vero che i salumi non possono più stagionare nelle cantine storiche? Che non è possibile usare i tradizionali contenitori in legno per fare formaggio?

Ha ragione chi consiglia ai casari di comprare il pastorizzatore? “Se il latte è di buona qualità, lavorato con metodologie e tempi corretti, il formaggio a latte crudo è sicuro quanto quello a latte pastorizzato” ha affermato Luca Nicolandi, veterinario dell’AVEC, associazione che coordina progetti di sviluppo zootecnico nel sud del Mondo, e Leo Bertozzi, presidente del Consorzio del Parmigiano Reggiano, ha confermato: “Il disciplinare del Parmigiano prevede latte crudo e siero innesto naturale ma, nonostante ciò, non ha nessun problema a essere esportato in Paesi severissimi, come gli Stati Uniti o l’Australia. L’importante è dare spiegazioni, dati oggettivi”. Quindi, alla fine, è sufficiente parlare di latte crudo per avere un formaggio di territorio? No, se si acquistano i fermenti dalle multinazionali, il legame con il territorio si spezza. E lo stesso vale per i salumi e i vini. Le difficoltà, insomma, sono molte e le leggi in materia igienico-sanitaria sembrano concepite, anche dal punto di vista dei costi di realizzazione, per le grandi produzioni. Bruxelles non spiega “come”

produrre. E lascia spazio alle cosiddette deroghe che possono essere concesse a livello nazionale. Di alimentazione per gli animali e di come arginare la marea degli ogm si è discusso invece ad Alcara Li Fusi, un paesino dove si allevano allo stato brado i suini Neri del Presidio Slow Food: qui si sono incontrati una cinquantina di allevatori di razze autoctone. Hanno discusso anche di un’altra questione, consequenziale: come spiegare efficacemente ai consumatori la ragione per cui la fettina dei loro animali costa di più che al supermercato. Gli allevatori di vacca podolica, allevata brada sul Gargano, sono un caso emblematico. La carne di podolica ha una colorazione particolare: più scura del solito, rosso intenso, è molto simile a quello della selvaggina, il grasso tende a ingiallire a causa della forte presenza di carotene che proviene dalle erbe. Ma il suo sapore è molto più intenso ed è ricca di sali minerali. Come spiegare ai consumatori che questa carne è più buona, che allevare naturalmente costa di più e che quindi è giusto riconoscere un giusto prezzo all’allevatore? Gli allevatori del

Montiferru hanno creato il marchio del bue rosso che è un esempio di promozione e tutela intelligente: sono riusciti a valorizzare una carne, un formaggio prodotto dalle vacche sardo modicane (il casizolu) e tutto il territorio dell’entroterra oristanese dove i turisti oggi vanno a cercare le famose vacche rossicce. Ma i problemi più seri sono quelli di chi coltiva frutta e ortaggi, oggetto di un mercato sempre più globalizzato, che non conosce più confini né stagioni, dove i competitori sono i prodotti cinesi, turchi o israeliani. La percentuale del prezzo di vendita finale che arriva agli agricoltori è troppo bassa. La quota delle intermediazioni – assieme al costo ambientale di filiere così lunghe – non è mai stata così rilevante. In questo contesto la marginalizzazione delle piccoli produzioni locali è inevitabile e neppure il biologico ha saputo invertire questa tendenza. L’assemblea si è chiusa con l‘impegno di ritrovarsi nel 2006, a Torino, per la seconda edizione di Terra Madre mantenendo vivi, nel frattempo, ● i contatti. *Slow Food

senza strumenti adeguati di valutazione e senza storia. In questa riscoperta un poco random delle nostre tradizioni alimentari, si sono commessi molti errori e qualche nefandezza. Le peggiori arrivano dal mondo dell’industria alimentare, che una volta annusata l’aria, percepita la voglia crescente di autenticità e di radicamento, ha dato vita a una gigantesca opera di mistificazione: i mulini sono diventati bianchi, le stalle computerizzate fattorie, i tortellini industriali caserecci e così via. L’industria si è proposta come l’unica legittima erede della tradizione gastronomica italìana. E così molti pezzi di quella tradizione si sono persi. Ma non tutte le colpe sono da attribuire all’apparato agroindustriale globalizzato o alla sempre più totalizzante distribuzione organizzata. Ci sono responsabilità soggettive importanti, di chi ha rinunciato a informarsi, ha preferito consegnarsi alla filosofia del sano anziché del buono, al basso prezzo anziché al prezzo giusto. Finendo appunto per stare dalla parte del cheeseburger anziché dei saltimbocca alla romana. Sarà poi così grave questa scelta? Ognuno non è libero di mangiare quel che gli pare? E allora perché riteniamo grave abbattere un palazzo rinascimentale per fare un parking o una chiesa gotica per tirar su un condominio? La stessa gravità dovremmo riscontrarla nella perdita continua, inarrestabile di centinaia di specialità artigianali, varietà vegetali, alberi da frutta e razze, di un patrimonio, insomma, che non ha eguali al mondo. Nei giorni 13-15 maggio si sono tenuti in Sicilia, grazie al supporto dell’Assessorato Regionale all’Agricoltura, nel Parco dei Nebrodi, gli Stati Generali dei Presidi italiani. I Presìdi sono progetti messi in essere da Slow Food per aiutare le piccole produzioni tradizionali a sopravvivere. Slow Food non commercializza, né marchia prodotti: semplicemente tenta di organizzare i produttori e di promuoverne il lavoro. Sono 200 in Italia questi progetti, a partire dalle prime esperienze che risalgono al 1999, e per molti di questi il rischio dell’estinzione è ormai superato. Trovarsi tutti assieme, non in una fiera o in un mercato, ma semplicemente per conoscersi e confrontarsi con esperti sui problemi più pressanti (normative igieniche, legislazione europea, distribuzione, rapporti con le istituzioni…) ha rappresentato una sorta di rivoluzione culturale. Stiamo parlando pur sempre di pescatori, pastori, contadini, artigiani, restii per definizione a uscire dal loro habitat e a porsi in relazione con altri. Eppure è successo. E da quei tre giorni è emerso con chiarezza che queste piccole produzioni necessitano di un rapporto con il consumatore diverso da quello normalmente “commerciale”. Non tanto perché costano di più, o dovrebbero costare di più, quanto perché solo il contatto produttore-consumatore consente di capirli, di gustarli nel modo giusto, di storicizzarli. La distribuzione non è attrezzata culturalmente per assolvere a questo compito, se si esclude la Coop che ha attivato una poderosa iniziativa a sostegno dei Presìdi formando i suoi operatori. Mai come nel caso di queste produzioni la cosiddetta filiera corta si rende necessaria. Dunque occorre un’opera attenta di salvaguardia e valorizzazione, che coinvolga istituzioni, produttori e consumatori. Bisognerà, ad esempio, che la Ue conceda un terzo marchio agile e poco oneroso per questi prodotti, che transiti dalle Regioni e che non richieda tempi di istruzione delle pratiche lunghissimi. O che consenta un approccio più snello alle Dop per alcuni casi particolarmente fragili. O che lo stato italiano progetti un suo sistema di controllo e tutela da far approvare in sede europea. Occorre attivare tecnici ed esperti per escogitare questa terza via e intervenire sul versante educativo. Qui molto resta ancora da fare: basti pensare alla povertà di certi programmi televisivi (la radio è meglio) di cosiddetta informazione agroalimentare. Le istituzioni debbono giocare la loro parte, la scuola, i comuni. Basterebbe ad esempio che le mense pubbliche applicassero l’invito che arrivò a suo tempo dal governo D’Alema a rifornirsi di materie prime locali. O che si vigilasse di più sui contenuti delle sagre di paese, trionfo del falso tipico. Tutto ciò è ancora possibile. E per dare fiato a queste strategie, proprio sui Nebrodi, si è deciso di dar vita a un tavolo di concertazione e supporto: ne faranno parte alcune regioni più sensibili (come Toscana, Sicilia, Veneto, Piemonte), alcune province, Slow Food, organizzazioni di categoria, una delegazione del Ministero della Sanità, la Coop ed esperti con varie competenze. ● *Slow Food

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La ragnate ela in cucina

di Anne Cooper* COME NUTRIRE AL MEGLIO LA MENTE, IL CORPO E L’ANIMA. CAPITA IN UNA SCUOLA DI NEW YORK, PAROLA ALLA SUA EXECUTIVE CHEF

Cibo studiato di Alessandro Monchiero* MISSILE E MOECHE, UNO CHEF COMUNISTA VICINO VENEZIA E UNA CLIENTELA DALLE MOLTE TASCHE. A SOSTEGNO DELL’AGRICOLTURA DI QUALITÀ

ombe nell’Adriatico e galline padovane, missili e polenta di mais biancoperla: con Galdino Zara, chef de La Ragnatela di Mirano (una ventina di chilometri a nord di Venezia) le chiacchierate non sono mai banali. Così come la sua osteria, che proprio “sua” non è, essendo espressione di una cooperativa di exoperai nata nel 1984. “Allora eravamo in quindici, tutti stanchi della vita di fabbrica e con il sogno di costruire un tipo di lavoro diverso, più democratico, senza padroni e lasciandoci il tempo necessario per dedicarci alla nostra vita. Visto che la maggioranza dei soci era femminile decidemmo di chiamarci La Ragnatela per solidarietà all’omonima associazione di donne che si batteva, a Comiso, contro l’istallazione dei missili Cruise”. Partì così, con Il manifesto come unico giornale ammesso nel bar e perfino qualche copia della Pravda sui tavolini, quella che è oggi una delle migliori osterie italiane: “La professionalità venne dopo, con viaggi, corsi, stage, frequentando Slow Food fin dalla prima ora. All’inizio cucinavamo per una combriccola di amici e di giovani con pochi soldi in tasca i piatti tradizionali veneziani che si mangiavano nelle nostre case, con un occhio particolare per il biologico”. Di allora è rimasto lo spirito, l’equità dei ruoli e dello stipendio fra tutti i soci della cooperativa, le foto di Che Guevara e di Lenin in cucina, anche se la clientela si è ampliata, diventando la più eterogenea possibile, per età, censo ed esigenze: “L’abbiamo sempre considerata una nostra ricchezza. A mezzogiorno è il turno degli operai, che mangiano con dieci euro. All’una arrivano gli impiegati e alla sera abbiamo i clienti à la carte, quelli delle moeche e del piccione farcito di foie gras. Che magari salutano con la battuta: complimenti! Peccato che siete comunisti”. La Ragnatela, oggi, è una vetrina dei migliori prodotti tradizionali veneti, dai Presìdi come l’oca in onto o l’agnello di Alpago alle piccole produzioni degli amici del contado. Cibi che si gustano nel piatto, che spesso si possono acquistare per cucinare a casa (quelli confezionati, come farine e risi, ma talvolta anche qualche pennuto), sempre superando le più disparate difficoltà di approvvigionamento, di burocrazia e non solo: “Credo molto al ruolo di noi ristoratori per sostenere l’agricoltura di qualità, anche se i problemi non mancano mai. Dalle norme iper-igieniste favorevoli all’industria, come l’Haccp, che m’impedisce di acquistare un sacchetto di uova dal contadino amico (lui però continua a portarmele, come faccio a dirgli di no? Fi-

