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SIAMO AL VERDE viaggio nel paese degli sprechi, Alla ricerca del risparmio energetico necessario. Dalle risorse PER le grandi opere alla rivalutazione della energia umana, alla mappa delle fonti rinnovabili NEi comuni d’Italia
MAGGIO 2008
Supplemento al numero odierno de il manifesto
Messaggio pubblicitario con finalità promozionale. Per le condizioni contrattuali consultare i Fogli Informativi a disposizione in Filiale. La concessione del finanziamento è soggetta alla valutazione della Banca.
C’È UN PATRIMONIO CHE CI STA PARTICOLARMENTE A CUORE. Il nostro pianeta è la cosa più importante che abbiamo. E va protetto. Noi di Intesa Sanpaolo vogliamo dare il nostro contributo, anche offrendo soluzioni dedicate alle famiglie e alle imprese che scelgono l’energia pulita. Perché la natura è il migliore investimento.
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SOMMARIO [4/5] CI RISIAMO, QUEL PONTE SULLO STRETTO è TROPPO LARGO di Guglielmo Ragozzino
[7] LA NOSTRA PRIMA E ULTIMA RICCHEZZA di Marinella Correggia
[9] la riserva di energia più grande di Geraldina Colotti
[11] fonti rinnovabili, la mappa del tesoro di Edoardo Zanchini
[13] abbiamo un problema: sfamare il mondo di Marina Forti
[15] piazza grande, è milano bellezza di Massimo Serafini
riciclatelo, nel caso
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iamo indecisi se raccontarvi questa storia con i numeri. Perché i numeri a volte sono freddi, perché la matematica qualche volta è un’opinione, perché i conti con l’ambiente davvero non tornano più. Però i numeri dicono le cose come stanno – sono fotografia, arte dell’esistente - e aiutano a sfogliare le pagine di questo supplemento dedicato ai
[FRANCESCO PATERNÒ] temi dell’energia, tra sprechi e risparmi. Cliccando per esempio su www.sosconsumatori.it/spreco_quotidiano.htm ne leggiamo di terrificanti. Negli Stati Uniti pare che si sprechi fra il 40 e il 50 per cento dei cibo, mentre in Italia viene calcolato in 4 miliardi di euro il valore dei bene alimentari che finiscono nella spazzatura ogni anno. Ogni giorno nel mondo muoiono per fame 24.000 persone, erano 35.000 dieci anni fa ma non è una grande consolazione. Ancora. Il prezzo del petrolio che vola oltre i 130 dollari per andare chissà dove svela che il risparmio energetico sa di letteratura. Eppure gli scienziati forniscono altri numeri secchi: il 70% del raffinato va in combustibili da trasporto, il 98% dei quali viene dal petrolio, mentre tra l’85% e il 90% dell’energia totale proviene dagli idrocarburi. Solo tra il 7 e l’8% viene dal nucleare e quel poco, quel pochissimo che resta, dalle rinnovabili. Peccato che ormai il petrolio stia finendo e che le rinnovabili siano la principale via percorribile. Non il nucleare, sposato in grande fretta dal governo mentre il resto del mondo ne sta divorziando. Il risparmio energetico si può praticare in mille modi, in questo supplemento troverete alcune indicazioni. Anzi in 1001, suggerisce Joanna Yarrow in un libretto appena pubblicato anche in Italia (1001 Modi per salvare il
pianeta, Cooper editore, 348pp, 12,50 euro), manualetto di una eco-guru londinese fondatrice di Beyond Green Ltd, azienda che si occupa di inventare piani d’azione per una vita più ecologica. Ma in fondo ognuno di noi sa trovare la sua strada, magari usando sempre meno l’automobile di casa, o usando la lavatrice di notte o discutendo al mercato per farsi incartare meno quel che si acquista. E mischiando il tutto, la Coldiretti ci ha recentemente informato che consumando prodotti alimentari locali e di stagione, riducendo gli imballaggi, una famiglia da sola può arrivare ad abbattere fino a mille chilogrammi di anidride carbonica l’anno. La Coldiretti lo chiama concetto di “chilometri zero”, mutuato dalle macchine invendute di cui in questo momento sono pieni i concessionari di quattro ruote. Di sicuro, tutti dovremo imparare – presto - a pensarendo che la salvaguardia del clima significa salvaguardare la nostra vita. E che questa azione può passare per un piccolo clic come per un grande no a scelte scellerate, tant’è che invitiamo a partecipare alla manifestazione per l’ambiente di sabato prossimo a Milano. Prima però leggete questo supplemento. Ed eventualmente, ricliclatelo.
direttore responsabile Sandro Medici Via A. Bargoni, 8 00153 Roma tel. 06687191 www.ilmanifesto.it direttori Mariuccia Ciotta Gabriele Polo supplemento a cura di Francesco Paternò progetto grafico e impaginazione ab&c grafica e multimedia Via A. Bargoni, 8 00153 Roma tel.0668308613 www.ab-c.it pubblicità poster srl Via A. Bargoni, 78 00153 Roma tel.0668896911 www.poster-pr.it stampa Sigraf srl Via Vailate 14, Calvenzano [BG]
chiuso in redazione: 28 maggio 2008
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ci risiamo, QU L
Le COSIDDETTE GRANDI OPERE,MANGIATRICI DI SPAZI E DI MOLTE RISORSE AMBIENTALI. LA QUESTIONE DEL PONTE RILANCIATA DAL GOVERNO BERLUSCONI, I SOLDI NECESSARI E QUELLI CHE NON CI SONO, TRA DICHIARAZIONI PUBBLICHE E BOUTADE DA MINISTRI
e grandi opere sono numerose, sorgono in molte zone del paese nell’intendimento di risolvere le necessità più diverse, ma hanno sempre alcuni tratti comuni. In primo luogo sono, appunto, grandi e occupano molto spazio e usano (o sprecano) molte risorse ambientali, tanto nel corso della costruzione che in quello di funzionamento. Poi modificano per sempre il paesaggio trasformando e deformando la memoria delle cose. I tempi di realizzazione, alla fine, saranno almeno doppi di quelli preventivati e anche il costo finale dell’opera, se va tutto bene, sarà raddoppiato o triplicato. Alla fine di tutto, tra il pubblico si diffonde una sensazione: che l’opera sia esagerata. Sarebbe potuta essere assai più piccola, cioè meno imponente e meno invadente; tanto più se, terminato il ciclo di vita o di uso; o finiti i soldi prima del completamento, ciò che avviene di frequente; o cambiate le tecniche o le scelte prioritarie della società, le grandi opere del ciclo politico precedente rimangono inutili e abbandonate. O, come si dice, dismesse. Non tutte le interruzioni dei lavori, o i cambi di destinazione in corso d’opera, sono però negative. C’è un’eterogenesi dei fini perfino nelle grandi opere. Se poi c’è di mezzo l’imperscrutabile fine ultimo, la questione è ancora più
