scritto e mangiato giugno 2007

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scritto & mangiato in collaborazione con Slow Food

L’appetito vien viaggiando

Supplemento al numero odierno de il manifesto

In giro per il mondo con un solo bagaglio culturale, intrecciando luoghi e arte culinaria

GIUGNO 2007


The ExtraDark Side of Breakfast.

Al mattino, risveglia i tuoi sensi con un gusto intenso e deciso, il gusto delle nuove Gocciole ExtraDark. Irresistibili biscotti al cacao con gocce di vero cioccolato extrafondente: un piacere mai provato.


scritto & mangiato

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in collaborazione con Slow Food

Direttore responsabile Sandro Medici

5 Nonsolocarne di Luca Gricinella 6 Brasile, un pasto speciale di Roberto La Pira

Direttore Mariuccia Ciotta Gabriele Polo Supplemento a cura di Francesco Paternò

Difendiamo l’etichetta

9 Effetto castoro di Loris Campetti 10 Mangio la terra dei sioux di Stuart Piggott

Grafica Daria Sorrentino Illustrazione di copertina Laura Federici Pubblicità concessionaria esclusiva Poster srl tel. 06/68896911 fax 06/68308332

LItalia maggire produttore di riso europeo

15 I tesoretti di John Irving 16 Burkina di Napoli di Hamidou Ouédraogo 18 Il mercato d’inverno di Christine Gaitan 18 Le Mongolie di Bennett Konesni 21 Vedi il Guatemala di Geraldina Colotti 22 Cuba-metafora di Geraldina Colotti

Stampa Sigraf srl Via Vailate, 14 Calvenzano (Bg) Chiuso in redazione il 12/6/2007

C’

è il tempo della semina e c’è il tempo del raccolto. In mezzo ci può stare di tutto, perfino un viaggio alla ricerca di storie alimentari impregnate di cultura locale o meglio glocal, che poi è il nostro futuro. Un viaggio che mescoli turismo e cucina, scoperta e tra-

dizione, per riannodare fili sfrangiati dal tempo e da uno sviluppo sempre più insostenibile. Ieri, supplemento in spalla caricato insieme ai nostri amici di Slow Food, ci siamo così avviati con l’ansia dei perfetti carnivori nell’America latina, cercando vegetariani di ogni specie. E, orrore, locali dedicati nella terra dell’asado, con assaggio finale anche in Brasile. Ci siamo imbattuti in vecchi magazzini ortofrutticoli diventati ristoranti all’altezza della nuova richiesta e in molti luoghi comuni che prima o poi era giusto mettere da parte. Abbiamo provato a scoraggiare i piatti di carne precipitando giù fino in Patagonia, dove ai sontuosi menu di pesce e frutti di mare c’è chi preferisce la carne di un noto roditore di alberi, un carne dal profuFRANCESCO PATERNÒ mo e dal sapore conseguenti. Un viaggio ai confini del sud fra turismo e menù, tutto fai da te (che è poi la strada migliore) e che ci sentiamo di consigliare. Per i palati forti siamo poi risaliti a nord, in Sud Dakota, nella terra dei Sioux, per appuntare su

Sapere sapori

un taccuino di viaggio gli odori di un hamburger di bisonte. Roba forte, da provare. Lasciando le Americhe, siamo trasvolati a Napoli, riscoperta nel suo intreccio di culture da due stranieri. Uno è andato lì a ritirare un premio e ha deciso che bisogna piantare alberi per vivere meglio, magari non ci si riesce davvero, però questa è la via. Da qui alla Mongolia è breve, alla ricerca di un rispetto della natura e dell’ambiente da noi sconosciuto. E come Ulisse, ci siamo fatti incantare da una melodia locale di un pastore-musico. Per liberarcene, subito dopo via a scuola da resistenti guatemaltechi con un’altra sacca nella mano, zeppa di bei libri raccontati. Perché conoscere da vicino certi sapori saperi, è la missione di questo supplemento. Che caldamente vi raccomandiamo di portare a termine.

l e

u l t i m e

n o v i t à

per avere tutte le informazioni sui cd, gli artisti, i concerti, e molto altro consultate musica.ilmanifesto.it

ENZO FAVATA TENTETTO “THE NEW VILLAGE” euro 10,00

che

allora

hanno

Gli anni 70 sono stati quelli della new thing, della grande black music, dell’innovazione musicale, dell’interesse verso le culture popolari, gli anni di un grande sogno di libertà giovanile. Questo progetto è dedicato a quel periodo e ai tanti musicisti sperimentato nuovi linguaggi.

ALTRI TITOLI “Made in Sardigne” euro 8,00

TETES DE BOIS “AVANTI POP” euro 10,00

Primo documento del viaggio, ancora in corso, sul camioncino musicale dei Têtes de Bois alla ricerca di storie di dignità calpestata, lotta, ingiustizia e riscatto dell'Italia che lavora; nelle fabbriche, nei call center, nei campi di pomodori. Quattordici brani, fra arrangiamenti originali e inediti del gruppo. ALTRI TITOLI “PACE E MALE” euro 15,50

ROCCO DE ROSA “TRAMMARI” euro 10,00 Un disco che attinge ad una memoria sonora collettiva, indissolubilmente legata al sud Italia, alla sua cultura e alle sue tradizioni. Insieme a De Rosa collaboratori fidati e tanti ospiti, che hanno dato un contributo prezioso; Maria Pia De Vito, Ralph Towner, Daniele Sepe, Marco Siniscalco, Michele Rabbia, Giovanni Di Cosimo, Riccardo Cimino. ALTRI TITOLI “ROTTE DISTRATTE” euro 8,00

AA.VV. “DIRITTI N.O.N. UMANI”

JAVIER GIROTTO & VERTERE STRING QUARTET “NAHUEL” euro 10,00

euro 10,00

E’ un cd il cui ricavato sarà devoluto interamente al Comitato Per i Diritti Umani, che dopo anni di lotta ha riportato a casa Silvia Baraldini. Quattordici artisti, tra cui Assalti Frontali, Africa Unite, Bandabardò, Gang, hanno aderito al progetto, per riportare denari nelle casse del Comitato, e consentirgli di riprendere la propria azione di denuncia, di informazione, di lotta.

Per le tribù indigene della Patagonia Nahuel significava tutto ciò che rappresentava forza e potenza. Il polistrumentista argentino ripercorre alcune delle composizioni più intense degli Aires Tango - altra "creatura" nata dalla penna e dalla passione di Girotto - che questa volta si avvale degli archi del Vertere String Quartet , fra tango, classica e jazz. ALTRI TITOLI “Origenes” euro8,00 “Trentamila cuori” euro 10,00

BABA SISSOKO “DJEKAFO” euro 10,00 In Maliano significa "incontro, unione". Il nuovo disco del griot e polistrumentista africano è proprio questo; l'unione e l'incontro tra lo spirito, i racconti, le tradizioni, gli stili, i protagonisti di una musica ancestrale, senza tempo. Registrato in soli quattro giorni in Mali con dei musicisti straordinari, è un documento musicale imperdibile. ALTRI TITOLI “DJELYA” EURO 8,00

DANIELE SEPE UND ROTE JAZZ FRAKTION “SUONARNE 1 X EDUCARNE 100” euro 10,00 Un cd dedicato ad un decennio in cui parole come Patria, Chiesa, Denaro, Razza, Guerra, Religione non avevano nessun insidioso fascino. Qualcuno li chiamò "anni di piombo". Per noi erano gli anni della televisione in bianco e nero, ma di un mondo a colori che quotidianamente nelle fabbriche, nelle scuole e nelle piazza imponeva una visione molto diversa dalla logica dei nostri attuali

PETE SEEGER “IN ITALIA”

ASSALTI FRONTALI “MI SA CHE STANOTTE...”

euro 10,00

euro 10,00

Questo disco, i cui nastri sono stati dimenticati in fondo ad uno scatolone per quasi 30 anni, rappresenta uno straordinario documento registrato a Torino nel 1977 che ripropone in tutta la sua attualità la freschezza dell’opera di Pete Seeger, oggi più che mai tornata di attualità. In collaborazione con il Circolo Gianni Bosio.

I cd sono in vendita presso le librerie La Feltrinelli, acquistare con carta di credito telefonare ai RicordiMediastores, il libraccio e Melbookstore. numeri: 06/68719622 - 68719687. Per ricevere i Per informazioni su altri punti vendita e per cd aggiungere al prezzo 2,00 euro di spese postali

Il sesto disco di Assalti Frontali è un piano sequenza in cui scorrono fatti, sogni, ossessioni e speranze di una banda di strada, frammenti di una biografia collettiva. La musica è frutto del lavoro di Assalti, prodotta artisticamente da Max Casacci e Casasonica. Un ritorno all'Hip-Hop per uno dei rap tra i più poetici e politici. ALTRI TITOLI HSL euro 8,00

(fino a 3 cd) e versare l’importo sul c.c.p. n. 708016 intestato a il manifesto coop. ed. - via Tomacelli, 146 - 00186 Roma, specificando la

causale. Distributore per i negozi di dischi Goodfellas tel. 06/2148651 - 21700139. Informazioni sul catalogo 06/68719622-333



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uide turistiche, siti internet, racconti di viaggio, romanzi: il viaggiatore vegetariano che intenda recarsi in Argentina non troverà certo conforto prima di intraprendere un viaggio nella “terra dell’asado”. Le formule sono diverse ma tutte, più o meno esplicitamente, mettono in guardia chi non mangia le carni e vuole comunque visitare il Paese. Non si sottrae alla regola Pepe Carvalho, il detective gourmet protagonista dei romanzi di Manuel Vázquez Montalbán, che in Quintetto di Buenos Aires (Feltrinelli, 1997), non fa che consumare piatti a base di carne, meglio se unti. Ma in fin dei conti la sua è coerenza: quando mangia non vuole pensare a grasso, salute e argomenti correlati; al limite lo fa quando colesterolo e tossine arrivano a livelli di guardia (vedi Le terme, altro romanzo con protagonista Carvalho uscito nel 1986 e pubblicato in Italia da Feltrinelli). Nell’interessante racconto di viaggio di Andrea Attardi, Buenos Aires ora zero (Desiderio & Aspel, 2002), invece, c’è materiale per polemizzare. Dopo avere celebrato le delizie delle carni locali, l’autore scrive: «Cederanno anche i vegetariani più incalliti e recalcitranti»: come se il vegetarianismo, più che una scelta consapevole, fosse una rinuncia soggetta a sfizi occasionali. Chi segue coscientemente questo tipo di alimentazione e chi si è informato sul fenomeno non solo per sentito dire, sa bene che non è così. Quanto ai siti con guide on line e forum tematici per i lettori e alle guide turistiche cartacee, si può notare come anche le realtà con-

