scritto & mangiato
Supplemento al numero odierno de il manifesto
in collaborazione con Slow Food
L'educazione alimentare dei bambini e la favola delle strategie commerciali. Quattro passi in un mondo da rimettere in pentola
C’era una volta OTTOBRE 2008
INFORMAZIONE PUBBLICITARIA
COPERTINA CHARTALAZIO N.1
Sagre e Feste tradizionali nel Lazio:vivere un’esperienza intensa e ricca di emozioni in una terra da scoprire,in festa... In autunno lasciati rapire dal fascino del Lazio. Una terra di origini e tradizioni millenarie che si perdono nel tempo e si ritrovano ogni anno nelle feste, sagre e rievocazioni storiche. Partendo da Roma puoi farti sedurre dalle cento strade che si insinuano tra borghi e castelli, accarezzando laghi e colline, risalendo i fiumi della storia, dalle spiagge dell’estate appena finita ai parchi silenziosi delle montagne che non immaginavi così vicine. E intorno lo sguardo è rapito dai colori della nuova stagione. Quelli dei boschi e delle foglie che arrossiscono. Colori che portano il profumo dei funghi e dei tartufi, del vino novello, delle castagne. E per quelle strade ti aiutiamo a trovare cento occasioni per scoprirne i sapori, regali di una terra generosa preparati dalle mani esperte di chi ha custodito una sapienza antica. Un sapere che forse ti era sconosciuto o pensavi smarrito per sempre, ma che ogni anno rivive quasi per magia. Sei sulle strade del vino del Lazio, nei tanti comuni che a ottobre e novembre festeggiano la raccolta dell’uva come su queste colline si fa da secoli. Con l’ospitalità che da sempre si riserva a chi viene a condividere una gioia che ogni anno scandisce il tempo. Fatti coinvolgere dall’allegria di queste feste antiche come il profumo del mosto dopo la vendemmia.
GLI SBANDIERATORI DI SORIANO NEL CIMINO
Sei sulle strade della castagna. Un rito antico si rinnova ogni anno a rinverdire una tradizione che ha scandito silenziosa e modesta la storia. La castagna, che ha rivestito un’importanza straordinaria nell’economia della nostra terra, in autunno torna ancora protagonista. E anima in tanti luoghi del Lazio feste di straordinaria bellezza, dove la raccolta delle castagne è l’occasione per affascinanti rievocazioni storiche. E ancora il tempo ci appare come una strada che parte da lontano, e proprio in queste feste abbiamo l’occasione di sentirci partecipi di un percorso che abbiamo fatto anche noi. Dove i nostri ricordi si fondono con la memoria collettiva della gente generosa e accogliente di una terra che è anche un po’ la nostra. Perché una festa è sempre un momento per condividere storia, cultura e tradizioni.
LA SAGRA DELL’UVA DI MARINO
La storia, la cultura e la tradizione nel Lazio non mancano mai. Puoi trovarle risalendo le strade dell’olio. Nei percorsi che salgono nuovamente le colline tra nuovi borghi e nuovi castelli. Nuove distese di terra coltivata che si combina ancora con altri boschi.Altre montagne all’orizzonte. Nuovi laghi in cui affacciarsi. Ed altre feste. Le feste dell’olio, che raccontano le fatiche di una raccolta che annuncia i primi freddi, fatta quasi ovunque ancora come una volta. Una raccolta dove la tecnologia avanza a fatica ed aiuta ancora poco. Dove i frantoi in poche settimane passano dal risveglio al nuovo letargo, in attesa del prossimo autunno, stillando l’olio. Un olio antico, quello del Lazio, che ha conservato qualità straordinarie ed un gusto unico. Nelle vie e nelle piazze dei comuni che festeggiano l’olio nuovo, il profumo del pane ci preannuncia le bruschette che si apprestano ad accoglierlo per i primi assaggi. Ed è ancora la storia che accompagna la tradizione. Con i costumi antichi, le rievocazioni, la ricchezza a volte poco conosciuta di una tradizione gastronomica straordinariamente gustosa, antica e genuina.
Nuove feste che scandiscono ancora il tempo che passa, un metronomo lento che segna l’avvicinarsi di Dicembre, del Natale. E nel Lazio si dispiegano le strade dei Presepi. Proprio nel Lazio, a Greccio, San Francesco d’Assisi realizzò la prima rappresentazione vivente della Natività. Un’esperienza antica che suggestiona il visitatore in un’atmosfera unica. Un modo insieme nuovo e antico, in ogni comune diverso ma sempre affascinante, per affacciarsi all’anno che arriva. Lasciati sedurre dall’incanto che sapranno regalarti quei momenti.
