materia prima settembre 2005

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Tutto il mese in diplò il manifesto

Tutto il mese in diplò il manifesto

La crisi del reclutamento scientifico nelle universitĂ italiane (e non solo), in nome della carriera e degli andamenti di borsa. Una fotografia del popolo delle facoltĂ , con i suoi problemi e le sue scelte

settembre 2005

Supplemento al numero odierno de il manifesto


[2] il manifesto • «U» come business

FA B R I C A

© Benetton Group S.p.A. 2005 - www.benetton.com


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il manifesto direttore responsabile Sandro Medici

«L» COME BUONA LETTURA

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«S» COME SCIENZE INESATTE di Franco Carlini

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«M» COME MARKETING di Roberta Carlini

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«P» COME RICERCATORI. PRECARI di Luca Tomassini

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«G» COME GASTRONOMIA CON LODE di Nino Pumò

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«M» COME MERITOCRAZIA di Cristiano Violani

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«Y» COME LAUREA BREVE di Luca Tomassini

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niversità che nascono nei supermercati, rettori del tipo tutto in famiglia, facoltà virtuali nel senso ormai classico del solo internet, marketing aggressivo e a volte ridicolo. L’università italiana è oggi molto di questo, al di là dei numeri che il ministro Moratti dà sulle sorti progressive degli studenti iscritti e dei laureati, grazie alle 3+2 e alla brevità possibile del corso. Soprattutto, al di là di quella che dovrebbe essere la vera motivazione per chi si può permettere e intende continuare gli studi: una scelta di passione. La scelta, par di capire attraverso gli autori di questo supplemento, viene invece dettata sempre di più dall’ideologia. Più chiaramente: perché dedicarsi alle scienze esatte e non puntare dritto a facoltà che si presuma lancino il giovane laureato verso una carriera manageriale, sicuramente meglio retribuita di un ricercatore? E’ insomma la predicazione ideologica di questi anni a indirizzare il corso degli studi, mixata a un effetto tv che per esempio moltiplica le facoltà di scienza della comunicazione come fossero pani e pesci. Una predicazione ben sintonizzata con il modello Moratti, meritocratico, dove la produttività conta più della qualità. Tutto questo - e le pagine che seguono - riguardano comunque un mondo in crescita costante, che merita grande attenzione insieme a chi nelle università ci lavora, con un occhio in particolare ai precari. Gli iscritti totali, secondi il censimento del ministero, sono circa un milione e 800mila, e anche le immatricolazioni (cioè i nuovi ingressi nel sistema universitario) hanno superato le 330mila unità, con una leggera maggioranza, il 54%, di donne. Il resto, lo trovate leggendo un po’ più avanti.

direttori Mariuccia Ciotta Gabriele Polo direttore editoriale Francesco Paternò progetto grafico e impaginazione ab&c grafica e multimedia Tel. 06.68308613 studio@ab-c.it concessionaria esclusiva di pubblicità Poster Pubblicità srl Via Tomacelli, 146 00186 Roma Tel. 06.68896911 Fax 06.68308332 stampa Sigraf srl via Vailate 14 Calvenzano [BG] chiuso in redazione: 16 settembre 2005

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S A P E R E

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L A V O R O «U» come business • il manifesto [3]


[4] il manifesto • «U» come business


Dove volano

di Franco Carlini

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uccede in Italia e in tutto il mondo: sono cadute vistosamente le iscrizioni alle lauree scientifiche, almeno quelle classiche come Matematica, Fisica e Chimica. Tengono abbastanza quelle biologiche e ambientali, continuano a raccogliere moltitudini di matricole Ingegneria e Economia. La discesa, drammatica e preoccupante delle scienze “dure”, ha due motivi almeno, l’uno diciamo così genericamente culturale, l’altro politico-sociale. Il primo può dispiacere, ma è un segno dei tempi: veniamo da due secoli, ‘800 e ‘900 in cui le scienze esatte hanno goduto, con pieno merito, di un grande prestigio. Per così dire esse sono apparse e sono state, l’approccio più razionale non solo ai fenomeni della natura, ma anche a quelli generali della vita e della società, in contrapposizione alle narrazioni mitiche, ideologiche, religiose. In ultima analisi era merito della loro razionalità intrinseca, fondata sulla logica matematica da un lato (la deduzioni, i teoremi, il rigore del pensiero) e dall’altro sulla forza della verifica sperimentale che non era già empiria banale e a buon mercato, ma anche in questo caso rigore dei protocolli e dei metodi della sperimentazione, in laboratorio. Questi valori sono tuttora importanti e andrebbero ben tutelati e rilanciati, specialmente in tempi di irrazionalismi diffusi e di grandi confusioni, dove la nobile astronomia viene apparentata con l’astrologia e dove milioni di persone assumono farmaci omeopatici diluitissimi convinti che facciano bene davvero e che siano tanto scientifici come l’aspirina.

le iscrizioni, il calo

di attenzione

verso le scienze esatte,

la corsa degli aspiranti

manager, tra basse

riforme e necessarie passioni

«S» COME SCIENZE INESATTE Le scienze esatte hanno perso attrattiva tra i giovani (ma anche presso il grande pubblico), anche per effetto dei loro successi: nella fisica ci sono certo ancora molte cose da scoprire, particelle elementari esotiche previste dalla teorie, ma ancora da “vedere dal vivo”, e tuttavia il quadro tiene e non è sottoposto a drammatici ed entusiasmanti crisi di paradigmi; dunque la ricerca appare più un faticoso sviluppo dell’esistente che un’avventura intellettuale. Al contrario la biologia, essendo per definizione il luogo della complessità del vivente, offre ancora

molti misteri da indagare: basti pensare al modello classico geni-proteine, che sembrava così lineare: un gene codificato dal Dna, il quale gene, come il programma di un computer, corrisponde deterministicamente a una proteina; ma quel grado bellissimo è ormai sconvolto, e proprio per effetto della decodifica del genoma umano: i percorsi dei geni sono molto, ma molto, più complicati; abbiamo un elenco di lettere una in fila all’altra, ma conosciamo poche parole e ancora meno le regole sintattiche. C’è da lavorare e studiare per decenni.

