viaggiatori indipendenti luglio 2006

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Viaggiatori indipendenti

BREVI STORIE DI LUNGHE STORIE DI GRANDI AUTORI, DALL’ESTONIA ALLO YUCATAN PASSANDO PER BERLINO, NEW YORK E MOLTO ALTRO ANCORA

luglio 2006

Supplemento al numero odierno de il manifesto



IN QUESTO NUMERO

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NEW YORK, OCCHI DI GREMLIN CHE BUCANO PERFINO LA NEBBIA di Laura Magni CANADA, LA REGINA DEL NULLA MEZZA INGLESE E MEZZA UCRAINA di Roberto Baggiani

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IL BRASILE DEL TALIAN, UN DIALETTO VENETO OBOSOLETO di Beppe Ceccato YUCATAN, MESSICO LA SUA TERRA IL SUO FUTURO di Andrea Salvadori

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“V

IL CORPO DI PARIGI SE È AMATO È DA SCRUTARE di Vanessa Tonnini BARCELLONA DA MANGIARE COL TRIPUDIO DELLE SUE BOTTEGHE di Daniela Aronica LONDRA, QUEL CONFINE DELLA DISTRICT LINE di Carla Diamanti

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IL SOLDATO JONATHAN, QUEL BLOG FIRMATO DA BAGHDAD di Silvie Coyaud BERLINO EST-OVEST, L’ULTIMA GUERRA DAL 1998 di Alessandra Bartali

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L’ISOLA DELLE PENISOLE IN ESTONIA SI DICE SAAREMAA di Claudio Canal ELOGIO DI BELGASIN LA LIBIA IN CRAVATTA E GIACCA SCURA di Andrea Semplici

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Iautori nostri

direttore responsabile Sandro Medici direttori Mariuccia Ciotta, Gabriele Polo direttore editoriale Francesco Paternò progetto grafico e impaginazione ab&c grafica e multimedia Tel. 06.68308613 studio@ab-c.it

FRANCESCO PATERNO’

PARIGI, E POI CI SI STUPISCE CHE I BANLIEUSARDS SI INCAZZINO di Matteo Merzagora

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il manifesto

iaggiatori indipendenti” è il titolo di questo supplemento, che, per almeno una ragione, non è il solito supplemento dedicato ai viaggi e al tempo libero. Gli autori delle famose guide Clup, dal 2005 rinate in casa De Agostini, ci hanno regalato alcuni loro racconti del mondo, appena saputo che il manifesto è in difficoltà. Hanno respirato l’aria di campagna (di sostegno al giornale) e con la complicità dell’amico Gianni Morelli, coordinatore delle Clup, hanno acceso per noi il computer, scritto e inviato storie di quartieri urbani, tratti di mare, scampoli di terre vicine e lontane. E’ gente che gira professionalmente per il mondo da almeno trent’anni: le Clup, nate al Politecnico di Milano nel 1979, sono state acquisite e rilanciate dalla De Agostini, che ha presentato 15 titoli nuovi o aggiornati e altri ne ha in preparazione (per info, ufficio. stampa@deagostini.it). Insomma, un contributo autoriale che ci

rende un po’ più felici di leggere e di sapere che questa impresa è ancora nel cuore di molti. Da scorci di New York fissati attraverso una nebbiosa serata a una regina del nulla canadese, da scali latinos fra il Brasile e il Messico, a percorsi da Vecchio Continente come Parigi, anzi il corpo di Parigi, ancora Londra, Berlino, Barcellona. Poi c’è il resto del mondo - c’è sempre un resto del mondo con cui far giocare la squadra del cuore - che schizza attraverso i quattro punti cardinali, dal soldato Jonathan a Baghdad all’Estonia di isole e penisole o alla Libia, nostro confine sud. A chiudere, o ad aprire, ci era rimasto un solo fazzoletto di terra su cui la nostra Geraldina Colotti ha piazzato la sua bandiera, cucita con pagine di libri di viaggio (non Clup) da leggere o da salvare, fate voi. Questo è il supplemento, e le pagine a seguire. Grazie davvero a tutti, e un abbraccio...mondiale!

immagine di copertina di Laura Federici Illustrazioni a cura di ab&c grafica e multimedia concessionaria esclusiva di pubblicità Poster Pubblicità srl Via Tomacelli, 146 00186 Roma Tel. 06.68896911 Fax 06.68308332 stampa Sigraf srl via Vailate 14 Calvenzano [BG] chiuso in redazione: 21 LUGLIO 2006

LO SCALO DEL DIS-ORIENTAMENTO di Geraldina Colotti

SE NON RISPETTI I LIMITI DI VELOCITÀ, NON RISCHI SOLO LA PATENTE.

NOI STIAMO LAVORANDO PER RENDERE LE NOSTRE AUTOSTRADE SEMPRE PIÙ MODERNE E SICURE. A VOI CHE LE UTILIZZATE CHIEDIAMO DI RISPETTARE LA VOSTRA VITA E QUELLA DEGLI ALTRI.

GUIDATE CON PRUDENZA.

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T O R O N T O

P A S S A N D O

New York, occhi di gremlin

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Y O R K

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La Amer

che bucano perfino la nebbia DA UN TERRAZZO DI CHELSEA UNA SERA, TUTTO QUEL CHE SI VEDE E NON SI VEDE LAURA MAGNI

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uesta nebbia tropicale e metropolitana, spinta da tutte le parti da un vento afoso, sta rendendo infernale l’estate. Ma mi piace. E’ Nantucket arrivata fino a qui. E’ un sipario fatto di duecento veli -avorio, grigio perla, grigio fumo trapuntato di fari, appena rosa, viola dilavato, luce accecante priva di colore e trattenuta da uno spesso filtro opaco - che si spostano, si sovrappongono, si allontanano e diradano, si inspessiscono, si tagliano come lame senza ferirsi. Dietro questi vetri di caleidoscopio New York si lascia vedere per quello che è: imprendibile, inventata. Dal mio terrazzo di Chelsea, questa sera, per via di questa nebbia, nel giro di pochi minuti l’Empire (gli ultimi 50 piani e il pennone che si vedono da qui) è in grado di recitare molte parti in rapida successione. Di apparire definito e scintillante come l’incisione dentro un ologramma; di svelare solo l’antenna, fissata su un vuoto invaso dal vapore e tre luci rosse, una sulla punta, due alla base: occhi di gremlin, di incappucciato del Ku Kux Klan che bucano una foresta incendiata e fumosa; di lasciare intuire qualche piano illuminato da luci flebili, sospese dentro una nuvola sotto altri piani - anche loro isolati e fluttuanti nel nulla ma molto più accesi- che spariscono sfumati, impastati da un pezzo di gommapane che ne frantuma il profilo, trascinandolo verso l’Hudson; di sparire completamente per diventare un muro come di neve sporca e annacquata, una pista da sci in sesto grado che precipita verso gli alberi della 25th; di riapparire alla base del pennone in forma di Ufo: un disco ovale di luce abbagliante che buca la nebbia in corsa accelerata. Una fata morgana come se si fosse in pieno deserto aggiunge l’illusione di un movimento lento e rotatorio, ipnotico. Qualche decina di metri più a sinistra la nebbia si è di colpo diradata lungo una striscia verticale stretta (2 gradi degli 80-90) dell’orizzonte visibile da qui. L’One Penn Plaza, privilegiato da un controluce drammatico per via delle luci che Times Square proietta nel cielo alle sue spalle. La grande insegna del New Yorker Hotel leggibile di sghimbescio, sulla facciata quasi perpendicolare al piano di osservazione. I profili babilonesi di palazzi a gradinate asimmetriche. Quello con un sottotetto di colonne: illuminate alla base da strani fari radenti, sembrano otto cascate di luce. Il poster pubblicitario alto ventitré piani: il piano americano di un uomo in bianco e nero, capelli scuri, abito scuro, faccia scura con occhiali scuri, mento alzato a fissare il cielo, “Return your mind to the upright position” (facile dirlo), forse un Principe Feli-