Affidati alla CHARTALazio per i prossimi fine settimana. Vivrai un’esperienza intensa e ricca di emozioni, in una terra tutta da scoprire... in festa.
GRECCIO, IL PICCOLO BORGO DOVE SI RIEVOCA OGNI ANNO IL PRESEPE DI SAN FRANCESCO
info: www.laziofeste.it - e.mail info@laziofeste.it - tel 06.488.99.215/7
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in collaborazione con Slow Food
Direttore responsabile Sandro Medici Direttore Mariuccia Ciotta Gabriele Polo Supplemento a cura di Francesco Paternò Grafica Daria Sorrentino Illustrazione di copertina Laura Federici Pubblicità concessionaria esclusiva Poster srl 00153 Roma via A. Bargoni 8 tel. 06 68896911 fax 06 58179764 Stampa Sigraf srl via Redipuglia, 77 Treviglio (Bg) Chiuso in redazione il 16/10/2008
5 Per diventare grandi
di Simona Luparia 6 Una rete di latte di Ettore Tibaldi 7 Il sesso della cervella di Arlene Voski Avakan 9 Leggendo si impara di Chiara Cauda 10-11 L’orto che insegna di Janet Chrzan 14 Cavoli nostri di Davide Ghirardi 15 Odor di collegio di Sophie Herron 16-17 Il giorno della liberazione di Michael Jackson 19 Via polpettando di Loris Campetti 21 Chicco di super riso di Geraldina Colotti 22-23 Giovani lettori, fate qualcosa di Geraldina Colotti
dulto, anzi adulterato. Né gusto né giusto. Sulle parole è facile giocare, sulla pelle dei bambini e nemmeno su quella nostra no. Certo è che discutere di educazione alimentare è sempre più dura. Mandi tuo figlio a scuola sbirciando che cosa accadrà oggi a mensa e poi scopri che il latte cinese alla melamina abbonda sugli scaffali del supermercato sotto casa. Un altro giorno è una questione di Ogm senza etichetta, un altro ancora di mucca pazza e via dicendo. Ma la cultura innanzitutto. In Italia un bambino su tre è obeso, secondo una ricerca chiamata “Okkio alla salute” condotta recentemente nelle scuole italiane dal Ministero del lavoro. Non sarà colpa del latte cinese se si mangia male anche a casa propria. Il baby food è una grande affare per chi lo produce e la pubblicità fa il resto (dei danni). La geografia del grasso ha numeri da far spavento (li troverete a pagina 22), tocca molto le scuole primarie, anche se in Italia il problema qui pare essere il grembiulino, o la reintroduzione del maestro unico. Pedagogicamente parlando un disastro. FRANCESCO PATERNÒ In questo supplemento, i nostri amici-consiglieri di Slow Food comunque sparigliano. Sostengono che i bambini e le bambine possono crescere, e bene e meglio, sicuramente senza merendine ma addirittura con il pecorino a latte crudo o a black pudding, una terribile roba inglese che vi peritate di andare a cercare a pagina 16. E sostengono per esempio che creare degli orti e coltivarli per poi mangiarne i prodotti è una sanissima lezione di cultura alimentare per i piccoli (e per i grandi). E che una lezione di verdura vale una lezione di geografia. Bisogna crederci in Slow Food, che in questi giorni, dal 23 al 27 ottobre a Torino, riapre i battenti del Salone del Gusto e gli affianca un colorato accampamento di gente di tutto il mondo che si chiama Terra Madre. Torino si trasforma per un piccolo tempo immenso in un incrocio di culture, di messaggi, di tensioni che magari traduciamo un po’ liberamente ma che a noi suonano così: ecco una strada per salvare il mondo, in cui l’agricoltura torni a essere centrale con i suoi operatori, in nome del clima e di una migliore alimentazione. Perché il mondo da cui vorremmo scendere, e non perché Lehman Brothers abbia chiuso in un week end, è quello raccontato in un rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità. Dove si scrive che a fronte di 800 milioni di persone che soffrono la fame, oltre un miliardo è in sovrappeso e 300 milioni sono obesi. Proviamo a fermarlo.