L’altro motivo cruciale nella caduta del reclutamento scientifico ha un nome molto semplice: utilitarismo e business. Alcuni decenni di predicazione ideologica all’insegna del mercato iperliberista, della carriera e dell’affermazione individuale, hanno lasciato intendere alle famiglie e ai più giovani, che per investire nel proprio futuro sia meglio affidarsi a una laurea nettamente proiettata verso un’augurabile carriera manageriale. Si sa bene che né Ingegneria né Economia la garantiscono e che dovranno essere arricchite dal mitico Ma-

ster, meglio se anglo-americano, ma intanto converrà partire da lì. L’una e l’altra disciplina infatti si sono sapute presentare come piattaforme polifunzionali, in un mondo delle imprese sempre meno industriale e sempre più finanziario. Così l’ingegnere deve sapere di economia e viceversa l’economista ha da essere sistemico. Gli uni e gli altri appaiono fungibili in qualsivoglia settore, tant’è vero che i top manager si presume (ma è una presunzione appunto) che possano passare dalla siderurgia ai pannolini dato che non conta la produzione e i suoi saperi, ma solo l’andamento in borsa. Su questo Luciano Gallino ha scritto di recente cose lucidissime in un libro che ogni aspirante manager dovrebbe studiare prima ancora di cominciare (“L’impresa irresponsabile”. Einaudi 2005). Ma è così vero? Se ne può dubitare anche perché, guardandosi attorno, anche nel mondo delle aziende, si scopre che sono molti i fisici e i matematici: non è vero per niente, infatti, che i loro unici destini professionali siano l’insegnamento e la ricerca, perché le doti di elasticità mentale e insieme di rigore che queste discipline garantiscono, sono tuttora pressoché ineguagliate. Avere una testa da ricercatore infatti vuol dire essere capaci di esercitare in ogni momento una curiosità esagerata (che è un bene), ponendosi delle domande non ovvie di fronte a tutto quanto sembra invece scontato e lineare, e significa farlo avendo degli strumenti concettuali che permettano di formulare modelli e ipotesti, da verificare. Ovviamente, come il lettore avrà ben capito, chi scrive è un tifoso, essendo un fisico lui stesso, sia pure deviato al giornalismo critico, forse per eccesso di curiosità e irrequietezza. Caso specifico una partì con vocazioni di fisico teorico, si trovò a fare una tesi sperimentale in biofisica e continuò occupandosi di percezione visiva. Altri fisici del secolo scorso, ben più importanti, seguirono analoghe migrazioni attraversando discipline diverse ma sempre portandosi addietro metodi, strumenti e cultura. Con divertimento intellettuale loro e utilità sociale diffusa. Iscriversi alle scienze esatte, specialmente di questi tempi, offre un altro grande vantaggio: essendo pochi gli allievi, il rapporto faccia a faccia tra studenti, pochi, e docenti, molti, è più che soddisfacente, il che significa che in queste facoltà si può avere un’esperienza di vita e di comunità che altrove è negata dagli spazi e dall’affollamento. Con un’avvertenza tuttavia: malgrado le riforme al ribasso dell’università attivate negli anni più recenti dai ministri, anche di centro sinistra, questi restano, per fortuna, corsi di laurea faticosi, praticamente esclusivi, nel senso che non lasciano molto tempo ad altre attività : diversamente da quanto si crede di solito non richiedono doti intellettuali superiori ma certamente una passione intensa, che scalda il cuore e la mente.

«U» come business • il manifesto [5]


Come si cattura il neoiscritto. Le offerte delle università, i soldi spesi in pubblicità, vere o ingannevoli, l’immagine che prende il posto della qualità

«M» COME MARKETING di Roberta Carlini

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ari studenti, non seguite le sirene della dotta Bologna e venite a Napoli, «luogo dove al contempo si trovano amenità, abbondanza e una onorata comunità di docenti». Firmato Federico II, anno 1226. Due anni dopo e un po’ più a nord, i procuratori del comune di Vercelli firmarono una convenzione con gli studenti di Padova nella quale si garantiva loro, allo scopo di attrarli a studiare nella cittadina piemontese, un totale di «500 moggi di frumento e 500 moggi di segale a prezzo di aqcuisto», e ciò «in tempio di carestia e dietro richiesta degli stessi scolari». I due precedenti illustri e insospettabili di marketing universitario ante litteram sono citati da Maurizio Boldrini nel saggio introduttivo del volume «Un’idea di università», da lui curato insieme a Mario Morcellini e dedicato per l’appunto alla comunicazione universitaria (Franco Angeli, 2005, euro 18,50). Non che Federico II con la sua propaganda e i vercellesi con le loro seduttive profferte bastino a giustificare «liscia gassata o Macerata» e altri fatti e misfatti della strategia aggressiva del marketing universitario del terzo millennio: ma certo, introducono bene l’argomento. Argomento che sta tutto nei seguenti numeri, tratti dalle ricerche citate nel volume: 74% (percentuale delle università italiane che fanno inserzioni pubblicitarie sui giornali), 42 e 29% (percentuale di atenei che fanno pubblicità, rispettivamente, su radio e tv), 37% (percentuale di università che fanno gadget e merchandising). Numeri di un boom recente, seguito alla stagione di riforme che, insieme all’autonomia e ai corsi «tre più due», ha introdotto la comunicazione nelle torri d’avorio. E con essa le sue leggi, le sua parole d’ordine, le sue banalizzazioni, i suoi soldi: oltre 22 milioni all’anno, secondo i dati Nielsen (citati nel saggio di Valentina Martino). Solo pochi anni fa, nel ’97, l’insieme delle università italiane investiva in pubblicità poco più di 2 milioni di euro: per la precisione, le università private investivano 1,5 milioni e le pubbliche 600mila euro. Adesso l’investimento si è decuplicato e gli atenei pubblici spendono in pubblicità una somma pressoché identica a quella che investono i privati. Parallelamente sono cresciuti anche i prodotti giornalistici dedicati all’argomento - inserti e supplementi, compreso questo che avete tra le mani (che com’è costume nostro mantiene netta la distinzione tra gli interessi dell’inserzionista è quelli del lettore: tra parentesi, ma è meglio chiarirlo). Tutto bene dunque? L’università è uscita dalla torre d’avorio