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Nonsolocarne siderate fonte di informazioni “alternative” si lascino andare ad allarmismi nei confronti dei vegetariani, messi sull’avviso con frasi del tipo «rischierete l’anoressia» o «per voi sarà un incubo». In realtà, bastano pochi giorni nella “terra dell’asado” per rendersi conto di come tutto questo sia esagerato, affatto corrispondente al vero. Il primo punto di riferimento vegetariano arriva proprio da una delle denigrate pagine scritte. In mezzo a tanti ammonimenti c’è anche chi si contraddice: Le Guide du Routard dedicata all’Argentina (edizione francese del 2004-2005), proprio dopo aver tirato in ballo il rischio di anoressia, con otto righe en passant segnala l’esistenza di Abuela Pan, una delle più note cucine naturali di Buenos Aires. Si tratta di un piccolo locale collocato più o meno a metà strada tra la piazza principale di uno dei quartieri più belli della capitale, Plaza Dorrego a San Telmo, e la centrale, celeberrima Plaza de Mayo. In un edificio del 1895, con interni in legno, si può comprare del buon pane integrale cotto in un forno a legna artigianale – la traduzione letterale del nome, d’altronde, è “il pane della nonna”. I clienti, poi – tra cui molti porteños – possono apprezzare ricette originali e ricercate (come le patate con sedano e olio di arancia, ricavato dalle bucce del frutto tagliate finissime e miscelate a caldo con olio di oliva; miscela lasciata riposare per due giorni), servite in porzioni abbondanti, sempre accompagnate da contorni, a prezzi più che accessibili. Il consiglio è di mangiare tutto e di non tentare di ordinare un sandwich, perché si rischia di far perdere il sorriso e il buonumore a chi sta dietro il bancone e serve ai tavoli: qui il pane è ottimo ed è meglio gustarlo seduti per accompagnare i piatti. Insomma, l’ideale è passare da Abuela Pan, quando non si ha fretta. Sempre nella capitale non si può non segnalare La Esquina de las Flores, nome storico della

di Luca Gricinella*

Come sopravvivere in Argentina pur essendo vegeteriani. Un’insolita guida che insegna: per un mondo migliore “fare un buon pane”

cucina naturale locale. Poco più di venticinque anni fa era semplicemente un magazzino per la vendita di prodotti per l’alimentazione naturale, a pochi isolati dallo storico Teatro Colón; oggi a portare lo stesso nome sono anche due ristoranti vegetariani con possibilità di asportare i piatti. Altri quattro negozi sparsi per Buenos Aires vendono i prodotti de La Esquina de las Flores, gli stessi che sono esportati in Germania, Brasile, Usa e Uruguay. Una vera e propria azienda, insomma, ma assolutamente responsabile: basti dire che organizza corsi gratuiti di cucina naturale, uno dei servizi offerti alla comunità nell’ambito dell’attività parallela dell’omonima associazione. Una frase della signora che ha dato vita al tutto, Angelita B. Bianculli, esemplifica lo spirito de La Esquina: «Preparare un buon pane è il nostro umile apporto a un mondo migliore». Inutile precisare che i loro prodotti non contengono additivi di alcun tipo perché seguono una certificata produzione biologica. Ma la cucina vegetariana in Argentina non è prerogativa esclusiva di Buenos Aires, e non è solo la possibilità di trovare ovunque piatti di pasta o pizza al taglio. Il Nord Ovest Argentino, subito a sud della Bolivia, è la zona di questo immenso Paese in cui le abitudini italiane e spagnole (notoriamente la maggioranza degli argentini discende da queste due nazionalità) lasciano spazio a quelle indigene, visto che qui la maggioranza della popolazione ha queste origini. Salta è la città più importante della zona e può quindi vantare un buon passaggio turistico. A livello gastronomico è nota soprattutto per la qualità delle sue empanadas, uno dei cibi più amati e consumati dagli argentini. Si tratta di mezze lune di pasta ripiene - escludendo le carni - di formaggio e cipolla, mais, roquefort, verdura (di solito acelga, ossia bietola) o humita, un impasto di mais, verdure, formaggio e spezie, normalmente servito avvolto in foglie di granturco impacchettate con una cordicella guarnita da

un fiocco. Per saziarsi non ne basta certo una, ma la si può trovare anche in piccoli villaggi isolati tra le montagne come Purmamarca, noto per la splendida collina dai sette colori. Di empanadas se ne trovano in tutto il Paese, dal mattino fino alle ultime ore del giorno, e qualsiasi turista prima o poi le prova, anche perché sono gustose ed economiche. Tornando a Salta va detto che c’è anche qualcosa di più specifico per i vegetariani. Madre Maiz è un ristorante con cucina vegetariano-macrobiotica di cui sembra impossibile trovare traccia sulle guide turistiche. È un locale colorato, dall’ambiente giovanile, frequentato soprattutto da turisti: con pochi pesos si è sazi anche se, va detto, l’ottima cucina non è del tutto tipica, visto che si ispira anche alle tradizioni gastronomiche orientali. Sempre nella città più grande del Nord Ovest, più di un ristorante segnala nel menù i piatti senza carni con avvisi introdotti da un «attenzione vegetariani» che, a differenza delle guide turistiche, nel non carnivoro induce un sorriso. Nel Paese della carne più famoso al mondo il rispetto per i vegetariani quindi non manca. Alla buona notizia se ne aggiunge un’altra: prima della crisi del 2001 l’Argentina era una delle mete più care del Sud America, mentre oggi è il secondo Paese più visitato dell’area (dopo il Brasile), proprio perché i prezzi sono decisamente più accessibili e le strutture per accogliere i turisti già notevoli. La situazione sociale è ancora molto delicata, la percentuale di persone che vivono sotto la soglia di povertà altissima, ma è in atto una ripresa economica che deve molto non solo all’export agricolo ma anche alla sempre più significativa presenza dei viaggiatori, specie quelli zaino in spalla, di solito accolti con calore e curiosità. Un’accoglienza attenta anche perché tiene conto delle minoranze, come appunto i vegetariani. * Slow Food


6scritto&mangiato

ronaca: il direttore della rivista Slow, sapendo che sto per andare in Brasile, mi dice: «Perché non ti informi a San Paolo sulla situazione dei vegetariani, se quanti come si trovano? Non è una richiesta senza ragione. Infatti, già a fine Ottocento in Argentina e in Uruguay c’erano floride comunità di vegetariani, anche se l’Argentina è la Terra Promessa dei bovini. Anzi, forse proprio per questo motivo». Mi sembra davvero un paradosso e ciò mi stimola a occuparmene, anche perché il Brasile è un buon produttore di carne, si vedono molte mandrie in cui alle mucche e ai buoi si mescolano gli zebù, importati dall’Africa in quanto più adatti al clima tropicale, maggior resistenza e incrocio delle razze. Questo è l’antefatto. Da poco operato al cuore, sull’aereo prenoto un pasto speciale anticolesterolico. Prendo posto. Accanto a me un giovane è immerso nell’ascolto di alcuni nastri. Dopo un paio d’ore di volo, finalmente si mangia. Pure al mio vicino è servito un pasto speciale e gli domando: «Diabetico o ebreo?». Mi risponde in ottimo italiano. «No, sono vegetariano». Non è poi tanto stravagante il caso, allora, se manda simili segnali. Il giovane mi racconta che suona il contrabbasso ed è reduce da una tournée. «Come Bottesini?», lo interrogo. «Solo in parte. Sono un compositore e la mia musica è meticcia, un po’ seria, un po’ jazz, un po’ etnica brasiliana». Si chiama Rogério Botter Maio (Maggio, dunque, come Pupella e i suoi fratelli napoletani). Gli dico che mi interesso di vegetarismo e lui si offre di farmi da guida, una volta a terra. Mi dà il suo numero di telefono, mi regala un suo cd perché sappia qualcosa di più della sua musica (è bravo sul serio), e l’indomani lo chiamo. Ci troviamo e per prima cosa mi spiega che a San Paolo ci sono molti ristoranti vegetariani, di diverso livello qualitativo e perciò economico. Oltre che, ovviamente, di diverso intendimento ideologico, di diversa ortodossia, dal rigore integralista a un certo qual possibilismo (vietata solo carne). Come dappertutto, credo. Latte, miele, uova no, per esempio, oppure pesce sì. Potremmo cominciare subito, a pranzo, con un locale nel pieno della City, vicino all’avenida Paulista, in Alameda Panama. È un locale “povero”, frequentato a mezzogiorno da coloro che sono in “pausa mensa”. Vegetariani? Sì e no, occasionali. Infatti la scelta è spesso dovuta al basso costo e alla modalità di pagamento. Come si paga? A peso. Ci si serve da soli, si porta il piatto col cibo al cassiere, che lo pesa e, indifferente alle scelte, ci dà il conto in base ai grammi (è una formula che si incontra in molti ristoranti “poveri” in Brasile). Siamo praticamente in un self-service né potrebbe essere altrimenti. Molte insalate ma anche molte verdure cotte, zucchine melanzane cipolle pomodori fagioli… Riso orientale, che io arricchisco con piselli. E la prima eterodossia: spaghetti con le vongole. Qualche dolce (non riesco a sapere se sono state utilizzate uova e burro, come è quasi fatale che sia), molta frutta. Pago pochissimo, e mi guardo attorno. Facce di operai, commesse… Due neri. «Ecco, quelli non penso siano veri vegetariani. C’è una differenza culturale, specie qui, dove l’africanità è rimasta un valore. Fanno le macumbe e non seguono Budda. Approfittano di questo ristorante per il prezzo. Se allo stesso prezzo dessero carne sarebbero carnivori. Discorso che vale anche per quella ragazza che si sta mangiando un incredibile piatto di spaghetti». Nello spazio d’entrata si vendono molti prodotti: marmellate, dolci di frutti esotici, biscotti, cioccolato, ma soprattutto libri, molti libri. Sono proprio i libri la cartina di tornasole per

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riconoscere i vegetariani doc dagli altri, gli occasionali, come me oggi. La maggior parte dei testi appartiene alla cultura esoterica. In prima linea pure la medicina omeopatica, la fantascienza, l’orientalismo, l’antibellicosità. Compro un periodico, Vida integral. In prima pagina: «Alerta!», aumenta l’obesità infantile. Di spalla: «Pomodoro e olio, una gran protezione». Poi la pubblicità di una pentola a vapore che «elimina le tossine, gli agrotossici, proibiti dal presidente Lula». All’interno un articolo sulle terapie alternative; un corso universitario di fitoterapia, idroterapia, geoterapia, alimentazione naturale; un corso di “ginnastica cerebrale”; pubblicità di vari psicologi. Questo è stato il mio primo approccio al vegetarismo brasiliano, più diffuso di quanto si pensi, innanzitutto fra i giovani. In un certo senso, lo si può considerare un movimento giovanile in cui si incrociano ideologie prevalentemente orientali (religiose?), salutismo, pacifismo, spirito di appartenenza con una esplicita, evidente ed evidenziata propensione ideologica. A me sembra un connotato inevitabile. Si tratta di ideologie (le chiamo così) indirizzate o derivate verso e da movimenti sia buddisti che vedici. Per questi ultimi, è buona testimonianza il cospicuo numero di ristoranti vegetariani gestiti a San Paolo da indiani (uno l’ho sperimentato ustionandomi il palato col

Brasile, un past peperoncino, che qui chiamano “calabresa” in barba a Colombo). O la gran quantità, come ho già detto, di libri e opuscoli “religiosi” di impianto divulgativo (stavo per dire propagandistico) più che scientifico, in vendita in tutti i locali da me visitati. Mistici e “fantascientifici” (la fine del mondo, per esempio), ripeto. Questa è parsa, a me profano, la caratteristica prevalente dell’ortodossia, la sua motivazione. Ed è la ragione della scarsa adesione nera, mentre ampia è la frequentazione ebraica di questi ristoranti. In uno in particolare, situato in una zona elegante e residenziale con una notevole colonia israelitica. È l’Alternativa in rua Maranhão, un locale chic e rigorosamente ortodosso, con pretese di alta gastronomia. Anche qui con negozio e libreria annessi, per la vendita di frutta e verdura biologiche, oltre che dolci e marmellate. Mi servo dal banco dei libri di un volantino sintomatico del signor Wagner, nel quale si spiega Come são diferentes estes vegetarianos iguales, in cui si mette in evidenza non tanto l’esclusione della carne quanto la garantita qualità delle materie prime. Mi servo di un altro volantino, Sonhos, che invita a iscri-

di Roberto La Pira*

Viaggio nella comunità dei vegeteriani a San Paolo e dintorni. Una cultura alimentare diffusa soprattutto tra i giovani

versi al gruppo di studi dei sogni C.G. Jung, un incontro settimanale di due ore, che «ha come obbiettivo l’autocoscienza attraverso i sogni». Un terzo volantino, con un Budda in primo piano, invita invece alla Meditação em São Paulo antes do trànsito, quattro settimane con un membro degli «amici dell’ordine buddista occidentale». Mi telefona Rogério. Domani è sabato e una consuetudine quasi rituale vuole che il sabato il brasiliano mangi la feijoada, una specie di cassoeula dove, invece della verza, si usano i fagioli neri. Per il resto carni di maiale, costine, salsicce, piedino, coda, orecchio, con la solita aggiunta di manioca. Ci troveremo a Vila Madalena, il quartiere degli artisti, verso mezzogiorno. «Ti aspetto, mangeremo la feijoada, come ogni sabato». Niente vegetariano, allora, almeno oggi. Al contrario. Entriamo in un ristorante di stretta osservanza, nel quale, come promesso, il piatto forte è proprio la feijoada, il piatto degli schiavi negri bahiani. Che in luogo del maiale ha la variante della cosidetta carne di soia. Mangio perché sono curioso e perché ho fame, però confesso che preferisco l’originale. Non è la stessa cosa ma è il tentativo di


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Difendiamo l’etichetta

a campagna a difesa dell’indicazione d’origine in etichetta, condotta da Slow Food e Coldiretti e sostenuta da milioni di cittadini e parlamentari di ogni schieramento ha portato a un primo importante traguardo: il ritiro da parte del governo, nella Commissione politiche comunitarie del Senato, dell’articolo 7 del disegno di legge comunitaria che prevedeva l’abrogazione degli obblighi di etichettatura di origine previsti dalla legge 204 del 2004. Ora l’attenzione va spostata in sede europea, affinchè l’Italia non incorra in procedure di richiamo da parte dell’Ue, ma la legge 204 sia valutata positivamente. Slow Food infatti auspica che la norma possa diventare un punto di riferimento per le future politiche europee in quanto valido strumento a difesa dei produttori e a tutela dei consumatori. «Slow Food confida nell’attività del ministro delle politiche agricole Paolo De Castro, il quale ha dimostrato un importante impegno nella salvaguardia del patrimonio agroalimentare del paese. Grazie alla sua esperienza in materia e al consenso che ha saputo conquistarsi a livello europeo, De Castro è sicuramente la persona che meglio saprà rappresentare le linee guida della 204/2004. Una legge maturata nel contesto italiano, ricco di varietà agroalimentare, che può essere valida anche per gli altri paesi della Comunità europea», ha spiegato Roberto Burdese, presidente di Slow Food Italia.