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nisce che prendo il sacchetto e me lo porto a casa) allo schizofrenico caso dell’ottima cipolla di Chioggia, che dal mio fruttivendolo non trovo; finiscono altrove, a centinaia di chilometri e mai sui mercati locali. Mi tocca andare fino a Chioggia per acquistarle, oppure a Verona, a Milano”. Poi ci sono casi ancora più particolari, come quello delle sarde. “La laguna di Venezia e l’alto Adriatico mi forniscono buoni prodotti ma qualche anno fa mi furono interdetti. Già, perché i bombardieri americani di ritorno dalla Serbia scaricavano le loro bombette nel nostro mare. Non che avessimo bisogno di ulteriori ragioni per non farci piacere la guerra, ma insomma fra i danni collaterali mettiamoci pure questo”. Altre volte, invece, il ruolo dell’osteria “gemellata” all’agricoltura dà risultati immediati e sorprendenti. “La gallina padovana è uno dei presìdi al quale sono più affezionato”, confessa Galdino. “Abbiamo scelto una comunicazione ‘sul campo’ per farla conoscere. Non siamo andati in tv, non abbiamo fatto spot pubblicitari. L’abbiamo portata in giro, l’abbiamo cucinata in ogni angolo di Veneto e d’Italia. E oggi, a dimostrazione della valenza di queste micro-economie, anche il Sole 24 Ore attesta l’incremento numerico, economico ed occupazionale di questo segmento produttivo. Era a rischio di estinzione e oggi è un prodotto conosciuto e in espansione”. Infine Terra Madre, la manifestazione torinese dello scorso anno che si ripeterà nel 2006, con l’aggiunta – ai 5000 produttori di cibo – di mille cuochi che adotteranno idealmente le comunità del cibo.“Ho sempre pensato che un mondo diverso fosse possibile ma per la prima volta, durante Terra Madre, ho respirato un’aria di autentico cambiamento. Vedere produttori di diverse lingue che riuscivano a comunicare fra di loro, che si scambiavano esperienze e soluzioni su problemi analoghi, che si gratificavano a vicenda sull’importanza del loro lavoro. Ecco, io non so esattamente cosa potrò fare per loro come cuoco, se potrò aiutarli, se potrò inserire qualche loro prodotto nella mia carta… ma so cos’hanno dato loro a me. Mi hanno convinto che quel che facciamo, difendendo le piccole produzioni locali, in qualche modo si riverbera sul pianeta in termini di equità sociale; che altri cuochi e contadini stanno facendo lo stesso nostro percorso; e che finalmente queste persone hanno intessuto una rete di comunicazione che funziona, che crescerà, che crea una concreta alternativa al circuito sciacallo delle multinazionali”. ● *Slow Food

gni mattina verso le 8 entro nel Café, di cui sono Executive Chef, mi accerto che il forno a legna sia acceso, che il buffet della colazione sia disposto sui vassoi, che i cuochi nella cucina a vista preparino l’occorrente per il pranzo. Il locale formicola di clienti che vengono per la colazione e del personale impegnato a preparare i 1300 pasti quotidiani per ognuno dei 180 giorni all’anno in cui siamo aperti. A questo punto penserete a uno dei tanti posti che danno da mangiare in America, ma due terzi dei nostri clienti hanno meno di 18 anni. Il Café si trova infatti nel Ross School Center for Well-being (CWB) di New York e la nostra principale attività consiste nel nutrire gli studenti, il corpo insegnante e il personale della scuola – nutrire la mente, il corpo e l’anima. Alla fine degli anni Novanta, Courtney Ross-Holst ha fondato il CWB per realizzare alcuni dei valori fondamentali della Ross School, nella fattispecie il benessere e la nutrizione. Avendo in mente questi valori, è stato progettato uno spazio che attesta l’importanza della nutrizione e del benessere, che rifiuta il paradigma del cibo come combustibile a favore di una modalità diversa, in cui i nostri clienti mangiano, cenano e socializzano a ogni pasto che consumano. In questo ambito, il Café diventa un’aula scolastica come ogni altra, in cui l’importanza di ciò che mangiamo è innalzata allo stesso livello della matematica, delle scienze, dell’inglese o di qualunque altra materia. La squadra culinaria del Café alla Ross School – una scuola privata che va dalla 5ª alla 12ª classe a East Hampton, New York – offre cibi regionali, biologici, stagionali e sostenibili [N.B.: accostando le iniziali inglesi - regional, organic, seasonal, sustainable – si ottiene ROSS] agli studenti, agli insegnanti e al personale della scuola, e anche alla vicina Bridgehampton, una scuola pubblica.

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Disponiamo di un orto le cui piante sono coltivate e raccolte dagli studenti sotto gli auspici della squadra culinaria e che pertanto fa parte del programma di apprendimento – al pari dei rapporti con gli agricoltori locali. Ogni qual volta è possibile, acquistiamo a livello locale e sosteniamo gli agricoltori scrivendo ogni giorno menù che mettono in primo piano tutto ciò che offrono, e forniamo queste informazioni alla nostra comunità allargata. Non ci limitiamo a preparare, cucinare e servire questo genere di cibi, ma insegnamo agli studenti l’importanza di mangiare in maniera consapevole, in un modo che fa la differenza. Spieghiamo l’importanza degli agricoltori locali e delle fattorie da cui proviene la maggior parte del cibo che consumiamo. Il corso di studi integrato prevede fasi didattiche che comprendono le cucine etniche tradizionali, l’agricoltura, la concimazione, la nutrizione e il benessere. Insegnamo che è importante mangiare cibi biologici e perché la nostra salute e il futuro della terra dipendano da questo. Parliamo anche di sostenibilità, del perché facciamo concime con i nostri avanzi e lo portiamo alle fattorie, perché serviamo hamburger soltanto una volta ogni due mesi e perché compriamo carne di animali locali nutriti con erba. Dato che viviamo in prossimità del mare, dobbiamo insegnare la fragilità degli oceani, l’esaurimento dei banchi di pesci, i danni inferti all’ambiente oceanico, la ragione per cui non possiamo mangiare qualunque frutto del mare che ci piace tutte le volte che ne abbiamo voglia. Il concetto di sostenibilità è materia di discussione quotidiana. Il cibo alla Ross somiglia poco o nulla a quello servito oggi nella gran parte delle scuole. Tutti i giorni nel forno a legna cuociamo pane, focaccia e pizza, prepariamo minestre, serviamo almeno due insalate miste, da due a tre entrées (una almeno vegetariana), uno o due piatti ricchi di ami-

do (uno dei quali di cereali), due o tre verdure e dolce. Tutto il cibo risponde ai criteri Ross, in pratica non serviamo prodotti lavorati, zucchero o farina raffinati, soda, dolciumi o cibi spazzatura, e non ci sono macchine che distribuiscono cibo o bevande. La nostra proposta culinaria si basa in prevalenza su una dieta di cereali e vegetali, ma serviamo proteine animali accanto alle opzioni vegetariane e i nostri ragazzi mangiano il cibo proposto. Uno studio recente che faceva capo al Dr. Michael Murphy della Harvard Medical School, in collaborazione con Mass General Hospital, Columbia Teachers College e il Centre for Disease Control, ha rilevato che gli studenti della Ross School mangiano quasi il 100% in più di frutta e verdura rispetto alla media nazionale. Lo studio riporta inoltre che gli studenti della Ross denotano un maggior numero di segni chiave indicativi di miglior salute e benessere, come guardare di meno la tv e mostrare nel complesso una salute migliore e livelli di forma superiori rispetto al gruppo di controllo di studenti locali. Lo studio mostra inoltre che la maggioranza degli studenti e i loro genitori affermano di aver cambiato il modo di cucinare e mangiare in casa grazie all’educazione alimentare e nutrizionale ricevuta alla Ross. Inoltre gli studenti della scuola media hanno dichiarato in un’indagine che il pranzo era il momento preferito della giornata. Perciò, quando mi siedo a riflettere su come cambiare il modo in cui nutriamo i giovani, su come convertire il paradigma del fast food (i nostri studenti hanno 40 minuti per pranzare) in una modalità in cui mangiare è una parte importante dell’educazione, mi rendo conto che la risposta coinvolge noi tutti.Alla Ross cerchiamo di trasformare in realtà questi cambiamenti, ma anche sostenendo gli agricoltori locali affinché continuino il loro lavoro, ● a favore dell’agricoltura biologica. *Slow Food

Il menù della Ross School ● Zuppa vegetariana di verdure e fagioli misti ● Pizza ai broccoli e al formaggio Naan (pane lievitato) con salsa ai pomodori secchi ● Fette di tacchino arrosto e formaggio Cheddar ● Insalata di radici commestibili arrostite ● Insalata di mele e sedano ● Insalate miste ● Pasta con asparagi e piselli (congelati) ● Pollo arrosto marinato al pesto alle erbe (congelate) ● Tofu marinato e gratinato al forno ● Patate dolci arrosto ● Verdure cotte ● Zucca estiva arrosto (congelata) ● Biscotti di avena e frutta secca Ricetta Burritos con tofu Prima colazione Ingredienti: 1 cucchiaio olio di colza 1 piccola cipolla spagnola, tagliata a dadi 1 spicchio d’aglio, tritato 1 patata, tagliata a dadi 1 cucchiaino sale kasher 1/2 cucchiaino pepe nero, macinato 10 tortillas di frumento 400 g fagioli rifritti (vedi ricetta con quesadilla) 250 g formaggio Monterey Jack, sbriciolato 200 g salsa di pomodoro (vedi ricetta con quesadilla) 400 g tofu solido, tagliato a dadi. Preparazione Scaldate cipolla e aglio in un po’ d’olio in padella a fuoco medio; aggiungete le patate, il sale e il pepe. Fate cuocere finché le patate sono morbide e dorate, quindi aggiungete il tofu e scaldate a fuoco dolce. Farcite ogni tortilla con i fagioli rifritti, il miscuglio di patate e tofu e il formaggio; arrotolate le tortillas e versateci sopra della salsa.