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impervia per una mente umana. Un caso assai noto è quello del duomo di Siena, la cattedrale di S. Maria Assunta; un avvenimento non infrequente nelle storie delle cattedrali. Le città-stato rivaleggiavano nel costruire cattedrali, che erano la forma massima dell’orgoglio cittadino e la prova del potere della Chiesa, degli ordini religiosi e degli ottimati locali. Ma è avvenuto varie volte che si sia reso necessario ridurre in modo drastico gli esagerati progetti iniziali. Nel caso di Siena, l’edificio attuale, di perfezione assoluta, così ricolmo di arte e di religiosità, è solo il transetto della grande opera prevista inizialmente. Oggi i tecnici sanno che se la grande opera fosse stata completata con le potenti navate, secondo il progetto di Lando di Pietro, mezza città sarebbe franata sotto il peso. D’altro canto, non è sempre andata così a buon fine. Ogni persona conosce almeno un gigantesco stabilimento abbandonato, spesso prima dell’inaugurazione o un ponte che si erge nella campagna senza senso, senza strade di uscita. Sono le repliche moderne, metafisiche, delle rovine antiche, degli acquedotti romani? Di certo manca la patina della memoria e della bellezza. Per tornare alle grandi opere odierne, molti tra i critici pensano che le dimensioni del manufatto siano strettamente connesse al ricavo delle imprese o dell’impresa che ha curato i lavori. La visibilità, l’imponenza stessa dell’opera non è strettamente necessaria all’uso che è previsto, ma è una sorta di prova della sua indispensabilità. E’ talmente grosso questo manufatto, talmente costoso che deve anche essere necessario: molti ragionano così. Vi è insomma un capovolgimento tra interesse primario e secondario. Quello che conta è scegliere di fare l’opera e farla immensa. Il perché farla lo si deciderà dopo, in un secondo tempo. A qualcosa, comunque, servirà. Si deve insomma immagi nare che una grande impresa di lavori pubblici, proprio come una cooperativa di costruzione, sia artigianale sia con migliaia di addetti, hanno sempre bisogno di lavorare, quest’anno, l’anno prossimo, tra cinque anni; e per loro lavorare significa costruire; meglio se in grande. Ma come nota per esempio Marco Cedolin, autore di un libro assai apprezzabile in argomento, (“Grandi opere – Le infrastrutture dell’assurdo” Arianna editrice), l’interesse per le grandi opere è condiviso da un ceto economico e finanziario, fatto di promotori e industriali, pubblici amministratori e banchieri, giornalisti e professori che spinge per ottenere le costruzioni, un po’ per condividere il profitto connesso alla grande opera, un po’ perché il clima sociale favorevole alle grandi opere è quello che mette
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in movimento i capitali e consente di realizzare i fini della società nella tale o talaltra generazione; o almeno quelli ritenuti tali. Gli stakeholder, i portatori d’interessi, delle grandi opere sono in ultima analisi assai più numerosi degli shareholder, gli azionisti delle compagnie costruttrici. E’ importante segnalare il ruolo decisivo degli intellettuali e dei media che hanno il compito di convincere l’opinione pubblica e la maggioranza della popolazione dell’utilità del nuovo manufatto, anzi della sua assoluta necessità. Gli argomenti sono quelli ben conosciuti del confronto internazionale, del ritardo nei confronti degli altri paesi consimili con cui ci si vede in competizione; e un po’ anche quelli, meno economicistici, di erigere un monumento a se stessi, al proprio futuro. Sono in modo un po’ farsesco, gli argomenti dei costruttori di cattedrali, anche se la fede in dio non è proprio uguale alla fede in Mammona. C’è una grande opera di cui nel corso di molti anni è stato possibile studiare a fondo e discutere la progettazione e l’utilità: è il Ponte sullo Stretto di Messina. Si è parlato di poesia e mitologia, di paesaggio e di fauna, di terremoti e di mafie, di ambiente e di denaro, di traffici e di modernità, di imprese pubbliche e di imprese private, di treni e di autoveicoli, di Anas e di Regioni, di 30 campi di calcio consecutivi da appoggiare sul Ponte, di vento forte e di Valutazione d’impatto ambientale, di monumento e di riscatto siciliano, di gare internazionali e di cordate sempre uguali, di progettazione da centinaia di milioni di euro e di penalità da pagare, di associazioni ambientaliste e di sindaci, di consiglieri regionali siciliani e calabresi, di lavoratori assunti e licenziati: sterratori, edili, manovali, manutentori, traghettatori di Messina e di Villa San Giovanni. E se ne parla ancora: il Ponte immaginato è sempre là che ci aspetta. Il ministro delle infrastrutture Altero Matteoli ha scritto una lettera, invitando il presidente della Società Stretto di Messina a riprendere l’annoso progetto del Ponte e portarlo a termine. Pietro Ciucci – questo il suo nome – nel frattempo è diventato presidente e direttore generale dell’Anas, la società pubblica delle strade statali che della Stretto di Messina spa è il maggiore azionista con l’80% delle azioni. Ciucci rimane impassibile all’inattesa comunicazione. Promette secondo l’indicazione del ministro di cominciare i lavori nel 2010 e di concluderli sei anni dopo. «E chiaro però – ha osservato – che prima è opportuno terminare l’autostrada per la quale siamo a circa il 40% dei lavori totali». Il presidente dell’Anas allude alla A3 (SalernoReggio Calabria). Inoltre ha assicurato di essere convinto che «il Ponte sullo Stretto sia come l’ultimo lotto della Salerno-Reggio. Di concerto con il nuovo Governo,
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EL PONTE SULLO STRETTO E’ TROPPO LARGO [GUGLIELMO RAGOZZINO]
adesso il progetto potrà partire». Ciucci in questo modo ha indebolito, piuttosto che rafforzato la soluzione Ponte. In breve tempo è presumibile che salterà o come presidente dell Anas o come presidente del Ponte, ridando spazio a uno degli uomini di Pietro Lunardi o di qualche altro giro più alla moda. Corre poi un altra voce, secondo la quale i quattrini accantonati per grandi opere viarie (Ponte ovvero Palermo-Messina) in realtà sarebbero quelli che il governo dovrà sequestrare per adempiere alla sua promessa in tema di Ici sulla prima casa. Ma trascuriamo questo maligno sospetto. Ciucci aveva però qualche ragione. Era a colloquio con il presidente della giunta di Calabria, Giuseppe Scopelliti che gli faceva presente i disagi profondi, tra tangenziale di Reggio e tratto autostradale tra Bagnara e Scilla, moltiplicati dai problemi di certificato antimafia alla società Condotte, incaricata di molti lavori. Non poteva dunque dimenticare che il futuro Ponte serve a poco se non ci sono strade che lo raggiungano. Questo dal lato calabrese. Al lato siciliano ci ha pensato l ingegner Castelli. Roberto Castelli, senatore leghista, è oggi anche sottosegretario alle infrastrutture, quindi particolarmente autorizzato a dire il suo pensiero a proposito di ponti e strade. In un intervista a la Repubblica (Luisa Grion, 24 maggio) Castelli,
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dopo aver chiarito che da federalista verace ritiene che ciascuno debba decidere sui ponti di pertinenza, mette in chiaro la scarsità di capitale per tutte le grandi opere desiderate. «Quando il governo Prodi decise che quell opera (il Ponte, ndr.) non sarebbe stata realizzata, i fondi vennero indirizzati ad altre opere per il Sud, come la Messina-Palermo, per esempio. Ora sia chiaro: non è che i fondi destinati al Meridione possono raddoppiare a scapito delle altre opere. Bisognerà fare delle scelte: se ci sarà il ponte probabilmente non ci sarà la Messina-Palermo». Senza strade in Calabria, senza strade in Sicilia, per entrare e per uscire dall importante manufatto, la sua vita appare piuttosto precaria. Anche i sostenitori del corridoio Berlino-Palermo avranno qualche dubbio... Carenza di investimenti privati, concorrenza con altre spese per grandi opere e con gli adempimenti di promesse elettorali del tutto alternative, costi che si moltiplicheranno nel corso degli anni e dei rinvii, devastazioni ambientali, tanto per la costruzione del Ponte in sé che per la necessità di servire il Ponte con collegamenti viari e ferroviari molto complessi. In questo contesto trascorrerebbero gli anni che ci separano dal fatidico 2010. Tutto per lo scarso traffico prevedibile e previsto da tutti gli urbanisti e gli economisti del traffico indipendenti con la necessità di potenziare, anche in presenza del Ponte, il sistema portuale che comunque deve reggere i traffici aumentati, per effetto della stessa costruzione del Ponte e per una