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Un bambino su tre
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Fateci uscire Una nuova emergenza bussa alle nostre porte Con i tagli al finanziamento pubblico per l'editoria il governo di centrodestra ci vuole chiudere. La nostra libertà e quella di tutte le testate non-profit è a rischio. Abbiamo bisogno del vostro aiuto per difendere la nostra esistenza e la nostra indipendenza. Non lasciateci soli, non restate da soli. Sottoscrivete. ECCO COME POTETE PARTECIPARE: ON LINE CON CARTA DI CREDITO SUL SITO WWW.ILMANIFESTO.IT, TELEFONICAMENTE CON CARTA DI CREDITO, AL NUMERO 06/68719688 O VIA FAX AL NUMERO 06/68719689. BONIFICO BANCARIO PRESSO BANCA POPOLARE ETICA - AGENZIA DI ROMA - INTESTATO A IL MANIFESTO - IBAN IT40K0501803200000000535353. CONTO CORRENTE POSTALE NUMERO 708016, INTESTATO A IL MANIFESTO CCOP ED ARL - VIA BARGONI 8 - 00153 ROMA. PER INFORMAZIONI SOTTOSCRIZIONE@ILMANIFESTO.IT
LA SICUREZZA DEL LATTE CHE BEVI È LEGATA A UN FILO. DI DIFFERENZA.
Il filo della Filiera Granarolo. Dove le mucche, solo mucche italiane, sono selezionate e controllate una a una. Dove gli alimenti che mangiano sono solo alimenti naturali. Dove il latte viene garantito e certificato ogni giorno con controlli più numerosi e approfonditi di quelli di legge. Da quando viene munto, a quando viene portato fresco a casa tua. La sicurezza del latte non è un’opinione. Quando ne scegli uno, pensaci un filo.
Da sempre Granarolo fa la differenza.
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di Simona Luparia*
I bambini e l’alimentazione, tra strategie commerciali e obesità, tra scelte consapevoli e assenze ingiustificate, con un occhio alle mense scolastiche
Per diventare
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fezioni – alla violazione di codici di regolamentazione sottoscritti dalle stesse aziende, agli accordi sui prezzi, alle frodi alimentari con risvolti mortali. È storia di casa nostra lo scandalo del caro latte iniziato nel 2000 – e non ancora del tutto superato – con una condanna dell’Antitrust ai principali gruppi che commercializzano in Italia latti per l’infanzia, colpevoli di aver realizzato un cartello per controllare il mercato. Ed è storia cinese, ma con conseguenze e timori di portata mondiale, quella del latte contaminato che negli ultimi mesi ha ucciso almeno quattro bambini e ne ha intossicati decine di migliaia. Latte paradigmatico: di speculazioni e politiche commerciali che non cambiano con l’aumento dell’età dei bambini e con l’ampliarsi della dieta. Che hanno stravolto una pratica naturale come quella del nutrirsi e del nutrire inventando necessità, cancel-
lando stagioni, massacrando in mensa gusti e piatti in nome della riduzione dei costi. Sulla ristorazione scolastica del nostro paese anche Slow Food Italia ha condotto un’inchiesta i cui dati saranno presentati nel corso del Salone del Gusto/Terra Madre, la grande manifestazione che dal 23 al 27 ottobre riunisce a Torino comunità del cibo, cuochi, docenti, giovani e produttori provenienti da tutto il mondo. Dall’indagine è per fortuna emerso che la logica del profitto a volte incontra ostacoli: amministratori, dirigenti scolastici, insegnanti e genitori risoluti nel difendere – a scuola, a casa, grazie a un orto, ogni giorno – la qualità e la varietà del cibo dei “loro” bambini. Perché si diventa grandi anche mangiando pecorino a latte crudo, cioccolato vero, black pudding o… cervella di agnello al vapore. *Slow Food
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inalmente anche in Italia in alcuni luoghi pubblici, negozi, centri commerciali iniziano a spuntare i primi “punti allattamento”: angoli tranquilli, ma non nascosti, dove mamme e bambini possono accomodarsi per la poppata. Perché non allestirne uno anche al Salone del Gusto?. Il collegio delle ostetriche di Cuneo ha accolto con entusiasmo la proposta, coinvolgendo le colleghe del collegio di Torino-Asti, il Corso di laurea in Ostetricia dell’Università degli Studi di Torino e la sezione torinese della Leche League. Così, per tutta la durata del Salone del Gusto (dal 23 ottobre a lunedì 27), tutte le mamme che allattano saranno le benvenute – e non è cosa da poco, credeteci – nello spazio loro dedicato, all’ingresso del padiglione 3. Troveranno sedie comode, un fasciatoio, generi di conforto e soprattutto i consigli, l’assistenza, la compagnia di un’ostetrica. Un particolare: abbiamo parlato di spazio – o angolo che dir si voglia – allattamento non a caso. Non sono infatti stati allestiti né una stanza né un locale separato, perché alla sacrosanta funzione di accoglienza questo angolo vorrebbe affiancarne una dalla valenza culturale, in netto contrasto con una società che si nega le radici, cancella la presenza della mamma – eppure lei e il bebè costituiscono un insieme inscindibile dal punto di vista fisiologico, programmati dalla natura per stare a stretto contatto – e la sua capacità di produrre l’alimento più adatto per il figlio. Una società nella quale impera un’iconografia della nutrizione dei lattanti volutamente falsata, in cui al bambino è sempre abbinato il biberon, divenuto simbolo della condizione infantile tout court. Una donna che allatta non è più figura familiare, risulta spiazzante o imbarazzante; può addirittura succedere che sia invitata ad allontanarsi. E invece sta semplicemente dando al suo bambino il cibo più buono, pulito e giusto non solo per lui, ma per la comunità e l’intero pianeta. Ci sarebbe da farci un pensiero.