BioBenessere Alimenti biologici. Per nutrire il tuo benessere. L’agricoltura biologica ti porta cibi sicuri, ricchi di gusto, ideali ogni giorno. Per questo dà benessere a te e a chi ti sta accanto. In particolare: Gli alimenti biologici sono ottenuti solo con metodi naturali. E nascono dal rispetto e dall’amore per l’ambiente e per gli animali. Non si utilizzano Organismi Geneticamente Modificati (Ogm). Nessun intervento chimico di sintesi è previsto per la produzione e la conservazione. Sulle confezioni trovi la dicitura “prodotto da agricoltura biologica”. Ciò permette il riconoscimento e, al tempo stesso, è garanzia del rispetto, in tutta Europa, degli stessi severi criteri di produzione. A testimonianza del supporto dell’Unione Europea, sulle etichette puoi trovare anche il logo comunitario. I cibi biologici sono decisamente consigliati a tutte le età, a cominciare dalla prima infanzia.

www.bio-benessere.it


ia moglie Melanie e io chiamiamo con orgoglio il nostro posto “Pheasant Hill Farm”. Qualcuno potrebbe chiamarlo un giardino troppo cresciuto, e non a torto. Non è grande come le normali fattorie degli Stati Uniti, appena 8 ettari, in un paese in cui le dimensioni medie di una fattoria sfiorano oggi i 200 ettari. Ma l’anno scorso il nostro francobollo di terra ha nutrito 100 famiglie ogni settimana durante la stagione della maturazione. Ha abbellito la comunità di verdi campi e di una messe apparentemente infinita di mazzi di fiori freschi, ha insegnato agli scolari da dove proviene il cibo che mangiano e ha fruttato quanto altri agricoltori ricavano da centinaia di ettari di granoturco, soia o frumento. La nostra fattoria è un luogo speciale, non solo per noi ma anche per i vicini, i clienti e la comunità in generale. Oggi negli Stati Uniti fattorie e agricoltori sono specie in pericolo. Dal 1935 il numero di fattorie è sceso da circa 7 milioni a 1,9, secondo lo U.S. Department of Agriculture. Le più duramente colpite sono state le cosiddette “fattorie familiari”, quelle di medie dimensioni, da 50 a 499 acri. In settant’anni ne sono scomparse quasi 4 milioni. Sono cresciute di numero solo le piccole come la nostra e quelle grandi, con più di 500 ettari. Viviamo nella Lehigh Valley della Pennsylvania sud-orientale, un’ora di automobile a nord di Filadelfia e due ore a ovest di New York. La Pennsylvania è lo Stato agricolo più produttivo del Nordest, eppure importa circa il 70% dei prodotti alimentari, comprese gran parte della verdura e della carne. Siamo convinti che questa sia la ragione per cui la domanda dei nostri prodotti è sempre superiore all’offerta. La gente della regione ci dice di essere stufa dei prodotti anonimi e insapori dei supermercati. Tutti cercano disperatamente cibi freschi e buoni, ma ancora più forte è il desiderio di rientrare in contatto con la fonte di ciò che mangiano, con i produttori e il luogo di produzione. Noi vantiamo i diritti di proprietà su questo pezzo di terra, ma i nostri clienti considerano Pheasant Hill Farm il proprio esclusivo angolo di paradiso. Quanto a noi, incoraggiamo questo atteggiamento con ciò che produciamo e con il modo con cui lo vendiamo: questo è un mercato puramente stagionale. La fattoria permette a chi compra di mangiare prodotti appena raccolti, stagionali, biologici certificati, spesso frutto di va-

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di George DeVault* UNA FATTORIA MOLTO SPECIALE IN PENNSYLVANIA, STATI UNITI. UN PAESE DOVE OGGI FATTORIE E AGRICOLTORI SONO DIVENTATI SPECIE IN PERICOLO

medici – ma anche camionisti, vigili del fuoco, operai, casalinghe, commesse, studenti e insegnanti, pensionati, sposini. E molte madri decise a nutrire i figli con verdure coltivate senza prodotti chimici. Le macchine dei clienti raccontano questo e altro. Una nuovissima Mercedes SUV è posteggiata accanto a un camioncino scoperto di trent’anni. Auto di lusso nuove sono parcheggiate tra arrugginite Volvo familiari, furgoncini per famiglie con la vernice scrostata e vecchi camper. Qualcuno arriva in moto, su uno scooter carico di chilometri o su una mountainbike. I vicini, semplicemente, attraversano

pugno, sicché c’è un flusso costante di visitatori, dagli agricoltori curiosi a gente che vuole fare questo lavoro fino agli studenti. “Qui è così tranquillo!”, ha detto una ragazzina spalancando gli occhi appena scesa dall’autobus della scuola arrivato da Filadelfia. La fattoria si trova a una sola ora di automobile dal centro della città, ma a giudicare dall’espressione attonita dipinta sul volto dei ragazzi che ogni estate visitano la nostra fattoria, si direbbe che viviamo sulla luna. “Che cosa succede quando viene il buio?”, ha chiesto un altro. “Non avete paura con tutti quegli animali intorno?”

Il giardino mio rietà tradizionali. I piselli Sugar Snap, uno dei nostri punti di forza, in genere sono mangiati crudi in macchina da ragazzi e adulti, spesso prim’ancora di lasciare il nostro vialetto. Quasi ogni anno la fattoria può vantare più di 140 varietà di 40 verdure diverse – carciofi, fave, pomodori e peperoni tradizionali, patate rosse, bianche e blu, piselli, una dozzina di varietà d’aglio, fagiolini, insalate a volontà, oltre a erbe, bacche e fiori. All’inizio ci siamo affidati a una specie di Community Supported Agriculture: i clienti pagavano fino a 500 dollari in anticipo per la stagione e noi consegnavamo a casa o in ufficio borse già confezionate. Poi siamo passati a un mercato riservato ai soli soci in fattoria. In ore stabilite del giovedì e del venerdì, i soci arrivano alla fattoria e comprano tutto ciò che vogliono. La quota di iscrizione lo scorso anno era di 50 dollari e dava diritto a un bollettino settimanale ricco di ricette e notizie sulla fattoria, a una visita alla fattoria, a una degustazione di varietà tradizionali di pomodori e a una grande sporta di tela con il logo della fattoria e l’indirizzo internet. C’è sempre una lista d’attesa. I giorni di mercato sembrano una grande riunione familiare, una festa del caseggiato o un incontro alla fontana del villaggio. I soci appartengono a tutti i ceti sociali. Ci sono professionisti – architetti, ingegneri e scienziati, fotografi, giornalisti e

la statale e percorrono il nostro lungo vialetto o tagliano attraverso i campi. La nostra fattoria – e molte altre simili in tutta la Pennsylvania e il paese – è una grande livellatrice. Qui le distinzioni di classe sembrano venire meno, non conta che la gente provenga dal centro città, dalle periferie ricche o da modesti villaggi rurali. D’incanto non sembra più molto importante che cosa fa per vivere, di quanto o quanto poco denaro dispone. Qui si trova un linguaggio comune. Un camionista può discutere delle sottigliezze dei prodotti freschi della fattoria con un cardiochirurgo o con la moglie di uno dei 500 uomini più ricchi d’America, mentre i bambini danno da mangiare ai polli o esplorano i campi, dove ci capita di trovare gusci di tartaruga dipinti o punte di frecce indiane. La visita annuale alla fattoria richiama fino a 300 persone, tra cui vicini, amici e parenti curiosi dei nostri soci. C’è un solo problema durante il mercato e nelle occasioni speciali: la gente non vuole andarsene all’ora di chiusura. Ovviamente, nulla potrebbe farci più piacere. In questa parte dello Stato le fattorie biologiche come la nostra sono appena un

“Coltivate erbe?” Diversi ragazzi sono rimasti senza fiato mentre Melanie spiegava come pianta, innaffia e “diserba” i fiori. “Quanto costa questo?”, ha chiesto un bambino arrampicandosi sul nostro trattore usato. “Quindicimila dollari”. “Ehi! Più di una macchina nuova!” Una delle ragazze ricorderà in particolare il modesto stuolo di dieci galline in cova. Sono Wyandottes striate d’argento, una razza fuori moda che depone grandi uova scure. Dopo aver nutrito i polli, ho recuperato un uovo in un angolino e l’ho offerto a una ragazzina. “Oh!” ha strillato “è caldo!”. Nel mondo in cui vive le uova sono ghiacciate e bianche come la neve, con tuorli pallidi. Sono impacchettate a dozzine in confezioni sterilizzated esposte negli scaffali refrigerati dei supermercati. L’uovo scuro caldo è stato una specie di scossa elettrica, quasi mi aspettavo che lo lasciasse cadere come se fosse una patata bollente. Invece lo ha premuto contro la guancia destra, carezzandolo delicatamente come ● fosse una pietra preziosa. *Slow Food