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ce del millennio prossimo venturo (ha già regalato le lamine d’oro del suo mantello e gli occhi di rubini a una rondine elettronica vorace come quella di Oscar Wilde; è rimasto in giacca spoglia e occhiali scuri che nascondono probabilmente orbite vuote, ma qualcosa lo costringe a “guardare” in alto, come se potesse vedere). La tenda a strisce di Friday’s Restaurant and Bar. I lampioni arancio di un parcheggio dietro la chiesa presbiteriana, rossa, e la Saint Columba School in una palazzina con pretese araboveneziane. Il campo da tennis sul tetto di un supermercato dove giocano spesso, il pomeriggio. Il palazzo altissimo e stretto, buio, che porta calzato in testa un recinto di mura con quattro avamposti, illuminato a giorno. Quello massiccio, più parallelepipedo di un parallelepipedo - luci solo a tre piani piuttosto centrali, sempre gli stessi- e la Nelson Tower svettante, sottile a lato del Penn Plaza. Minuscole luci rosse sparse nel buio, molto in alto, qualcuna intermittente. I volumi cilindrici, scuri, dei giganteschi serbatoi d’acqua sui tetti, rozzi bidoni per l’orto dei giganti che - inseriti in uno skyline di grattacieli - diventano demenziali impalcature odontotecniche. Laser appannati che proiettano rapidi raggi a ventaglio, striature di muffa che corrono subito via, in un’aria meccanica sempre ferita da sirene e ingranaggi stridenti. Metropolis, un terzo atto work in progress che Fritz Lang non ha mai girato. E io già addicted. Come al faro di Cap d’Antibes, come al Sanborn’s di Città del Messico, come al Malecón dell’Avana sotto un temporale, alla polvere rossa e ai rossi piedi scalzi delle donne di Kathmandu. Sconfortata e felice. La mia vita mi sembra una sequenza instabile di estatici rapimenti alternati a dolorosi tentativi di disintossicazione.

delle nostre b

Canada, la regina del nulla

mezza inglese e mezza ucraina SASKATCHEWAN VIA TORONTO, L’EX LANDA DESOLATA OGGI GRANAIO DEL MONDO

ROBERTO BAGGIANI

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ualche brutta abitudine l’hanno presa anche i canadesi. All’immigrazione all’aeroporto di Toronto una giovanissima funzionaria asiatica mi chiede e mi richiede perché voglio proprio andare a Regina, Saskatchewan, in mezzo al nulla. Conosco qualcuno? Ho parenti? Ho interessi? No, le dico, sono solo un altro turista per caso, forse lei non sa che sono posti stupendi, che le praterie hanno la bellezza struggente dei non luoghi, che il Saskatchewan è chiamata “terra del cielo vivente”, per le sue nubi sempre basse e sempre cangianti di forme e colori che ti fanno davvero sentire quel che sei, un omino e basta. E finalmente atterro a Regina, “Rigiaina” come la pronunciano questi discendenti mezzi inglesi e mezzi ucraini che hanno dissodato la prateria e trasformato una landa desolata

nel granaio del mondo. Pionieri tosti, altro che. Pionieri che hanno fondato una nazione forte e austera, che somiglia solo in superficie ai vicini yankee, ma ne è distante anni luce in tolleranza. Niente rivoluzioni, genocidi, guerre civili, schiavitù, razzismo, linciaggi e sedie elettriche nella loro storia. Mica differenze da poco. Il grano e la colza sono i signori della parte meridionale del Saskatchewan, punteggiata di sterminati campi, ranch e minuscoli paesini con una main street da film, la drogheria, il vecchio hotel vicino alla ferrovia, la pompa di benzina, le casette di legno con la bandiera canadese e quella inglese affiancate e il pickup parcheggiato. E poi i granai, i celebri Grain Elevators, le colorate e imponenti sentinelle della prateria, che ora sono tutelate come edifici storici, e che non smetteresti mai di fotografare, perché sembrano messi li apposta per essere fotografati tanto son belli. Cielo e prateria. Quella vera, di prateria, è quasi scomparsa. Ma per fortuna ne hanno salvata una vasta porzione, ora tutelata dal Grasslands National Park. E quando ci arrivi, dopo un viaggio ipnotico di 100 km su una strada drittissima, ti sembra di atterrare su un pianeta alieno, non ti viene in mente nessun altro posto che potrebbe somigliargli. Un oceano infinito di erba alta 20 centimetri, solo appena ondulato, senza un albero, un riferimento. Ti ci addentri per qualche chilometro a piedi e ti va bene se non ti viene un attacco di agorafobia o di panico perché perdi l’orientamento. A me è successo, e di questo posto mi sono follemente innamorato. Poi torni alla civiltà, città come Regina, Saskatoon, Moose Jaw (proprio così ! Vuol dire “mascella d’alce”), dove la gente si gode lo spazio, gli splendidi parchi cittadini fioriti, musei curatissimi, librerie spettacolari che non ci sono neppure a Roma e Milano. E il tempo non è nemmeno così infame come si potrebbe pensare. Ci sono in media quasi 300 giorni di sole l’anno, e anche se l’inverno è rigido, è anche così secco che il freddo si sopporta meglio che in Padania. Peccato, mi son detto. Peccato che il turismo di massa sia tutto incanalato verso le metropoli canadesi dell’est, le Cascate del Niagara, oppure le Montagne Rocciose e Vancouver, che ormai sembrano più cinesi e giapponesi che non canadesi. Tutto quello che sta in mezzo è sconosciuto. Poi ci ho ripensato. Chissà, forse è meglio così. Tanto io in Saskatchewan ci tornerò, sicuramente.


V O L A N D O

I N

M E S S I C O

as ricas

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I N F I N E

I N

B R A S I L E

Il Brasile del Talian, un dialetto veneto obosoleto

IL TOSO E L’ANGELA, CHE PARLA PORTOGHESE

brame

COME SECONDA LINGUA BEPPE CECCATO

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ngela, 84 anni, i capelli d’argento raccolti in uno chignon, non si stanca di danzare sulle note di una fisarmonica. Veste gli abiti tradizionali dei primi coloni veneti che arrivarono alla fine dell’Ottocento e agli inizi del Novecento tra le colline dolci di Caxias do Sul e di Bento Gonçalves, nel Brasile meridionale, area poco frequentata dalle abituali rotte turistiche, lontana dalle mode cariocas e dagli iperturistici litorali nordestini. Con grazia si tiene la lunga veste mentre le gote, rosse dalla fatica e dai sostanziosi “biceri” di Merlot, ispirano istintiva simpatia. Sono le tre del mattino nel salone dell’hotel del senhor Dal-

l’Onder, imprenditore nipote di italiani, instancabile promotore della storia dei coloni. Angela parla portoghese come seconda lingua. La prima è il Talian, dialetto veneto obsoleto. Si siede e inizia a raccontarmi barzellette “sporcacione” perché “te si un bel toso simpatico” e, soprattutto, perché “te me capissi quando parlo”. Io, da buon veneto, sto al gioco: bevo, rido e la guardo curioso. Potrebbe essere mia nonna: ha molto da raccontare sulla mia storia, su quello che sono, sul perché, in quel momento, mi ritrovo lì. Un percorso a ritroso nella memoria in cerca di un mondo svanito negli anni, e lo sto facendo a oltre dodicimila chilometri di distanza dal mio Paese, in mezzo a vigneti e a case di pietra che ricordano in maniera impressionante quelle della Marca Trevigiana. Il Rio Grande do Sul è lo Stato brasiliano che, forse più di tutti, racchiude l’Europa. È il paese dei gauchos, i cowboy brasiliani, gente dura, di gran cuore, machos che si scazzottano ancora per una donna, discendenti da un mix di spagnoli, portoghesi e indigeni. Dei tedeschi, che hanno fondato piccoli ritagli teutonici come Grama-