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to speciale far ossequio a una tradizione con ogni mezzo. Comunque, a tavola discorriamo e io gli esprimo le mie opinioni o le mie sensazioni di profano. Sul fondamento religioso del fenomeno, per esempio, così come mi si presenta per tanti sintomi. Non è certo una scoperta. Lui mi prega di non tirargli in ballo il noto vegetarismo di Hitler. Poi mi passa un elenco dei migliori ristoranti vegetariani paulisti, una cinquantina (i più “in”, mancano i poveri come quelli della prima visita). Per lo più si trovano nei quartieri centrali della città e nella zona ovest, cioè nei siti “ricchi”. Mi spiega che, qui almeno, la vegetariana è in qualche misura una scelta di classe ed è questa la ragione per cui è difficile incontrarvi dei neri, per censo. Per quel che riguarda la mia ipotesi sulla religiosità, Rogério in parte la conferma. Forte è la propaganda della comunità degli Hare Krisna, per esempio, che predicano il vegetarismo e distribuiscono ricette e libretti. La vera forza, anche ideologica, è però rappresentata dai giovani tra i venti e i trent’anni, che non mangiano carne per il semplice motivo che non vogliono che si uccidano gli animali. Sono ragazzi che difendono la naturalità del cibo e

appartengono a gruppi e movimenti pacifisti, consequenzialmente. Tra costoro i più radicati sono i vegani, che non mangiano latte, miele, uova, e nemmeno nulla che abbia a che fare con gli animali, mammiferi o insetti che siano. «Nel pomeriggio ti voglio portare a una festa che andrà avanti fino a notte. È la verdurada, che si celebra in San Paolo ogni due mesi, organizzata dalla comunità straight-edger dal 1996, in cui si presentano dei gruppi musicali hardcore. Sono centinaia di giovani. Il pubblico assiste a dibattiti politici e guarda dei video o delle opere artistiche di contenuto politico o alternativo. Alla fine di ogni show, partecipa a un pranzo totalmente vegetariano. È un evento dei giovani per i giovani». Andiamo. Lo spettacolo è, per la sua novità, unico. Le mie orecchie di vecchio soffrono per il rock duro a tutto volume. Rogério è giovane e può, deve restare. Io domani mattina vado ad Asuncion, in Paraguay. Lo saluto. «Chissà se ad Asuncion troverai i vegetariani», mi dice sorridendo scettico. E invece no. In Avenida 25 de Mayo, una delle vie principali della capitale paraguaiana, un’insegna mi avverte: comida vegetariana. * Slow Food



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di Loris Campetti

Vivere in Patagonia senza antagonisti. l di là dello stretto di Magellano, oltre la Terra del Fuoco e il canale di Beagle c’è l’isola di Navarino, ultimo insediamento umano alla fine del mondo. 2.200 anime, per metà militari che vivono in casette bianche tutte uguali e difendono la patria da improbabili minacce della dirimpettaia Argentina. Gli altri esseri viventi dell’isola sono leoni marini, lontre, qualche puma e, soprattutto, 800 mila castori. Alcuni decenni fa, un’intraprendente famiglia argentina aveva importato 40 coppie di roditori architetti per sfruttarne le pellicce e la carne. Ma ci sarà pure una ragione se i castori vivono in paesi come il Canada, dove l’equilibrio delle specie è garantito dagli orsi che apprezzano particolarmente il gusto della car ne del roditore. Quaggiù i castori si sono trovati da dio, senza antagonisti, e si sono riprodotti come solo loro sanno fare. Diventati numerosi e intraprendenti hanno deciso di attraversare il canale di Beagle a nuoto per avviare la seconda colonizzazione dell’isola di Navarino. Prima dei castori era arrivato l’uomo bianco e gli indios fueghini erano stati sterminati; ora i discendenti dei «pionieri» devono vedersela con i prolifici castori che stanno demolendo le foreste dell’isola, modificando i corsi di fiumi, lagune, ruscelli. Arrivando a Puerto Williams da Punta Arenas con un aereo da 16 posti, sorvolati tra le nuvole i fantastici ghiacciai della Terra del Fuoco, si può vedere l’effetto castoro in tutta la sua straordinaria opera demolitrice. Perché storcere il naso, dunque, se a tavola ti verrà servito un carpaccio di castoro? Anche Kit Carson e i trapper, in assenza di bufali, non disdegnavano cene il castoro arrostito, cucinato dalle donne indiane. Anche in Canada, Russia, Finlandia, Svizzera la fine del castoro scuoiato era in tavola, almeno fino al crollo del prezzo delle pelli che determinò la fine della caccia. Il fatto è che la carne di castoro se va bene non sa di nulla, sennò sa di legno. Meglio optare per un piatto di centolla fresca (il fantastico granchio reale che da noi si trova solo inscatolato a prezzi non proprio proletari). Comincia a ritroso, dall’isola di Navarino e dall’ultimo insediamento umano che è Puerto Williams, il nostro viaggio turistico-alimentare alla fine del mondo. Va detto che la Patagonia cilena, per essere l’ultima frontiera meridionale, offre ai turisti non solo paesaggi meravigliosi, fiumi impetuosi e cascate, laghi, lagune glaciali e prepotenti ghiacciai, la foresta australe dove i fiori hanno dimensioni maggiorate e l’acqua arriva da tutti gli angoli del cielo e della terra, mentre il sole ti trafigge grazie al buco dell’ozono che sta proprio lì sopra. La Patagonia cilena è tutto questo e di più: è il paradiso del sapiente e del ghiotto. Dunque benvenuti, e non abbiate fretta. Se insieme al tempo avete spirito d’avventura, da Navarino potrete ripartire verso l’Isola del Fuoco non con lo stesso aereo con cui siete arrivati ma con uno spericolato e potente gommone che, dopo aver attraversato il mitico canale di Beagle che unisce Pacifico e Atlantico e ospita famiglie di leoni marini e lontre e pellicani, vi sbarcherà sbattuti ma vivi nell’unica tappa argentina che vi proponiamo: Ushuaia. Ushuaia è un supercasinò, trappola per turisti benestanti. Perché arrivarci, allora? Per gustare la più saporita carne del mondo a prezzi stracciati, anzi fissi: paghi nove dollari e ti riempi il piatto come e quanto vuoi, a condizione di lasciarlo vuoto evitando sprechi, sennò il prezzo aumenta in proporzione. Lasciata Ushuaia verso Punta Arenas, i prossimi menù saranno esclusivamente a base di pesce e frutti di mare (è solo un caldo consiglio, ci sono alternative di qualità). A Punta Arenas scoprirete che molte donne si chiamano Sonia o Mira e molti uomini Minko o Slobo.

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E provare a mangiare carne

Effetto castoro

che sa di legno, oltre ai “soliti” piatti a base di pesce e di frutti di mare

La colonizzazione croata ha lasciato il segno. Affittate un’automobile e a pochi chilometri dalla città troverete una pinguinera straordinaria. Guardate con rispetto, riflettete sulla vostra vita e su un’altra possibile organizzazione sociale. Fatto tutto questo, tornate a Punta Arenas e concedetevi le saporite empanadas e ciupas de mariscos (frutti di mare giganti), ricci di mare, polipi (anche qui tenteranno di coinvolgervi nella lotta contro i castori: resistete). Prima di lasciare la città fate un salto a Fuerte Bulnes. Posizione indescrivibile sul mare e una trattoria dove potrete assaggiare le empanadas ripiene di centolla, orgia per il palato e ricostruente per il cuore. Si riparte verso il nord (siamo ancora a migliaia di chilometri da Santiago), prima tappa Puerto Natales. Qui vi consigliamo un’escursione in battello per risalire il Fiordo de Ultima Esperanza. Specie animali sconosciute, colonie di cormorani che sembrano pinguini, cascate che precipitano nel fiordo, colori mozzafiato e freddo pungente. In cima al fiordo, il ghiacciaio Balmaceda appoggiato su una laguna glaciale. Qui c’è un rito che va rispettato, anche se sembra fatto apposta per soddisfare la fantasia dei turisti americani: si stacca un pezzetto di ghiaccio dal Balmaceda (finché l’effetto serra non lo scioglierà) e si mette in un bicchiere pieno di pisco. Vedrete la luce, pazienza se fa tanto turista scemo. Con tutti i mezzi possibili - aerei, traghetti, corriere, furgoni in affitto - si continua a salire verso il nord per affrontare la Carretera Austral. Coihaique, Puyuhaique dove tutto parla tedesco e sembrerebbe di essere nella Foresta Nera se non fosse per i fiordi, i mariscos, le zuppe di pesce. 30 chilometri all’ora su una strada in terra battuta tutta buche con acqua che ogni tanto finisce là dove inizia l’oceano in cui affogano le Ande. A Caleta Gonzalo vi attende un traghettino che vi depositerà in un altro imbarcadero dove ricomincia la Carretera. Da Hornopiren potrete risalire in auto fino all’estuario Reloncavi la cui popolazione vive del commercio dei salmoni che alleva. I migliori del mondo, assaggiateli sapendo che l’estensione degli allevamenti provoca gravi conseguenze ambientali. Puerto Montt è una tappa obbligata prima di sbarcare sull’isola di Chiloè, il cuore antico del Cile in cui resistono antichi miti mapuche - stregoni, maghi e favolosi mostri terrestri. Vi raccomandiamo di fare attenzione al thrauco, ometto di 80 centimetri d’altezza e quasi altrettanti di virilità, brutto ma dolcissimo, affascinante e sensuale, aggrappato ai rami degli alberi in attesa di giovani prede femminili. Le casette colorate di Chiloè sono costruite su palafitte - le poche che hanno retto a un terribile terremoto che ha inghiottito anche la casa natale del cantore della Patagonia, Francisco Coloane. Il piatto tipico è il curanto, una specie di piramide iperproteica a base di maiale, frutti di mare e patate cotta alle braci sottoterra per 12 ore, lo stesso tempo necessario a digerirla insieme alle numerose bottiglie di ottimo vino cileno che avrete ingurgitato. Archiviata questa esperienza lasciate la capitale Castro e puntate a nord dell’isola dove potrete raggiungere con improbabili barchette un’isolotto che ospita una piccola pinguinera. Al ritorno vi attende un pasto a base di piccole e succulente ostriche i cui gusci, insieme a quelli di cozze, vongole e capesante pavimentano i giardini dell’isola. Il viaggio volge al termine. Prima di prendere l’aereo per Santiago e poi per la vecchia Europa concedetevi un’ultimo regalo: un piatto di locos, altrimenti dette orecchie di mare. Salutate lontre, foche e leoni marini, ghiacciai e lagune, il thrauco e la centolla e i pinguini con l’unica certezza che prima o poi da queste parti tornerete.