La poppata al Salone
on sono ancora nati e sono già un target, un gran bel target a giudicare dall’impegno che l’industria profonde per legarli ai suoi brand “dalla culla alla tomba”. Parole funeste per strategie commerciali senza scrupoli. E dire che sarebbero soltanto bambini, magari i nostri figli. Bambini sempre più grassi – uno su tre è obeso o sovrappeso denuncia l’indagine “Okkio alla salute” condotta recentemente nelle scuole italiane dal Ministero del lavoro –, sempre più bombardati dalla pubblicità e sempre più abbandonati a loro stessi quando si tratta di alimentazione: non sarà che manca un briciolo di attenzione nei loro confronti se almeno l’11% del campione intervistato non fa colazione la mattina e poi si strafoga (l’82%) nell’intervallo? Fra interessi del mercato e preoccupazioni per la loro salute, si ritrovano a crescere tra puree in vasetto e brodini a tre verdure, menù speciali (pasta al pomodoro-bistecca-patatine), filetti (di pesce o di carne, purché siano teneri e facili da mangiare, che importa se sanno di poco). Pare che alcuni di loro restino disorientati di fronte a una mela intera con la buccia, incapaci di affrontarla, pelarla, mangiarla. Una scelta alimentare ridotta e povera di stimoli inibisce le esperienze sensoriali, preclude al bambino una parte di mondo che potrebbe sperimentare. E in più non è sana, né sostenibile, sia a livello economico sia a livello ambientale. Non è un caso se organizzazioni e istituzioni internazionali, prima fra tutti l’Organizzazione mondiale della sanità, consigliano cibi locali e familiari da accostare al latte materno dopo i primi sei mesi, dicendo anche chiaramente che “l’uso di alimenti complementari di origine industriale può ritardare l’accettazione della dieta familiare e costituisce un onere non necessario”. Se si decide di utilizzarli, è opportuno “in ogni caso dare al bambino cibi familiari preparati in casa, per abituarlo ad una più vasta gamma di sapori e consistenze”. D’altra parte per ogni bimbo che nasce la natura predispone un cibo che varia in sapore, concentrazione, composizione, quantità in base alle sue esigenze, un latte a ogni poppata irripetibile che l’industria da decine di anni prova inutilmente a riprodurre… L’imitazione del latte di mamma, insieme a tutto il baby food, costituisce un affare non da poco, dunque va spinto con ogni mezzo, dall’uso ambiguo di immagini e diciture – in pubblicità e sulle con-
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e lo ricordate quando era possibile bere acqua, respirare aria, osservare paesaggi senza dovere pagare una tassa, un pedaggio, un prezzo? Oggi la dimensione mercantile – addirittura favorita dagli allarmi ambientali – è così diffusa che questi beni comuni, che comuni dovevano restare, si sono trasformati, quasi ovunque, in merce. È negli anni Settanta che, grazie alla cosiddetta crisi energetica, questa tendenza è stata accelerata. Mentre l’acqua, l’aria, il cielo, il mare e anche il clima diventavano via via merce, alcuni esperti di marketing si dedicavano con particolare accanimento al fatto che restava, molto diffusa anche tra gli esseri umani, una relazione profonda e gratuita, sana e nutriente, gioiosa e salutare: l’allattamento materno. Era necessario intervenire, con urgenza. Era importante moltiplicare i profitti, e reprimere – o deviare – lo scambio gratuito di affetto e latte. Innanzitutto perché, dal punto di vista simbolico, si trattava di una palese violazione delle regole della civiltà mercantile e inoltre perché, dal punto di vista delle strategie di mercato, era necessario rimpiazzarla con un’importante occasione di commercio, sostituendo il latte materno con quello artificiale e