do, Canela, Nova Petrópolis, dove lingua, cibo, abitudini sono, a distanza di oltre un secolo, rigidamente tradizionali. Ed è, soprattutto, la regione degli italiani (dal 1875 al 1914 ne sono arrivati circa 100mila), per lo più veneti, che hanno “colonizzato” anche parti di comunità più piccole come quella polacca (molte persone con i cognomi che finiscono per ‘oski’ parlano Talian), raggruppati per lo più tra Bento Gonçalves, Caxias do Sul, Garibaldi, Farroupilha. Questi figli di contadini tutti d’un pezzo, in poco più di cento anni sono riusciti a creare uno dei più importanti luoghi di produzione vitivinicola del Sudamerica (oltre il 90% del vino brasiliano). Nella Vale dos Vinhedos sono arrivato per caso, in una sorta di pellegrinaggio alla scoperta delle mie origini. Tra queste dolci colline si è risvegliata la mia infanzia nella campagna veneta, le famiglie patriarcali, le domeniche seduti attorno a un grande tavolo, la Sopressa affettata, il pane caldo e un sorso, appena un sorso, di un robusto rosso. E, sempre qui, ho capito la determinazione e la sofferenza di chi ha dovuto lasciare la propria terra per fame. Oggi, l’Italia è il Brasile di un secolo fa. L’integrazione, lì è avvenuta: a fatica, con costi elevati ma con dignità. Tra questi vigneti il mitico Brasile, Paese del Samba e del futebol, dell’allegria e delle disuguaglianze sociali, propone un’altra faccia, più intimista, più “nostra”. Frammenti di un viaggio che supera il tempo e lascia, indelebile, i solchi della memoria.

Yucatan, Messico la sua terra il suo futuro ANDREA SALVADORI

UNA STORIA CHE FORSE NON LO È LUNGO LA CARRETERA 184 IN CHEVROLET

“H

ai mai visto un curandero al lavoro? - Claudio, al volante della sua Chevrolet, lo chiede all’improvviso. - Voglio farti conoscere José, ha un carisma straordinario. Vive nello Yucatán, in un villaggio dell’interno. Quando pratica la limpia (ndr la cerimonia di purificazione degli sciamani), la sua casa diventa meta di pellegrinaggio per migliaia e migliaia di messicani. Come dire che viene investita da un uragano”. Ride, Claudio; è da poco tornato a Progreso, sul mare del Golfo. Dopo due anni trascorsi in Italia a cercare di rifarsi una vita, ha capito che la sua terra è il Messico, il suo futuro è il Messico. “José l’ho visto l’ultima volta cinque anni fa. Ci sono andato con mio suocero (ndr il quinto o sesto suocero ufficiale, secondo i miei conti). Era malandato, pieno di acciacchi. E’ tornato con qualche acciacco di meno”. Quanti e quali prima, quanti e quali dopo non si sa. Claudio non si sbilancia. La strada è la Carrettera 184, un lunghissimo rettilineo d’asfalto che taglia il cuore dello Yucatán. Lasciati gli hotel faraonici di Cancún e le spiagge deserte della Riviera Maya, puntiamo verso Mérida. La Carrettera 184 attraversa assopite cittadine e minuscoli villaggi che sono maya al cento per cento, pueblos dove la parlata india è l’unica comprensibile per chi ci abita. La selva che avvolge la strada è fitta, non molto alta: bambù, banani, aranci, cedri, tamarindi, cocchi, mandorle selvatiche, canne da zucchero. Claudio - il sud del Messico in un palmo di mano - li conosce tutti. Dalla strada si intravedono, nascosti dalla boscaglia, i cenotes, pozze naturali di acqua dolce importantissimi per gli antichi maya: con un oc-

chio agli dei praticavano anche qui i loro riti religiosi; con un occhio ai campi li utilizzavano come bacini idrici. Fondamentali quindi, questi cenotes, in una terra dotata di un fervido immaginario e assetata d’acqua. Il sole rovente scalda il cruscotto e mitiga l’effetto refrigerante dell’aria condizionata. “Per farsi curare da José c’è chi viene addirittura da Città del Messico. E’ uno spettacolo, una grande festa: il pueblo si sveglia dal suo sonno e si riempie di bancarelle, macchine, autobus. Migliaia di persone si accalcano nelle strade sollevando nuvole di polvere”. Posto di blocco. Un giovane militare con il mitra spianato si avvicina con fare inquisitorio. L’afa è opprimente, mi chiedo come possa sopportare la divisa soffocante che indossa, quasi un’armatura. Claudio ci sa fare: poche parole e il ragazzo, con un sorriso che gronda sudore, fa un gesto e ci lascia proseguire. Arriviamo a Dzinché. Set perfetto per un film di Sergio Leone. Non c’è anima viva, il sole è a picco, il silenzio irreale. Nessuna traccia di bus e bancarelle. La Chevrolet procede a passo d’uomo, frugando tra le case insieme a noi. “Eccola, è lei, è la casa di José”. Claudio punta il dito verso una delle case basse del villaggio, assolutamente identica alle altre. Spunta un uomo di mezz’età, stranamente alto per essere un maya. Claudio abbassa il finestrino, chiede del curandero. La testa mi si affolla di domande che voglio fargli. “Quien son ustedes?” L’uomo è guardingo, parla uno spagnolo zoppicante. Vuole capire prima di rispondere. Infine risponde. José è morto e con lui anche Dzinché. Ora solo polvere e silenzio. Per Claudio un’emozione incontenibile. Per me una storia mancata da raccontare. Per tutti e due un ritorno più silenzioso. La Chevrolet sobbalza, ci rimettiamo in marcia lungo le strade dello Yucatán.

viaggiatori indipendenti • il manifesto [5]


I L

V E C C H I O

C O N T I N E N T E

S U G G E R I T O

Parigi, e poi ci si stupisce

che i banlieusards si incazzino PARIS PLAGE O PARIS MONTAGNE, QUEI FRANCESI UN PO’ RIGIDINI MATTEO MERZAGORA

C

ittà centripeta per eccellenza, refrattaria alle gite fuori porta un po’ perché fuori dalle porte c’è pochino, un po’ perché dentro, invece, le proposte non mancano, nel 2001 Parigi ha inaugurato con Paris plage la moda delle spiagge in città. “Se Parigi avesse il mare sarebbe una piccola Nizza”: detto fatto, i quais della Senna adattati a spiaggia, ombrelloni, gelati, e le immancabili animazioni, tutto nel pieno centro della città. Di anno in anno sono aumentati i chili di sabbia, i chilometri di “lungomare” e il numero di bagnanti. Anche i parigini snob hanno gettato la spugna e placate le polemiche (Riccione a Parigi presta il fianco alle critiche) hanno deciso di partecipare all’abbronzatura collettiva con panorama su Notre-Dame. Se i parigini non vanno alla spiaggia, la spiaggia va a Parigi. Ma i francesi, si sa, sono un po’ rigidini: il detto parla di Maometto e di montagne, e va rispettato alla lettera. Ecco allora Paris montagne. La montagna è la Montagne Sainte-Geneviève. Non è la più alta di Parigi (61 metri, contro i 130 metri di Montmartre), ma è la più bella. Se Montmartre ospita quel monumento alla repressione che è la basilica del Sacré-Coeur (eretta a gloria di chi ha soffocato nel sangue la Comune del 1871), sulle pendici della montagne Sainte-Geneviève si affastellano librerie e università: è il quartiere latino. Paris montagne