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gi, solo un Sami su cinque vive di pastorizia, ma nonostante ciò la cultura di questa etnia è ancora fortamente legata alla trasumanza e al ritmo di vita della renna selvatica. Slow Food appoggia la causa dei Sami e da un paio di anni ha dato vita a un Presidio che tutela la carne di renna e la preparazione più tradizionale di queste terre, chiamata “Suovas”. Si tratta di un filetto magro affumicato, con un delicato sapore di fumo, preparato esclusivamente con carne di renne selvatiche macellate in novembre, quando la materia prima è più ricca e gustosa. Il Suovas è legato alla tradizione nomade: tradizionalmente era un cibo da mangiare in viaggio durante i lunghi spostamenti per raggiungere le mandrie. La versione più fresca può essere cotta sulla brace e consumata con il tipico pane senza lievito (ingrediente di un panino dal gusto primitivo ed essenziale), quella più secca si mangia cruda. I Sami hanno ormai acquisito molte delle abitudini degli europei e ora la carne di renna è venduta più spesso tritata in blocchi surgelati. Il Presidio sta cercando di tutelare il Suovas tradizionale e di promuoverlo non solo fra i Sami che vivono in campagna, ma anche tra quelli di Stoccolma, Uppsala e delle altre città importanti della Svezia. Nella battaglia attuale dei Sami per difendere il loro paese, che ha portato i pastori da Bruxelles alla sede dell’Onu a New York, il Suovas è diventato uno dei simboli della loro cultura e della vita nomade. Ora il destino dei Sami sarà deciso in un’aula di tribunale dell’Unione Europea. Da quando, nell’autunno del 1990, 500 proprietari terrieri svedesi hanno fatto emettere un’ingiunzione, un tribunale distrettuale ha intrapreso una revisione della legge che permetteva il pasco-

di Anya Fernald* STORIE DI SCONTRI ANTICHI FRA NOMADI E AGRICOLTORI. I SAMI, FINO A CENT’ANNI FA CON UN LORO TERRITORIO NELLA PARTE SETTENTRIONALE DI NORVEGIA, SVEZIA, FINLANDIA E RUSSIA

Terre del nord

ami sono l’unica etnia nativa dell’Europa, oltre che l’esempio di una delle più antiche tradizioni di pastorizia nomade. Storicamente, vivevano esclusivamente delle loro grandi madrie di renne semi-addomesticate, accompagnadole sui pascoli estivi nell’estremo nord e su quelli invernali in riva al mare, dove trovavano temperature più miti. Si racconta dei tempi in cui costruivano le canoe per accompagnare i loro animali mentre nuotavano dalla costa della Norvegia verso le isole per trovare foraggio fresco, e come – prima dell’introduzione delle motoslitte – i pastori raggiungessero le mandrie dopo settimane camminando sulla tundra gelida. La loro cultura è strettamente legata a questi animali: nella tradizione folclorica dei Sami, il paradiso è una terra fredda abitata esclusivamente da renne bianche e robuste con ampie corna. Fino a cento anni fa, essi avevano un territorio completamente loro (chiamato ancora oggi Sapmi): si tratta della parte settentrionale di Norvegia, Svezia e Finlandia, e di una parte della Russia. Dall’inizio del ‘900, i governi di questi Paesi si accorgono della ricchezza delle terre Sami e ne incoraggiano il popolamento da parte di “pionieri” di origine europea. In Svezia, dove la popolazione non nativa è aumentata di quattro volte fra il 1800 e il 1890 (quadruplicando anche il bisogno degli spazi abitabili), la pressione affinché queste genti nomadi limitino le zone selvatiche destinate alle renne a favore dei terreni agricoli necessari alle città è particolarmente forte. Migliaia di loro sono spinti con forza verso i terreni più estremi del nord, altri sono costretti a diventare agricoltori o ad abbandonare le mandrie e ad andare a vivere in città. Og-

lo invernale. La corte d’appello ha deliberato in favore dei proprietari terrieri e la Corte Suprema ha deciso di non esaminare il caso. Questo significa che la legislazione svedese non riconosce più il diritto dei Sami di far pascolare le renne nelle lande durante l’inverno. Gli agricoltori che hanno presentato la causa contestano il fatto di non poter recintare i pascoli, perché attraversati dalle aree destinate alla trasumanza, e sostengono che le renne danneggiano la corteccia dei loro alberi, riducendo il valore del legno (le renne si nutrono principalmente di licheni e bacche, che spesso crescono appunto sulla corteccia degli alberi). Finora, un solo gruppo di agricoltori ha presentato una causa, il cui risultato avrà conseguenze dirette soltanto su quattro villaggi Sami (uno dei quali fa parte del Presidio Slow Food del Suovas di Renna); tuttavia, la decisione che sarà presa potrebbe costituire un precedente per applicare la legge in tutta la Svezia e in altri paesi nordici. Per la popolazione Sami che vive in Svezia, dove un terzo del paese è protetto come riserva per la transumanza delle renne, il verdetto potrebbe avere conseguenze devastanti. Cambiare la legge che permetteva il pascolo invernale delle renne, che era in vigore dal 1886, comporterà una drastica diminuzione delle opportunità dei Sami di guadagnarsi da vivere attraverso l’allevamento, attività che essi soli praticano nel Paese. Ora che le trattative sono state interrotte, gli agricoltori hanno presentato un documento in cui chiedono che il pascolo delle renne sia interdetto dalle loro terre. Inoltre, esigono che i villaggi Sami riducano le dimensioni delle mandrie e pretendono un risarcimento dei danni di diversi milioni di corone. Dato che la Corte Suprema ha deciso di non esaminare il caso, i Sami non hanno tutele dal punto di vista legale ed è del tutto assente un fondamento che tuteli il loro diritto di pascolare le renne. L’unica speranza è che l’attenzione internazionale verso la situazione di questa popolazione convinca il governo svedese e l’Europa a prendere provvedimenti in suo favore. ● * Slow Food Per maggiori informazioni sulla lotta per i diritti dei Sami, rivolgersi a: Annelie Jonsson (tel +46 70 650 97 93 email anneli.jonsson@same.net)

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Gli OGM non sono un gioco da tavola.

IN ATTESA DI RISPOSTE SICURE, DICIAMO NO AI PRODOTTI GENETICAMENTE MODIFFICATI. È di questi giorni la notizia di nuovi preoccupanti risultati nei test di laboratorio suggli OGM, ma non è certo da ieri che Coop se ne preoccupa. Infatti, finché la scienza non avrà le idee chiare in materia di OGM, preferiamo averle noi : dai prodotti a marchio Coop gli OGM sono categoricamente tagliati fuori. Una precauzione certificata e garantita da un rigoroso controllo di filiera. PPerché, per noi, certe combinazioni non sono un bel gioco. NO OGM. UN ALTRO VANTAGGIO COOP. www.e-coop.it



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pochi passi dal Centro Culturale Francese, il centro di Dakar ospita un locale semplice e accogliente: il ristorante “Point d’interrogation” di Bineta Diallo. Frequentato da una clientela mista di senegalesi e – soprattutto - uomini d’affari e visitatori stranieri, citato ormai in buona parte delle guide della città, è al centro della riscoperta dei cereali di produzione locale nella dieta senegalese. Bineta Diallo è una donna molto sicura di sé, fiera della centralità delle sue battaglie. Cuoca eccezionale, si dedica da più di dieci anni al recupero di piatti e prodotti della cucina tradizionale senegalese, cercando di tradurre l’onnipresente slogan del “consumare senegalese” in pratiche concrete e replicabili. Il Senegal è un caso paradigmatico: il passato coloniale, così come ondate di interventi di cooperazione non proprio disinteressata – tra cui, non a caso, quella cinese – hanno ridisegnato i consumi del paese, privilegiando il riso rispetto ai cereali tradizionali, e abituando i senegalesi a gusti che un tempo non erano loro familiari. Le varietà locali di riso hanno inoltre subìto una progressiva marginalizzazione nei confronti di altre, molto spesso importate, meno gustose ma dal rendimento più alto. Madame Bineta Diallo conosce bene questa situazione: nel corso degli anni ha collaborato con gruppi e associazioni per reinserire gli ingredienti tradizionali nella cucina locale, contribuendo a gruppi di studio, programmi in collaborazione con l’Unione Europea e pubblicazioni di raccolte di ricette. Soprattutto, ridando con il suo ristorante dignità a piatti pressoché scomparsi dai menù della capitale. All’ingresso del locale una lavagna presenta il menù, evidenziando i piatti a base di cereali locali disponibili: couscous di miglio, mais e soprattutto fonio, ottimo anche con il thiof, il più gustoso dei pesci senegalesi. Riso al Point d’interrogation se ne trova ben poco, e in ogni caso di varietà locali coltivate lungo le valli del fiume Senegal, quelle spesso

Gusti di Dakar ignorate a Dakar a causa delle difficoltà e dei costi di trasporto, che le rendono ben più care dei risi importati. Il fonio (Digitaria exilis), la vera passione di Bineta Diallo, è un cereale minore che cresce in tutta l’Africa dell’ovest, grazie all’adattabilità a condizioni climatiche estreme. Le due varietà conosciute, a ciclo breve e a ciclo lungo, maturano rispettivamente fra i tre e i quattro mesi dalla semina, permettendo fino a tre raccolti l’anno senza impiego di fertilizzanti chimici. Molti lo considerano il cereale più saporito tra quelli africani nativi. Caratterizzato da una consistenza estremamente fine, simile a un granello di sabbia, ha qualità nutritive notevoli: ricco in metonina, risulta inoltre facile da digerire per l’alto contenuto di fibre. Il fonio che Madame Bineta serve nel suo ristorante è prodotto nella regione di Tambacounda, circa 460 chilometri a sudest di Dakar. Qui vivono i Bassari, un’etnia minoritaria del Senegal impegnata prevalentemente nella produzione del fonio, da sempre conscia delle sue qualità organolettiche nonché delle virtù terapeutiche. Contrariamente al riso e al miglio, il fonio non aumenta il tasso di glicemia, ed è quindi particolarmente indicato nelle diete dei diabetici. Le comunità di produttori della zona sono organizzate in piccoli raggruppamenti: gli uomini dediti alla coltivazione; le donne alla trasformazione in prodotto finito e alla commercializzazione. Dopo la mietitura, fatta con la falce dagli uomini, i gambi tagliati sono raccolti in piccole gerbe da uno-tre chili l’una. Negli ultimi decenni l’interesse per il fonio si era gradualmente spento, soprattutto per la difficoltà di lavorazione. Ogni granello è infatti coperto da due strati di pellicine che vanno eliminate durante il processo di trasformazione e raffinazione. Fino a una decina di anni fa questa operazione, tradizionalmente lasciata alle donne, era molto lenta e stancante: consisteva nel pestare manualmente piccole quantità di chicchi mischiate con sabbia, e nel pulirli successivamente con acqua per eliminare la sabbia. Per ottenere due chilogram-