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e attraverso la tecnica e la scienza della comunicazione - l’ultima e gigantesca tendenza delle immatricolazioni universitarie - è entrata nella democrazia del mercato? Non proprio, e il volume curato da Boldrini e Morcellini avvia sulla questione una riflessione a tratti anche autocritica. Per cominciare, va detto che l’università italiana, nonostante tutto, non gode di buona stampa. Le riforme che l’hanno attraversata sono state criticate su libri e giornali: si è parlato di scadimento della qualità dell’insegnamento e di concorrenza al ribasso per attrarre gli studenti, sono fioriti rimpianti dei tempi passati e accuse che qui per brevità riassumiamo dai titoli: «Una ikea di università» (Maurizio Ferraris, Cortina ed., 2001), «Tre più due uguale zero» (Gian Luigi Beccaria, Garzanti, 2004), «Quale eccellenza?» (Salvatore Settis, Laterza, 2004). Tutti questi autori ed altri (da Galli della Loggia a Citati) hanno riversato in abbondanza le loro critiche anche sui quotidiani. La discussione va ben oltre la questione della comunicazione e coinvolge l’intero apparato delle riforme attuate negli anni del centrosinistra: non è per entrare nel merito delle ferventi critiche che qui le citiamo, ma per notare che la gran mole di personale e investimenti messa all’opera per passare «dalla torre d’avorio al marketing mix» (Boldrini) quanto meno - per dirla con i curatori del volume - non è riuscita a comunicare la complessità del cambiamento. Parallelamente sulle cronache dei giornali imperversavano i casi di «malauniversità», gli esami venduti o i prof molesti o le lauree copiate. L’università ha continuato ad essere dipinta «in bianco e nero», senza sfumature né approfondimenti, mentre fiorivano spot e super-inserti. Una delle cause di questo fenomeno è nel fatto che «si lavora molto sull’immagine e sulla persuasione e poco sulla co-

municazione per la qualità e la costruzione della reputazione», scrive Boldrini che intitola il suo saggio a «la reputazione oltre l’immagine». Poche pagine prima, lo stesso Boldrini descrive il fenomeno dell’aumento dell’attenzione e del personale dedicati alla comunicazione come stretta conseguenza dell’aumento della disoccupazione tra i giornalisti delle testate (dunque, molti professionisti in cerca di nuovi lavori) e dei primi sbarchi dei laureati in Scienza della comunicazione (che porterebbe nell’università una specie di circolo della comunicazione, decidete voi se virtuoso o vizioso). Se una critica viene fatta dunque a questi «pionieri», è di aver pensato soprattutto all’immagine laddove «l’università non è una merce» e dunque quel che va costruita e comunicata è la sua reputazione. Per farlo, non basta ad esempio annunciare con uno spot la nascita di un corso ma aggiornare anche via via sui suoi sviluppi, gli effetti, i cambiamenti, i risultati. Non solo: nel saggio ci si augura anche l’introduzione di un’«etica della comunicazione», un’autodisciplina che almeno per le università eviti le pubblicità ingannevoli o furbette. Autoriforma molto augurabile, ma che guardata col metro del denaro rischia di essere poco redditizia, se l’unico scopo della comunicazione

è e resta quello di accalappiare le matricole: sempre nel libro si cita un’indagine secondo la quale alla domanda «quali sono i risultati positivi conseguiti grazie alla campagna 2002-2003?», il 74% degli atenei interpellati ha risposto «l’aumento delle immatricolazioni». Più immatricolati portano più contributi pubblici, dunque più investimenti per studenti, ricerca e anche per altra pubblicità. Anche qui, il circolo non è del tutto virtuoso. Per finire, la nota positiva segnalata da più di un saggio nel volume: la comunicazione delle università, vi si legge, ha il suo

momento di svolta con la rivolta dei rettori dell’autunno 2002. Lì si esce dal binomio: pubblicità patinate di qua, cronache scandalistiche di là. Le università - dai vertici, i Magnifici rettori che minacciano le dimisisoni di massa, agli studenti, non più clienti - acquistano visibilità e voce per quel che dicono: la riduzione delle risorse pubbliche le sta strangolando, la ricerca scientifica sta sparendo. Qui la «comunicazione» fa un salto, si legge nel libro. Forse perché - ci permettiamo di aggiungere - in quel caso c’era un contenuto interessante da comunicare. C’era la notizia.