non segue le orme di Paris plage: è un festival dedicato alla scienza, dove da quest’anno per una settimana di luglio i templi della cultura del quartiere latino – primo fra tutti l’Ecole Normale Supérieure - aprono le porte alle banlieues, le periferie della città. Laboratori e biblioteche si riempiono di quei giovani a cui un sistema elitario nega l’accesso durante il resto dell’anno. Sì, perché nonostante “siamo tutti francesi”, alla normalesup ci va chi ha fatto le cosiddette classes préparatoires, dove entra solo chi ha fatto un buon liceo, dove entra solo chi ha fatto delle buone scuole medie, dove entra solo chi ha genitori e nonni che san parlare il francese come si deve. E poi ci si stupisce che i banlieusards si incazzino. La discriminazione in Francia non è un sistema, è un fatto. Un fatto a cui mancano i dati oggettivi: perché la legge – difesa strenuamente da una sinistra ancora più arrugginita della nostra - impedisce di effettuare statistiche che tengano conto delle origini etniche. E così, nascosti dietro alle parole, si può continuare ad affermare che siamo tutti uguali, ma quella multiculturalità così bella nelle strade resta fuori dalle buone università. A reagire non sono gli intellettuali affermati, ma quelli in erba. Paris montagne nasce sotto la spinta di un gruppo di studenti che, se non rinnegano la vocazione elitaria dell’Ecole, mal digeriscono di essere gli unici a beneficiarne. Hanno invitato (a casa dei ricercatori...) una trentina di ragazzi per partecipare alla Science Accademy (dal nome del programma televisivo equivalente al nostro Amici) e hanno accolto diverse centinaia di altri banlieusards fra i sei e i quindici anni con animazioni, giochi, visite, dibattiti: come a dire che quel tempio è anche loro, che pretendano di entrarci! Semel in anno, certo, un po’ come la festa della donna: ma accorgersi di un problema è un passo obbligatorio verso la soluzione. Oppure si può sempre scendere a valle verso la Senna e sparapanzarsi al sole di Paris plage.

VANESSA TONNINI

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u’est-ce qu’un corps? Che cos’è un corpo? Campeggia a lettere grandi la scritta sulla recinzione trasparente del museo di Branly, fresco di inaugurazione, fiore all’occhiello di Chirac. Una fila sinuosa marcia sotto il sole. Le giovani hostess, nere, in tailleur glicine, accorrono a confortare l’attesa. A due passi dalla torre Eiffel, sul bordo della Senna, il museo, con vetrate stampate a motivi vegetali e box in legno colorato, ricorda una piroga sospesa su un giardino. I depliant promettono per il futuro una giungla. Per ora il prato è spelacchiato, con fusti scettici come lo sguardo del giardiniere di colore. 300.000 opere per 4 continenti. Il presidente ne parla come un tesoro da preservare, simbolo della Francia che riconosce le culture del mondo. “Lo Stato protegge le arti primarie come dei gioielli, così si rimpilzano i portafogli dei collezionisti mentre i barbari vanno lasciati a casa loro!”, dice Y., una trentenne antillese, prima di scomparire nel labirinto di sale e video interattivi. “Magnifico! Ma mancano le informazioni”, lamenta un antropologo. Dopo la visita a noi rimane in testa la domanda: cos’è un corpo? Allora ci rimettiamo in movimento perché, come sostiene Roland

UNA CITTÀ DISTESA A MACCHIA DI LEOPARDO OLTRE ROLAND BARTHES

[6] il manifesto • viaggiatori indipendenti

L Eur

metropolita

Il corpo di Parigi se è amato è da scrutare Barthes, il corpo amato si scruta per vedere cosa c’è dentro… Carta alla mano, Parigi ha un corpo a macchia di leopardo. Ci sono gambe color latte intrecciate ai tavoli del café de Flore, braccia sottili, piegate dalle buste, vittime dei saldi dei magazzini de la Fayette, volti velati che escono dall’hammam di Saint Denis. Il corpo è colore nei mercati della Chinatown parigina, nelle strade contigue a place d’Italie, in quello che negli anni Trenta era il quartiere dei nostri connazionali. Per i cinesi e gli italiani, il corpo è cibo, di fatto sono loro a contendendersi la piazza gastronomica cittadina. Altri cinesi si sono accaparrati le salite di Belleville a fianco di un pezzo di mondo arabo. Nei caffè di questa zona i vecchi giocano a carte bevendo the alla menta. Antichi, sottili, indossano tuniche, cappello di pelliccia in inverno e babbucce di pelle per tutte le stagioni. Nella zona di Barbès, la pelle ha l’odore dei sacchi di spezie, mentre il futuro ti aspetta alla uscita del metro con i ragazzi che pubblicizzano sciamani e altri indovini, se la vita non ti sorride. Il continente più rappresentato nel museo di Branly è l’Africa nera, quel mondo coloniale su cui la di-

A T T R A -

scussione è ancora aperta. Scrive sarcastica Aminata Traoré, ex ministro della cultura del Mali: “le nostre opere d’arte hanno il diritto di cittadinanza là dove a noi, in generale, è interdetto il soggiorno”. All’uscita del metro di Château d’Eau fervono i preparativi per il fine settimana. Una signora malese abbrustolisce pannocchie mentre da Jolie Belle, un buco con una cinquantina di donne, si costruiscono pettinature afro e unghie psichedeliche. Di fianco, più sobrio, un barbiere dai baffi neri ospita una rigorosa clientela maschile, pochi commenti e in sottofondo radio Istanbul. I corpi, quelli dei più giovani, di notte ondeggiano sul lungoSenna al ritmo dei tamburi, della salsa e ancora, quasi inghiottiti dal buio, si abbracciano in un tango argentino. A nord, davanti allo schermo della Villette, una distesa di gente è sdraiata su zolle verdi come un campo di calcio. Ecco che torna il ricordo dei mondiali! Qui è impossibile dimenticare con la testa di Zidane che resta “à la une”, ovvero sulla prima pagina. Chirac l’ha perdonato come si fa nelle buone famiglie con il figlio adottivo difficile e geniale, ma il pensiero si oscura sotto l’ala del pipistrello tricolo-

re che copre il palco presidenziale alla parata del 14 luglio. Dubbioso anche il premier Villepin, sorride invece il ministro degli interni, l’ungherese Sarkozy. Tanti volti e sul fondo un anno difficile. La grande euforia dei mondiali si è dissolta in una testata, e l’illusione che anche un “petit conard” delle periferie, come Ribéry, possa farcela, sfuma. Alle sfilate della moda gli abiti sono architetture intellettuali di un fragile androgino vicino, se non al corpo, all’anima inquieta del Paese. Davanti alla prefettura, in attesa che aprano i cancelli, c’è una folla, un centinaio, per lo più africani. Sotto il braccio i moduli per la regolarizzazione, nonni e bambini al seguito che si addormentano contro le transenne. La notte è anche loro. Parigi è un corpo a corpo difficile di questi tempi. Sotto la cupola dei fuochi artificiali, che celebrano il giorno della patria, ci sono proprio tutti: donne africane che spingono carrozzine con indolente eleganza, in abiti tradizionali, figli già in stile funky, portinaie portoghesi, tassisti magrebini, cinesi, ragazzini delle periferie, turisti russi… tutti col mento in alto a godersi lo spettacolo. Parigi je t’aime, titola un film.


V E R S O

A L C U N E

D E L L E

S U E

’ uropa

C I T T À

P I Ù

Barcellona da mangiarecol tripudio

delle sue botteghe

DALLA CAPITALE MONDIALE DEL CIOCCOLATO

ana scoperta

FINO ALL’ULTIMO COCKTAIL DANIELE ARONICA

I

n mezzo c’è Londra. Quella delle icone da fotografare, dal Big Ben al cambio della guardia, quella della musica di Soho, quella dei noodles cinesi e dei teatri, dei musei, dei pub, dei grandi magazzini e dei turisti. Alle due estremità ci sono due mondi diversi, distanti nella mente e nel cuore molto più di quanto lo siano in miglia. Zona ovest, a sud del Tamigi. Sloane Square e le sue ordinate dimore tipicamente english. Codice di condotta rigoroso, soprattutto per i giovani rampolli di società che le abitano. O che bazzicano la piazza. Una volta erano un piccolo esercito, riconoscibile dagli abiti in stile classico e un po’ old fashioned: collane di perle e colletti rialzati, precise norme comportamentali dettate da un manuale del 1982 (scritto da Ann Barr e Peter York), un vero e proprio trattato di sociologia popolare con indicazioni su quanto (poco) mangiare, su come piangere ai matrimoni, cosa leggere e ordinare da bere, ma soprattutto a quali miti ispirarsi (nell’elenco c’era anche lady Di, prima che diventasse principessa). Sembra che di questi tempi i canoni estetici siano cambiati, ma che gli “Sloanes” siano rimasti gli stessi: un po’ annoiati, ma molto impegnati a decidere quale potrebbe essere la futura occupazio-