10scritto&mangiato

Mangio la 5 dei

di Stuart Piggot*

Nel sud Dakota, tra hamburger di bisonte

e basse erbe scure, tra viti di neve che sembrano torte glassate e consistenti tannini

ottobre 2005. Fuori, sulla veranda, Dan O’ Brien cura gli hamburger che arrostiscono sul barbecue a gas con la perizia dell’esperto, e un paio di minuti dopo il calvo rancher e scrittore me ne mette uno nel piatto accanto alle patate con uno sguardo di grande soddisfazione dietro le lenti rotonde degli occhiali con la montatura di metallo. Si direbbe la riproposizione di un radicato cliché americano, ma questa volta c’è qualcosa di molto diverso. La ragione per cui sono venuto al Cheyenne River Ranch, un’ora abbondante di macchina a sudest di Rapid City, South Dakota, è che O’Brien è un’autorità in fatto di bisonti del West. Nessuno è più legato di lui alla rinascita del bisonte americano. Do un morso all’hamburger di bisonte e, in un attimo, il mio sistema nervoso viene saturato da tutti i segnali assorbiti. Non riesco a dare un nome alle innumerevoli sfumature di sapore, ma so che sto assaporando la terra dei Sioux Lakota, di Cavallo Pazzo, Nuvola Rossa e Toro Seduto. Ma che cosa significa per il mondo di oggi, tanto diverso? Questa mattina O’Brien mi ha mostrato il pascolo invernale dei suoi 450 bisonti, una distesa di colline che sembrano onde congelate, una sorta di quadrato i cui lati misurano otto miglia. Il terreno era coperto appena da basse erbe scure autoctone. «Non diamo mai agli animali altro foraggio, ma tra ora e dicembre ciascuno prenderà fino a tre libbre di peso al giorno», spiega. «Di solito gli allevatori danno ai bisonti foraggio invernale e li ingrassano come bestiame prima della macellazione. Ma non va bene, perché la carne non assume una venatura di grasso come quella del manzo». Ho scrutato l’ampia distesa senza però scorgere nessun genere di edificio e solo qualche pioppo nero nei canaloni. È uno dei terreni più accidentati che abbia mai visto, ma la licenza che O’Brien ha ottenuto per usare questo pezzo della Buffalo Gap National Grassland è uno dei suoi beni più preziosi: senza di esso Wild Idea sarebbe rimasta solo un’idea.

6 ottobre 2005. Si sente il rumore di uno sparo davanti a noi, ma nella scura striscia di bisonti, un centinaio di metri davanti a me, non si muove un muscolo. È chiaro che non ci sarà una fuga precipitosa tipo film hollywoodiano. Poi si sente un secondo colpo e la grande bestia fatta di 450 corpi si drizza molto lentamente e poi gira alla mia destra. Il nostro fuoristrada procede con cautela mentre la mandria si mette in cammino e, di colpo, un maschio irsuto di una tonnellata, con le corna ricurve, si allontana da noi. «Ecco Curly Bill» dice la moglie di O’Brien, la cuoca Jill Maguire, «è un bel tipo!». In Buffalo for the Broken Heart di O’Brien, ho letto che Curly Bill è stato uno dei primi bisonti che ha acquistato, nel 1998, avviando la metamorfosi da allevatore di bestiame a guru dei bisonti. Il fuoristrada si ferma, saltiamo giù accanto a due bisonti di due anni con un’aria pacifica come se si fossero appena sdraiati, ma con il sangue che cola dall’ampio taglio sul collo. Un

veterinario preleva campioni di sangue per verificare che non avessero malattie, mentre O’Brien, il suo socio già docente di letteratura all’Università del South Dakota, Gervaise Hittle, e il suo braccio destro, Erney, sono impegnati con trattore e catene per caricarli sul retro di uno dei furgoni che trasportano gli animali al macello. Ieri sera Hittle mi ha spiegato che Wild Idea opta per questo tipo di «uccisione» anziché il metodo convenzionale di separare l’animale dalla mandria e portarlo su un camion al macello, dove l’odore della morte lo riempirebbe di adrenalina, se non è già successo. Così invece il loro sangue tor na alla terra e l’America comincia a riscoprire il vero sapore di questa terra, fonte del mito che è alla base dell’identità nazionale.

7 ottobre 2005. Le viti sono coperte da uno strato di neve fresca che le rende identiche alla torta glassata che costituiva il momento culminante dei miei Natali da bambino. Due ragazzi del luogo che somigliano a personaggi di un film di David Lynch mi invitano a entrare in quello che sembra un garage doppio; sono il primo giornalista straniero a visitare la cantina Point of View alle porte di Minot, North

Dakota. I due produttori, Ken Eggleston, che somiglia in modo sconcertante a James Dean, e Jeff Peterson, che sembra un pubblicitario di mezza età, come in effetti è, mi mostrano prima una mini-cantina scrupolosamente pulita e organizzata in modo impeccabile in uno dei garage, e poi l’altro garage, che funge da sala di degustazione. Anche se in degustazione c’è un vino ottenuto con uve rosse, la gamma è costituita in prevalenza da vini fatti con la frutta. Ho percorso più di 400 miglia ieri, in un inverno prematuro, per assaggiare vini di frutta in un paese delle meraviglie che vanta la massima concentrazione di missili balistici intercontinentali di terra del pianeta? Non appena assaggio il vino secco di mele, però, so di non essermi sbagliato; ritrovo quegli aromi intensi che ricordano le noci che solo le vecchie varietà sanno dare. Passiamo alla frutta selvatica. Il Chokecherry secco è un rosso potente, tannico ma vellutato. I Lakota hanno mangiato il chokecherry (Prunus virginiana) per migliaia di anni prima che le avanguardie dei coloni bianchi si spingessero in questa direzione – il selvaggio West – durante la corsa all’oro delle Black Hills del 1874 e cominciassero a farne marmellata e distillati. Il dolce Wild Plum non è meno travolgente negli aromi – pura prugna matura! –, con acidità e


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dolcezza in perfetto equilibrio. «È esattamente ciò che vogliamo» dice Peterson, «cogliere il gusto di questi altri frutti, non imitare il vino fatto con l’uva». Se è davvero David Lynch, allora il film è senz’altro Una storia vera. 12 ottobre 2005. Il panorama bello ma brullo che vedo dal finestrino del fuoristrada a quattro ruote motrici di Eldon Nygaard mi fa capire perché l’uomo bianco lasciò che i Lakota Sicangu (Sioux Brule) venissero qui a Rosebud nel 1877. Pensava che non valesse nulla! L’altro ieri sera l’eccentrico e baffuto produttore di vino in camicia e cappello western che sta al volante mi ha raccontato l’arrivo di suo nonno in questo Stato dalla Norvegia all’inizio degli anni Novanta e di suo padre novantunenne che aveva passato il giorno a imballare fieno. Poi Nygaard ha versato il suo Wild Grape 2002, un rosso fatto con l’autoctona Vitis riparia raccolta nella Rosebud Indian Reservation, e in un attimo la mia concezione del vino è andata in frantumi. Mi è sembrato che un milione di minuscole bacche nere mi fosse esploso in bocca. Anche se aveva un’acidità innegabile e tannini consistenti, Nygaard era riuscito comunque a domare l’animale… ma appena appena. Ora quest’uomo che ha fatto di tutto, dal pilota di elicottero nella guerra del Vietnam al professore di diritto, dall’imprenditore aerospaziale al produttore cinematografico, lascia la strada per imboccare un sentiero in terra battuta che si arrampica lentamente su un’altra collina ondulata. «Andiamo a vedere l’uva selvatica al ranch di Charlie Colombe. È il presidente eletto del consiglio tribale di Rosebud, e questi 1700 acri appartengono alla sua famiglia da quando esistono gli archivi». I nomi francesi sono piuttosto comuni tra i Lakota perché i cacciatori di pelli francesi vennero da queste parti più di mezzo secolo prima della famosa spedizione transcontinentale di Lewis e Clarke del 1804-5. Proprio negli archivi, Nygaard ha visto menzionata l’uva selvatica; poi è diventa-

to direttore del casinò di Rosebud e i Lakota gli hanno mostrato l’uva che cresceva sulla loro terra. Nel 1996 ha prodotto con quell’uva il suo primo vino, che oggi si può trovare nella carta del famoso ristorante di Charlie Trotter a Chicago e nel grande negozio di vino Lavinia a Parigi. Il Valiant Vineyards di Nygaard è venduto a 35 dollari a bottiglia. Lasciato il sentiero, scendiamo in una gola profonda finché l’auto si arresta di botto accanto a una macchia di alberi e cespugli. Usciamo a fatica e vedo improvvisamente che viti senza foglie ricoprono la vegetazione davanti a noi, i grappoli in miniatura di minuscoli acini che risplendono neri sotto la radiosa luce del sole. I loro aromi intensi di bacche corrispondono esattamente al gusto del Wild Grape di Nygaard, anche se l’asprezza e la secchezza tannica della materia prima è più estrema, più selvaggia che nel vino. «Questa terra non è mai stata arata, non è mai stata usata se non per pascolare qualche cavallo o qualche mucca», spiega il mio ospite, «più biologico di così!» Il Wild Grape è anche un raro esempio di collaborazione vincente fra indiani d’America e bianchi d’America basata sul rispetto reciproco: un’armonia più importante di quella del sapore del vino. Il gusto selvaggio della migliore carne di bisonte e dei vini migliori che ho trovato nei due Dakota non esprime solo l’originalità di questa terra, ben poco cambiata da quando Colombo «scoprì» l’America; fornisce altresì un’indicazione per un futuro sostenibile di questa terra, che dipende ancora in gran parte dalle iniezioni di fertilizzanti chimici ed erbicidi gentilmente concessi dall’industria petrolchimica e dalle sovvenzioni all’agricoltura del governo federale. Dan O’Brien ha definito questa combinazione «una fregatura doppia». Non gli ho creduto finché ho visto i campi scuri di girasoli rachitici, la dimostrazione che questo sistema è letteralmente arrivato a un punto morto. * Slow Food

Il riso europeo dell’Italia

terra Sioux Italia è la prima nazione in Europa nella produzione di riso: nel 2005 ne sono stati prodotti ben 14,44 milioni di quintali. Nella campagna 2005/2006 la nostra nazione ha inoltre venduto negli altri 24 paesi dell’Unione Europea più di 5 milioni di quintali di riso: il primo acquirente è la Francia con 1,2 milioni di quintali seguita dalla Germania con 1 milione di quintali e dal Regno Unito con più di mezzo milione di quintali. Mentre nello stesso periodo le esportazioni di riso verso i paesi extracomunitari sono pari a 859.000 quintali di riso. Notevole anche il consumo italiano medio pro capite di riso che con oltre 5 kg. è superiore quello della Comunità Europea (4,1 kg. procapite) ma con grandi differenze tra i consumi di Lombardia, Piemonte e Veneto che sono assai più elevati rispetto a quelli dell’Italia centrale meridionale ed insulare. Sono questi alcuni dei dati diffusi il 9 giugno scorso a Carpi nel convegno “Il riso tra storia e gastronomia” organizzato dalla delegazione locale dell’Accademia Italiana della Cucina. Un’occasione in cui si sono delineati gli scenari futuri relativi al secondo cereale più coltivato al mondo dopo il frumento. “I risotti non sono un piatto afferma Maurizio Campiverdi Delegato di Bologna San Luca dell’Accademia Italiana della cucina.- sono una costellazione gastronomica come la pasta e la pizza. I grandi risi italiani come Carnaroli, Arboreo, Baldo, Roma, e Violone Nano sono prodotti di qualità insostituibili. Bisogna promuovere l’uso di questi risi e monitorare che i ristoranti italiani, anche all’estero, li utilizzino nella preparazione dei risotti che solo allora saranno degni della nostra tradizione”.