mi di fonio trasformato erano necessari quasi due ore di lavoro e 15 litri d’acqua, che lo rendevano un prodotto di nicchia, poco competitivo rispetto al mais e al riso di provenienza extra-africana. Intorno al 1994, però, Sanoussi Diakité, professore di meccanica presso un liceo di Dakar, inventò la “Sanoussi”, una macchina per la decorticazione automatica capace di ridurre considerevolmente i tempi di lavorazione, contribuendo alla riscoperta del cereale in Senegal e negli altri paesi dove cresce. Memore delle abitudini alimentari con cui era cresciuto negli anni Sessanta, in un Senegal dove il fonio era consumato normalmente due o tre volte la settimana, il professor Diakité – premiato nel 1996 con il Rolex Award – riuscì a costruire uno strumento semplice e rivoluzionario per liberare le donne dalle fatiche della trasformazione e rendere il cereale locale nuovamente competitivo, senza alterarne la resa o la qualità. Negli stessi anni Madieng Seck, un

di Ugo Vallauri* BINETA DIALLO, UNA CUOCA D’ECCEZIONE SENEGALESE CHE COMBATTE PER REINTRODURRE QUEI CONSUMI ALIMENTARI DEL PAESE CANCELLATI DAL PASSATO COLONIALE

giornalista senegalese attento ai problemi dell’agricoltura e alle istanze delle comunità rurali, iniziava a occuparsi delle risorse naturali grazie alle quali il paese avrebbe potuto rendersi più indipendente dall’import alimentare. Fondatore dell’agenzia giornalistica Jade Senegal, parte del network francofono Syfia, Seck si dedica da tempo alla promozione del fonio, così come di altri prodotti tipici dell’area, quali il succo di Bissap (carcadé), i derivati del karite e il latte di cammella. I suoi scritti, pubblicati anche in Europa e sul suo sito jade.sn, hanno nel tempo contribuito notevolmente a modificare l’atteggiamento dell’opinione pubblica sulle risorse alimentari senegalesi, nonché a dare visibilità al lavoro di produttori, trasformatori e ristoratori come Madame Diallo. Uno dei risultati del lavoro di Seck è stato la crescita di popolarità del fonio anche a livello internazionale: dopo la fondazione de “l’Association pour la promotion de la Filière Fonio”, creata lo scorso anno da Bineta Diallo insieme alle comunità di produttori con cui stabilmente lavora, l’ong francese Orange Bleue ha iniziato un progetto per la distribuzione in Francia di fonio biologico certificato equo solidale. Con il supporto tecnico di Enda Senegal, il fonio proveniente anche da coltivazioni maliane e burkinabé è lavorato nella zona di Tambacounda per poi essere confezionato in Francia. La prospettiva di un presenza sul mercato internazionale, pur non prioritaria per le comunità locali, premia i loro sforzi, contribuendo a ridare fiducia a un settore per troppo tempo depresso. Bineta Diallo non si accontenta, e continua a pensare a nuovi spazi per i suoi produttori. Lo scorso anno, insieme a Madieng Seck e ad altri membri della comunità del fonio ha partecipato a Terra Madre a Torino. Siamo certi che tornerà per la seconda edizione del meeting nel 2006. ● * Slow Food

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l problema Wal-Mart è stato posto in questi termini: la grande catena di ipermercati (presto anche in Italia?), è un successo mondiale basato su prezzi bassi, anzi bassissimi. “Always low prices” è il suo slogan. In questo modo le fasce meno ricche della popolazione hanno accesso a beni di consumo che altrimenti sarebbero per loro irraggiungibili. Quindi, proprio come il macellaio di Adam Smith, Wal-Mart facendo il suo egoistico interesse, contemporaneamente genera un vantaggio pubblico - così almeno ragionano gli economisti classici e neoclassici. L’altra faccia di Wal-Mart, come il manifesto ha ampiamente raccontato, è però lo sfruttamento della forza lavoro, le discriminazione di sesso e di razza, un trattamento da paesi sottosviluppati. Alcuni studiosi di area progressista (Michele Salvati sul Corriere della Sera) hanno sostenuto che, dovendo decidere se favorire o meno l’apertura di nuovi megastore di Wal-Mart, sui piatti della bilancia vanno messi entrambi i fattori: è più importante garantire un buon trattamento a alcune centinaia di dipendenti oppure favorire gli acquisti a buon prezzo di migliaia di consumatori? Implicitamente è stato suggerito che il vantaggio dei secondi è più importante delle rigidità sindacali dei primi. Ma non è questo l’unico problema che Wal-Mart ci pone. Nel caso dei prodotti alimentari occorre infatti guardare anche e meglio quale sia l’offerta del grande gruppo americano. I prezzi bassi sono ovviamente il frutto di un’intera filiera basata sulla produzione di massa. Questo comporta, per esempio, che verdura come bistecche arriveranno da produttori lontani ma industrializzati, capaci di vendere con margini ridottissimi, tuttavia guadagnando sugli alti volumi. Questo significa allevamenti e agricoltura intensivi, con tutti i difetti di deterioramento del gusto e dei sapori che sono ben noti, e una efficientissima catena logistica praticamente capace di annullare la distanza tra il produttore e il punto di vendita. Non per caso Wal-Mart ha chiesto ai suoi maggiori fornitori che nell’immediato futuro i prodotti le vengano consegnati dotati delle etichette elettroniche dette Rfid (Radio Frequency Identififier). Queste sostituiscono i codici a barre e funzionano come il telepass autostradale: quando transitano nei pressi di una postazione ven-

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LA GRANDE DISTRIBUZIONE

tore assai rudimentale della qualità e questa opacità dei mercati non è una fatalità del mondo moderno e soprattutto non è innocente. Non per caso nel 2001 il premio Nobel per l’economia venne assegnato a tre studiosi americani, George Akerlof, Michael Spence e Joseph Stiglitz, per i loro studi dei mercati con asimmetria informativa. Il primo in particolare ha dimostrato come un mercato dove il venditore ha più informazioni del compratore sulla qualità del prodotto possa produrre esattamente l’opposto di quello che le buone teorie suggerirebbero: avviene per così dire una selezione al contrario dei prodotti, dove a vincere saranno i peggiori. Vale per i rapporti tra il mondo ricco e quello povero, ma anche nei mercati interni di quello ricco. L’opposizione alle etichette da parte dei grandi gruppi è sempre stata alta e tanto più feroce quanto più esigenti si facevano le regole dettate dagli stati. Hanno ingoiato, malvolentieri, le etichette che indicano la composizione a fini igienico-sanitari-dietetici, nonché le date di scadenza, ma si oppongono con assoluta determinazione alla etichettatura Ogm e Ogm-free. E già questo è un segno di coscienza sporca: non è il consumatore sovrano? E allora perché negargli la possibilità di sapere e dunque di scegliere? Perché mai chi produce senza Ogm non può farsene un vanto e sfruttare tale vantaggio competitivo? E’ uno dei molti casi (non l’unico certamente) in cui le moderne aziende capitalistiche fronte alla scelta tra principi e profitti scelgono i secondi. Ben di più peraltro sarebbe possibile fare, magari proprio usando le etichette elettroniche che possono contenere una grande quantità di informazione. Intervistato dall’ottima rivista CheeseTime, (www.cheesetime.com) Gianni Mantovani, un produttore di Parmigiano Reggiano a Reggio Emilia, ha detto: “Ogni forma di Parmigiano dovrebbe essere accompagnata da un libretto di istruzioni perché, per quanto si faccia, il consumatore non ne sa mai abbastanza”. Paradossale? Esagerato? Solo fino a un certo punto, se si pensa che non solo il Parmigiano è ben diverso dal Grana Padano con il quale spesso viene confuso, ma che di fatto ogni stagione e persino forma ha la sua storia. Tanto per continuare ad aggirarsi tra i formaggi, come accorgersi che il leggendario Castelmagno, uno dei più pregiati erborinati italici, è stato stravolto dall’eccesso di produzione e che esistono ormai Robiole di Roccaverano fatte anche con fermenti lattici estranei e latte vaccino anziché di capra? Dateci dunque le etichette, complete, veritiere, rompiamo l’asimmetria delle informazioni, si squarcino i segreti. Che si tratti di cibo, di camicie o di scarpe, è l’unico modo per aggiungere valore anche monetario alla merce dell’occidente, ma anche per pagare il giusto ai migliori e sconvolgenti sapori in arrivo dalle comunità contadine del resto del mondo. ●

BACUCO _ rosso oltrepo

APPROVVIGIONARSI PRESSO

gono interrogati dalla macchina e rispondono emettendo il proprio codice, tipo “sono la scatola di pelati XXX, numero YYY”. Gli Rfid sono un potente sistema per gestire i magazzini scatola per scatola, risparmiando manipolazioni e velocizzando i flussi. Allora qui nasce un altro problema: l’arrivo di Wal-Mart in un territorio non soltanto fa concorrenza spietata ai dettaglianti che c’erano prima, ma quasi sicuramente non avrà alcun effetto benefico sui produttori locali di cibo, per esempio di latte, carne e pesce, frutta e verdura.Anzi farà danno sia a loro che ai consumatori.A loro perché approvvigionandosi massicciamente altrove ne riduce il mercato. Ai consumatori perché il cibo di massa deprime l’offerta di alimenti sani, ricchi di sapori e di cultura del territorio. E’un processo in atto da tempo nella grande distribuzione e va nella direzione esattamente opposta a quanto oggi servirebbe. Qui rientra in gioco la questione etichette, che è meno banale di quanto di solito si creda, siano esse cartaceee, a barre o elettroniche. Finché l’approvvigionamento di cibo per la propria famiglia avveniva in una microcomunità, ovviamente non c’era bisogno alcuno di etichette né di marchi: in un piccolo paese si conosce perfettamente e personalmente ogni coltivatore di patate o di vino, si transita davanti ai suoi campi e si vede come vengono curati e dunque una conoscenza informale ma diffusa consente di acquistare e vendere in una situazione di informazione pressoché perfetta. Il compratore ha sia le competenze per valutare la bontà del prodotto che acquista, sia le conoscenza completa di come esso nasce e viene trattato dal produttore-venditore. In molti casi non ci sarà nemmeno bisogno dell’intermediario, il dettagliante. Tutto ciò oggi non è più possibile, per due motivi almeno: la crescita delle dimensioni delle comunità ha prodotto inevitabilmente una divisione del lavoro molto spinta, la crescita del ruolo degli intermediari, la lontananza tra il produttore e il consumatore. Oltre a tutto il consumatore urbanizzato e modernizzato, nella grande maggioranza dei casi non ha le conoscenze che gli permettano di valutare la bontà dei cibi e quand’anche le avesse non ha le informazioni adeguate e complete che gli servirebbero. Ancora gli economisti classici e neoclassici ci raccontano che nel passaggio dal mercato primitivo di comunità a quello diffuso e oggi globale, interviene una grande invenzione delle società umane ad aiutarci nelle scelte (delle patate, del vino, delle bistecche) e questa invenzione è la moneta e il sistema dei prezzi. La moneta ci libera dalle complicazioni del baratto, il prezzo, stabilito in automatico dal gioco della domanda e dell’offerta, avrebbe il pregio di segnalare all’acquirente il valore delle merce: si dà per scontato che a prezzi maggiori corrisponda una qualità migliore e viceversa. E’ invece ormai evidente che il cartellino del prezzo è un indica-