Londra quel confine della District Line ,

CARLA DIAMANTI

B

arcellona è una città aperta e tollerante. Con il turista e il forestiero di passaggio, con gli uomini e le donne d’affari (e di fretta), con lo studente squattrinato e l’emigrante in fuga dalla miseria o dalla guerra. Una città per tutti i gusti. Ma anche una città dove tutti i gusti si incontrano. E così i sapori dell’Oriente si mescolano ai colori dell’Africa, il castigliano e il catalano convivono in buona armonia nelle insegne delle vetrine e per le strade, mentre gli accenti più diversi si arrampicano su per le guglie della Sagrada Família o si lasciano mollemente trascinare verso il mare dalla fiumana multietnica della Rambla. Proprio da qui può cominciare un itinerario gastronomico in giro per la Città Vecchia. Gli appassionati del modernismo troveranno accanto al mercato della Boqueria l’elegante Casa Figueras (La Rambla 83), madre di una serie di botteghe che nei secoli hanno trasformato Barcellona in una della capitali mondiali del cioccolato artigianale. Antoni Escribà, fondatore e maestro di più di una generazione di pasticcieri, vi espone le sue sculture di cioccolato, le caratteristiche mones, che nel giorno di Pasqua ogni padrino che si rispetti regala al proprio figlioccio. Nascosta dall’imponente mole della

chiesa barocca di Betlem, si trova invece la Granja Viader (c/Xuclà 4-6), dedicata a chi ricorda con nostalgia le latterie di una volta. Difficile descrivere il sapore della panna montata in trionfo sulla cioccolata calda oppure quello del mató, la tipica ricotta locale coperta di miele. Troverete altre granjes nei pressi della chiesa di Santa Maria del Pi, nel minuscolo carrer Petritxol, sul lato opposto della Rambla: vi segnalo almeno La Pallaresa o la Granja Dulcinea. All’ora di pranzo infilatevi tra le bancarelle della Boqueria e chiedete del Bar Pinotxo o di Quim, due veri classici. In formato tapa (più contenuto) o ración, potrete scegliere tra un vasto assortimento di piatti tradizionali cucinati a puntino. Dopo una passeggiata digestiva sul lungomare, risalite il Barri Gòtic puntando verso la Cattedrale e la piazza di Sant Jaume, su cui si affacciano il Municipio e la sede della Regione. Se vi piacciono i libri e gli ambienti alternativi ma tranquilli, non dovrete fare molta strada per imbattervi nella libreria-caffè Antinous (c/Josep Anselm Clavé 6), specializzata in letteratura gay, come suggerisce il nome evocatore di amori omosessuali. Tra gli scaffali sono disposti alcuni tavolini dove sorseggiare un buon caffè. Sempre dedicato agli amanti delle minoranze e dei sincretismi, il bar Caelum (c/Pal-

A M A T E

ne più confacente al loro rango, un po’ in disarmo, ma ancora molto snob. Niente ostentazione, per carità! Solo quel sottile velo di superiorità che serpeggia nella upper class di Sloane Square. E intorno? Chelsea è a due passi, Belgravia proprio lì, con piazzette discoste e palazzi stuccati, viottoli acciottolati e l’atmosfera pacata del lusso che ci si può godere per esempio trascorrendo una notte all’Eleven Cadogan Hotel (www.number-eleven.co.uk). Una dozzina di fermate di tube in direzione Upminster (stessa linea, District) e lo scenario cambia completamente. Si scende a Whitechapel, antico quartier generale di Jack lo Squartatore, regno del vizio, della birra a fiumi e del malaffare. Dopo il Grande Fuoco del 1666, dalle fornaci dell’East End (così si chiama la zona) carretti sgangherati trasportavano i mattoni che servivano ai progetti di Christopher Wren e alla sua ricostruzione della Londra aristocratica. Che non immaginava neanche il pullulare di esseri umani che si aggirava attorno al “vicolo del mattone”, Brick Lane, l’arteria principale. Una specie di corte dei miracoli, alimentata da immigrati vomitati dalle navi insieme alle spezie e ai tè. Molti di quelli sono rimasti e hanno contribuito oggi alla rinascita dell’East End, diventato la nuova frontiera dei creativi londinesi che aprono atéliers e studi d’arte in questo fashion district un po’ bohémien, un po’ (tanto) etnico: l’Estremo Oriente, ma non solo, abita qui, nel quartiere che ormai è conosciuto come Banglatown. La parola d’ordine è “contaminazione” e basta aggirarsi tra i banchi dei mercati per capirlo. Il più famoso è proprio su Brick Lane, dove tra la folla eterogenea capita di riconoscere qualche volto noto. Il periodo migliore? La seconda domenica di settembre, quando esplode il Brick Lane Street Festival, la più incredibile manifestazione gastronomica, musicale, teatrale, culturale organizzata dalle comunità etniche dell’East End. Amate il curry? Allora non potete mancare.

la 8), consente di degustare i celestiali pasticcini fatti da monache spagnole in uno spazio un tempo occupato dal mikve (bagno rituale) della sinagoga maggiore: siete nel cuore dell’antico ghetto (call). Volendo non avrete difficoltà a passare da questo ambiente suggestivo e discreto al più mondano bar Boadas (c/Tallers 1), regno dei cocktail con barman di fama internazionale. Per un aperitivo dal gusto autoctono, da sorseggiare nei pressi del Museu Picasso, dove potreste esservi diretti dopo il tè coi pasticcini, fermatevi invece al Xampanyet (c/ Montcada 22). Qualcuno dice che lo spumante catalano vale lo champagne francese e, comunque sia, i locali ne sono orgogliosi quasi come della loro bandiera. Per la cena non esito a segnalarvi Casa Leopoldo (c/Sant Rafael 24), nel cuore del Raval. Si tratta del ristorante di Pepe Carvalho e di Manuel Vázquez Montalbán. Un classico di Barcellona frequentato da artisti, politici e intellettuali che la propietaria Rosa Gil gestisce con grande savoir faire. Ambiente tradizionale e materia prima eccellente elaborata con familiare scioltezza da tre generazioni non vi deluderanno. Il dopocena va a gusti. I patiti del jazz in città troveranno più di un locale dove ascoltare musica dal vivo di buon livello. Per restare in zona, la palma va decisamente al decano Harlem Jazz Club (c/Comtessa de Sobradiel 8, appena dietro il Municipio). Se invece avete voglia di trasgressione, nel Raval sopravvive un bar che sembra uscito da un libro di Jean Genet: il Marsella (c/Sant Pau 65). Vi servono ancora l’assenzio, alla vecchia maniera. Se non lo conoscete, provatelo ma con molta moderazione.