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quindicina di anni, non speculando sulla carenza viaria, per un Ponte, ormai ridotto al significato di monumento celebrativo. Dedicare tanta attenzione a un opera di così difficile e controverso avvio, ai soldi che mancano e sui quali si sono manifestati troppi appetiti è proprio perché si tratta di un simbolo, di un monumento al fare male dell intero settore delle grandi opere nel nostro paese. Il vizio di origine è proprio in una non scelta. C’è un ponte sul Danubio tra Bulgaria e Romania in progetto, ma è lungo un terzo e soprattutto largo un terzo. Tra tutti ponti lunghi esistenti nel mondo, quello che avrebbe dovuto unire Sicilia e resto d’Italia è in pratica l’unico previsto per il traffico di autoveicoli e treni. Non c’è stata alcuna scelta, i sostenitori di auto e di treno, logicamente in alternativa, ovunque, qui non sono in grado di imporsi, di battere l’altro partito, con una proposta capace di prevalere, quali che ne siano le motivazioni. Così i due partiti, del ferro e della gomma, si accordano sul programma di massima, e su altri affari (Grandi stazioni, per esempio). Mettono insieme i sostegni politici, si spartiscono cariche, e assunzioni e finiscono non tanto per cooperare, ciò che sarebbe una novità, ma per non portarsi guerra a vicenda e per accettare un assurdo piano che fa del ponte non forse il più lungo, ma certamente il più largo mai programmato, proprio per l’obbligo di fare correre assieme due linee ferroviarie e otto corsie stradali. Questo significa porre al progetto condiziona-
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menti e vincoli assai difficili da superare, dal punto di vista della stabilità e dell’enormità di mezzi da mettere in campo. Il risultato è che i numeri dei treni e delle auto messi in preventivo sono entrambi spropositati, quattro o cinque volte maggiori della più rosea delle prospettive. I passaggi effettivi di lunga distanza sono passati (i dati sono tratti da un recente articolo di Alberto Ziparo su la Repubblica –Sicilia) dagli 11 milioni del 1985 ai 6,5 del 2002. Naturalmente andare da Reggio a Messina e viceversa continuerà ad essere, in presenza dell’eventuale Ponte, molto più rapido ed economico con i traghetti che non con un’automobile, costretta a un giro pesca sui raccordi e poi alla ricerca del posteggio nell’altra città. . La grande opera per definizione è però nel nostro paese la Tav. Si tratta di mille chilometri di ferrovia, in parte già costruiti che prosciugheranno ogni altra spesa ferroviaria in Italia per un lungo periodo in una spesa senza pari. Senza pari, nel senso che i nostri modelli di Tav,
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proprio come il Ponte che non ha saputo scegliere tra i binari e la gomma, non sanno scegliere tra i passeggeri e le merci. “In Francia e in Giappone – scrive Marco Cedolin – sulle linee ad alta velocità passano solo treni passeggeri; in Francia i treni non passano la notte quando viene effettuata la manutenzione….I traffici passeggeri e merci previsti nel progetto (Tav Italia, ndr), sono un puro esercizio di fantasia, totalmente disancorato dalla realtà”. I treni da 300 all’ora hanno bisogno di binari lisci e puliti, impossibili da ottenere se sui binari passano treni merci da 1.000 tonnellate che deformano le rotaie. Tutto lascia pensare che la linea doppio scopo sarà sempre in manutenzione. Ma in fondo avrà rispettato i suoi due compiti precipui: la forte spesa iniziale che si protrae nel tempo, la prova di forza o di autoesaltazione della classe dirigente, inebriata di sé e della propria modernità, anche se è stata costretta alla demagogia delle merci per ottenere tutti i miliardi di euri necessari a fare la Tav, proprio come in Francia.
IL DOPPIO USO PREVISTO PER LA TAV, UN USO DAVVERO IMPREVISTO NEL RESTO DEL MONDO FERROVIARIO. ALTERNATIVE E FOLLIE DI UN MODO DI PENSARE IN GRANDE, UN LIBRO DI MARCO CEDOLIN SULLE GRANDI OPERE, CHIAMATE LE “INFRASTRUTTURE DELL’ASSURDO” Energie •
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LA NOSTRA PRIMA E ULTIMA RICCHEZZA
[Marinella Correggia]
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La “forza amara”, così in Cina è definita la fatica, è tuttora al centro di una delle maggiori ingiustizie planetarie. Nei paesi impoveriti e presso alcune classi o etnie ovunque nel mondo tutti i giorni centinaia di milioni di persone di ogni età fanno fatica in situazioni oltretutto di miseria e fame: spaccano pietrisco a mano, zappano dure zolle, portano enormi pesi, scavano nelle miniere, camminano ore ogni giorno con l’ acqua e la legna. Lo stesso avviene per milioni di animali da tiro, soprattutto asini, cavalli, buoi: altre vite cariche solo di sforzi, stenti, fame e sete. Sul lato opposto c’è chi non muove dito se non per bruciare grassi in palestra, senza produrre nulla. Lavoro, attività domestiche, spostamenti, perfino i divertimenti sono affidati a ogni sorta di motori e attrezzi a energia fossile. Se noi italiani siamo a nove tonnellate l’anno come media di emissioni di anidride carbonica pro capite, e un etiope è a 0,3 tonnellate, questo rispecchia un’enorme diversità non solo nei consumi ma anche nella fatica dispiegata. Grazie a quella parte di umanità che usa troppo mani e schiena e piedi senza (poter) ricorrere a macchinari, un’altra parte si è ridotta a usare solo il pollice per gli sms, accaparrandosi la gran parte dell’energia fossile. Ma come avviene per il cibo, sia l’eccesso che l’assenza di uso dell’energia umana sono rovinosi. Lo sforzo eccessivo e continuo provoca patologie, accorcia la vita, impedisce l’istruzione dei bambini, se “lavori così pesanti
non lasciano il tempo e le energie per una crescita intellettuale e spirituale” (dal saggio Marx e Tolstoi, 2006). E l’assenza di qualunque sforzo fisico porta a patologie degenerative, non aiuta certo la mente, aumenta lo stress e richiede un uso smodato di energia fossile. Nemesi: non usare l’energia umana è un lusso malsano oltre che insostenibile. Per questo nelle utopie ecoegualitarie (come I reietti dell’altro pianeta di Ursula Le Guin e Ecotopia di Ernest Callenbach) i lavori pesanti e ingrati sono suddivisi a turno fra tutti, proprio come le attività creative. Né si può pensare che in futuro ci saranno motori ecologici rimpiazzafatica per tutti i terrestri e per ogni loro gesto. Il saggista americano James Howard Kunstler nel suo libro Collasso analizza nei dettagli come e perché le energie fossili non saranno sostituite che molto parzialmente da energie rinnovabili. Così, nella globale e imminente riformulazione della vita che sarà ri-