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altri prodotti. Magari meno efficaci ma, almeno, vendibili. Per tutto il secolo scorso la pratica dell’allattamento materno è stata così indotta a diminuire. Negli anni Quaranta e Cinquanta, nei centri industrializzati, le madri in attesa e soprattutto le puerpere hanno iniziato a essere oggetto di campagne di disinformazione così pressanti da convincerle che l’allattamento artificiale fosse uguale, o addirittura migliore, di quello al seno. Dai paesi più ricchi e sviluppati la tendenza si è diffusa nel resto del mondo, fino alle estreme periferie dello sviluppo, come accade sempre nelle dinamiche di trasmissione del cosiddetto benessere. Ovunque fosse praticamente e più o meno economicamente possibile, le madri, bombardate da una gigantesca campagna di promozione, sceglievano il biberon e nascondevano ai loro bimbi il seno, con tutto quanto questo poteva offrire. Gli esperti sono d’accordo: nutrire un bimbo con un sostituto artificiale del latte mater-
no toglie al bimbo una serie di vantaggi. E questo vale in tutte le condizioni di reddito e comfort, anche e soprattutto per le comunità che vivono, nelle periferie mondiali, in situazioni particolarmente disagiate. Nel loro caso gli svantaggi dell’allattamento artificiale si sommano ad altri inconvenienti come la scarsa disponibilità di acqua potabile, la poca igiene dell’ambiente di vita, la carenza di denaro, l’analfabetismo, la diffusione di malattie, l’assenza di servizi sanitari e nutrizionali. In tali condizioni, il fatto che un bimbo riceva un cibo meno ricco di quello materno e privo delle sostanze che favoriscono le difese naturali del suo piccolo organismo significa aprire la strada ad alti rischi di malattia e morte. Secondo una stima dell’Organizzazione mondiale della sanità sarebbero oltre un milione i neonati che muoiono ogni anno per questa ragione. La probabilità dei bambini nutriti con latte artificiale è ritenuta 25 volte più alta di quella dei neonati allattati al seno. Il primo allarme efficace è
lanciato, su questo tema, dal giornalista Mike Muller, che nel 1974, con l’aiuto del Third World Action Group pubblica The baby killer, una pesante accusa nei confronti della Nestlé, considerata responsabile della morte di migliaia di bambini del Sud del mondo, che si sarebbero potuti salvare da malattie e malnutrizione se solo fossero stati allattati al seno, anziché con latte in polvere. Successivamente, l’articolo 24 della Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia (approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 20 novembre del 1989 a New York ed entrata in vigore nel settembre 1990) riconosce il diritto del bambino di raggiungere il più alto livello di salute possibile e afferma l’importanza dell’allattamento al seno per ottenere tali risultati. Gli stati sono invitati ad assicurarsi che tutti i segmenti della società facciano rispettare la Convenzione, ma non è chiaro se le imprese globali che si dedicano ai cibi per l’infanzia siano o no da considerare “seg-
Una rete
di latte di Ettore Tibaldi*
L’importanza dell’allattamento materno nella crescita dei neonati. Storia e futuro di una pratica che per tutto il secolo scorso è stata scoraggiata
menti di società”. Il primo settore ritiene di sì. Il terzo settore, quello delle organizzazioni non governative, anche. Le imprese, invece, no. L’affermazione dell’articolo 24, tuttavia, è un importantissimo risultato, dovuto a un illustre precedente, un codice che è stato elaborato, diffuso e controllato con grande tenacia e che, per quanto riguarda il cibo per l’infanzia, ha preparato il terreno giuridico alla Convenzione. Si tratta del Codice internazionale di commercializzazione dei sostituti del latte materno, adottato dall’assemblea generale dell’Organizzazione mondiale della sanità nel maggio del 1981, a vastissima maggioranza (il testo integrale si può scaricare all’indirizzo web www.mami.org/Docs/codice2004a.pdf). Sol gli Stati Uniti, votarono contro. L’adozione del Codice ha costituito un punto di svolta nella protezione dei consumatori. Il merito della sua compilazione, della sua applicazione e della sua affermazione su scala internazionale va all’International Baby Food Action Network (Ibfan, www.ibfan.org), fondato nel 1979, con un ufficio di coordinamento a Ginevra. Nel