UNA CITTÀ IN MEZZO CON ALLE ESTREMITÀ ALMENO UN ALTRO PAIO DI MONDI

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C ’ È

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T E R R A

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F I N I S C E

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P E R C H É

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Il soldato Jonathan, quel blog firmato da Baghdad SYLVIE COYAUD

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el marzo 2004 inizia “Birding Babylon”, un blog firmato Jonathan: “Sono un soldato in Iraq, mobilitato per 18 mesi... Osservo gli uccelli da quando ho 12 anni, adesso fanno 24 anni. Sono in un’unità medica del New England. Intendo scrivere le mie osservazioni naturalistiche mentre sono qui, uccelli e anche altre bestiole. Adesso devo tornare a lavorare. Fuori”. Nella base Anaconda, a nord di Baghdad, “non sembro attirare l’attenzione della polizia militare. Quando mi vede guardare lontano con il binocolo, forse pensa che sono in servizio di sicurezza. Chissà cosa pensa quando lo punto su un albero”. Con in tasca una guida ornitologica superata, armato di tutto punto dopo che razzi sparati sulla base hanno ucciso otto soldati, il soldato Jonathan vede quello che dai tempi della guerra IranIraq nessuno ha più potuto studiare: stormi che migrano attraverso il crocevia della Mesopotamia, specie che si temevano estinte dopo che Saddam aveva fatto prosciugare le paludi del Shatt El Arab, altre che si adattano al fracasso dei bombardieri, ai nuovi occupanti e ai resti della loro dieta. L’acqua straripa dalla lavanderia del campo, si trasforma in uno stagno orlato di vegetazione, in un’oasi per anatre selvatiche, martin pescatori, pivieri, aironi di ogni tipo, libellule, farfalle, istrici o “volpi di Rueppel color sabbia, con le orecchie ben più grandi di quelle delle volpi rosse e un ciuffo bianco in fondo alla coda”. Quel blog ne genera altri; ornitologi, erpetologi, botanici, entomologi o veterinari dilettanti si uniscono per censire fauna e flora. Un danese - nella foto che pub-

blica in testa al suo blog, somiglia al sergente carogna di Full Metal Jacket – spiega a un americano come curare la poiana ferita che ha raccolto. Bombe e vittime restano sempre sullo sfondo. Il soldato Jonathan accenna “grandi cicli della natura che proseguono, malgrado tutto quello che facciamo” e agli “orrori della guerra”, ma poi racconta di bulbul, ibis, corvi imperiali e cicogne bianche. Di contadini che gli portano coleotteri e gli chiedono se siano quelli a far ammalare le loro palme da dattero. Si può essere femministe e pacifiste, vedere l’Iraq con gli occhi di Giuliana Sgrena e sorprendersi a leggere “Birding Babylon” con passione, nonostante il sospetto che sia stato incoraggiato a scopi propagandistici. E’ un viaggio estraniante, provoca un senso di vertigine entrare nella vita, nei panni di un uomo “fortunato di essere qui, a compiere una missione in cui credo”, imparare dalla sua enorme competenza, meravigliarsi per la grazia concisa del suo stile e stare in ansia ogni volta che il blog s’interrompe per giorni. Che sia toccato a lui uccidere o morire? “Un giorno spero di tornare con il binocolo e senza armi”, scrive Jonathan Trouern-Trend, del laboratorio di epidemiologia della Croce Rossa nel Connecticut, si è poi saputo nel maggio scorso, quando gli ambientalisti dello Sierra Club hanno raccolto in un libro alcuni passi del blog. Nell’ambivalenza dei sentimenti che suscita, non si sa se sperarlo insieme a lui.

UN BINOCOLO, UNA POIANA FERITA E BIRDING BABYLON, TRA VERITÀ E PROPAGANDA

I mond

che resta in quattro

Berlino est-ovest, l’ultima guerra dal 1998 WASSERSCHLACHT, MEGA-PISTOLE DELLA SPREA E BATTAGLIA A SUON DI RIFIUTI ALESSANDRA BARTALI

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est dell’Estonia ti imbatti nel Lago Peipus che mi sembrava comico fin da piccolo. Ad ovest nel Mar Baltico e in 1500 tra isole e isolette. Saaremaa è una di queste, la più grande. Un´isola di penisole. Un traghetto e una lingua di terra per raggiungerla. Nel mare ci sta carica di alberi, di vento e di sole, che in questa stagione l’ha vinta sull’oscurita’ della notte. “L’incrocio dei venti fu una forza severa” (Gustavo Suits, 18831956). Lo posso testimoniare: se-

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vera, ma non ostile. Perché il Baltico non si dimentica di essere un mediterraneo dove, come qui, i fiori danno il loro meglio e si sbizzarriscono in feste di colori, di forme, di odori. Ne è portavoce la musica densa di Ester Mägi, estone come il più noto Arvo Pärt, ma meno intruppata nella sua ossessione pseudomistica, in un paese in cui cantare canzoni è piacere nazionale ed emblema patriottico. Se Tallin, la capitale dell’Estonia, è un miracolo di intelligenza architettonica e di stupore estetico, Saaremaa ne è il contrappunto: isola di foreste e di perfette ar-

chitetture contadine, mezzo capanne e mezzo residenze patrizie. Se l’epica leggendaria di Tallin è rappresentata dall’eroe Kalevipaeg, quella dell’isola da Suur Töll che non combatte nemici, ma demoni. Contrappunto, non fuga. La vocalissima lingua estone non contiene il futuro. Sarà per questo che gli estoni di Tallin e di Saaremaa si curano così a fondo del presente, per nulla dominati dalla modernità costi-quel-checosti. Così succede che puoi arrivare con nordica regolarità a propaggini estreme dell’isola su un

climatizzato bus pubblico, ma su polverose strade sterrate, tra foreste che incalzano coste chilometriche, a tu per tu con vacche che, credendosi in India, si stravaccano agli incroci e con coppie di cerbiatti che pascolano indifferenti. Residue torri di avvistamento sulle scogliere testimoniano con la loro imponenza di una guerra, fredda non solo per la latitudine, quando in epoca sovietica i binoccoli si estenuavano nell´attesa del nemico ed oggi, in concorrenza con fari marini, scrutano serenamente il mare verde e le diverse specie di uccelli migranti. Isola strategica, dunque isola di guerra. Attrazione e repulsione dei nativi per russi, tedeschi, danesi, svedesi... che hanno lasciato il segno: armi e croci. Un cristianesimo cruento fatto digerire ottocento anni fa a fil di spada. Come l´integro e ducentesco “castello del Vescovo” che domina Kuressaare, il capoluogo, al momento austera sede di uno sfavillante...festival della samba. Sogni portati dal vento. “E´necessaria l’esistenza di un sognatore perché vi sia un sogno?” (Friedebert Tuglas, 18861971)


Q U E L L A

D O V E

F O R S E

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R I E S C E

Elogio di Belgasin la Libia in cravatta e giacca scura BUSSANDO ALLA PORTA DEL CUSTODE DELLA MOSCHEA GURGI DI TRIPOLI

Ildo

o storie

UN TRAGHETTO, UNA LINGUA DI TERRA E UNA “FORZA SEVERA” PER RAGGIUNGERLA

ANDREA SEMPLICI

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elgasin, da quando lo conosco (e cioè da più di dieci anni), è sempre vestito con la cravatta, una giacchetta scura (la penna bic nel taschino) e una camicia chiara. Quest’anno ha compiuto ottanta anni. Da tempo, quando vengo a trovarlo, mi fa accomodare in una stanzetta ricolma di ombra, nascosta dietro la moschea Gurgi a Tripoli. Siedo sul suo letto e Belgasin mi offre un bicchier d’acqua: è come se mi regalasse un momento di pace assoluta. Guardiamo le vecchie foto appese alle pareti e lui racconta di tempi lontani. Belgasin parla un italiano dolce e spezzato, memoria di scuole italiane e degli anni della colonia. Lui è il custode della moschea: ogni giorno apre la sua porta verde e accoglie, in silenzio e con un sorriso, gruppi di turisti che chiedono di poterla visitare. Per me, la moschea Gurgi è la più bella di Tripoli: piccola, decorata con arabeschi floreali, abbellita da sedici colonne, con un minareto (il più alto della città vecchia) ottagonale. Si trova alle spalle dell’Arco di Marco Aurelio, unico monumento romano di Tripoli: per questo ogni turista che approda in città bussa alla porta di Belgasin. Lui c’è sempre. Spesso sono decine e decine di persone in una sola volta: ora le crociere Costa arrivano con regolarità in Libia e scaricano sulle banchine di Tripoli eserciti di turisti. La moschea è troppo piccola per accoglierli tutti. Belgasin dirige il traffico della gente fra le due porte del cortile interno dell’edificio. Sorveglia che tutti si tolgano le scarpe e si inchina leggermente se qualcuno offre una mancia. Solo una volta ho visto il vec-