chiesta dalla crisi energetica, tornerà in auge l’energia manuale in alternativa a quella fossile. Meglio così, anche per i sedentari occidentali. Riappropriarsi del saper fare è al centro del libro di Albert K. Bates Manuale di sopravvivenza alla fine del petrolio. Riflessioni consigli e ricette per fare a meno dell’oro nero. Tantissimo possiamo fare con le mani e il resto del corpo per sostituire energia cinetica, termica e perfino elettrica, sul lavoro e in ogni altro momento. Naturalmente, chi risparmia energia nelle proprie azioni quotidiane è come se la autoproducesse. Ma possiamo andare oltre. Pedali e manovelle, saggezza dei popoli, hanno potenziato e aiutato l’energia umana nel passato e nel presente di molti; potrebbero diventare un futuro più equo e meno faticoso per tutti. Certamente in un mondo senza petrolio, le unità produttrici di strumenti a pedale o a manovella conoscerebbero un boom. E’ dovuto l’inno ai pedali della bici, non per sport ma come mezzo di trasporto abituale. E prima dei pedali vengono i piedi. Camminare, in piano, in salita, in discesa. Evviva i pedoni. Gli antichi filosofi insegnavano camminando, perché il moto (non “la” moto) fa meglio marciare anche il cervello. In paesi civili come la
Scandinavia sono diffusi anche molti pedali da trasporto merci. Quanto alle mani, questo strumento di civiltà, ecco i manodomestici, attrezzi di un futuro per tutti. E’ possibile sopprimere come inutili la gran parte degli elettrodomestici: l’unico davvero fatto per ridurre la fatica è la lavatrice (e la macchina da cucire per chi la usa). E poi convertirci alle manovelle. Piccoli mulini per macinare alla bisogna la farina del pane; in dotazione al tavolo di cucina si potranno usare a turno come fanno in Peru’. A manovella si trovano impastatrici, molinetti per creme di semi oleosi, rompinocciole, estrattori di succhi, e il vecchio macinacaffé che serve anche per macinare semi oleosi e grani o spezie. Per minimizzare le materie prime e l’energia necessarie a costruire questi pur semplici macchinari è auspicabile un loro possesso collettivo. E che dire degli aggeggi elet-
tronici a energia manuale? Oltre alle note torce a pressione o a scuotimento (come gli orologi), il più simpatico è la radio a manovella (trova su internet) .Giri per 90 secondi e la ascolti per mezz’ora. In generale imparare ad autoprodurre qualcosa – cibo o prodotti d’igiene o servizi - senza macchinari è un esercizio di sobrietà creativa – così la definisce l’opuscolo Io lo so fare, del progetto Liberazioni - che può diventare una vera passione: far da sé beni utili rende molto meno desiderabile l’acquisto di mali inutili o disutili; rivoluziona abitudini e immaginario verso il meno e meglio. “Abbiamo bisogno di una società e di una scienza in cui siamo tutti creativi, per il benessere di tutti”, dice la scienziata attivista indiana Vndana Shiva. Anche le tradizioni maoista e cubana del mese o più di lavoro manuale per tutti possono conoscere rivisitazioni: ad esempio con gli orti e i frutteti di gruppo, o con i campi di lavoro solidali e ambientalisti (per favore non volando con un energivoro aereo all’altro capo del mondo). Di tecnologie appropriate si parla tanto e da tempo, ma come qualcosa per alleviare il disagio dei poveri. Invece sono un’ottima idea per tutti l’altalena che tira fuori l’acqua dai pozzi, la cucina solare autocostruibile, il computer e la radio a manovella. Usare di più l’energia manuale ci avvicinerà agli immiseriti, che parallelamente devono acquisire il diritto a sforzarsi di meno. La fatica così come le emissioni di gas serra devono essere attraversate da un processo di “contrazione e convergenza”: che il modello occidentale cambi e che gli altri non lo imitino. Entrano qui in gioco anche la dimensione della politica e l’uso della tecnologia. Negli ultimi decenni di vita petrolifera sarà indispensabile sottrarre agli usi superflui le materie prime energetiche, come i metalli e i minerali non rinnovabili. Ce ne sarà un grande bisogno sia per sostituire le fatiche intollerabili, sia per permettere ovunque la creazione di infrastrutture necessarie al benessere di tutti e anche al superamento della civiltà petrolifera: ferrovie e acquedotti, impianti di energie pulite e produzione delle relative attrezzature, scuole e habitat idonei.
Redistribuire equamente – per il benessere di tutti l’uso di energia umana ai tempi della crisi climatica e poi della fine dei combustibili fossili. Strumenti di lavoro e di lettura che inducano a pensare e anche in tentazione Energie •
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LA RISERVA DI ENERGIA PIU’ GRANDe
[Geraldina Colotti]
E’ LA NON CONSUMATA, QUELLA DEGLI APPARECCHI
LASCIATI IN STAND BY NELLE CASE E NEGLI UFFICI. LA RICOGNIZIONE
DI UN ARCHITETTO NELLE NOSTRE ABITAZIONI, ALLA RICERCA DI SPRECHI E RISPARMI. L’ESPERIENZA DELLA CASAECOLOGICA” ITINERANTE
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ue tendoni e un vano roulotte montati sul molo del porto. Sono i locali della Casa EcoLogica itinerante, in mostra a Imperia durante la settimana di iniziative che, ad aprile, ha ospitato anche l’Atlante per l’ambiente di Le Monde diplomatique/ilmanifesto. Gli operatori dell’associazione Paea (www.paea.it) vivono nella Casa itinerante per tutto il tempo della mostra e, durante il giorno, fanno da anfitrioni al folto pubblico venuto a visitare. Ne parliamo con l’architetto Alberto Sasso, originario del Ponente Ligure e torinese d’adozione. Dove nasce l’idea della Casa EcoLogica itinerante? Nasce in Germania negli anni ’70, nell’ambito delle lotte contro le centrali nucleari allora in costruzione e contro la Mobil. Una piccola comune ci viveva e girava il paese mettendo insieme protesta e informazione. Noi l’abbiamo portata in Italia perché loro non ne avevano più bisogno: in Germania, anche se i problemi esistono, le tematiche ambientali sono ormai diffuse. In Italia, invece, con questo tipo di allestimento si possono mostrare molte cose nel concreto. L’associazione organizza corsi per le scuole, offre consulenze. Mi rattrista, però che, dopo 10 anni di esistenza, parlare di pannelli solari susciti ancora stupore. A volte le leggi esistono, ma vengono disattese e pochi le conoscono. Per esempio, per disposizione di legge, dal 1992 gli edifici pubblici devono produrre una parte di acqua calda con riscaldamento solare, ma quelli a norma sono rari. La legge finanziaria 2008 è ottima, consente di risparmiare il 55 per cento sulle ristrutturazioni energetiche: se spendo 100.000 euro,
il 55 per cento mi viene scontato sull’irpef, però non se ne sa niente e non si fa niente, oppure si mettono i panelli solari sul tetto e si crede che tutto sia risolto. Per veicolare un’idea alternativa al petrolio, si tende a sponsorizzare enormemente il fotovoltaico, una tecnologia molto costosa per un rendimento molto basso: ogni kilowatt di picco che installo sul tetto costa circa 8.000 euro e mi ci vogliono circa 10 metri quadri. Una casa di quattro persone per un anno ha bisogno di un impianto di almeno tre kilowat, dunque 24.000 euro e 30 metri quadri che devo avere sul tetto o sul terreno. E invece cosa si dovrebbe fare? La riserva di energia più grande in assoluto è quella che non viene consumata. Bisogna abituarsi a spegnere gli elettrodomestici in stand by, che sembrano consumi modesti ma che messi assieme fanno un consumo elettrico enorme che richiede un enorme impiego di energia fossile. Alla gente non viene detto: copritevi un po’ di più che ci guadagnamo tutti, ma alzate il riscaldamento. E nessuno rende conto delle cattive qualità in cui versano le abitazioni, anche quelle più moderne. In Italia la qualità dei progettisti e dei costruttori è scarsa, anche quando c’è, la legge non la rispettano. Si privilegiano criteri costruttivi desueti che non sono all’altezza delle possibilità di risparmio energetico insite in ogni abitazione. C’è una cattiva manutenzione degli immobili, non si controlla la dispersione di calore e la disposizione degli alloggi. Bisogna usare in modo appropriato il teleriscaldamento, che si basa sull’idea di una centrale unica a gas. A Torino, il primo teleriscaldamento era dato dal calore prodotto dagli stabilimenti della Fiat, che invece di essere immesso nell’ambiente veniva trasformato e portato con condotte di vapore sotto la città. Parti di Mirafiori sud e molti condomini venivano riscaldati grazie al calore di una centrale, prodotto da un’altra parte e che era un sottoprodotto di una produzione. Ora esiste un teleriscaldamen-