L’


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ll’alba, all’angolo del vicolo sotto l’albergo, è comparsa la bancarella improvvisata di un pescivendolo. Ammassa tutti i suoi pesci in scatole di cartone. Non su un letto di fresche alghe verdi e ghiaccio, come piaceva tanto a Goethe. Sbraita agli autisti che osano parcheggiare nei pressi. «Acca nun potete sta’! Aggi’a lavora’!». Dopo tanti anni, sono di nuovo a Napoli. La prima volta che venni, dovevo cercare un indirizzo: quello di un amico nel Quartiere della Duchesca. Lui si chiamava Gennaro, il che non facilitava la ricerca. Uscendo dalla stazione, chiesi ragguagli al primo tassista che trovai. «I vicoli della Duchesca sono là in fondo alla piazza» mi disse. «Ma se ci vai da solo, ti fregano tutto, pure le mutande!». Non andò così. Anzi, gli scu-

A

I tesoretti gnizzi di Vico numero VI mi presero in simpatia: inviti a casa, piatti colmi di maccheroni al pummarò. E mi aiutarono pure a trovare Gennaro. La mia curiosità per Napoli è nata forse perché mio padre era vissuto qui per sei mesi durante l’ultimo conflitto mondiale. Faceva il radiotelegrafista ed era incaricato di installare una base radio in un appartamento in corso Garibaldi. Sopra un cinema, mi raccontava, ma io quel cinema non l’ho mai trovato. Parlava con entusiasmo di altre città che aveva visto di passaggio durante la guerra — Biserta, Sfax, Tobruk, Il Cairo, Atene, Salonicco… —, ma parlava male di Napoli, anzi malissimo. Forse qualche brutta esperienza, non so. Certo che, nel periodo in questione, tra il ’43 e il ’44, la città era tutto tranne che facile e accogliente. Già mangiare era una vera impresa. Cito dal diario di Norman Lewis, addetto ai servizi di informazione britannici durante la liberazione d’Italia. Nulla, assolutamente nulla di ciò che l’apparato digerente umano è in grado di assimilare va sprecato, a Napoli. Le macellerie che qui e là hanno riaperto non vendono niente che noi considereremmo accettabile come carne, ma scarti e frattaglie sono esposti in bella mostra, e maneggiati religiosamente: le teste di pollo — cui è stato troncato di netto il becco — costano cinque; un mucchietto grigio di interini di pollo, pòrto in un piattino lucidato a specchio, cinque lire; un ventriglio, tre lire; le zampe di vitello, due lire l’una; un grosso pezzo di trachea, sette lire. Si formano piccole code di gente in attesa di acquistare queste prelibatezze. Corre voce che la popolazione felina della città sia in calo. (Norman Lewis, Napoli ’44, Adelphi Edizioni, Milano 1993) Passeggiando in via Pignasecca, in cima ai Quartieri Spagnoli, noto che l’amore napoletano per le frattaglie è ancora vivo. Solo che ora non c’è più la scarsità del ’43. Al contrario, oggi, logicamente, c’è l’abbondanza. La vetrina della Tripperia Fiorenzano propone un rigoglioso assortimento di varie taglie di trippe — callo, centopelle, nido d’ape — zampini di mucca, zampini di maiale, teste di vitello e ‘nnoglia (un tipico salsicciotto di intestini di maiale, sale, pepe e semi di finocchio). Ancora pochi metri, e spunta una grande pescheria. Davanti al bancone, stracolmo di tutti i tesori immaginabili del mare, vengono in mente i versi della canzone ’O guarracino: Pisce palumme e pescatrice, scuórfene, cernie e alice, mucchie, ricciòle, musdee e mazzune,

di John Irving*

A Napoli, fra ieri e l’altroieri, un itinerario in cui nulla di digeribile va sprecato. Notazioni del viandante che è anche uno spione

stelle, aluzze e storiune, merluzze, ruóngole e murene, capodoglie, orche e vallene, capitune, aùglie e arenghe, ciéfere, cuocce, tràccene e tenghe … Chiaro che non si trovano tutte queste cose oggi: un’orca, per esempio, sarebbe un po’ difficile. Via Pignasecca sembra un grande mercato. Una lunga sequela di vetrine, bancarelle, botteghe. Un senso di grande abbondanza. La confusione della merce in mostra s’intona con quella della via stessa: venditori che urlano, clienti che chiedono i prezzi, motorini che sgusciano a destra e a manca, e non si fermano per nessuno, neanche per la più malconcia delle vecchiette. Visti nella vetrina di una pasticceria: sfogliatelle, cannoli, struffoli, babà, zeppole, chiacchiere, cornetti, pignolate e sanguinacci. Visti presso una friggitoria: pizzette, calzoni, panzerotti, crocchette di patate e pescetti e cavolfiori fritti in pastella. Visti su un banco di formaggi: provoloni, scamorze, mozzarelle, bocconcini, trecce, burrate, pecorini, ricotte e manteche. Poi, una bancarella dopo l’altra, ci sono la frutta e la verdura: limoni, mele, pere, arance, banane, infinite varietà di pomodori, carciofi, melanzane viola e nere, fagioli, fagiolini, peperoni gialli e rossi e verdi, lattughe. Siamo a marzo:

chissà d’estate che ricchezza. Alcune verdure sono a me sconosciute, nascono problemi di terminologia. Quelli che per me sono broccoli, per il napoletano sono broccoli baresi. Mi fanno vedere un altro tipo di verdura che io prendo per cime di rapa. «No, le cime di rapa hanno un altro aspetto. Non vedi la differenza?» Sinceramente, no. E non dimentichiamo i friarelli, foglie caratteristiche del napoletano, che sono servite cotte con le salsicce oppure sulla pizza. Eppoi c’è la torzella. Anzi, non c’è più. Si tratta di una verdura (anche questa una specie di broccolo da quanto ho potuto capire) che cresceva spontaneamente nelle campagne intorno alla città. Oggi è introvabile; tutti ne parlano, o ne hanno sentito parlare, ma pochi la ricordano veramente. Chiedo a Gaetano, un verduriere sui 25 anni, se ne ha mai vista una in vita sua. «Mai, ma so che un tempo era tra i principali ingredienti della minestra maritata». La minestra maritata, o menest’ ammaretata, o pignato grasso, è uno dei piatti classici della tradizione partenopea. È così chiamata perché “sposa” la verdura e la carne. C’è chi sostiene che si trattava originariamente di un piatto natalizio, o perlomeno invernale, visto che, tra gli ingredienti, sono previsti elementi “forti” come muso di vitello, piedi di porco, salsiccioni e pancetta. Altri invece sostengono che le voci scarolella, cicoriella e, appunto, torzella (nelle antiche ricette, le verdure necessarie per la preparazione sono citate con il vezzeggiativo) sono indicative di primizie, addirittura di germogli. Il piatto quindi sarebbe primaverile, da consumarsi nel periodo pasquale. Mi assicurano che «la disputa è feroce», ma aggiungono che «’a panza nun vuole pensieri». Come scrive ancora Norman Lewis: «Il cibo per i napoletani, viene anche prima dell’amore, e la sua ricerca è altrettanto insaziabile e ingegnosa». Confermo! * Slow Food


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oglio ringraziare molto il capo e tutti gli abitanti del villaggio. Ci è stato proposto di andare a Napoli per incontrare i rappresentati di molti altri paesi. Ci è stato detto che ben 800 persone avevano concorso per il premio e che era stato possibile invitare i rappresentanti di dieci paesi a Napoli per consegnare loro dei premi. Una seconda selezione ha portato l’Union Namanegbzanga del Burkina Faso al primo posto tra tutti i partecipanti. Dopo di che, sono stati attribuiti tre premi speciali a tre persone, e anche qui abbiamo ottenuto il primo posto. Abbiamo ottenuto il primo premio speciale. Siamo rimasti tutti sorpresi. Anche i nostri accompagnatori, i bianchi che erano con noi e che si occupavano dell’organizzazione. Questa piacevole sorpresa ha persino indotto una ragazza che era con noi a piangere di gioia all’annuncio dei risultati. Là dove siamo andati, le lingue parlate sono l’inglese, l’italiano, lo spagnolo e le lingue dell’America. Si parla anche il francese, ma le lingue principalmente parlate sono le altre. Il nostro accompagnatore capisce una di queste lingue (l’inglese) e conosce il paese visitato, altrimenti le cose sarebbero state molto complicate. Durante il nostro soggiorno di cinque giorni a Napoli non abbiamo incontrato alcuna difficoltà grazie al fatto che siamo stati accompagnati da una persona esperta. Anche quelli che hanno proposto la nostra candidatura per il premio sono venuti a incontrarci a Napoli. I premi che abbiamo ricevuto sono stati anche per loro motivo di soddisfazione. Durante il nostro soggiorno in Italia abbiamo visitato numerose località dove abbiamo potuto incontrare degli agricoltori, degli artigiani. Abbiamo dedicato una giornata intera a queste visite. Abbiamo visitato dei siti archeologici e turistici. Qui da noi, parliamo di proteggere la collina. Anche loro, là, hanno dei siti speciali e ce li hanno mostrati. Per esempio, la città di Napoli è costruita sulla città antica. L’abbiamo visitata. Questo sito aiuta i bambini a capire come vivevano i loro nonni un tempo. Il viaggio che abbiamo effettuato ci è stato istruttivo come se avessimo fatto del turismo. Abbiamo scoperto molte cose che ci hanno dato più coraggio. Dopo il nostro ritorno, il presidente che si occupa dell’attività (di Slow Food, immagino) ci ha anche scritto. Dovete sapere che, quando si partecipa a questo genere di viaggi fuori del nostro paese, non si parla più di Tanlili, di Oubritenga, di Ouagadougou. Si parla solo di Burkina Faso. Ora che siamo integrati insieme agli altri, dovremo armarci di coraggio e fare di tutto per partecipare a più incontri. Abbiamo preso l’impegno di proteggere le colline, ed è effettivamente quello che facciamo. Facciamo in modo che i nostri impegni si traducano in realtà. Presto faremo dei vivai. Viviamo in un ambiente segnato dalla siccità e i nostri sforzi nella protezione dell’ambiente hanno attirato l’attenzione di quelli che ci hanno proposti per il premio. Il convegno cui abbiamo partecipato ha permesso a tutti gli altri paesi, America, Asia eccetera, di conoscere il Burkina Faso e di apprendere che in Burkina esiste una Unione di produttori che si chiama Union Namanegbzanga. Il nostro destino è interamente nelle nostre mani. Onoriamo dunque i nostri impegni per poter realizzare meglio il nostro sviluppo. È questo che abbiamo ottenuto dal nostro viaggio a Napoli, ed è questo che possiamo dirvi. Al ritorno, abbiamo avuto un leggero ritardo. Da Napoli siamo stati portati in taxi all’aeroporto di Roma. Ma l’aereo che dovevamo prendere per andare a Parigi ha avuto un ritardo e abbiamo perso la coincidenza con il volo che doveva portarci da Parigi a Ouagadougou. Abbiamo dovuto fermarci a Parigi il tempo necessario per aspettare il volo successivo. La compagnia Air France ci ha presi in carico per un giorno, per ciò che riguarda l’albergo e il

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cibo. Al resto abbiamo dovuto provvedere noi. Se vi dicessi quanto costa una notte in hotel, vi rendereste conto che non è stato facile. Ma grazie al nostro accompagnatore abbiamo potuto superare questa difficoltà. Così, abbiamo finalmente potuto rientrare a Ouagadougou senza difficoltà. Al momento della nostra partenza, voi vi siete riuniti e ci avete dato le vostre benedizioni che per noi costituivano una specie di assicurazione affinché il viaggio andasse bene. Voi avete chiesto, in base al Corano, la protezione di Dio su di noi. Noi siamo partiti e poi siamo ritornati. L’assicurazione che voi avete sottoscritto per noi si è rivelata buona. Non abbiamo incontrato problemi nel corso del nostro viaggio. Siamo andati e tornati in buona salute.