di Luca Tomassini

P

rofessionisti impegnati nella concezione o nella creazione di nuove conoscenze, prodotti, processi, metodi e sistemi nuovi e nella gestione dei progetti interessati». Nella Raccomandazione della Commissione riguardante la Carta europea dei ricercatori approvata l’11 marzo scorso è questa la definizione della figura professionale più ricorrente in ogni argomento che si proponga di affrontare la stagnazione europea o del declino italiano. E senza dubbio questa iniziativa dell’esecutivo di Bruxelles mirante a indicare per essa una sorta di griglia (non vincolante) di diritti e doveri è stata accolta con grande entusiasmo nelle università italiane, proprio in quei mesi attraversate dalle proteste dei ricercatori contro il tristemente noto Disegno di legge (Ddl) della ministra Moratti: addirittura nel luglio successivo era adottato dalla Conferenza dei rettori (Crui), dopo infiniti tentennamenti approdata a una linea di contrapposizione al Ddl. E come avrebbe potuto essere altrimenti, visto che nel documento sono indicati sogni proibiti dei ricercatori italiani quali retribuzioni e finanziamenti adeguati, procedure di valutazione e concorsi trasparenti, appartenenza agli organismi decisionali di enti o università, diritto alla formazione e alla mobilità? Il tutto, è bene sottolinearlo, indipendentemente dall’inquadramento contrattuale. E se questo in Europa traduce l’attenzione a chi lavora per i privati, nel nostro paese significa (o meglio potrebbe significare) prendere finalmente in considerazione la crescente marea di precari del settore. Che la sorte della ricerca italiana e di chi la svolge concretamente sia così strettamente legata a quella del sistema universitario è forse la più rilevante specificità nostrana. Che al di qua delle Alpi il peso complessivo degli investimenti in ricerca e sviluppo sia tra i più bassi dell’Unione è arcinoto (dietro di noi solamente Spagna e Portogallo), meno diffusa è la consapevolezza del fatto che almeno il 30% di essi proviene direttamente dalle università (circa il 40% delle loro spese complessive) cui afferisce il 36% del personale del settore. Una quota di investimenti, come confermano i dati presentati recentemente dal Ministero della pubblica istruzione, molto più elevata che nella maggioranza dei paesi Ue e Ocse dove è rispettivamente del 21% e del 18,2%. Tralasciando ogni commento sulla sclerosi dell’impresa privata che tali dati mettono in evidenza, questo significa che dalle sorti dell’accademia italiana dipende molto più di quanto non si sia soliti ammettere. I ricercatori propriamente detti, ovvero il gradino più basso della docenza universitaria, sono oggi il 37,2% dei circa 57mila docenti complessivi, contro il 31,6% di associati e il 31,2% di ordinari. Quella che dovrebbe essere una piramide è in realtà un bel cilindro, e dal 1999 in poi il loro numero non ha fatto che diminuire con un ritmo ben più veloce di quello delle altre categorie. Colpa prima dell’autonomia voluta da Berlinguer, che ha consentito ai singoli atenei di bandire concorsi ovviamente nella maggior parte dei casi riservati ai professori, e a partire dal 2003 del blocco delle assunzioni deciso dal governo. L’età media di un ricercatore universitario è oggi di 40 anni e

«

I sogni proibiti – e disattesi in casa – di chi fa ricerca all’università,

messi nero su bianco da una raccomandazione dell’esecutivo comunitario di Bruxelles

«P» COME RICERCATORI. PRECARI il calo rispetto ai 44 del 2002 (ma nel ’99 era 34) è dovuto ai passaggi ad associato. E non è nulla in confronto agli ordinari: oltre la metà ha più di 55 anni, un problema cui il governo ha cercato di ovviare… garantendo loro la possibilità di restare in servizio almeno fino a 75. Il dato è ancora più preoccupante se si considera il ruolo estremamente rilevante che i ricercatori hanno nell’insegnamento vero e proprio. Non esistono dati certi in proposito, ma pur con consistenti variazioni da facoltà a facoltà si calcola che es-

si svolgano in media poco meno della metà dei corsi, senza alcun compenso aggiuntivo per il maggiore carico di lavoro. Unica consolazione per i ricercatori-docenti, quella di poter così votare il preside della loro facoltà a differenza dei loro colleghi ricercatori “puri”. Questo è il principale motivo per cui secondo il Ministero la quantità di tempo dedicata alla ricerca stessa è sostanzialmente uniforme tra i vari livelli della docenza, evidenziando un’ulteriore patologia del sistema. Ma qualunque descrizione anche solo verosimile della situa-

zione non può non tenere conto della massa di precari oramai stabilmente parte del panorama accademico. Nessuno sa con esattezza quanti siano e quali siano le loro mansioni e inquadramenti contrattuali. In proposito il Ministero (ma anche la Crui e il Consiglio nazionale per la valutazione) è più che reticente ma tra le righe del Rapporto 2005 spuntano due cifre interessanti: secondo il Ministero restano esclusi dal computo del personale addetto alla ricerca i circa 30mila dottorandi (ma non dovrebbero studiare?) e soprattutto i 15.200 tra

assegnisti e contrattisti. Si tratta di contratti a tempo determinato, quasi sempre senza alcuna tutela per malattia o maternità, con retribuzioni fortemente variabili: ecco il segreto della sopravvivenza di molti progetti avviati, nonostante i tagli selvaggi del Governo ai vari fondi di finanziamento diretto alla ricerca (come quote del Fondo ordinario o quello per i Piani di rilevanza nazionale). E a tali cifre è opportuno aggiungere i circa 20mila docenti a contratto, raramente impegnati solamente in attività di docenza nonché un consistente numero di volontari (sì, volontari) a caccia di un curriculum, per un totale complessivo di circa 40mila persone secondo stime considerate prudenti dagli addetti ai lavori. 40mila invisibili, senza alcuna rappresentanza negli organismi accademici, senza alcuna copertura sindacale, neanche menzionati nei bilanci degli atenei, completamente in balia dei docenti-padroni che un giorno sempre più lontano potrebbero assicurare loro l’agognato posto fisso. E’ questo che le università italiane intendevano quando nel recepire la Raccomandazione della Commissione si dicevano «convinte che la formazione dei giovani come capitale umano e la ricerca sono gli strumenti fondamentali per lo sviluppo del paese»?

«U» come business • il manifesto [7]


Scienze Gastronomiche,

facoltà di Slow Food.