to con centrali anche a gas che permette di non avere emissioni in loco: il mio palazzo non ha più la caldaia ma un collegamento a dei tubi che portano l’acqua calda ai miei termosifoni. Quel che non tutti sanno, è che dagli anni ‘60 c’è la possibilità di avere un impianto centralizzato e al contempo una gestione perfettamente autonoma con dei contabilizzatori di calore applicati ai termosifoni. Solo dopo aver ridotto i consumi energetici, ci si può rivolgere a un’impiantistica per fonti rinnovabili. La prima delle tre più importanti è il solare termico, la più economica. Trasforma il
calore solare in energia termica per scaldare l’acqua calda sanitaria e quella del riscaldamento, se integrata nel circuito di riscaldamento, a circolazione naturale o forzata, porta ad essere autosufficienti, come nel nostro caso. Per la Casa EcoLogica sul porto, abbiamo avuto bisogno solo dell’allaccio per l’acqua corrente all’acquedotto comunale, tutto il resto ce lo procuriamo con impianto solare termico. All’entrata della mostra
avete messo “il cestino della decrescita felice”. Cosa suggerisce? Dentro ci sono oggetti che si possono riciclare con un po’ di fantasia. Un paio di collant strappate possono diventare ottimi stracci per la polvere, una vecchia spugna per i piatti avvolta in una retina per cipolle può ancora funzionare a meraviglia; un guanto da cucina bucato può trasformarsi in tanti elastici resistenti. Un vecchio abito può diventare borsa per la spesa. Ho visto un delfino soffocato da un sacchetto di plastica e non riesco a dimenticarlo. Vale anche per gli spazzolini da denti, si può cambiare solo la testina. Adesso si trovano anche qui, prima la ditta italiana che li produceva li vendeva solo in Svizzera. Non si tratta solo di risparmio economico, ma della consapevolezza di essere al mondo in un determinato contesto che va rispettato. Dicevo prima a una classe e agli insegnanti: se io compro una lavatrice ho un libretto di istruzioni e delle indicazioni di consumo. Se compro un’automobile ho informazioni e garanzie dettagliate. Se invece acquisto una casa, ho solo un contratto notarile e una stretta di mano: niente che quantifichi la qualità energetica della casa e mi consenta di sapere quanto spenderò per il riscaldamento in base alla dispersione di calore, alla sua esposizione solare, eccetera. Noi proponiamo invece il certificato energetico che ne attesti la messa a norma, e un libretto di istruzioni su come usare un’abitazione in modo corretto. Per esempio, bisogna sapere come va cambiata l’aria. Non è solo questione di anidride carbonica, ma della presenza di inquinanti domestici come detersivi o formaldeide che, secondo alcuni studi olandesi, sono tre volte superiori a quelli presenti nell’aria che entrerebbe in una casa su un corso ad alto scorrimento di traffico.
Energie •
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INFORMAZIONE PUBBLICITARIA
LA SVOLTA DI TERNA: LO SVILUPPO SOSTENIBILE DELLA RETE ELETTRICA IL SISTEMA DI TRASMISSIONE TERNA 39.446 KM di linee elettriche 1.000 MW la capacità di trasporto delle linee più potenti 18 LINEE di interconnessione con l’estero 366 STAZIONI di trasformazione e smistamento 0,4 KM la linea a 380 KV più corta (OstigliaOstiglia C.le in Lombardia) 218 KM la linea più lunga (Matera – Santa Sofia, tra Basilicata e Campania) 1.600 METRI la profondità del cavo sottomarino SAPEI (il più profondo al mondo) 339, 8 MILIARDI DI KILOWATTORA il flusso di energia gestito in sicurezza da Terna nel 2007 56,822 MEGAWATT il record storico di potenza massima richiesta (18/12/07)
Si tratta della più imponente opera di bonifica ambientale della rete elettrica mai programmata in Italia. I 10 progetti per lo sviluppo sostenibile annunciati da Terna, principale proprietario della Rete di Trasmissione Nazionale (98,3%), prevedono un investimento complessivo di oltre un miliardo di euro per sviluppare e razionalizzare, in modo compatibile con l’ambiente, la rete elettrica ad alta tensione italiana. Il numero di chilometri di cavi e tralicci vecchi e obsoleti eliminati (1.200 chilometri) sarà, secondo il piano, tre volte superiore a quello delle nuove infrastrutture (450 chilometri) installate: prevalentemente sostegni ad alta tecnologia e cavi interrati. Oltre alla demolizione di 4.800 tralicci, gli interventi consentiranno il recupero di materiali da costruzione (acciaio, vetro, alluminio) per un totale di oltre 60 mila tonnellate, pari al peso di circa 10 volte la Tour Eiffel. Gli interventi di sviluppo sulla rete produrranno, inoltre, una diminuzione delle cosiddette perdite tecniche di trasmissione in grado di generare un risparmio economico per gli utenti finali e di abbattere le emissioni nocive. La razionalizzazione della rete permetterà, infine, di immettere 1000 MW di potenza eolica e di evitare la costruzione di impianti di produzione tradizionale per oltre 4.600 MW, riducendo ulteriormente le emissioni di CO2. I 10 progetti per lo sviluppo sostenibile, che coinvolgono ben 11 regioni, 20 provincie e 100 comuni, si inseriscono pienamente nella strategia a sostegno dell’ambiente che l’Azienda responsabile dello sviluppo e della sicurezza del sistema elettrico in Italia sviluppa in concertazione con le Regioni e gli Enti Locali anche attraverso la Valutazione Ambientale Strategica (VAS). Si tratta di uno strumento innovativo adottato con l’obiettivo di individuare, di volta in volta, le soluzioni migliori per far coincidere le esigenze di sviluppo e razionalizzazione della rete elettrica con le richieste di tutela ambientale e culturale del territorio. Una strategia che necessita di un delicato lavoro ‘diplomatico’ per costruire relazioni di collaborazione con gli enti e le istituzioni locali, preposti alla concessione dei permessi per le infrastrutture da realizzare, nel rispetto delle esigenze della popolazione locale. Basti pensare che l’approvazione dei 10 progetti per lo sviluppo sostenibile ha richiesto ben 40.000 ore di concertazione tra l’azienda e gli enti di riferimento.
STAGNO DI MOLENTARGIUS SALINE (SARDEGNA)
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Un impegno costante che ha prodotto risultati significativi in termini di sostenibilità ambientale. Solo nel 2007 sono stati rimossi 130 tralicci ad alta tensione in Valtellina e 28 nel parco di Molentargius in Sardegna, di cui 10 all’interno dello stagno abitato dai fenicotteri rosa. Nei primi mesi del 2008, infine, sono stati conclusi accordi con le regioni Veneto e Piemonte per lo sviluppo e la razionalizzazione delle rispettive porzioni di rete elettrica che porteranno allo smantellamento di 370 chilometri complessivi di vecchie linee elettriche sostituite con infrastrutture più moderne, cavi interrati e sostegni ad alta tecnologia.