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SCRITTO&MANGIATO

Tonni da ran nch gni mattina sullo spiazzo del mercato di pesce di Tsukiji, a Tokyo, le scatole di polistirolo vuote formano una catasta altissima, bianca e surreale. Il pesce è stato già venduto, l’asta dei tonni si è chiusa e prima che il blu elettrico del cielo si rischiari, anche la montagna magica sarà scomparsa, decostruita da una ruspa instancabile. Piccolo miracolo quotidiano che raccoglie nella stessa rete l’insaziabile appetito dei giapponesi per il prodotto ittico e quello dell’industria ittica per il succulento mercato giapponese. Il Giappone consuma un terzo del tonno pescato in tutto il mondo. Nel 2000 questo si traduceva in 466.000 tonnellate di tonno destinato alla preparazione del sashimi, ovvero del tonno che si consuma crudo. Le cose non sono andate sempre così. Nel Giappone degli anni 80 il tonno era un prodotto ricercato e costoso. Questo dipendeva fondamentalmente dal fatto che i pesci che venivano catturati erano soprattutto esemplari adulti, che avevano avuto il tempo di crescere e di riprodursi. Nati nel Mediterraneo, avevano nuotato dallo stretto di Gibilterra fino all’Atlantico e poi erano ritornati nel Mediterraneo per la riproduzione. Se negli ultimi vent’anni le importazioni di tonno verso il Giappone sono

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di Maria Tarantino L’ENORME CONSUMO DI QUESTI PESCI IN GIAPPONE, LA CORSA ALLA CATTURA, L’IMPORT CHE EQUIVALE A PIÙ DEL 50 PER CENTO, L’INVENZIONE AUSTRALIANA DELLE GABBIE

triplicate, il merito va alla popolarizzazione del consumo di tonno operata da giganti della distribuzione come Aeon e Ito-Yokado. Sono loro a rivoluzionare il consumo del tonno, ovvero a convincere i giapponesi che vale la pena consumare maggiori quantità di un prodotto qualitativamente inferiore e che il sushi al tonno fatto a macchina equivale più o meno all’apprendistato ventennale necessario ad uno chef per scolpire porzioni di pesce e riso perfettamente regolari. Oggi il 54% del tonno consumato in

Negli ultimi 3 anni il WWF ha documentato l’espansione incontrollata dell’allevamento di tonno nel Mediterraneo e tutta una serie di stratagemmi che permettono la violazione delle norme stabilite dalla Commissione internazionale per la protezione del tonno atlantico (ICCAT). ● Produzione illegale: la pesca dei tonni è regolata da quote assegnate su base nazionale. Tutto il pesce pescato deve essere registrato. La quota di tonno a pinne azzurre prevista dall’ICCAT è di 32.000 tonnellate all’anno. Per evitare ogni restrizione, la maggior i tonni vengono congelati e spediti in Giappone su navi frogorifere che si trovano “offshore”. In questo modo è come se il pescato non fosse passato per nessuno stato europeo. Si calcola che la quantità di pesce effettivamente pescato si aggiri intorno alle 50.000 tonnellate all’anno. ● In Giappone le regole sulla tracciabilità del pesce importato sono molto severe. Per questo motivo il pesce “illlegale” entra attraverso porti cinesi ed asiatici, dove i controlli sulla provenienza del pesce sono meno rigidi e dove il pesce viene lavorato, impacchettato e spedito sotto una denominazione diversa, che le sottrae alle verifiche. ● Rischio di trasmissione malattie infettive: diverse malattie possono essere trasmesse ai tonni attraverso le sardine e alici utilizzate come mangime. ● Uso illegale di aereoplani per individuare i banchi di tonni duranti i mesi della riproduzione. Nonostante il divieto aerei provenienti da tutta Europa utilizzano lo spazio aereo libico per sfuggire ai controlli e per effettuare ricognizioni di banchi di tonni. Informazioni sulle inportazioni di tonno i Giappone: http://www2.convention.co.jp/maguro/e_maguro/e_tuna_facts.html http://search.japantimes.co.jp/print/news/nn09-2004/nn20040916f3.htm http://www2.convention.co.jp/maguro/e_maguro/local/e_supply_demand1.html Informazioni sull’allevamento di tonni in Australia: http://www.abc.net.au/landline/content/2004/s1081068.htm Documenti del WWF sulla situazione dei tonni a pinne azzurre: www.panda.org/downloads/marine/fortuna.pdf www.panda.org/downloads/ europe/wwftunabriefingonatrt.pdf

VIOL ARE LE NORME

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Giappone - si parla di 251.000 tonnellate - proveniente dall’estero, più precisamente da una settantina di paesi diversi, capeggiati da Korea, Indonesia e Taiwan. L’80% dei tonni importati in Giappone sono esemplari “a pinne gialle”: misurano un metro e mezzo, vivono un po’ ovunque e vanno bene per fare sushi e sashimi. Ma è su una fetta più piccola del mercato, pari a meno di un decimo delle importazioni totali, che le cose stanno cambiando. Si tratta dei tonni “a pinne azzurre”, pesci lunghi circa tre metri che vivono sia nei mari intorno all’Australia e alla Nuova Zelanda che nel Mediterrnaeo. Si tratta di pesci pregiati, più costosi, destinati alla preparazione del sashimi d’alta gamma. Poche ma economicamente succulente tonnellate che negli ultimi anni hanno visto crescere il proprio mercato fino al pericolo di una saturazione del mercato nipponico. Da dove arriva tutto questo tonno a pinne azzunrre? Non certo dalle mattanze stagionali che si tengono a primavera avanzata in Sardegna e al largo dell’isola di Favignana. Sono piuttosto i turisti ad essere attratti dal rituale archaico della mattanza come se si trattasse di una corrida marina. E sono sempre i giapponesi ad accaparrarsi la quasi totalità del prodotto pescato. Le gabbie di filo d’acciaio preparate dai pescatori sono sempre buone per catturare i tonni, il problema è che gli esemplari a pinne azzurre che passano di qua sono sempre meno. Il grosso della pesca, ormai, si svolge altrove, dalla Spagna alla Croazia, passando per l’Algeria. Flotte di imbarcazioni superveloci attendono nei porti che arrivi il segnale di un avvenuto avvistamento di tonni. I banchi vengono identificati grazie a satelliti e aerei leggeri come il Cessna. Una volta individuata la preda, le imbarcazioni la circondano, intrappolando i pesci con un’enorme rete circolare. A questo punto sopraggiunge un’imbarcazione più grande, che trascina una gabbia sottomarina. È qui che vengono trasferiti i tonni per essere trasportati nel “ranch”, una fattoria marina dove i tonni vengono ingrassati giorno e notte con una dieta di sardine e sgombri fino a quando raggiungono una taglia sufficiente per essere uccisi e venduti. 72 ore dopo, come informa un quotidiano giapponese, sono gia’ al mercato di Tsukiji. L’idea del “ranch” per tonni è di un australiano di origine croata, Dinko Lukin, che una decina di anni fa ha ideato il metodo per catturare e trasferire in gabbie sottomarine i pesci piu’ amati dai giapponesi. È grazie a lui se oggi l’Australia è il primo esportatore al mondo di tonni “d’allevamento”, un’industria che ogni anno genera 260 milioni di dollari australiani e che vede il 95% della produzione nazionale di tonno involarsi verso il Paese del Sol Levante.

Solo che adesso sono in tanti ad aver capito che le tonnare volanti, che pescano i banchi con l’aiuto di radar per catturarli e allevarli in gabbia, sono il sistema che funziona meglio. Attualmente nel Mediteranneo esistono 44 “ranch” legali, 14 in Spagna, 8 in Croazia, 6 in Italia e in Turchia, e poi ancora a Malta, in Tunisia, Cipro, Grecia, Marocco e Portogallo. Ad aiutare questa nuova industria ci sono i fondi europei destinati all’acquacultura, circa 43 milioni di dollari dal 1997. L’idea è che l’allevamento ittico, a differenza della pesca, ha il vantaggio di non impoverire gli stock ittici dei nostri mari. Peccato che il concetto di “ranch” abbia poco a che fare con questo nobile obiettivo, dal momento che il tonno a pinne azzurre non è in grado di riprodursi in cattività. In altri termini, tutti i soldi spesi per modernizzare le imbarcazioni, per avvistare i banchi di tonni, per catturarli ed allevarli, sono serviti ad incoraggiare un sistema che sequestra i pochi tonni rimasti in circolazione e neutralizza il loro ruolo riproduttivo. Un tonno raggiunge la maturità sessuale tra i cinque e gli otto anni d’età. Negli ultimi cinque anni gli esemplari catturati per essere “allevati” sono sempre più giovani. In Croazia gli allevatori sono obbligati a nutrire i tonni per almeno tre anni, un periodo lunghissimo se si considera che la cattività dei tonni prevista dai “ranch” e’ di sei mesi, e che la dice lunga sulla taglia dei pesci. Il peso medio dei tonni pescati è precipitato da 24,2 Kg del 1999 al 8,2 kg nel 2002. Se lo stock di tonni a pinne azzurre sta diminuendo drasticamente, i profitti degli ultimi anni hanno incoraggiato la moltiplicazione di “ranch”, con il rischio di saturazione del mercato giapponese.●