L’idea di insegnare cultura

alimentare intrecciando saperi scientifici e umanistici

con tecniche della produzione, nel rispetto delle tradizioni

«G» COME GASTRONOMIA CON LODE

di Nino Pumò

C’

è modo e modo di fare l’università. Di studiare, di specializzarsi e in prospettiva di lavorare. Uno di questi è un po’ speciale: è la laurea presso l’università di Scienze Gastronomiche di Slow Food, a Pollenzo vicino Bra in Piemonte, e a Colorno, nel parmense. In queste università si è data dignità accademica al cibo, che è innanzi tutto un fattore culturale, oltre che necessario al nostro sostentamento. Le iscrizioni all’anno accademico 2005/2006 sono aperte per il primo anno del triennio di base, che l’anno scorso ha visto iniziare 70 studenti provenienti da 10 paesi del mondo con l’obiettivo di apprendere una formazione gastronomica di alto livello internazionale. L’università si è anche impegnata a far partecipare i suoi studenti, a partire dal 17 febbraio, a una serie di conferenze che si terranno in alcuni

[8] il manifesto • «U» come business

atenei europei: in Olanda, ospiti dell’università di Wageningen; a Saragozza, l’8 marzo, su invito della più antica università di Spagna; all’università di Fulda in Germania il 18 di marzo e all’università di Montpellier in Francia il 21 dello stesso mese. “Il nostro impegno è volto far conoscere un approccio alla gastronomia, che sia strettamente legato a saperi scientifici, umanistici, alle tradizioni alimentari e alle tecniche di produzione tipiche di molti paesi del mondo”, dice Alberto Capatti, coordinatore scientifico dell’università “e, in questo senso, stiamo anche organizzando, nella sede di Pollenzo, una serie di incontri con personalità internazionali del mondo della gastronomia, rivolti non solo ai nostri studenti”. Spesso si tenda ad identificare il “mangiar bene” con gourmet incalliti in cerca di dispendiose serate conviviali. La gastronomia è però cosa seria, perché racchiude una molteplicità di aspetti legati alla produzione, alla trasformazione e al consumo del cibo. Così come è evidente che la qualità del

cibo non sia solo un fattore che riguardi una limitata fascia di popolazione con possibilità economiche elevate e un grado di cultura superiore alla media. Basti pensare che il problema della scarsa qualità dei cibi e il conseguente abbassamento dei prezzi degli alimenti “di massa” è un problema che si trascina annose questioni sociali e di modelli di sviluppo su scala internazionale. Dalla fine della Seconda guerra mondiale ai giorni nostri, gli agricoltori sono stati persuasi a adottare continuamente nuove tecnologie nella speranza di aumentare i profitti e diminuire il costo delle materie prime necessarie ad alimentare interi stati: attualmente gli agricoltori dei paesi “industrializzati” sono i più produttivi del pianeta. Tuttavia l’aumento della produttività ha allontanato sempre di più agricoltori dalla terra e impoverito la biodiversità delle colture. Dare dignità accademica alle Scienze della Gastronomia è parso una conseguenza inevitabile e urgente per sistemizzare differenti discipline e competenze in

un unico luogo, che diviene il centro di una produzione culturale autonoma e innovativa. La scelta didattica del progetto racchiude la volontà di trasmettere il gusto del sapere e il piacere della coscienza alimentare non solo alle nuove generazioni ma a tutti coloro che già da tempo sono impegnati nel complesso mondo della gastronomia, in ogni sua forma. L’idea di istituire un centro di studi superiori di Scienze Gastronomiche nasce sul finire del 1997, allorché si comincia a prospettare la ristrutturazione dell’Agenzia di Pollenzo. Si tratta di una novità nell’ambito dell’insegnamento superiore, dal momento che le scienze e le tecnologie alimentari sono coltivate dalle Facoltà di Agraria e di Veterinaria, e la nutrizione e la dietetica sono appannaggio di quelle di Medicina. Gli aspetti storici, culturali e linguistici non sono mai stati recepiti, con apposite discipline, nelle Università italiane e internazionali. Le materie del piano didattico di Scienze Gastronomiche sono di estrazione umanistica e scientifica, e caratterizzano nel loro insieme una cultura alimentare completa. In accordo con le recenti normative ministeriali e europee, si è deciso di strutturare il corso suddividendolo in un Triennio di base e in due Bienni di specializzazione: il cosiddetto “3+2”. Gli obbiettivi del Triennio di base sono mirati alla formazione di un bagaglio culturale e pratico che dia la possibilità allo studente di avere una conoscenza ampia e ben strutturata di tutti gli aspetti legati al mondo dell’enogastronomia. Durante i primi tre anni di preparazione si affrontano discipline fondamentali sia per un proficuo inserimento nel mondo del lavoro, che per il proseguimento degli studi in uno dei due bienni successivi di specializzazione. Nel corso del primo anno si studiano argomenti quali l’enologia, l’igiene e la microbiologia degli alimenti, i principi di economia e di statistica, la storia dell’alimentazione, delle cucine, del paesaggio agrario e la valutazione sensoriale. Il Triennio di base prosegue con lo studio della geografia dei vini, delle risorse e dei sistemi agroalimentari, del lessico gastronomico, delle tecniche culinarie, dell’antropologia dell’alimentazione, della comunicazione alimentare, del diritto delle politiche alimentari, della sociologia dei consumi e del turismo gastronomico. Una preparazione che affianca e perfeziona l’attività di degustazione dei cibi e delle bevande attraverso la valutazione sensoriale e le attività di studio fuori sede, organizzate in numerosi stage in Italia e all’estero. A conclusione dei primi tre anni di studio, con l’acquisizione di un Diploma di laurea in Gastronomia, lo studente è pronto ad entrare nel mondo del lavoro in quegli ambiti che sono direttamente collegati all’enogastronomia: editoria, giornalismo, settore acquisti per grandi catene di distribuzione, enti pubblici, parchi, consorzi di tutela di prodotti e del territorio, grandi alberghi, istruzione. E per chi intende proseguire negli studi vi è la possibilità di accedere a uno dei due Bienni di specializzazione: Scienze della Comunicazione alimentare e gastronomica, Gestione delle imprese di produzione e distribuzione degli alimenti. Entrambi gli indirizzi sono costruiti in modo da fornire agli studenti ulteriori elementi di formazione e approfondimento, l’uno in materie umanistiche, l’altro in campo economico e di management.