SAPEI, IL CAVO ELETTRICO DEI RECORD È stato già nominato il cavo dei record: è il SAPEI il cavo elettrico sottomarino, che collegherà la Sardegna alla Penisola Italiana, per la cui realizzazione Terna investirà 700 milioni di euro. 1.600 metri di profondità, la più alta mai raggiunta al mondo, 420 km di lunghezza che ne fanno il secondo collegamento più lungo al mondo dopo quello tra Olanda e Belgio, 1000 megawatt di potenza, il doppio cavo sottomarino in corrente continua a 500 KV sarà attivo a partire dalla metà del 2009 e completato entro la fine dell’anno successivo. Per una realizzazione nel rispetto dell’ambiente sottomarino e per valutare i potenziali effetti dell’infrastruttura sul Parco Marino ‘Santuario dei Cetacei’ Terna si è avvalsa di esperienze di successo internazionali quali il collegamento tra lo stato di Victoria in Australia e l’isola Tasmania. Sempre sul fronte ambientale è stato attivato un monito-
raggio sulla Posidonia Oceanica, pianta acquatica che costituisce il più importante ecosistema del Mediterraneo, le cui praterie non saranno danneggiate dal SAPEI nel suo percorso tra Fiumesanto (Sassari) e Nettuno (Latina).
FONTI RINNOVABILI, LA MAPPA DEL TESORO
[Edoardo Zanchini*]
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isogna guardare al territorio per ritrovare qualche ragione di ottimismo nel tormentato dibattito sull’energia in Italia. E’ una buona notizia che in 3.180 Comuni siano oggi installati impianti da fonti rinnovabili con una tendenza in forte crescita, sono triplicati in meno di due anni. E’ molto concreta come risposta a chi sostiene che le rinnovabili siano destinate a un ruolo marginale scoprire che molti di questi territori sono già autonomi da un punto di vista energetico. Ma la fotografia scattata dal Rapporto Comuni rinnovabili 2008 di Legambiente mette in evidenza soprattutto la spinta di un processo dal basso, fatto di tanti impianti distribuiti di diversa taglia e fonte. Proprio quelle “nuove” rinnovabili che hanno avuto in questi anni importanti innovazioni tecnologiche e miglioramenti di produttività, come il solare fotovoltaico e termico, l’eolico, i piccoli impianti idroelettrici, la geotermia, le vere biomasse. Il quadro che ne esce fuori è sicuramente positivo, al Sud come al Nord, con l’utilizzo di fonti diverse perché differenti sono le possibilità di sfruttare le fonti naturali nelle varie parti della Penisola. Un ruolo da protagonisti è svolto dai Piccoli Comuni, 1.664 sono gli Enti Locali in cui vivono meno di 5.000 abitanti che rientrano nel Rapporto. Ma questa prospettiva è soprattutto interessante se la si guarda dal punto di vista dei cittadini, perché coloro che hanno installato impianti solari termici e fotovoltaici, che sono collegati a reti di teleriscaldamento, vedono bollette meno salate in Comuni in cui l’aria che si respira è più pulita. Riguardo alla diffusione delle diverse fonti, sono 390 i Comuni del solare termico e 75.869 i mq installati. La maggiore diffusione è nel Comune di Selva Val Gardena che ha 2400 mq di pannelli solari termici installati ma soprattutto una media di 955 mq ogni 1.000 abitanti. E’ significativo che 25
Comuni abbiano già raggiunto gli obbiettivi dell’Unione Europea di 264mq/1000 abitanti. Nel rilevamento effettuato per il solare fotovoltaico sono 2.799 i Comuni in cui sono installati impianti, con un autentico “boom” grazie al sistema di incentivo in Conto Energia, 2.103 in più rispetto allo scorso anno. La maggiore diffusione è nel Comune di Prato allo Stelvio, che con oltre 1.111 kW installati riesce a soddisfare oltre il 76% del fabbisogno elettrico delle famiglie residenti. Per quanto riguar-
da i pannelli solari installati sugli edifici pubblici di proprietà dei Comuni, è Catania ad avere la maggiore diffusione per quanto riguarda il solare termico con oltre 1400 mq. Per il solare fotovoltaico è un Comune torcano, Prato, con 598 kW di pannelli fotovoltaici installati in 23 scuole. La presenza del solare termico e fotovoltaico nelle strutture edilizie comunali (scuole, ospedali, uffici, biblioteche, ecc.) rappresenta un indicatore importante perché esprime l’attenzione che gli Enti Locali pongono al tema del risparmio energetico e delle fonti rinnovabili. In tutto sono 171 i Comuni che dispongono (o almeno hanno conoscenza) di impianti solari termici installati sulle proprie strutture edilizie e 287 quelli con impianti fotovoltaici. I Comuni dell’Eolico sono 157 in Italia per una potenza installata pari a 2819 MW, con 644 MW in più rispetto allo scorso anno. Tra questi Comuni in 128 si produce più energia di quanta viene consumata nei territori. I Comuni della Geotermia sono 30 per una potenza installata pari a 792 MW. La produzione elettrica per gli impianti geotermici è storicamente localizzata principalmente tra le Province di Siena, Grosseto e Pisa. Per l’idroelettrico il Rapporto prende in considerazione gli impianti fino a 3 MW, e i Comuni in cui sono installati centrali “mini”
sono 114, per una potenza totale installata è di 72 MW. I Comuni della Biomassa sono invece 306 con una potenza totale installata di 770 MW. Il Rapporto ha anche fotografato la diffusione di impianti di teleriscaldamento con 267 Comuni in cui sono installati impianti e 460 mila utenze tra residenziali e produttive servite. Tra questi 216 utilizzando biomasse “vere” e locali, 51 fonti fossili (di cui 21 utilizzando gas metano, Brescia, Como, Milano, Verona e Granarolo dell’Emilia recuperando energia dai rifiuti, i restanti utilizzando fonti fossili non specificate). L’insieme di questi numeri e esperienze mostra come gli Enti locali, i cittadini, le piccole aziende hanno oggi in mano una leva fondamentale per realizzare interventi che progressivamente portino a liberare sempre più ampi territori dalla dipendenza delle fonti fossili. La direzione è infatti quella di avvicinare e offrire risposta alle specifiche domande di energia. E quindi di diffusione di impianti solari fotovoltaici su tutti i tetti degli edifici, di impianti eolici, a biomasse, idroelettrici ovunque vi sia la possibilità e la compatibilità ambientale. E in parallelo riducendo drasticamente il fabbisogno per il riscaldamento domestico attraverso una ristrutturazione bioclimatica
diffusa, e puntando a soddisfare i fabbisogni termici domestici in larga parte con pannelli solari e teleriscaldamento. Certo molto resta ancora da fare, il ritardo dei grandi Comuni pesa, latitano ancora norme nazionali in grado di rendere più trasparente e semplice il processo, il settore edilizio è ancora indietro. Ma è evidente come l’unica possibilità per un Paese come l’Italia - dipendente quasi completamente dall’estero per una produzione elettrica fatta perlopiù da risorse fossili - di ridurre bollette e emissioni di gas serra passi di qui. Altro che le favole sul carbone pulito, il ritorno del nucleare, prospettive che convengono solo ai soliti e grandi noti e che sono i veri nemici di questa rivoluzione dal basso. Impressiona scoprire che a Dobbiaco, un Comune in Provincia di Bolzano, la bolletta del riscaldamento è ferma da 7 anni – ossia da quando è accesa la centrale da biomasse locali connessa a una rete di teleriscaldamento collegata a tutte le case - e costa il 30% in meno. Non c’è aumento del prezzo del petrolio che possa spostarla. E l’elettricità è prodotta con un piccolo impianto idroelettrico e da pannelli fotovoltaici. Il futuro è già a portata di mano, bisogna solo saper resistere alle sirene delle multinazionali dell’energia.