Il 9° Palio dei Vini Frizzanti “Matilde di Canossa – Ghirlandina d’Oro” si è svolto all’Hotel Mercure Astoria dal 26 al 28 maggio 2005. Il concorso, a carattere nazionale, è stato organizzato dalla Camera di Commercio di Reggio Emilia con la collaborazione tecnica dell’Associazione Italiana Enologi, della Provincia di Reggio Emilia, dell’Enoteca Regionale Emilia-Romagna e dei Consorzi dei Lambruschi di Reggio Emilia e di Modena. Il Concorso, riservato solo ai vini frizzanti ed ai mosti parzialmente fermentati doc e igt prodotti da Aziende italiane, ha consentito di evidenziare e di far conoscere la migliore produzione nazionale di questi vini, nonché di stimolare l’attività delle Aziende vinicole al continuo miglioramento qualitativo dei loro prodotti. Il Palio è un prestigioso Concorso, ma soprattutto un momento di verità. Qui si registrano le qualità del mondo dei vini frizzanti, per cui l’appuntamento annuale di questa manifestazione è elemento indispensabile per valutare le caratteristiche dei prodotti presentati. Al Concorso hanno partecipato 121 aziende con 538 campioni provenienti da 23 province di 8 regioni italiane. Qui di seguito sono elencati i vini e le Aziende vincitrici:

PREMIO SPECIALE "MATILDE DI CANOSSA GHIRLANDINA D'ORO 2005”

CHIARLI 1860 - PR.I.V.I. SRL MODENA (MO) LAMBRUSCO DI SORBARA SECCO “CENTENARIO” 2004 - LAMBRUSCO DI SORBARA SECCO “PREMIUM” 2004 - LAMBRUSCO GRASPAROSSA DI CASTELVETRO SECCO 'VILLA CIALDINI'' 2004 - LAMBRUSCO GRASPAROSSA DI CASTELVETRO AMABILE ''CENTENARIO'' 2004 - LAMBRUSCO GRASPAROSSA DI CASTELVETRO AMABILE 'SIGILLO'' 2004 Il premioalmeno ottenuto viene assegnato 80 centesimi. all’Azienda che ha ottenuto il maggior punteggio, calcolato dalla somma dei punteggi più elevati riferiti ad un massimo di 5 vini, di lotti e di etichette diverse, che hanno

MEDAGLIE D'ORO VINI A DENOMINAZIONE DI ORIGINE CONTROLLATA

PALIO DEI VINI FRIZZANTI “ MATILDE DI CANOSSA GHIRLANDINA D’ORO ” 2005

Per la denominazione di origine controllata “Reggiano”” sono state assegnate più medaglie d’oro ex-aequo, in quanto i vini hanno conseguito lo stesso punteggio. COLLI BOLOGNESI BARBERA 2004 AZ. AGR. TIZZANO SRL - CASALECCHIO DI RENO (BO) COLLI DI PARMA SAUVIGNON ''FORTE RIGONI'' 2004 ARIOLA SRL - CALICELLA DI PILASTRO LANGHIRANO (PR) COLLI DI SCANDIANO E DI CANOSSA MALVASIA ''LE GEMME'' 2004 CANT. SOC. DI PUIANELLO E COVIOLO PUIANELLO DI QUATTRO CASTELLA (RE) COLLI PIACENTINI MALVASIA 2004 CANT. COOP. RIUNITE - CAMPEGINE (RE) LAMBRUSCO DI SORBARA ''PREMIUM'' 2004 CHIARLI 1860 - PR.I.V.I. SRL - MODENA (MO)

LAMBRUSCO GRASPAROSSA DI CASTELVETRO ''CORTE MANZINI'' 2004 AZ. AGR. VITIVINICOLA CORTE MANZINI CASTELVETRO (MO)

VINI A INDICAZIONE GEOGRAFICA TIPICA Per l’Indicazione Geografica Tipica riferita ai vini bianchi secchi e semisecchi sono state conferite più medaglie in quanto i vini hanno conseguito lo stesso punteggio

LAMBRUSCO MANTOVANO ''CORTE SOLE'' 2004 VINICOLA DECORDI DEL BORGO IMPERIALE CORTESOLE - SOLAROLO DI MOTTA BALUFFI (CR)

EMILIA CHARDONNAY 2004 AZ. AGR. PEZZUOLI - MARANELLO (MO)

LAMBRUSCO SALAMINO DI SANTA CROCE 2004 CANT. COOP. RIUNITE - CAMPEGINE (RE)

EMILIA CHARDONNAY ''F.LLI BELLEI'' 2004 AZ. AGR. PEZZUOLI - MARANELLO (MO)

OLTREPO PAVESE MOSCATO 2004 AZ. VITIVINICOLA LA PIEVE DI F.LLI ROSSI ROVESCALA (PV)

EMILIA FORTANA 'FORTANINA DI MARCELLO'' 2004 ARIOLA SRL - CALICELLA DI PILASTRO LANGHIRANO (PR)

PROSECCO DI CONEGLIANO VALDOBBIADENE ''PONTE ROS'' 2004 AZ. AGR. MALIBRAN DI FAVREL MAURIZIO SUSEGANA (TV) REGGIANO LAMBRUSCO ''CANTINE D'EMILIA'' 2004 CANT. COOP. RIUNITE - CAMPEGINE (RE) REGGIANO LAMBRUSCO 2004 CANT. COOP. RIUNITE - CAMPEGINE (RE) RENO PIGNOLETTO ''VILLA BASSI'' 2004 AZ. AGR. BASSI LUIGI - CALDERARA DI RENO (BO)

EMILIA LAMBRUSCO ''TERRE VERDIANE'' 2004 CANTINE CECI SRL - TORRILE (PR) EMILIA MALVASIA ''FORTE RIGONI'' 2004 ARIOLA SRL - CALICELLA DI PILASTRO LANGHIRANO (PR) EMILIA TREBBIANO 2004 ZANASI AZIENDA AGRICOLA CASTELNUOVO RANGONE (MO) VENETO PINOT ROSATO 2004 CANTINE MASCHIO - VISNA' DI VAZZOLA (TV)


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SCRITTO&MANGIATO

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di Geraldina Colotti SCORRIBANDA GASTRONOMICA E NON SOLO SULL'ONDA DI TANTISSIMI LIBRI. REALTÀ, ILLUSIONI E NUOVE DIPENDENZE, IN PERENNE LOTTA CON LA PROPRIA ULCERA

re, il ristorante ci attende con ansia, lì in riva al mare”. Siamo alle pagine finali del romanzo di Mario Lunetta Figure lunari (Robin), un divertissement letterario in forma di giallo. Protagonista, il coltissimo commissario Vauro, in lotta con la propria ulcera e col giro di fanatici che ha ucciso una vecchia maga romana. Qui il detective – con tutti i disincanti e le melanconie sinistresi al posto giusto – ha deciso di dimenticare “melucce, minestrine” e cinemastri hard, e di spassarsela con quella sua strana ragazza che risponde al nome di Selva. Gastronomia, tabacco e “altre complicazioni” hanno però già attirato il lettore fin dalle prime rutilanti righe, infarcite di atmosfere gaddiane. Oltre alla ricetta per preparare una matriciana al bacio, se ne troverà una per palati forti, tratta dall’immaginario opuscolo Gastronomia sacra: “Un flaconcino di sperma prodotto da un giovane al di sotto dei diciott’anni – assicura un furbo santone – conferisce a certi gateaux di crema e cioccolato un sapore e un’energia eccezionali”. Eh sì, “non c’è amore più sincero di quello per il cibo”, come scriveva Gorge Bernard Shaw, meglio se gustato insieme a chi ci piace. Una massima che ben si addice anche a Qiu Xiaolong, il primo scrittore cinese di polizieschi, che pubblica le sue fatiche da Marsilio. Il suo ispettore, Chen, anch’egli “atipico, letterato e gourmet”, svolge le sue indagini “poco ortodosse” fra Cina e Stati uniti, in compagnia di una collega americana. Nell’avventura Visto per Shangai, Chen le spiega i chiaroscuri di un paese in transito tra socialismo e capitalismo e le confida il segreto del raviolo al vapore, della zuppa d’anatra e di una zucca intagliata a forma di Budda. E, in un ultimo incontro al ristorante, pieno di sottintesi, recita per lei gli antichi versi: “La tenerezza della foglia del tè tra le sue labbra/ tutto è possibile, ma non tutto è perdonabile”. Il romanzo di Rossana Campo, L’uomo che non ho sposato (Feltrinelli), descrive invece l’incontro tra due solitudini per le strade di Parigi. Sullo sfondo, l’iniziazione amorosa della protagonista, adolescente negli anni ’70. Nel passato, Rosi era una ragazzina meridionale considerata “strana” sia a scuola che nel quartiere, che viveva con Salvatore le sue prime esperienze sessuali. Nel presente, è una single giù di tono. Cerca di recuperare le energie ricorrendo all’agopuntura di madame Wo a cui, prima di stendersi sul lettino, propina “le sue tirate”. Dice che ci sono “altre guerre nell’aria”, che “quelli” uccidono “dei poveracci per permettere a noi di andare al ristorante e avere le nostre belle vetrine piene di cose merdose”, e che “tutta questa merda che c’è in giro” la sente anche il corpo e “vuol dire la sua”. Madame Wo risponde “pourquoi pas”, senza farsi coinvolgere più di tanto. Poi, su un ponte della Senna, Rosi incontra Salvatore, il suo ragazzo di un tempo, ora un famoso cuoco. Al centro del romanzo, ci sarà così una cena giapponese, corollario erotico di pesce crudo, sushi per lui e sashimi per lei. Una storia in agrodolce, particolarmente riuscita, che la scrittrice genovese condisce con ricette appetitose. “Vuoi che ti faccio un esempio?” chiede Salvatore, “Capesante fritte in pastella al nero di seppia con vongole e zucchine croccanti”“Porca puttana!”, esclama Rosi. E così il lettore. Il binomio cibo e sesso si evidenzia anche nell’acuta inchiesta di Ilda Bartoloni, Come lo fanno le ragazze (Baldini Castoldi Dalai). Bartoloni chiede a 22 ragazze tra i 17 e i 34 anni - figlie e nipoti delle donne che hanno attraversato il ’68 e il femminismo come vivono la loro sessualità. Per Giulia, una bionda napoletana di 29 anni,“i cibi più afrodisiaci sono assolutamente i dolci, ma anche i formaggi”. Ha letto su una rivista che “contengono non so quale sostanza che risveglia gli istinti”. Ma vanno bene anche carne e pesce, “dipende da come li si cucina”. In questo campo Giulia, che lavora nel piccolo e rinomato ristorante dei genitori, può dire la sua. E se la cava anche con il sesso, da quello tradizionale allo scambio di coppia.“Sono soddisfatta di quello che ho. – conclude – Sono soddisfatta. Mi manca solo qualcuno al mio fianco”. Cristiana, 33 anni, da piccola era anoressica (“tutte queste figure femminili sulle riviste, modelli irraggiungibili!”), ma poi “a Parigi, ha “cominciato a capire il piacere”, ad apprezzare il cibo ed è “venuto tutto insieme: un’esplosione di vitalità, di gioia di vivere”. La seconda parte dell’inchiesta è dedicata invece al “come eravamo”. Oltre a