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A N D A R E

chio custode cambiare di abito: era Maoled, la festa della nascita del Profeta, il ‘Natale’ musulmano. Allora Belgasin indossò la sua veste lunga, chiuse la moschea e se ne andò nella zuwiya Sarira, centro di misticismo sufi nel cuore della città vecchia. In piedi su un gradone, ondeggiando lievemente, guardò per ore i fedeli suonare ‘i tamburelli’ e i piccoli piatti di ottone di una preghiera ipnotica. Nei vicoli della medina i ragazzi facevano esplodere petardi. Noi, unici ‘occidentali’ persi fra la gente in festa, eravamo presi di mira da questi guappi dall’aria spavalda: cercavano di far scoppiettare quegli ordigni rumorosi fra le nostre gambe. Poi scappavano ridendo. Belgasin, ogni volta, li redarguiva con un gesto e loro, per un attimo, si mostravano pentiti. Bella, Tripoli. Con questa sua aria mediterranea. Con il vento del mare che, perfino in estate, raffresca l’aria. I tripolini passano le sere a godersela nei giardini di fronte alla piazza Verde. Paese a mille facce, la Libia. Noi abbiamo in mente solo Gheddafi, vecchio e contradditorio leader al potere da 37 anni. Cosa è rimasto della sua utopia del deserto? Lui diceva di sé: ‘Sono un beduino analfabeta. Non so cosa siano gli arredi, bevo l’acqua delle piogge e delle pozze nelle mie mani congiunte. Non ho un certificato di nascita’. I suoi figli giocano in borsa, vanno in vacanza in Costa Smeralda, si sono comprati un bel pezzo di Juventus (un pessimo affare, visto con gli occhi di oggi) e hanno giocato tredici minuti di calcio di serie A nella scorsa stagione. Il mito beduino è ancora nella storia del clan Gheddafi? Il consolato italiano di Bengasi è ancora vuoto dopo essere stato razziato e bruciato a febbraio. Lampo improvviso nella storia recente della Libia. Gli amici di Tripoli e Bengasi mi chiamarono subito: ‘Non credere ai giornali. Nessuno, qui, ha ragioni di cattiveria contro gli italiani’. Dissero proprio così. Belgasin non mi disse nulla, lui è uno degli specchi della mia Libia. Scosse la testa. Lasciò che i turisti entrassero in moschea e se ne disinteressò. Mi accompagnò nella sua povera stanza. Da una brocca versò un bicchier d’acqua.

L’isola delle penisole in Estonia si dice Saaremaa CLAUDIO CANAL

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na volta erano fughe subacquee e lacrime di fine-visto sull’Oberbaumbrücke, il ponte che sanciva il passaggio dalla Berlino filoamericana alla Berlino del Comunismo. Adesso (dal 1998, per la precisione), sono mega-pistole ad acqua, verdure marce lanciate da catapulte di fortuna e gavettoni riempiti con l’acqua melmosa della Sprea sottostante: da una parte i Friedrichshainer, dall’altra i Kreuzberger. Perché quando il discorso verte sulla dicotomia est-ovest, che tanto affascina e intriga i turisti, i berlinesi alzano gli occhi al cielo in segno di noia; ma l’attaccamento al proprio quartiere, di nascita o di adozione, quello sì che accende le passioni e risveglia l’identità. Durante l’anno si guardano da lontano, rassicurati dal ponte che li separa: a nord gli abitanti di Friedrichshain, ex zona industriale di Berlino Est, prevalentemente anarchici irriducibili e punk dalle creste colorate con cani al seguito. A sud gli abitanti di Kreuzberg, da sempre l’area più politicizzata e socialmente attiva di Berlino Ovest, dove adesso convivono posthippy e nuovi cultori del biologico. Un giorno all’anno, alla fine dell’estate, si tolgono i panni della political correctness e danno ludico sfogo alla loro rivalità affrontandosi a suon di rifiuti organici. La chiamano Wasserschlacht (battaglia

d’acqua), ma l’acqua non è che la più innocua delle armi utilizzate. La faccenda sembra seria e pianificata come ogni guerra che si rispetti: il gruppo che scende da nord è guidato dal Wasserarmee Friedrichshain (armata d’acqua di Friedrichshain), il cui acronimo WAF riecheggia il gruppo terroristico della RAF. Trova a contrastarlo al centro del ponte i Kreuzberger Partriotische Demokraten (democratici patriottici di Kreuzberg) la cui sigla KPD è ricalcata su quella del partito comunista fondato dagli Spartachisti negli anni Venti. In realtà in campo ci sono bambini sormontati da enormi pistole contenenti succo di pomodoro che cavalcano ragazzoni agghindati da viados, e ancora uomini attempati impermeabilizzati da buste del supermercato a schivare i colpi di giovani donne che brandiscono spade di cartone. A pochi chilometri di distanza la torre della televisione di Alexander Platz, simbolo della Berlino comunista, veglia su questo pandemonio e ci ricorda che sì, siamo proprio nella capitale prussiana, anche se non c’è niente di prussiano in quello che sta succedendo. Buttarsi nella mischia dà la stessa soddisfazione che provano i bambini a rotolarsi nel fango, ma, anche se è un gioco, la battaglia ha uno scopo: quello di far arretrare la fazione nemica fino alla sua estremità del ponte. Ogni anno, però, si verificano colpi di scena che movimentano il regolare

susseguirsi di gavettoni e lanci di verdure: memorabile la volta in cui alcuni militanti di Kreuzberg salirono sulla metro nel loro quartiere e, oltrepassando l’Oberbaumbrücke carichi di verdure e protetti dai vagoni gialli, scesero comodamente dall’altra parte del ponte, attaccando il nemico alle spalle. Successo clamoroso. E quando, nel bel mezzo della lotta corpo a corpo, qualcuno vide con la coda dell’occhio un’imbarcazione che placida e beata solcava le acque della Sprea recando sulla prua la scritta Charlottenburg, quartiere bene situato nella periferia ovest della città, che esprime la sua anima più borghese. Improvvisamente le due fazioni unirono le forze e le signore con cappello e i signori in cravatta divennero le uniche vittime del pestaggio organico. La giornata si colora di bucce di banana, pomodori fracassati dentro cocomeri, cartoni inzuppati di poltiglia fangosa: il ponte diventa un pericoloso scivoloni. Cala il sole e gli operatori danno inizio alla grande pulizia: in poco tempo l’asfalto torna a prova di cuoio, le bici tornano ad attraversare l’Oberbaumbrücke, nei cestini solo libri, nelle tasche solo MP3player. Le creste quasi fosforescenti dei punk si mischiano ai colori mimetici degli ambientalisti, dai cui zaini spuntano filoni di pane ai 5 cereali. Solo la puzza regna sovrana ancora per qualche ora, a ricordare la festa.

viaggiatori indipendenti • il manifesto [9]


INFORMAZIONE COMMERCIALE

L’ANAS corre sulla via della Salerno-Reggio Calabria

L’

ANAS promette minori disagi in agosto per gli utenti dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria. E conferma l’obiettivo di chiudere tutti i suoi cantieri sui due terzi del percorso entro il 2009. La A3, 445 chilometri costruiti alla fine degli anni 60, è in via di ammodernamento dal 1998 attraverso una tormentata storia di scelte, di appalti e di investimenti. Ad oggi sono stati finanziati per questa grande opera 6.060 miliardi di euro. L’allarme sui conti pubblici del governo Prodi e il recente rifinanziamento per un miliardo di euro destinato alla A3 fa ben sperare per il futuro della grande arteria dell’Italia meridionale. “Oggi possiamo dire che si inizia a vedere il capolinea – dice l’ingegnere Gavino Coratza, direttore centrale Grandi Opere del Mezzogiorno dell’ANAS – sono stati eseguiti o sono in lavorazione o in fase conclusiva di appalto lavori su 320 chilometri di autostrada, cioè i due terzi della A3, lavori allo stato per competenza completamente finanziati. Abbiamo avuto problemi di cassa nel 2006, ma con l’ultimo miliardo stanziato dal governo dovremmo aver saltato l’ostacolo per l’anno in corso. Per completare l’opera serviranno circa 2,5 miliardi di euro”. Quale è la storia dell’ammodernamento della Salerno-Reggio Calabria? “Diciamo – spiega l’ing. Coratza – che in corso d’opera è stata cambiata la filosofia. Originariamente l’ammodernamento è stato pensato attraverso l’idea di fare tanti lotti da appaltare singolarmente, man mano che fossero disponibili gli stanziamenti. Ma all’inizio degli anni Novanta c’è stato un pasticcio in tutta Italia nel’industria delle costruzione per cui un terzo degli appalti è stato di fatto bloccato, con il fallimento di molte imprese e l’abbandono dei lavori. Cambiando filosofia, si è posto mano a questi cantieri abbandonati e nel 2001 l’approvazione delle legge-obiettivo ci ha permesso di fare dei macrolotti da affidare al contraente generale per gestire l’autostrada. Un lavoro concepito adesso in 7 macrolotti, ognuno con una lunghezza media di 35 chilometri, a parte il numero 2 di 70 chilometri. Restano da appaltare ancora dei lotti più consistenti, che comunque – complessivamente – sono diminuiti da 77 a 43. A oggi sono stati completati i lavori per un totale di 120 chilometri, mentre i rimanenti 200 chilometri sono in esecuzione o appaltati. Per cui, se il governo ci assiste e non abbiamo problemi di cassa, entro il 2009 l’obiettivo di completare i 320 chilometri potrà essere rispettato. I