* responsabile energia Legambiente
UNA FOTOGRAFIA DELLA RELAZIONE TRA I COMUNI ITALIANI E I TEMI ENERGETICI. IN 3.180 SONO OGGI GIA’ INSTALLATI IMPIANTI DA FONTI ALTERNATIVE. UNA TENDENZA E UN PROCESSO DAL BASSO IN CRESCITA PER INNOVAZIONI TECNOLOGICHE E MIGLIORAMENTI PRODUTTIVI Energie •
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Comunque la pensi, l’acqua va risparmiata 6cX]Z ^c :b^a^V"GdbV\cV ^ XVbW^VbZci^ Xa^bV" i^X^ ]Vccd ^c^o^Vid V [Vgh^ hZci^gZ! Xdc iZbeZgV" ijgZ e^ ZaZkViZ Z hiV\^dc^ hZbegZ e^ kVg^VW^a^ Z W^ooVggZ# AZ egZk^h^dc^ Z \a^ hijY^ Xdc[ZgbVcd eZg ^a [jijgd fjZhiV iZcYZcoV# AV GZ\^dcZ ^beZ\cViV V hXdc\^jgVgZ Z egZ" kZc^gZ aZ edhh^W^a^ h^ijVo^dc^ Y^ Xg^h^ ^Yg^XV! ed" iZco^VcYd aZ gZi^! b^\a^dgVcYdcZ aÉZ[ÒX^ZcoV Z ^cXZci^kVcYd ^a g^heVgb^d Z aÉjhd YZaaZ cjdkZ iZXcdad\^Z eZg aV XdchZgkVo^dcZ cZ^ hZiidg^ X^k^" aZ! V\g^Xdad Z ^cYjhig^VaZ# EZg XdchjbVgZ bZcd Z bZ\a^d Z \VgVci^gZ fjZhiV g^hdghV V ijii^! d\\^ Z YdbVc^#
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23-05-2008 16:19:12
Abbiamo un problema: sfamare il mondo
[Marina Forti]
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er sfamare il mondo serve una nuova «rivoluzione agricola»: fondata sull’uso più razionale di terra e acqua ormai scarseggianti, su un commercio più equo, sulla consapevolezza del cambiamento del clima in corso e di tutte le sue conseguenza. Fondata anche su un grande investimento in «conoscenze, scienza e tecnologia», che sappia usare e valorizzare le conoscenze tradizionali e l’agricoltura su piccola scala, le produzioni locali… Una simile «rivoluzione» è tratteggiata in uno studio che non ha avuto molta pubblicità in Italia. Eppure ha coinvolto oltre 400 esperti e scienziati di varie discipline e di tutto il mondo; per un paio d’anni, su incarico dell’Unesco, hanno avuto mandato di guardare l’agricoltura come fonte di cibo, salute, servizi ambientali, crescita economica. Per la precisione: studiare «il ruolo (passato, presente e futuro) dei saperi agricoli, della scienza e tecnologia nel ridurre la fame e la povertà, migliorare il tenore di vita rurale e favorire uno sviluppo ambientalmente, socialmente ed economicamente sostenibile». Il gruppo è stato diretto da Robert Watson, dell’università di East Anglia (Gran Bretagna). Il risultato è un ampio documento con parecchi annessi e un nome lungo: International Assessment of Agricoltural Knowledge, Science and Technology for Development. Diffuso a metà aprile, il documento ha avuto una certa risonanza internazionale – di recente Watson è stato anche invitato a testimoniare al Congresso degli Stati Uniti, un’audizione dedicata alla recentissima crisi alimentare. È proprio in quell’occasione che ha usato il termine «rivoluzione agricola»: la domanda era se sia possibile produrre più cibo per tutti in un modo sostenibile socialmente e per l’ambiente: «E’ possibile, ma non con le attuali politiche agricole, non con il bu-
siness as usual». Continuare con il trend attuale di produzione e distribuzione «esaurità le risorse e metterà in pericolo il futuro dell’umanità», afferma lo studio dal nome lunghissimo (viene di solito indicato come Akst: «Valutazione su saperi, scienza e tecnologia agricola»). Lo studio fa una diagnosi ad ampio raggio. Afferma che la moderna «scienza e tecnologia agricola» ha portato aumenti significativi dei raccolti mondialie ha abbassato i costi della produzione su larga scala (è ben per questo che a partire dagli anni ‘60 del secolo scorso grandi paesi popolosi e rurali hanno conquistato l’autosufficenza alimentare). Ma i benefici di questo successo sono stati distribuiti in modo ineguale, mentre l’enfasi sull’aumento dei raccolti e della produttività ha avuto in molti casi conseguenze negative sugli ecosistemi. Insomma: il costo ambientale è stato altissimo, e la parte più povera della popolazione mondiale è anche quella che ha pagato i prezzi più alti traendone il minor beneficio. I piccoli agricoltori, braccianti, le comunità rurali e l’ambiente sono i perdenti. Si è creato «un circolo vizioso in cui i piccoli agricoltori poveri devono deforestare e usare sempre più terre marginali, aumentando il degra-
do ambientale generale. La perdita di fertilità dei terreni, l’erosione, il venir meno di funzioni agroecologiche hanno prodotto raccolti in calo, l’abbandono delle terre [con l’emigrazione rurale verso le città, ndr], deforestazione e un crescente movimento verso terre marginali, incluso le pendici delle colline». La ricerca non ha dato sufficiente attenzione a questo: «C’è scarsa riconoscimento delle funzioni dell’ecosistema nel mitigare gli impatti ambientali». Eppure la domanda di cibo continuerà ad aumentare: la domanda globale di cereali è prevista crescere del 75% tra il 2000 e il 2050, la domanda di carne raddoppierà; oltre tre quarti del previsto aumento dela domanda sia di cereali che di carne verrà da paesi «in via di sviluppo», fa notare lo studio. Già: l’aumento della domanda da parte di economie in rapida crescita (vedi cina) è indicata come una delle cause della fiammata dei prezzi, insieme però ad altri fattori: raccolti calati a causa delle variabili del clima (vedi la siccità in Australia), l’uso di raccolti alimentari per produre
Non chiamatela «rivoluzione
biocarburanti (vedi il mais trasformato in «biodiesel»), i prezzi di benzina e fertilizzanti, la speculazione sul mercato dei futures delle derrate agricole, e infine le restrizioni all’export imposte da alcuni grandi paesi produttori per proteggere i consumatori interni (vedi Argentina, india e Ucraina). Come se ne esce? Lo studio diretto da Robert Watson sostiene che un maggiore investimento in saperi e scienze agricole «contribuirà ad affrontare le questioni ambientali mantenendo la produttività agricola». Ma avvertono che bisogna anche affrontare le «persistenti diseguaglianze socio economiche». Puntando sull’agricoltura su piccola scala, risponde il gruppo di scienziati. «Questo significa migliorare il tenore di vita rurale, emancipare la parte più marginalizzata dei produttori agricoli, sostenere le risorse naturali, valorizzare i molteplici benefici forniti dagli ecosistemi, considerare i diversi saperi, dare un equo accesso di mercato ai prodotti agricoli». Il rapporto se
la prende con i sistemi di sussidi e i meccanismi del commercio internazionale: «I più poveri tra i paesi in via di sviluppo sono i perdenti netti nei vari scenari di liberalizzazione del commercio», sottolineava Robert Watson presentando lo studio. Invece, fa un elogio dell’agricoltura tradizionale: «Molte innovazioni efficaci sono generate localmente, sulla base dei saperi e esperienze di comunità locali e indigene più che sulla ricerca scientifica formale». La possibilità di brevettare modifiche genetiche può attirare finanziamenti nella ricerca agricola, nota il rapporto: ma porta anche a concentrare la proprietà delle risorse, fa salire i costi, deprime la ricerca indipendente, «mina le pratiche agricole locali come il mettere da parte e scambiare i semi, di grande importanza nei paesi in via di sviluppo». E se bisogna produrre più cibo, bisogna anche proteggere terreni, acqua, foreste, biodiversità. In fondo, sono il «capitale» agricolo.