un lungo excursus dell’autrice in tema di liberazione femminile, contiene ricordi di femministe storiche come Edda Billi o di comuniste come Elettra Deiana, che racconta l’esperienza originaria del suo essere “di sinistra e femminista”. In conclusione, la sessuologa Roberta Giommi, giustamente rileva come l’imperativo della dieta permanente e i disturbi di restrizioni e compulsioni legate al cibo e all’ideale di magrezza interessino un buon numero di intervistate. Un “diverso rito di sottomissione al giudizio maschile”, dunque, che risuona anche nelle parole della ventinovenne Diana, che racconta:. “quando sono andata a vivere con lui, mi facevo delle abbuffate totali. La cosa inizia così, tu dici ‘Ok, mi mangio solo un biscotto’”. E poi, “non c’è più limite, quindi ti svuoti tutto quello che ti capita sotto mano”. Uno sguardo, in fondo, non troppo diverso da quello della Marchesa Colombi, fondatrice del Corriere della Sera, che lo restituisce nel finale del romanzo Un matrimonio in provincia (Centro novarese di studi letterari). A quel punto, la protagonista ha ceduto alla famiglia e ha sposato fra le lacrime un poveraccio con la gobba che non ama. Dopo, guardandosi allo specchio, dice: tutto va bene,“il fatto è che ingrasso”. Sesso e giovani, ma in tutt’altro registro, nel volume collettaneo proposto dal gruppo della rivista Torazine, Letteratura chimica italiana (Venerea). Nel racconto di Thalido Mattioli, “Discrasia urbana”, che racconta il viaggio intrippato di Marta Chiesa e Antonio Dore, il cibo è la puzza del condominio di notte in cui ristagna l’odore delle “cose che mangiano loro: cous cous, cipolle, salse varie”. Per “loro” s’intende gli immigrati, tutti “negri” per il ragazzo. E anzi, quella puzza non viene dal cibo, ma dai “peti di questi che dormono. Scoregge di negro”. Tra le storie più riuscite, quella narrata da Alessandra Amitrano, “S/m people”.

Marika è scomparsa. Ha diciott’anni appena, i capelli corti, un piercing nel setto nasale e uno sul sopracciglio destro. La mamma lavora all’Onu e il padre è avvocato. Marika è fidanzata con Fabri, il figlio di Pisellino, feticista di assorbenti e collant con cui ha appena strangolato la donna conosciuta in internet… Una micro galleria di coprofili e “fiche cerebrali” che si ritrovano sotto casa di Ken. E lì sono tutti felici – giardinieri, portinai e netturbini – perché “lavorano per conto di gente perbene”. Racconti chetaminici e allucinati in cui il cibo è consumato in fretta, magari per riempire il vuoto tra uno sballo e l’altro, o come supporto a una coazione, reale o immaginata. In tema di cibo, amori e solitudini, anche la raccolta di racconti Donne, ricette, ritorni e abbandoni della bolognese Milvia Comastri (Pendragon). Amalia ripercorre la sua vita a fianco del marito, prepara un’ultima volta la torta di zucca che gli piaceva tanto, e consuma sulla tomba di lui quell’ultimo pasto a cui ha aggiunto una letale dose di sonnifero. La signorina Annalena, cuoce biscotti ricordando l’unico amore che non ha mai dimenticato. E Mauro – protagonista del bel racconto “Il sopravvissuto”, aspetta il compagno preparando la pastiera. Storie introspettive e commoventi, scritte in un linguaggio semplice ma efficace e tradotte dal sapore del cibo, veicolo di emozioni e desideri. E per finire, “Cena per due”, dal titolo di una poesia di Erri De luca, tratta dalla sua ultima raccolta Sola andata (Feltrinelli): “Sbatti due uova, succhia nel sugo il dito/ tuffati a candela nel mio sangue,/ la tavola che sta di mezzo già diventa letto/ e le sedie cuscini e il vino abbraccio/ cavalluccio marino a dondolo sul fondo./ Nessuno bussa, abbiamo sciolto il ghiaccio nelle ascelle,/ ● scendi tu cataratta su me pupilla cieca”//.

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foto di Giulio Napolitano

e parole non si possono mangiare, come sa bene la gran fetta di mondo per cui la dieta si chiama fame. Ma, nell’era dei media e della telematica, le parole “costruiscono” realtà, creano illusioni e nuove dipendenze. Di questo tratta il volume Al gusto di cioccolato dello psichiatra Matteo Rampin (Ponte alle grazie). Vi sono elencati i mille trucchi della pubblicità per indurre al consumo. Rampin ne svela la logica in un divertente gioco a capitoli che insegna a difendersi dalle manipolazioni linguistiche. In uno vediamo la signora Rossi rigirare fra le mani il pacchetto di crackers che reca la scritta “non contiene colesterolo”. Affermazione veritiera: il laboratorio conferma. Eppure c’è l’inganno. Perché il cracker, appena messo in bocca, si scinde in molecole di zucchero, com’è proprio di tutti i carboidrati. E una parte di queste si trasforma poi in colesterolo… Stesso meccanismo per le acque che “facilitano la diuresi” (cosa ovvia quando si beve) o per le bevande “al gusto di cioccolato”. Così, nelle urne come al supermercato, la nostra mano correrà con sonnambulico automatismo al simbolo o al prodotto che avrà visto di più o di cui avrà più sentito parlare. Quando l’uso di una parola diventa comune, “gli effetti di una diversa etichettatura – dice l’autore – sono tanto concreti quanto inavvertiti”. Per esempio, gli organi sessuali, un tempo erano definiti organi genitali o riproduttivi. Diversità semantiche a cui di solito non si fa caso, ma che rilevano un notevole scarto di prospettiva in un’Italia godereccia – a letto come in cucina - nonostante la piena di baciapile che torna a dilagare. E anche in letteratura, cibo e eros è sempre un binomio che tira. “Ascolta il tuo chef personale. Oggi pasta alla bottarga, storione affumicato e babà al rum. Su, dai, tesoro, preparati a gode-

e scene centrali del film di George Alan Romero, Zombi, si svolgono in un centro commerciale americano. Un tempio del consumo in cui i morti antropofagi tornano perché “quel posto era importante per loro da vivi”. Quegli zombi, dice uno dei sopravvissuti, “hanno un vantaggio su di noi: non pensano”. Allusione esplicita al consumatore lobotomizzato che, nel 1978, comunque non aveva raggiunto i livelli di ora. Il film di Romero e quelli di Marco Ferreri, altro feroce critico dell’autismo consumistico e del potere maschile, sono tappe essenziali del saggio Divora il prossimo tuo, di Enzo Verrengia (Avagliano). Oggetto del volume, la storia del “cannibale di Rotenburg”, ossia Armin Meiwes, analista di computer, che ha divorato un ingegnere informatico, oggetto consenziente del “fiero pasto”. Tutto filmato dalle telecamere. Per questo la cor te, di fronte all’evidente acquiescenza dell’ucciso, ha condannato il Meiwes alla pena di otto anni e non a quella dell’ergastolo. Un caso inquietante per i giudici e per gli psichiatri che hanno riconosciuto il cannibale “sano di mente”. Come indagare l’infrazione di un tabù originario, che stenta a collocarsi anche nel teatro di orrori del presente, a cui certo non difetta il campionario? L’autore, fumettista e sceneggiatore, privilegia la fiction e propone un excursus fra i romanzi horror che hanno affrontato il tema. Già C’era una volta l’America, di Neal Barrett Jr., pubblicato nell’Urania Mondadori nel 1987 raccontava come, negli Stati uniti dopo la terza guerra mondiale, il problema alimentare venisse risolto con il ritorno al cannibalismo. Una “modesta proposta” postmoderna, insomma. Meglio dunque, pensarci per tempo e insegnare ai bambini a mangiare comme il faut. E’ l’intento del volume di Eduard Estivil e Monte Domènesch, Si mangia! (Feltrinelli). Perché un bambino mangi in modo corretto – sostengono i due autori spagnoli – occorre motivarlo. Come? Niente urla o minacce, altrimenti, se fa i capricci per attirare attenzione, finirà per associare quel comportamento al suscitare l’interesse dell’adulto. E niente assembramento intorno al seggiolone, per imparare a mangiare correttamente, il bambino ha bisogno di un ambiente tranquillo, con pochi stimoli coerenti fra loro. E’ bene che, in pasti diversi, le persone si alternino, ma la modalità dev’essere la stessa. Sbagliato anche permettergli di alimentarsi guardando la tv o giocando con gli oggetti transizionali: il pericolo è che poi, per alimentarsi, abbia sempre bisogno di quegli oggetti. Altrettanto bandite le caramelle, che contengono zuccheri in eccesso, inducono la carie e stoppano l’appetito. Ma, più di tutto, “atteggiamento positivo, sempre”. E se siete sull’orlo di una crisi di nervi, passate all’ultimo capitolo – “Cosa faccio quando…?” - che consiglia quali pesci prendere per non… divorare il pargolo. (ge.co)

PER FICTION

La parola in ndigesta

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