Il modello Moratti piace a molti per il suo

sentore meritocratico e per la capacità di premiare

la competizione fra le università. Ma pone un bel

po’ di problemi. Eccone alcuni

«M» COME MERITOCRAZIA di Cristiano Violani*

A

lla vigilia dell’anno accademico 2005-6 lo stato dell’università italiana è tutt’altro che roseo. L’ambizioso obiettivo di Lisbona, mettere entro il 2010 l’Europa al primo posto fra le società basate sulla conoscenza, appare ancor più lontano che nel resto del vecchio continente. Nelle visioni dell’OCSE un elevato benessere economico sociale sarebbe correlato alla estensione dell’alta formazione tra i giovani e nella popolazione generale (in Finlandia ha una laurea oltre il 50% della popolazione e l’80% della classe di età) e alla continua produzione di nuove conoscenze e tecnologie, attività in cui le università dovrebbero giocare un ruolo primario. A partire dalla seconda metà degli anni ’90 l’università italiana è stata largamente impegnata da riforme tese a estendere l’istruzione alta, riformando i percorsi di studi e facilitando l’istituzione di nuove sedi universitarie, con apprezzabili successi quantitativi, stando

ai rapporti del Comitato Nazionale per la valutazione del Sistema Universitario. Ma ci sono motivi di preoccupazione. L’estensione del sistema universitario richiederebbe maggiori finanziamenti, che in tutto il mondo sono primariamente garantiti dallo stato. Invece da noi è caduta nel contesto di una restrizione della spesa pubblica. Richiederebbe inoltre una visione chiara degli obbiettivi e una buona capacità dello stato di indirizzare le iniziative delle università, da sempre autonome nell’organizzare la ricerca (nei limiti di finanziamenti sempre assai scarsi) e, dall’inizio degli anni ’90, autonome nella loro organizzazione statutaria e, dal ’94 in quella finanziaria, nonché, dall’inizio degli anni 2000, in quella degli ordinamenti degli studi, nei limiti di regole tese a preservare un valore legale ai titoli, in particolare se necessari per l’accesso a professioni regolate. Sul piano della didattica le università si sono date molto da fare e, poiché chi molto fa molto sbaglia, in un sistema arcaico e poco

avvezzo ai cambiamenti come l’accademia italiana di errori ne sono stati commessi molti. Nella fretta di attuare la riforma, per non interferire con gli usi e le aspirazioni di molti professori, le valenze professionali degli studi sono state poco rapportate alle esigenze del mondo del lavoro. Ai nuovi obbiettivi formativi dichiarati spesso non ha corrisposto una selezione e riorganizzazione degli insegnamenti. Mantenendo gli assetti precedenti, sono stati concentrati più insegnamenti in un arco di tempo più breve (3 anni), restringendo i programmi di studio ma aumentando le prove d’esame. Unitamente alla pressione a far presto negli studi, ciò non ha certo migliorato la qualità degli apprendimenti. Ma altrettanto certamente la guida della riforma assunta dal ministro Moratti e dal suo staff non hanno contribuito a migliorare la situazione. Partiti da una iniziale avversione per la riforma del centro sinistra, hanno poi tenuto per molti mesi il sistema in condizione di incertezza, e infine optato per una manteni-

mento dell’impostazione del 3+2. Prima hanno specificato dei tardivi requisiti minimi di docenza e di aule per corsi già approvati e, solo recentemente, hanno varato delle modifiche normative alquanto contraddittorie. Se l’applicazione della nuova normativa fosse imposta a tempi brevi e in modo generalizzato, confusioni e danni per gli studenti e per le università sarebbero tanto rilevanti quanto non giustificati dai problemi riscontrati. Infatti anche i dati relativi al 2004 presentati dal Comitato per la valutazione confermano i rapporti degli anni precedenti evidenziando i buoni risultati quantitativi della riforma dell’autonomia didattica in termini di numero di immatricolati - costante nonostante il calo demografico, di aumento dei diplomati e dei laureati (+15% rispetto al 2004) e di riduzione del tasso di abbandoni (-25% rispetto al 2001). Nel presentare i dati il ministro, forse già in campagna elettorale, ha colto l’occasione per denunciare che il centrosinistra non aveva dato alcun soste-