di Hamidou Ouédraogo*

Quando due culture s’incontrano e si piacciono. Quegli alberi assolutamente da piantare

te da quello che facciamo qui. Per esempio, usano il mais per fare il pane. In Burkina Faso dobbiamo fare di tutto per raggiungere un livello simile. Dobbiamo considerare prima di tutto che piantare degli alberi è per noi un obbligo morale. Dobbiamo fare dei vivai in cinque località, dobbiamo sin d’ora impegnarci in questo. Chiediamo l’impegno di tutti. Ci sono dei lavori alla cui realizzazione i vecchi possono contribuire. Per esempio, possono dare una mano a gestire i vivai realizzati nei pressi dei pozzi. Il viaggio è andato bene, il vostro onore è salvo. Quando abbiamo ricevuto il primo premio speciale, questo ha creato un certo clima di timore nei confronti degli altri partecipanti. Prima della proclamazione dei risultati, tutti si

e quei Tanlili prescelti

Burkina Dovete sapere che là, dove siamo andati, malgrado il fatto che il loro clima sia dolce e che piova continuamente, continuano a piantare degli alberi. Non riuscireste a trovare una proprietà che sia priva di un giardino. Ci sono alberi ovunque nei posti che abbiamo visitato. Là, la gente lavora molto con il legno. Coltivano la vite. Dunque, con il legno fanno delle tettoie e la vite coltivata si arrampica su queste tettoie. In parte il legno è anche venduto. Inoltre, abbiamo visto degli allevamenti nei quali il latte degli animali è munto per farne differenti tipi di formaggio. Abbiamo visitato un mercato organizzato dai produttori e abbiamo fatto qualche foto. I produttori utilizzano i prodotti locali per preparare dei pasti, e questi pasti sono consumati dagli italiani. Usano il miglio o il sorgo rosso, proprio come qui da noi. Anche noi consumiamo i nostri prodotti, ma da loro la trasformazione dei cibi è differen-

mescolavano tra di loro e si parlavano senza problemi. Dopo la proclamazione dei risultati, le relazioni reciproche sono diventate “un po’ così”. Quello che esiste qui da noi esiste anche altrove. Ma grazie a tutti, siamo tornati in buona salute. Il valore totale dei premi che abbiamo ricevuto è di 11 000 euro. Convertiti nella nostra moneta, corrispondono a 7 milioni di franchi CFA. Questa somma non è stata consegnata al presidente dell’UNGVT perché lui possa tornare qui a mangiare carne. La somma deve essere utilizzata per sostenere le attività intraprese. Non dobbiamo utilizzare questo denaro in nessun altro modo. Il premio consegnato al presidente appartiene a tutti i membri dell’Unione, a tutti gli abitanti di Tanlili, ma per essere utilizzato nel quadro delle attività dell’Unione. Se, con gli 11 000 euro, ricevuti realizzeremo attività corrispondenti appena a 100 euro, saremo


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relegati nell’arretratezza. I soldi che ci sono stati dati non devono essere usati dal presidente per costruire delle case in muratura. Ricordiamoci che ci siamo presi l’impegno di fare dei vivai e che ognuno andava ad acquistare gli alberi da piantare. Ognuno di noi dovrebbe fare in modo di poter piantare ogni anno dieci nuovi alberi nel suo campo. Ricordatevelo questo impegno! Non vogliamo più che siano tagliati alberi che possono essere utili nell’ambito della medicina tradizionale o per l’alimentazione. È l’insieme di questi impegni che ha spinto i nostri partner a finanziare i nostri progetti e a proporci per il Premio Slow Food. I nostri interlocutori ci sostengono perché la nostra comunità possa svilupparsi. Non piantiamo degli alberi così perché loro possano poi venire a tagliarseli, o pos-

che viviamo in una zona di siccità dobbiamo lavorare con il massimo impegno per rendere migliori le nostre condizioni di vita. Dio ha voluto che voi di Tanlili siete stati prescelti. Allora lavorate per dimostrare che meritare la scelta che Dio ha guidato su di voi. Se ci fate caso, noi tutti qui seduti, noi siamo dei kaoos-weto [gente che ha migrato a lungo]. Ma oggi, se tu hai un figlio che vuole andare in Costa d’Avorio, anche se non puoi impedirgli di andare, non sei contento che ci vada. Tu non sei contento che i tuoi parenti siano oggi là, e dunque non puoi essere contento che altre persone ancora ci vadano. Ma, come fare per impedire questa emigrazione? Diversificando le nostre attività, possiamo contribuire a ciò. Voi vecchi siete i nostri consiglieri: consigliate i

ragazzi. È vero che i ragazzi non vogliono lavorare, ma non tutti i ragazzi si rifiutano di farlo. Ce ne sono che, se ricevono dei buoni consigli, ritornano ragionevoli e lavorano come si deve. Sono trascorsi cinque anni da quando ci siamo riuniti con i giovani, non riuscivamo più a capirci. Noi volevamo che loro partecipassero alle attività, e loro non erano d’accordo. Ma adesso, loro partecipano alle attività. Anche quando noi siamo assenti i giovani lavorano. A un certo punto, noi, noi saremo stanchi e dovremo smettere di lavorare, o forse potremmo non esserci più, ma il lavoro non dovrà fermarsi. Tanlili non deve tornare indietro. Bisognava essere presenti a Napoli per vedere, non possiamo raccontare tutto quello che è successo là. Eravamo circondati da numerosi giornalisti e questo per noi è stato veramente un grandissimo segno d’onore. Con gli 11 000 euro ricevuti, costruiremo vivai, acquisteremo alberi da piantare e della rete per proteggere le zone rimboschite. Anche nella sede dell’Unione vedremo come piantare alberi e fare in modo che crescano. Voi siete molto fortunati, dunque, perché quello che abbiamo avuto è già soddisfacente per noi tutti. A rischio di ripetermi, dico che il premio ci è stato attribuito perchè voi avete lavorato, ma anche per invitarvi a lavorare di più per avere dei risultati migliori. È questo che ci tenevo a dirvi. Vi ringrazio. *Il testo è la trascrizione dei passaggi più significativi della relazione sulla missione del presidente dell’UNGVT (Union Namanegbzanga des Groupements villageois de la zone de Tanlili) ai proprio membri al ritorno da Napoli, dove ha ritirato il Premio Slow Food per la Biodiversità 2003.

di Napoli sano utilizzarli a loro vantaggio a scopo medico. Lo facciamo per noi stessi. Io sono più vecchio di alcuni di voi, ma ci sono delle specie di alberi che io non conosco. Da quando ci siamo impegnati a proteggere il nostro ambiente, sarete d’accordo anche voi che c’è stato un cambiamento. Adesso, si può trovare quella specie di albero chiamato rândga in lingua mooré, thè de Gambie in francese e cumbretum nicrantum in latino. Ora, soltanto tre anni fa, non si poteva trovare questa specie di albero nei dintorni. Se utilizziamo in modo appropriato il denaro ricevuto, può darsi che la prossima volta otterremo un sostegno finanziario più consistente. Può darsi che altre persone diverse da me abbiano l’opportunità di viaggiare e di vedere quello che io ho visto, di vedere le esperienze di altri produttori. Per questa ragione, se abbiamo l’opportunità di ricevere degli appoggi, noi


18scritto&mangiato

di Christine Gaitan*

A nord del nord del mondo, tra gli aromi dovuti alla dieta della renna e il resto del cibo tradizionale della popolazione Sami

Il mercato l mercato d’inverno di Jokkmokk è una manifestazione spettacolare che offre amicizia e calore nel pieno dell’inverno artico. Si tratta di una tradizione annuale, risale a secoli or sono: nel febbraio 2005 ha celebrato l 400º anniversario. Il mercato apre il primo giovedì di febbraio e, per tre giorni all’anno, vi arrivano circa 30 000 persone da tutto il mondo, ben di più dei soli 3000 abitanti del villaggio. Anche se ci può essere un metro di neve e la temperatura può scendere a 30 gradi sotto zero, si approntano falò che danno calore e luce nelle lunghe notti invernali. Jokkmokk è stato un centro di scambi commerciali della regione fin dal secolo XVI; all’inizio del secolo seguente il re di Svezia istituì nel villaggio un mercato ufficiale per gli scambi tra i Sami, i mercanti della costa e altri. Il governo insediò inoltre nel villaggio esattori delle tasse e preti, che avevano il compito di istruire la gente e di officiare cerimonie quali battesimi e matrimoni. La chiesa era importante per lo stato come strumento per convertire il popolo Sami al cristianesimo. Nell’Ottocento, gli abitanti delle regioni settentrionali si recavano al mercato d’inverno su cavalli adorni di campanelle per vendere pelli di pecora e animali selvatici, mentre i Sami arrivavano sull’akkjor, una piccola slitta tirata dalle renne, per vendere pelli di renna e manufatti. I visitatori compravano selvaggina da piuma e pesci, mentre i Sami cercavano in primo luogo sale, farina e successivamente prodotti moderni come caffè e tabacco. Acquistavano anche – oppure ottenevano con il baratto – prodotti di lana, pelli e utensili e anche argento. Coglievano l’occasione per tenere riunioni ufficiali ed esprimere le loro lamentele al governo svedese. Oggi il popolo Sami ha un ruolo importante in questo mercato. La cultura, l’arte, l’artigia-

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nato e la musica dei Sami richiamano molta gente. Circa 500 bancarelle propongono indumenti fatti di pelle di renna, coltelli con il manico istoriato, calzature adatte al freddo polare, gioielli e perfino utensili per la vita all’aperto in quelle lande selvagge. Nelle loro capanne i Sami servono prelibatezze a base di carne di renna e fanno conoscere il Jojk a pubblici numerosi. Ogni giorno organizzano una corsa in cui i concorrenti sfrecciano su un lago ghiacciato a bordo di slitte trainate da renne. La quotidiana parata delle renne, chiamata Renraid, presenta i Sami sui loro akkjor. I Sami, che parlano vari dialetti della loro lingua indigena, il samiska, vivono in una regione chiamata Sapmi che tocca quattro paesi. Sono una popolazione di circa 90 000 persone: 20 000 in Svezia, 40 000 in Norvegia, 10 000 in Finlandia e 20 000 in Russia. Per migliaia di anni sono vissuti esclusivamente di caccia, raccolta e pesca. Il loro animale da carne più importante è da sempre la renna selvatica, che fornisce cibo, abiti e riparo. Nel corso dei secoli alcune renne sono state parzialmente addomesticate – solo parzialmente, in quanto non sopravvivono se sono rinchiuse in recinti – per farne animali da tiro. Laila Spik, del villaggio di Mellanbyn in Muorjevaara, a proposito delle tradizioni alimentari dei Sami, evolutesi nel corso dei lunghi inverni nevosi, scrive che «nella nostra cultura la renna è molto importante, anzi è fondamentale. È stata la principale fonte di cibo. La sua alimentazione è varia, il che influenza il gusto della carne. In autunno predilige cibarsi di funghi, che conferiscono il loro sapore alla sua carne. Il muschio, che costituisce il suo alimento principale durante l’inverno, dà alla carne un gusto più delicato. Se nel corso dei rigidi mesi invernali si rende necessario integrare la sua alimentazione con foraggio, lo si avverte immediatamente: attenua il sapore selvatico».

Gli aromi dovuti alla dieta dell’animale sono esaltati da preparazioni semplici, essenziali. Quando si cucina la carne per le festività autunnali si aggiunge soltanto sale. Tradizionalmente, le varie parti della renna sono bollite in acqua e sale e servite in due portate diverse. Per prima cosa si portano in tavola le ossa, che contengono midollo, si spaccano e si raccoglie il midollo con speciali bacchette. Questo piatto si consuma con il fegato tritato e la lingua affettata. Il brodo caldo in cui è stata bollita la carne è poi servito come bevanda a cena. La seconda portata è costituita dalle costolette e dal filetto, accompagnati da salsicce e sangue cotto. Oggi è consuetudine aggiungere patate, carote, rape e pastinaca bollite o guarnire con lingonberries agrodolci. Il giorno dopo il banchetto a base di renna, gli avanzi si friggono nel burro: un piatto che è considerato una prelibatezza. Buona parte del cibo tradizionale dei Sami era conservato in modo da essere commestibile durante i lunghi periodi in cui queste popolazioni nomadi si spostavano con gli animali. Una preparazione classica è il Suovas, la carne affumicata ed essiccata. Il Suovas fresco può essere tagliato a pezzi e cotto su una griglia all’aperto, quello stagionato si mangia crudo affettato. Il pane non lievitato è conservato con il Suovas e scaldato su pietre calde intorno al fuoco da campo. Nel pieno e alla fine dell’estate, si produce formaggio con il latte del vajor, la femmina della renna. Questo latte ricco e grasso è anche bollito con erbe di montagna e messo a fermentare in barilotti di legno. I Sami inoltre cacciano varie specie di galli cedroni selvatici, che fanno tradizionalmente parte della loro alimentazione, e salano, affumicano ed essiccano il pesce. La raccolta di piante ed erbe durante i mesi estivi, che venivano essiccate e conservate in altri modi, era essenziale per fornire loro le sostanze nutrienti