verde»: i risultati
di uno studio che ha coinvolto oltre 400 esperti e scienziati di varie discipline su incarico dell’Unesco. Titolo e svolgimento: l’agricoltura come fonte di cibo, saluti, servizi ambientali, crescita economica. Cosa si fa e cosa non deve essere fatto Energie •
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PIAZZA GRANDE, E’ MILANO BELLEZZA
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abato 7 giugno le strade di Milano saranno piene di donne e uomini che manifestano e si mettono in marcia per conquistare i cambiamenti necessari a fermare il disastroso cambio di clima in corso, di cui la Birmania è l’ultima tragica testimonianza. Nei prossimi giorni andrà compiuto ogni sforzo utile al buon esito di questo evento. La sua riuscita ha una doppia importanza: servirà a respingere i tentativi dell’attuale governo di ridurre il dissenso e i conflitti territoriali a questioni di polizia e ordine pubblico, per reprimerli; soprattutto a dare forza ed efficacia alla lotta ai cambiamenti climatici perché, senza una visibile e duratura mobilitazione sociale non si riuscirà ad ottenere risultati significativi, come il fallimento del protocollo di Kyoto dimostra. E’ necessario in altre parole far irrompere nelle sedi, legittimate a prendere decisioni, cioè l’Onu, una pressione popolare simile a quella che mobilitò milioni di persone in tutto il mondo contro la globalizzazione liberista e la guerra. Solo così sarà possibile interrompere l’insopportabile e costosa ritualità degli appuntamenti sul clima, gli equilibrismi paralizzanti dei documenti con cui si concludono, la cui lettura trasmette solo la certezza che alle belle parole non seguiranno i fatti. Non è più possibile che i desti-
ni dell’umanità dipendano e siano affidati a burocrati a cui i loro governi chiedono solo di trovare le formule che rendano minimo l’impegno di riduzione dei gas serra richiesto al loro paese. L’intenzione del vasto schieramento di associazioni, movimenti, sindacati che organizzano l’evento è che esso sia solo la prima tappa di una lunga marcia per clima che attraversi tutto il paese e con la quale far crescere nei territori l’informazione, diffondere nuovi stili di vita, costruire vertenze, sedimentare organizzazione e partecipazione popolare. Una prima tappa che comincerà la mattina di sabato 7, con le piazze tematiche nelle quali ognuno dei soggetti che promuovono la manifestazione animerà il suo impegno contro l’effetto serra a partire dal suo specifico e da ciò che in esso si può fare per diminuire le emissioni. Proseguirà nel pomeriggio con il corteo nel quale pronunceremo i nostri no e numerosi si: no al nucleare e al carbone che non servono né al clima, né alla nostra salute e portafoglio, né tanto meno a farci vivere meglio. Contrapporremo a queste sciagurate scelte energetiche una piattaforma alterna-
tiva, il cui punto di riferimento è la scelta unilaterale, compiuta dall’Europa, di assumere la guida della lotta al riscaldamento globale con la decisione che vincola tutti gli stati membri a ridurre entro, il 2020, i gas serra del 20%, obiettivo che il parlamento europeo alzerà al 30% . Per raggiungere questo risultato dovremo, nei prossimi dodici anni, migliorare del 20% la nostra efficienza energetica e dipendere dalle fonti rinnovabili per un ulteriore 20%. Sabato ci metteremo dunque in marcia per far sì che questo paese sia uno dei protagonisti della decisione europea e non, come fino ad ora è stato inadempiente e che fa pagare alle sue cittadinei multe salatissime per non avere rispettato gli impegni. Essere protagonisti significa dare corpo alla principale riforma di cui questo paese ha bisogno per rilanciarsi e uscire dal declino: quella del suo sistema energetico e di trasporto. Produrre una svolta nelle politiche energetiche e della mobilità di persone e cose tale da consentire una riduzione dei gas serra, come quella prevista dalla direttiva comunitaria, obbliga a politiche economiche, industriali, fiscali e della ricerca
in totale discontinuità con quelle fino ad ora perseguite, sia dal centro sinistra che dalle destre. La ricetta per ridurre le emissioni e farci vivere meglio è nota: è necessario prendere decisioni capaci di far risparmiare energia, procurarci la maggior parte di quella veramente necessaria dalle fonti rinnovabili ed infine usare prevalentemente il metano per coprire ciò che inizialmente le rinnovabili non saranno in grado di coprire, escludendo di conseguenza l’uso del carbone e del nucleare. Detto il “non fare” vediamo il fare che porteremo nei territori: cambiare modello energetico; sottoporre alla cura del ferro e cabotaggio i trasporti; aumentare l’efficienza; sviluppare le fonti rinnovabili. Proviamo per ognuna delle proposte a fornire qualche schematica spiegazione. Abbandonare il modello monopolista e centralistico di ora per passare a quello distribuito sul territorio significa conquistare democrazia energetica: ogni casa, ogni condominio, comunità, quartiere, centro commerciale, fabbrica produrrà l’energia di cui ha bisogno sfruttando la fonte rinnovabile più conveniente secondo le caratteristiche del sito. In questo quadro la richiesta è più intervento pubblico, adeguamento della rete
[Massimo Serafini]
elettrica e riforma e ridefinizione della missione di Enel ed Eni. Sottoporre città e territorio ad una cura del ferro per spostare la mobilità di persone e merci dalla gomma al treno e al cabotaggio, cioè concentrare su questo le scelte infrastrutturali e non su strade ed autostrade e trasporto individuale. Far compiere a questo paese un gigantesco sforzo per migliorare la propria efficienza energetica: un piano di riqualificazione energetica degli edifici che ne riduca i consumi di elettricità e calore e sposti le attività di costruzione verso la manutenzione e riqualificazione del già costruito e non su nuova occupazione di territorio. Conquistare una reale autonomia energetica al paese sfruttando le uniche fonti energetiche di cui è ricco e cioè il sole, il vento, le biomasse, la forza dell’acqua fluente e il calore che scorre sotto terra. Come si può intuire c’è molto da fare, ma soprattutto c’è da tradurre questa piattaforma in tutte le lingue del mondo perché la febbre della terra si abbasserà solo se il virus della crescita infinita verrà globalmente debellato da questa cura di solidarietà, democrazia, rinnovabilità e capacità di risparmiare le risorse che non sono infinite.
APPUNTAMENTO A SABATO 7 GIUGNO NELLA CITTA’ MENEGHINA IN NOME DELLA SALVAGUARDIA DELL’AMBIENTE E DEL NO ALLE SCELTE NUCLEARISTE DEL NUOVO GOVERNO. UNA PIATTAFORMA ALTERNATIVA, CON L’IMPEGNO DELL’EUROPA PER COMBATTERE IL RISCALDAMENTO GLOBALE DELLA TERRA Energie •
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