gno alla riforma, per rivendicare il merito di aver aumentato il finanziamento ordinario delle università del 13% rispetto al 2001 e per magnificare gli effetti positivi del suo nuovo modello di finanziamento delle università. Tre affermazioni controvertibili: dei finanziamenti per i nuovi corsi di studio ci furono; gli aumenti del finanziamento ordinario coprono a stento i costi automaticamente crescenti degli atenei. Ma soprattutto è poco logico l’attribuire qualsivoglia effetto riscontrato nel 2004 alla ripartizione di soli 29 milioni di euro in base ai risultati delle università proposta dalla Moratti quello stesso anno e che nel 2005 ha riguardato solo circa 300 milioni, cioè meno del 4% del finanziamento totale. Il ministro vanta ulteriori effetti positivi per proprie iniziative ancora in fase di problematica attuazione, come la banca dati dell’offerta formativa e l’archivio sulle carriere degli studenti. Ma il suo cavallo preferito è il nuovo modello di finanziamento delle università: i fondi sarebbero ripartiti non più in base al numero degli studenti ma in base ai risultati, alle prestazioni degli atenei. Un 30% per il numero degli studenti in regola con gli studi, un 30% in base alla produttività didattica espressa dal numero dei laureati (regolari) e dalla quantità degli esami superati, un 30% per la capacità di svolgere ricerca (numero di ricercatori + finanziamenti) e un 10% in base a criteri più discrezionali. Il modello piace a molti per il suo sentore meritocratico e per la capacità di premiare la competizione fra le università. Ma pone diversi problemi. Il più evidente è come evitare che la produttività didattica sia raggiunta a scapito della qualità degli apprendimenti? Ma i problemi più gravi riguardano l’entità della quota ripartita e, più in generale, i limiti della autonomia finanziaria degli atenei. Non è infatti vero che le università siano ora finanziate in base al numero degli iscritti. Fino al 1994 erano finanziate in base alle proprie richieste e a quanto del bilancio avevano speso nell’anno precedente e il Ministero garantiva il pagamento degli stipendi dei professori e del personale di ruolo, da esso assegnati alle università. Poi fondi sono stati assegnati alle università in base a quanto esse avevano ricevuto l’anno precedente, meno una piccola quota crescente negli anni e mai superiore al 10%, sottratta e ridistribuita in funzione di un riequilibrio della funzionalità didattica fra gli atenei. E qui è il problema: le università sostengono spese per il personale di ruolo che crescono quasi automaticamente e che assorbono tre quarti dei bilanci. In assenza di fondi incrementali da ripartire in base ai risultati e di interventi sugli atenei in difficoltà, il nuovo modello di finanziamento differenzierebbe assurdamente la qualità degli atenei e, addirittura, alcuni atenei avrebbero difficoltà a pagare gli stipendi. A questo avrebbe rimediato la precarizzazione dei rapporti di impiego prevista dalla riforma dello stato giuridico e del reclutamento dei docenti… ma questa è un’altra storia. * componente Consiglio Universitario Nazionale

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di Luca Tomassini

S

tudenti universitari, non se ne è parlato molto negli ultimi tempi. Scomparsi dai mezzi di informazione, quasi schiacciati dall’attenzione a tratti ossessiva dedicata alla crisi della ricerca (e dei ricercatori). Persino Letizia Moratti li ha quasi dimenticati, dopo le sgradite attenzioni di Berlinguer e Zecchino: questa manager aggressiva e risoluta, trasformatasi in televenditrice di merce sempre più avariata, a loro ha dedicato solamente la sua “Y”, quella divisione del cosiddetto “3+2” in “1+2+2” introdotta nel dicembre dello scorso anno con l’unico scopo di ridurne al minimo la loro permanenza negli atenei nostrani obbligandoli a scegliere fin dal primo anno tra la lauretta triennale e quella “specialistica” (5 anni). Una disattenzione (o forse una rimozione) che emerge con chiarezza anche consultando i poveri, poverissimi dati messi a disposizione dei cittadini dal Ministero della pubblica istruzione con il rapporto 2005 “L’università in cifre”. Per il quale, inutile dirlo, tutto o quasi va come dovrebbe. E’ vero o no, infatti, che il numero di studenti e soprattutto di laureati è in costante aumento negli ultimi anni come orgogliosamente rivendicato anche da molti rettori nelle ultime due settimane? Gli iscritti totali in effetti sono cresciuti costantemente fino al livello attuale di circa un milione e 800mila, e anche le immatricolazioni (cioè i nuovi ingressi nel sistema universitario) hanno superato le 330mila unità (in leggera maggioranza, 54%, le donne). Nel 2003 poi in circa 235mila hanno conquistato l’ambito titolo, con un incremento del 14,3% rispetto all’anno precedente, cifre tanto più lusinghiere se si tiene conto della diminuzione dei cosiddetti iscritti non regolari, di quei “poltroni” cioè che stazionano all’università da un numero di anni superiore alla durata ufficiale del loro percorso di studi: dal 44,7% del totale nell’anno accademico 2000/2001 al 43,5% del 2003/2004. Non un gran che, si dirà, ma tutto sta nel definire la giusta variabile; ecco allora apparire il concetto di “probabilità di non concludere gli studi entro la durata legale”, crollata negli stessi anni dall’87,1% al 77,2%! Prova provata, secondo ministro e rettori, che la riforma funziona. Eppure non è difficile capire dov’è il trucco. Per cominciare ci sono gli squilibri: continua infatti il drammatico calo di iscrizioni alle facoltà scientifiche (5,2% nell’ultimo anno) e di ingegneria (-1,5%), compensato dalla crescita nelle aree medica (+6%), chimico-farmaceutica (+14,1%) e geo-biologica (+8%). Sostanzialmente stabili le altre discipline, con l’eccezione dell’indirizzo “Difesa e sicurezza” (+21,5%): si tratta di corsi quasi sempre riservati a militari (sic!) che attirano ogni anno circa 600

[10] il manifesto • «U» come business

«Y» COME LAUREA BREVE nuovi “studenti”. Ma è soprattutto la tanto celebrata “sveglia” ai vituperati studenti lumaca a non avere alcun fondamento statistico. La riforma dei cicli è infatti entrata definitivamente in vigore solo nel 2001 e dunque i primi laureati (laurea breve, s’intende) “regolari” sono stati prodotti nel 2004, anno manco a dirlo al quale le rilevazioni non arrivano: la stragrande maggioranza dei circa 970mila iscritti al nuovo ordinamento (la metà del totale) è dunque in corso per definizione e i “nuovi laureati” sono proprio molti degli “irregolari” del vecchio ordinamento passati al nuovo pur abbandonare la baracca con qualcosa in mano. Non esistono inoltre valutazioni sul tasso di passaggi dalla laurea triennale a quella specialistica (il +2) e è quindi impossibile escludere che l’aumento del numero di titoli di studio sarà alla fine ottenuto al prezzo di una riduzione anche formale del livello di preparazione. A meno di non volersi ostinare, come naturalmente fanno tutte le statistiche ufficiali, a equiparare la vecchia laurea con la nuova triennale. Anche il trionfalismo legato al calo degli abbandoni dopo il primo anno (dal 27% del ’99 al 21%

È vero o no

che il numero degli studenti

e soprattutto dei laureati è in costante aumento negli ultimi anni?