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o d’inverno di origine vegetale che mancavano nella dieta a base di renna. Attualmente circa 2 000 membri della popolazione Sami della Svezia sono pastori di renne (la legge svedese riserva questa attività alla sola etnia Sami). Questo popolo, un tempo nomade, oggi vive tutto l’anno in una cinquantina di villaggi disseminati nelle zone settentrionali del paese ma conserva parte della tradizione nomade, in quanto segue le renne durante la stagione del pascolo. Nel corso delle diverse stagioni, le renne spaziano su un vasto territorio e i pastori devono spostarsi con loro (oggi con mezzi di trasporto moderni come gatti delle nevi, elicotteri e motociclette). Tutti i recipienti utilizzati dai Sami sono levigati e hanno gli spigoli smussati per ragioni pratiche: la vita di questo popolo prevedeva continui spostamenti e gli oggetti acuminati

potevano facilmente danneggiare le sacche della sella e ferire le renne. Le materie prime dei prodotti artigianali sono ricavate dalla renna; la pelle conciata è usata per fare borse, tasche, pantaloni e guanti; i tendini servono per cucire e il palco per fare manici di coltello, astucci e aghi. La religione animista dei Sami un tempo era incentrata sul culto della natura e il suo rapporto con l’uomo e i Noaidi o sacerdoti erano i capi spirituali dei riti religiosi. I Sami praticavano offerte rituali in luoghi sacri legati a varie specie locali di animali e piante. Tutte le forme di vita avevano due spiriti, uno contenuto dentro il corpo e l’altro disincarnato. Se uno spirito estraneo e ostile catturava l’anima di un Sami, il Noaidi cadeva in trance attraverso il rullo dei tamburi e il suono del Joik e cacciava lo spirito maligno. I Noaidi erano un tramite spirituale tra la vita terrena e gli dèi e le dee

del mondo spirituale. Particolare importanza era attribuita alla divinità femminile Maderakka e alle sue tre figlie, che avevano il potere di controllare la nascita degli esseri umani e degli animali. Oggi la religione animista non è più praticata, ma i concetti basilari di questo credo sopravvivono nell’atteggiamento del popolo Sami nei confronti della natura e nel grande rispetto per l’ambiente. Negli ultimi anni nei paesi scandinavi sono cresciute la visibilità e il peso di questo popolo. I movimenti giovanili dei Sami mostrano un rinnovato interesse per la cultura alimentare tradizionale così come per la lingua e la cultura dei loro antenati. Nel 1993 è stato costituito il Sametinget, un organismo politico eletto dai Sami che ha lo scopo di tenerne viva la cultura e di informare l’opinione pubblica sui problemi, le condizioni e gli eventi di questo popolo. * Slow Food

lenotti dell’Archeologia 30 giugno - 29 luglio 2007 Apertura notturna e manifestazioni culturali in oltre 100 musei, parchi e siti archeologici della Toscana Programma generale: www.primapagina.regione.toscana.it www.intoscana.it www.cultura.toscana.it/musei www.archeologiatoscana.it

Con la collaborazione della Soprintendenza

per i Beni Archeologici della Toscana

Associazione Musei Archeologici della Toscana


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di Bennett Konesni*

Agnelli e pastori, una pecora che gira i tacchi

mmaginate di essere un pastore mongolo a cavallo del suo cammello, pronto a condurre il gregge su un nuovo pascolo. Siamo in aprile – il tempo dell’agnellatura nella steppa – e vi accorgete che una delle pecore è sdraiata a un centinaio di metri dal gruppo, vicino a un mucchio di erba secca. Accanto a lei c’è un agnello appena nato. La pecora salta su e scappa al vostro arrivo, lasciando l’agnello solo a belare disperato nella polvere, tutto bagnato. Di solito le pecore accettano gli agnelli neonati ma ogni tanto, come in questo caso, decidono di rifiutarli negando loro la cura di cui hanno bisogno per sopravvivere. È il momento di intonare il khoomei (si pronuncia hoo-mee), il canto armonico mongolo detto anche canto gutturale. Mi trovo nel distretto Chendman di Khovd, Mongolia occidentale, per studiare la tradizione locale di cantare agli animali orfani per tranquillizzarli. È quella parte del moderno canto armonico che non prevede esibizioni di

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e se ne va mentre sale una melodia attraverso sei diversi tipi di khoomei

ventose, nel nostro stomaco se abbiamo esagerato con lo stufato di montone: «Ops, khoomei di stomaco». Come Tserendavaa sente il khoomei nel paesaggio, io sento il paesaggio nel khoomei. Le distese senza alberi, i laghi in moto, il vento che soffia attraverso le fessure della porta della nostra capanna sono tutti presenti nei suoni di questa musica. Tutto questo, le frasi, la dinamica basso-alto, il legame con il paesaggio, dà la sensazione che il khoomei sia una recita sussurrata, come se il cantante parlasse direttamente con la pecora. Quando Tserendavaa avverte che la pecora si è finalmente calmata, la lascia andare e arretra lentamente, camminando con le mani dietro la schiena e guardando con cautela per verificare se la madre accetta l’agnello o lo manda via scalciando. A volte ci vuole qualche giorno per completare il processo, ripetendo le varie tattiche finché una ha successo. Qualche volta non funziona nessuna e allora si munge a mano la

Le Mongolie costumi sgargianti, balli codificati e assordante musica techno (come ho visto qui a fine marzo alla festa del khoomei), ma che compensa ciò che le manca in fatto di spettacolarità con una bellezza intrinseca. Se non avete mai sentito un khoomei, non vi sarà facile immaginarlo esattamente. Quando è eseguito nel modo giusto, inizia con un suono gutturale che crea il tono basso su cui è modulata la melodia di un motivo mongolo. Se è mal eseguito sembra di sentire qualcuno che gorgoglia il motivo di Guerre Stellari, che è più o meno il livello al quale arrivo io: ho pensato che, una volta tornato a casa, questa mia nuova arte potrebbe rivelarsi buona solo per una mediocre esibizione a notte fonda in qualche festa. Invece un buon khoomei è molto di più di un numero d’effetto: qui in Mongolia è una forma musicale studiata e rispettata che trova spazio nelle feste e nelle università di tutto il paese, ed è una parte importante del

lavoro del pastore mongolo. Il mio maestro, un pastoremusico che si chiama Tserendavaa (per tradizione i mongoli non hanno cognome) ricorre al khoomei tutte le volte che una pecora, una capra, un cavallo, una mucca o un cammello appena nati restano orfani o sono rifiutati. È una pratica che si svolge senza clamore – diversamente dalla festa del khoomei – e si propone di calmare la neomamma e renderle familiare il neonato. Il processo comporta varie fasi. Ho definito la prima «abbandono e preghiera». Si cerca di lasciare l’agnello all’aperto, non troppo lontano dalla pecora, allontanandosi fischiettando come se non vi importasse del neonato e non intendeste prendervene cura. La pecora si drizza sempre e si guarda intorno, quasi a dire: «ma quella cosa è davvero mia?»; quindi la annusa. Questo primo approccio, però, funziona raramente. Di solito la pecora gira i tacchi e si allontana, lasciando solo l’agnellino. Si passa quindi alla

seconda fase, che ho chiamato «vicinanza forzata». Si lega la pecora a una roccia o a un cespuglio mettendole accanto l’agnello. Si spera così che con il tempo ceda le armi e cominci ad allattare quella cosina. In qualche caso l’espediente funziona, in altri bisogna ricorrere alla terza fase, «khoomei e sussurro». Solitamente, Tserendavaa si inginocchia accanto alla pecora e le afferra le zampe posteriori per impedirle di scappare. Poi tuba e fa le fusa, sussurra e schiocca la lingua, portando l’agnello sotto la pecora per cercare di fargli bere un po’ di latte. Quindi inizia sommessamente il suo khoomei, pian piano, come una cantilena. Modula le melodie preferite oppure improvvisa melodie e suoni sul momento, usando sei diversi tipi di khoomei (dalle basse vibrazioni di petto agli acuti sibili nasali) intervallati da altri sussurri. È un genere di pratica musicale diverso da quello che ho conosciuto in Ghana e

in Tanzania. Suona più libero, più meditativo, quasi come un incantesimo o una preghiera. La sensazione nasce in parte dall’assenza di un’insistita scansione ritmica. Tserendavaa basa le sue melodie più sulle frasi che sull’idea di una cadenza ritmica rigorosa. La sensazione deriva anche dal fatto che la musica non si inserisce facilmente nelle progressioni familiari di accordi che accomunano la musica africana e quella occidentale. Questa mongola sembra incentrarsi più sulla tensione tra tono basso e fischio acuto che sui rapidi cambiamenti di accordi e melodie complesse, enfatizzando soprattutto le cadenze V-I che intervengono a metà e alla fine dei motivi. Infine, il khoomei è legato al paesaggio in modo diverso da altre espressioni musicali di cui sono venuto a conoscenza. Tserendavaa lo sente continuamente, quando è nella steppa, nel vento che fischia attraverso l’erba, nel lago ghiacciato che scricchiola sommessamente nelle notti

pecora allattando l’agnello con un biberon. Ma su centinaia di nascite questa eventualità si è verificata solo due volte nell’ultimo anno. Tserendavaa è un omone socievole e mite e, anche se non ho modo di dimostrarlo, ho la sensazione che ciò contribuisca alla sua alta percentuale di successi. A volte, quando conduciamo gli animali da un angolo all’altro della steppa, si mette a cantare canzoni sulle montagne, i cavalli e le belle donne. Intreccia il khoomei con le canzoni mentre procediamo e afferma che questo è il modo migliore per esercitarsi, all’aria fresca e camminando dietro gli animali. Ritengo che il rapporto che ha con il suo gregge e i canti con i quali lo accompagna gli rendano più facile convincere le madri a prendersi cura dei neonati. Osservandolo al lavoro con il gregge e solo con gli orfani e le madri, non posso evitare di pensare che in un modo o nell’altro alle pecore piaccia davvero, come a me. * Slow Food


isa, un crespuscolo di maggio da estate precoce. Nello spazio all’aperto del centro sociale Newroz, buffet freddo sotto la bandiera del Che Guevara: insalata di cous cous, tortine di verdura, involtini sorpresa. E vino toscano. Qui incontriamo Maurizio, Guido, Simone, attivisti delle Brisop, Brigate di solidarietà e per la pace: “Un gruppo – spiegano – nato cinque anni fa all’interno del Movimento antagonista toscano per cercare un minimo comun denominatore con i popoli che, in altre parti del mondo, si oppongono alla globalizzazione neoliberista: a Cuba, in Bolivia, in Guatemala, in Argentina…”. Intanto, su uno schermo scorrono le immagini del video realizzato dopo un soggiorno nella cooperativa Nuevo Horizonte, in Guatemala: circa 400 persone, quasi tutti ex-guerriglieri delle Far, le Forze armate ribelli che,dopo la firma degli accordi di pace, nel ’96, hanno iniziato un’esperienza di produzione sociale condivisa nel Guatemala stremato da 36 anni di guerra civile. Un paese che, dal ’54, quando un colpo di stato sostenuto dalla Cia mise fine al processo di riforme iniziato dall’allora presidente Arbenz Guzmán, ha avuto circa 150.000 morti, 50.000 scomparsi e un milione di rifugiati. Il paese dell’impunità. Ancora nel 2003, l’ex dittatore Efrain Rios Montt, responsabile di molti massacri durante la guerra civile, aveva potuto candidarsi alle elezioni col consenso della Corte suprema. Oggi, dopo la vittoria di Oscar Berger, Montt e l’ex presidente Portillo sono agli arresti domiciliari per genocidio. Ma nel Guatemala che tornerà alle urne il prossimo settembre, e che vedrà candidata anche l’india Rigoberta Menchu, la ricchezza è sempre saldamente nelle mani delle oligarchie. E ogni anno circa 6.000 omicidi, opera di bande armate o paramilitari, rimangono impuniti. “Il video – spiega Maurizio – è dedicato al contadino Alvarez Juarez, ‘Alvarito’, ammazzato l’8 luglio 2005. Ogni tanto, qualcuno passa vicino alla cooperativa e spara. Tempo fa hanno incendiato un camion che trasportava merce alla comunità vicina per scambiarla senza l’intermediario dei grossisti”. In Guatemala quasi la metà della popolazione vive sotto la soglia di povertà, che raggiunge il 75% tra gli indigeni. Nel video, si vedono giovani pescare nel fiume, alcune donne cuociono tortillas, altre badano a una pentola con riso e fagioli. “Nuevo Horizonte – interviene Guido - si trova nella zona del Petén, importantissimo polmone verde dell’Ame-