restanti 115 chilometri della Salerno-Reggio Calabria cui porre mano dipendono dai finanziamenti che saranno resi disponibili. A oggi non si può dire nulla, anche se la A3 è stata definita priorità dal governo”. L’ANAS è pronta a portare a termine la missione, considerando anche che i tempi amministrativi per definire gli appalti tendono ad allungarsi, con gare piccole senza problemi che necessitano mediamente di 6 mesi mentre gli appalti più complessi si definiscono in 12 mesi e più. Quest’anno, aggiunge ancora l’ing. Coratza, “le cose per gli utenti dovrebbero andare un po’ meglio dell’anno scorso, perché abbiamo una decina di chilometri in più di quattro corsie rispetto alle due a doppio senso di marcia. E l’Anas è ben preparata a fornire il massimo dell’assistenza: nel 2005, tra metà luglio e metà settembre, sono stati effettuati su questo tratto 3.000 soccorsi meccanici”.


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Loscalo

del dis-orientamento GERALDINA COLOTTI

VIAGGIO A TAPPE

NON FORZATE TRA ROMANZI DI VIAGGIO E NON

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ualche viaggio fra le pagine dei romanzi per disorientare i sensi con la fantasia. Prima tappa, Cuba, primo scalo, Yoss, autore della raccolta di racconti La causa che rinfresca e altre meraviglie cubane (Edizioni estemporanee: www. edest.it). Yoss è il nome d’arte del biologo José Miguel Sanchez Gomez (l’Avana, 1969), membro dell’Unione degli scrittori e artisti di Cuba, scrittore caustico e iconoclasta, pluripremiato all’estero e nel suo paese. Danilo Manera, curatore di questa nuova proposta editoriale, lo descrive come un rockettaro anni ’80, “stivali militari e polsini di pelle borchiati, una pallottola appesa al collo e il giubbotto aperto sul poderoso fisico da palestra, camminata da guappo smentita da uno sguardo dolce”. Un ritratto che si riverbera nella voce narrante del primo racconto, “La causa che rinfresca”. A parlare è una guida turistica - un tipo “naturale, incantevole, mezzo straccione” - che va a ricevere la solita europea di sinistra in visita all’isola. Una guida, ma in un certo senso anche “un sacerdote”, che tacita e assolve, in una ardente vacanza di sei settimane, “il peccato” della donna di essere del Primo Mondo, di non patire la fame, “di scambiare i sogni e l’idealismo con la tranquillità materiale”. Nel racconto che segue, “Menzogne cubane”, la situazione si ribalta. Qui la voce narrante è una donna spagnola, Marisa, insegnante di sinistra, che si è portata in Europa il cubano Rogelio, bello e nullafacente. E adesso che lui è partito con la sua migliore amica, gli scrive una lettera che non verrà mai spedita... Sei racconti in verderame o grigio perla che graffiano, urtano e commuovono.

Ruota invece intorno al potere, al perturbante, alla poesia, La dama numero tredici (Frassinelli), di José Carlos Somoza. Il quarantenne psichiatra cubano ha ambientato a Madrid, la città in cui vive, un thriller filosofico che ha per protagonista un medico perseguitato da un sogno. Ma ben presto Rulfo – questo il nome del protagonista – scoprirà che il suo incubo è qualcosa di troppo simile al vero per potersene liberare. E un verso di Virgilio gli aprirà, suo malgrado, la porta dell’inferno.

Da Cuba alla Madinina, nome che gli indiani caraibici davano alla Martinica, paese d’origine della giornalista televisiva Audrey Pulvar. Nel romanzo Io, albero (Morellini), Pulvar racconta l’”isola dei fiori” seguendo tre generazioni di donne. Il centro, però, è la piccola Eva, bambina selvatica e sensibile, che non è amata dalla madre. L’uccisione di un maialino a cui è affezionata, sconvolgerà l’equilibrio psichico della bambina. In un accesso di furore, Eva ucciderà il fratello più grande, e la sua infanzia trascorrerà tra manicomio e solitudine. Ma un giorno incontrerà una donna e troverà la forza di partire... Un romanzo circolare e al femminile, che parla di un esilio e del riscatto giocando su tutta la gamma delle emozioni, turbinose e cangianti come i colori della Madinina.

Dany Laferrière, un altro autore martinichese, ci conduce poi ad Haiti con la sua raccolta di racconti Verso il Sud (La Tartaruga). Il titolo del libro è tratto dal racconto che ha dato vita all’omonimo film di Laurent Cantet. Una storia a più voci: voci di donne nordamericane, non più giovanissime, che si ritrovano in vacanza su una spiaggia di Haiti. Si chiamano Brenda, Sue ed Ellen (interpretata nel film da una splendida Charlotte Rampling) e parlano della passione per quei corpi neri che, a ogni estate, cancellano la loro scialba quotidianità. Ma intorno, Haiti è un gorgo di ingiustizia e corruzione che irromperà anche su quella spiaggia dorata...

Con lo scrittore cileno Roberto Ampuero, invece, si viaggia tra Santiago e la Svezia, tra Cuba e il Messico in un nuovo noir mozzafiato, Appuntamento al Blu profondo (Garzanti). Protagonista è sempre lui, il panciuto detective Cayetano Brulé, affezionato cliente di ristoranti e pasticcerie. Ma questa volta, il mojito che sorseggia sulla terrazza del Blu profondo rischia di andargli di traverso: il cliente che sta aspettando – un giornalista nordamericano, figlio di ricchi emigrati cubani – si è appena beccato una pallottola all’entrata del ristorante. E prende avvio così un’altra inchiesta del baffuto Cayetano, un intrigo politico internazionale che si dipana fra quadri, film e romanzi.

L’isola di São Tomé, piccola colonia africana del Portogallo ai primi del ‘900 è invece al centro del fortunato romanzo Equatore (Cavallo di ferro), del portoghese Miguel Sousa Tavares. Il romanzo intreccia la vicenda del governatore progressista Luis Bernardo - finito sull’isola a causa dei debiti di gioco - a quella degli schiavi neri che preparano la rivolta, e mostra i contrasti tra Portogallo e Inghilterra sul modo di intendere il governo coloniale. Ma oggetto di questo viaggio storico, sentimentale, e di formazione, è soprattutto la solitudine di un “inattuale”.

E per concludere, ancora uno scrittore portoghese, ma di origine angolana, Gonçalo M. Tavares, autore di Gerusalemme (Guanda). Un romanzo straniato come lo sguardo della protagonista, Mylia, che vaga per le strade di una città senza nome dopo anni di manicomio. A internarla è stato il marito, uno psichiatra ossessionato dalla violenza ella storia. Intorno, una galleria di personaggi altrettanto allucinati che, come in un’antica tragedia, conducono Mylia alla scena finale.

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