Lettura critica dei dati legati alla riforma

del 2004) e degli studenti che non superano alcun esame (23,4% nel vecchio ordinamento e 16,8% nel nuovo nel corso del 2003) appare del tutto ingiustificato. Perché abbandonare se il traguardo è a soli tre anni di distanza anziché 5? E cosa vuol dire sostenere un esame? Poco con il 3+2 (o “Y” che dir si voglia), visto che i vecchi corsi sono stati divisi senza ritegno e gli studenti sottoposti al ritmo ossessivo di prove quasi bimestrali su microscopiche frazioni di programma. Senza contare che, come ammettono le stesse cifre ministeriali, in media questi ultimi riescono a racimolare solo la metà dei crediti previsti, confermando la sopravvalutazione della regolarità degli studi. Inoltre, che la riforma offrisse la possibilità di conquistare senza troppi sforzi un “pezzo di carta” da spendere sul mercato del lavoro lo hanno capito per primi proprio gli studenti. Come spiegare altrimenti il sorprendente aumento di coloro che si iscrivono per la prima volta a un corso universitario avendo già compiuto 22 anni? Nel 2002/03 rappresentavano il 21% degli immatricolati, contro il 16% di soli due

anni prima. Certo, che il sistema sia capace di riportare agli studi chi li aveva abbandonati è un fatto positivo, ma è lecito sospettare che il fenomeno sia comunque causato dalla crescente disoccupazione giovanile (mai menzionata dagli “esperti”) e che tenderà a esaurirsi nei prossimi anni. E allora anche l’aumento dell’accesso all’università potrebbe rivelarsi in buona misura transitorio, soprattutto per quanto riguarda i diciannovenni, con effetti disastrosi anche sul terreno finanziario. Le tasse universitarie sono infatti una parte sempre più consistente del gettito complessivo degli atenei (oggi almeno il 10%) e negli ultimi tempi sono aumentate con un ritmo del 6-7% all’anno (21% dal 2000). Per non parlare del vero e proprio shock del biennio 1996/98 in cui l’ammontare dei contributi privati è schizzato dal 22,4% al 45,2% del totale. Difficile pensare a un’improvvisa voglia di innovazione delle imprese, che anzi hanno diminuito i loro investimenti in risposta alla crisi economica riportando la quota di finanziamento pubblico al 69% nel 2003. Un commento merita poi il cosiddetto calo del numero medio di studenti per docente: 30 nel 2002/03, 32 nel 1999/00. Come è possibile, se nel frattempo il numero dei primi è aumentato e quello dei secondi è sceso del 2% per effetto del blocco dei concorsi in vigore dal 2003? Forse i professori ordinari hanno improvvisamente sentito il bisogno di tornare a calcare le aule? La risposta è semplicissima: i cosiddetti docenti a contratto, leggi precari della didattica, nel giro di dieci anni sono passati dall’11 al 32% del totale del corpo docente, per arrivare a sfiorare le 20mila unità! E occorre ricordare che quasi sempre queste persone lavorano in condizioni assurde (non è raro sentire parlare di interi corsi pagati poche centinaia di euro) e non vengono scelte tramite concorsi o valutazioni, con le immaginabili conseguenze sulla qualità della didattica. Insomma, gli studenti paga-


Gli iscritti totali alle università italiane sono arrivati

a circa 1 milione e 800mila unità,

con un calo più marcato nelle facoltà scientifiche no sempre di più per avere sempre di meno, anche in termini di diritto allo studio. E’ infatti impossibile sentirsi rassicurati dal fatto che in Piemonte, Toscana e Trentino il 100% degli aventi diritto riceve la borsa di studio e non solo per l’estrema variabilità regionale di questi dati (in Puglia è il 39,9%, in Campania il 46%) ma anche perché la spesa media per idoneo non supera i 1700 euro all’anno. E per quanto riguarda l’edilizia, meno del 10% degli studenti fuori sede può contare su un alloggio. Ma forse la beffa più atroce è il compiacimento con cui il rapporto menziona «la forte espansione dei corsi post-laurea»: nell’anno accademico 2003/04 a frequentare scuole di specializzazione, dottorati, corsi di perfezionamento, master di primo e secondo livello e via addentrandosi nella jungla erano circa 150mila. E i soli iscritti alle prime erano 75mila, con un aumento del 93% rispetto a cinque anni prima. Peccato che si tratti soprattutto delle tristemente note Scuole di specializzazione per l’insegnamento, scatole vuote che estorcono a chi voglia tentare la ventura di un concorso nella scuola superiore in alcuni casi anche 2mila euro all’anno. Viene da chiedersi: c’è qualcosa di vero nella “nuova università”?

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Dal 22 settembre in edicola e in libreria a 6,90 euro, “Io ci provo”, Cosimo Rossi intervista Fausto Bertinotti. Da Prodi a Prodi. Dalla rottura del 1998 alla prova di governo passando per le primarie. Il leader del Prc si racconta e racconta le scelte di allora e di oggi: la fine del ciclo riformista, lo stallo delle socialdemocrazie, le due sinistre, la crisi del pensiero unico, i movimenti in movimento, la nonviolenza, la pace e la guerra.

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