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rica latina, messo a rischio dai piani di privatizzazione previsti nella zona nel quadro dell’Alca, l’accordo di libero scambio delle Americhe: il Cafta, il trattato di libero commercio con gli Stati uniti, firmato dal Guatemala nel 2000 e il plan puebla Panama. Quest’ultimo, che parte dal Messico per arrivare a Panama, prevede anche la costruzione di 25 dighe che porteranno all’espulsione di 15.000 contadini”. Per resistere al saccheggio delle risorse naturali è sorta Alleanza per la vita e la pace, un coordinamento delle comunità del Petén. “Le comunità – dice ancora Guido – hanno costituito una banca per la conservazione dei semi tradizionali e organizzato un lavoro di informazione politica per spiegare i veri obiettivi dei piani di ‘modernizzazione’ previsti per la regione”. Nel video, infatti, un attivista di Nuevo Horizonte spiega: “L’introduzione del mais transgenico amarillo distrugge l’equilibrio naturale. Il Guatemala è invaso da prodotti inutili di marca nordamericana, protetti dalle sovvenzioni del loro paese, che sbaragliano la concorrenza locale. Sulle nostre terre c’è petrolio, nichel, uranio e chissà quante altre risorse che hanno trovato e che i loro tecnici non dicono. A questo mirano i loro ‘piani’. Il ‘progresso’ decantato dal Plan Puebla Panama porterà soltato le maquillas, le fabbriche a bassi salari e alto sfruttamento. Bisogna opporsi costruendo al contempo un modello alternativo: il capitalismo in apparenza ti offre oro, in realtà spazzatura”. A Nuevo Horizonte, invece, il modello è quello della produzione sociale condivisa. Nel video, Rony racconta ancora: “All’inizio questi erano terreni incolti. Il governo voleva assegnarci 8 ettari ciascuno. Abbiamo pensato che, mettendo in comune la produzione, ci sarebbero stati più vantaggi per tutti, non soltanto sul piano dei bisogni alimentari, sanitari, educativi, abitativi, ma su quello dello sviluppo umano integrale. Abbiamo dimostrato che, fuori da certe logiche di potere, possiamo produrre qualità, non solo quantità”. Oltre alla cooperativa, a Nuevo Horizonte funzionano anche dei gruppi d’interesse, che si associano su progetti condivisi per produrre reddito e salari per i membri del gruppo. Attivissimo è il Comitato delle donne. La telecamera inquadra Zaila, in piedi dietro il banco di un emporio autogestito. Spiega che l’attività è sorta per dare un’alternativa

di Geraldina Colotti

Come resistere al saccheggio delle risorse naturali, condividere una produzione sociale e cercarsi un nuovo orizzonte di lavoro alle donne delle comunità: “I nostri sono piccoli progetti, era difficile rimborsare un prestito al 18%. Insieme possiamo invece offrire un piccolo capitale d’inizio. Questo emporio è un punto di distribuzione dei prodotti all’ingrosso e senza intermediari”. Un’altra parte del lavoro di Nuevo Horizonte, riguarda l’educazione scolastica e l’informazione. Dove prima c’erano baracche, adesso ci sono case per tutti i nuclei famigliari e un sistema scolastico interno che

assicura l’istruzione primaria e secondaria. Simone, 20 anni e una buona esperienza nel campo del mediattivismo, racconta ora: “Avevamo proposto un progetto di autoformazione per istallare una televisione di quartiere con un canale autogestito nel contesto della scuola popolare, ma per ora non ci sono risorse sufficienti”. Quello che non manca, invece, a Nuevo Horizonte, è il rispetto per la persona e l’entusiasmo: “In Italia – dice ancora Simone – io lavoro nel campo della rieducazione psichiatrica e ne vedo di tutti i colori. A Nuevo Horizonte, invece, c’era un ragazzo con un ritardo cognitivo, il cui padre era morto in combattimento, che era completamente integrato nella comunità. Lì hanno un rapporto diverso col tempo, i giovani non hanno perso il rapporto con la memoria e con la storia e, sul piano dei comportamenti, sono più liberi di noi.” Nel video, intanto, sfilano i sottotitoli di coda, sulle musiche di Manonegra e Brian Eno. Nuevo Horizonte, che vuol dire nuovo orizzonte. Magari fosse semplice. Per richiedere il video: www.inventati.org/brisop.

Vedi il Guatemala

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22scritto&mangiato

er lettori golosi di storie, un giro fra le pagine guidati dall’olfatto. Irresistibile l’odore del pane caldo, che appena sfornato sembra più buono. Il vero buongustaio, però, preferisce “sbocconcellarlo a temperatura ambiente”. Sa bene, infatti, che l’acqua e l’amido con il calore formano la salda, “una sorta di massa gelatinosa che solo raffreddandosi da luogo a una mollica soffice e alveolata, grazie alla progressiva evaporazione dei liquidi”. D’altronde, la digeribilità del pane aumenta con il suo grado di cottura. Un pane è ben cotto se, battendone il fondo, risuona sonoramente, e se la crosta aderisce bene al resto. E come riconoscere quello a lievitazione naturale dagli altri? Dalla crosta spessa e dal sapore acidulo, dalla mollica soffice e dalla consistenza, che si mantiene intatta per un’intera settimana. Lo spiega Alessandra Meldolesi nel Libro del pane (Ponte alle Grazie), che offre un quadro storico e antropologico di un cibo millenario, inventato dagli antichi egizi nel 6.000 a.C. Sembra che già nel terzo secolo a.C i Greci producessero impasti sofisticati, e sfornassero ben 72 tipologie di pane, e che nella Roma di Augusto esistessero 129 panifici. I poveri, però, allora mangiavano solo polenta. E anche oggi, in certe parti del mondo, a loro restano solo “i circences”. In compenso, nei paesi come l’Italia, alcuni cibi come il pane integrale, che per i nostri nonni costituivano spesso l’unico alimento, oggi sono più cari e ricercati. Il pa-

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Cuba metafora ne viene farcito coi cibi più diversi, come dimostrano le 128 ricette proposte da Meldolesi, più altre 55 “che profumano di pane”, rinnovate dalla fantasia dei grandi cuochi. Per palati forti e nasi collaudati, sono invece le 85 ricette d’autore allegate al volume Storia del peperoncino, dell’etnologo Vito Teti (Donzelli). Teti ripercorre il viaggio del piccantissimo alimento: dall’America precolombiana alla Spagna, alla Turchia, dal Mediterraneo ai Balcani, dal Nordafrica all’Estremo oriente, dall’India alla Cina, all’Italia meridionale e in particolare alla Calabria. E proprio la Calabria, dov’è nato l’autore, costituisce il fulcro di un volume che coniuga antropologia e vissuto, fonti storiche, suggestioni e metafore, per riflettere sui meccanismi delle identità e delle appartenenze. Profumo speziato di cibo proibito, nel racconto che dà il titolo alla raccolta La stanza sul tetto, del grande scrittore indiano Ruskin Bond (Donzelli). Lo scenario è quello dell’India ancora sotto dominio coloniale, dove si svolge la storia del diciassettenne Rusty, figlio adottivo di un nobile britannico dal facile scudiscio, deciso a educarlo all’inglese. Ma ecco che, per via di un incontro fortuito, il ragazzo scopre i sapori forti dell’allu chole, che si prepara nella bottega del chat: prima le patate affettate, poi i piselli, poi la polvere di peperoncino rosso e quella oro, quindi una spruzzata di succhi e infine una buona

sbattuta in una ciotola fatta di foglia. E quel cibo saporito, di cui Rusty non sospettava l’esistenza, lo spingerà verso nuove scoperte, in un viaggio iniziatico compiuto nell’atmosfera spessa, sorprendente e solidale del bazar. Anche nella storia di Jamie, protagonista di un romanzo rivolto ai più giovani - Il ragazzo che non mangiava le ciliegie, di Sarah Weeks (Beisler editore) -, contano gli odori. L’odore di cannella, a Jamie ricorda il gusto dello “zabaione purissimo” che gli preparava il papà prima di fuggire con una cassiera del discount, obbligando lui e la mamma ad andare a vivere in una roulotte. L’odore delle ciliegie, gli ricorda l’incidente di fabbrica di zia Saffi, ieri un’operaia addetta ai barattoli, oggi una specie di zombie che ha perso la memoria. I ricordi di Saffi sono come “tante chiavi appese a un grande anello”, ma né Jamie né sua mamma sanno trovare quella giusta per farla ritornare come prima. Ci vorrebbe “un acciarino magico”: capace di ridare i ricordi alla zia e cancellare quelli brutti di Jamie: l’odore acre e il gusto amaro “di Ciocociop”, che gli ricorda la violenza subita dal Vecchio Grigio… Ci vorrebbe un acciarino magico che con-

senta a Jamie di esprimere tutti quei pensieri che aumentano ogni giorno con le sue tante letture. A scuola, però, la pagina dei temi rimane sempre bianca. Finché un giorno… Una storia forte e poetica che parla di minori abusati, e mostra il potere salvifico della scrittura. Odore di fritto e solitudine, nel breve romanzo sperimentale Il giorno di ogni giorno, della cubana Anna Lidia Vega Serova (Edizioni Estemporanee). Veloce o claustrofobica, diretta o introspettiva, la scrittura di Serova chiama in causa il lettore, ingaggia un corpo a corpo con la pagina. Una ragazza senza relazioni, innamorata della sua vicina, passa i giorni a cucinare dolci, banane fritte (plàtanos) o ciccioli di maiale (chicharrones). Una donna prova disgusto all’odore del cibo, un’altra ancora mangia a più non posso, e poi si odia “sentendosi grassa grassa GRASSA”… Storie di amori lesbici e incontri mancati, di sentimenti rauchi o soffocati in una Cuba-metafora, sospesa sull’abisso. Altri odori, atmosfere e sospetti nel thriller dell’inglese Stephen Leather La tentazione del crimine (Piemme). Il futuro di Samantha – ex ballerina cinquantenne - si decide in un ristorante di lusso, dove il pesce è troppo cotto, la verdura quasi cruda, e il vino bianco quasi caldo. Samantha, comunque, non ha fame, ha altro per la testa. Suo marito un boss della droga e del riciclaggio di denaro – è appena

di Geraldina Colotti

Per lettori golosi e onnivori, è l’ora di sbirciare tra pagine salate e sapori alla polvere di peperoncino rosso

andato in prigione, lasciandola senza soldi, con tre figli, e un video in cui le chiede di gestire per lui dei loschi affari. Samantha Guarda l’uomo seduto con lei dall’altra parte del tavolo sorridere “come un venditore di Bmw”. Ha ordinato ostriche e aragosta e mangia con le mani, leccandosi ogni tanto le dita. In quel momento, il marito di Samantha fa la fila alla mensa del carcere, dove servono sbobba e salsicce. E medita vendetta. Se la moglie accetterà certe condizioni, sarà lei a eseguire il piano…Ma riuscirà una casalinga a mettersi a capo di una banda criminale? Riuscirà a districarsi in quel groviglio di polizia corrotta, doppiogiochisti e bande paramilitari? Per il momento, Samantha spegne la sigaretta nella trota fredda e esce dalla sala… E per dessert, un piccolo libro che invita a sorridere su coppie, cene, e amori precari, Pensavo peggio, di Rossella Messina (Sironi). Cento brevi dialoghi, arricchiti dai disegni di Elena De Angelis fotografano alcuni momenti della vita a due. Ecco lui e lei, vicini vicini (“Moderatamente io”). Lei: “io ti amo tanto, e tu?” Lui: “diciamo che sto bene con me stesso”. Lui e lei al ristorante (“Mantenere la linea”). Cameriere: “Allora pennette alla vodka per il signore… e per la signorina? Pennette alla vodka anche per la signorina?” Lei: “no, grazie, per me un’insalata mista”. Cameriere: “è sicura? Le nostre pennette alla vodka sono una specialità”. Lei: “magari assaggio le sue”. … Situazioni tipiche in punta d’ironia.




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