1990, una fondazione olandese, l’International Code Documentation Centre (Icdc) con sede a Penang, Malaysia, si è utilmente affiancata al network. Oltre all’Ibfan sono state consultate, prima dell’adozione del Codice da parte dell’Organizzazione mondiale della sanità, Oxfam (www.oxfam.org), War onWant (www.waronwant.org), Leche League (www.lalecheleague.org) e Unicef (www.unicef.org), oltre a numerose aziende produttrici di cibi per l’infanzia. Le grandi compagnie sono state costrette ad accettarlo e dichiarano di rispettarlo integralmente, ma secondo l’Ibfan «la maggior parte dei produttori di cibo per l’infanzia sta continuando l’attività promozionale non etica mentre dichiara di rispettare il Codice internazionale. Stanno investendo sempre di più negli operatori sanitari e nelle strutture sanitarie e per promuovere i loro prodotti spendono più denaro di quanto la maggior parte dei governi non investa nell’educazione alla salute». Inoltre le industrie degli alimenti per l’infanzia promuovono campagne per ottenere codici diversi, volontari, autogestiti e controlli meno rigorosi all’interno delle norme nazionali e hanno creato lobby per influenzare gli enti che fissano gli standard internazionali, quali la Commissione della Fao e dell’Oms sul Codex alimentarius e il Comitato scientifico europeo per il cibo. L’argomento, come i lettori avranno compreso, è di enorme importanza. E tuttavia quanto ci interessa porre in luce non è soltanto l’aspetto “alimentare” della questione, ma anche quello legato a questa formidabile rete di associazioni. L’International Baby Food Action Network è oggi la principale rete internazionale dedicata al cibo per neonati. Invece di essere ostaggio dei poteri forti è riuscita a imporre alcuni punti di vista sia ai governi sia alle imprese. Almeno in questo caso il triangolo di relazioni che comprende anche il terzo settore non è stato un triangolo delle Bermuda. Ibfan ha monitorato con estrema efficacia il mercato dei cibi per l’infanzia e ha combattuto per molto tempo contro una burocrazia internazionale apatica che si inchinava – e si inchina – troppo spesso al volere di potenti lobby transnazionali e globali. Questa rete è un esempio importante proprio perché va al di là dello specifico tema, benché rilevantissimo, dell’alimentazione infantile. L’esempio di Ibfan ci può infatti aiutare a comprendere il ruolo che le grandi organizzazioni non governative sono in grado di compiere anche nella prospettiva di far vivere in modo ancora più vivace la rete di relazioni che Terra Madre fa nascere. *Questo è uno degli ultimi articoli scritti per Slow Food da Ettore Tibaldi, un grande amico e una grande persona, che ci manca molto.
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no degli inconvenienti della mezza età – o di quando la si è superata – è che le pratiche dei giovani sembrano singolari, per non dire estranee, e che perdiamo il contatto con ciò che è centrale nel loro mondo. Una volta mi arrabbiavo con mia madre perché non aveva la minima idea di chi fossero le ultime stelle di Hollywood o di chi ci fosse nella hit parade musicale, ma oggi sono altrettanto ignorante in fatto di cultura popolare, pur essendo una docente universitaria e quindi regolarmente circondata da giovani. Rispetto e ammiro perfino questa generazione, ma una cosa che non sopporto di tanti giovani genitori è la distinzione che fanno tra il cibo che va bene per gli adulti e ciò che secondo loro dovrebbero mangiare i bambini. Forse anche molti della mia generazione nutrivano i figli con cibi particolari e non me ne sono mai accorta, ma nella mia famiglia di immigrati e profughi armeno-americani non appena avevi messo i denti mangiavi quello che mangiavano i tuoi genitori. I miei ricordi d’infanzia a proposito del cibo sono pieni di prelibatezze come la chee kufta, la versione armena della steak tartare, fatta con agnello tritato e bulgur; i carciofi saltati in olio d’oliva e succo di limone; l’insalata di pomodori freschi con cipolle e peperoncini piccanti (quanto più tanto meglio). Imparai anche ad amare le ostriche nella loro mezza conchiglia fin da piccola. Uno dei ricordi più eccitanti antecedenti alla scuola sono i pranzi con mio zio Alex. Andavamo sempre nello stesso ristorante e ordinavo sempre la stessa cosa: ostriche e poi spaghetti. Aggiungevo rafano e non ero appagata finché non sentivo il calore che arrivava al naso e mi faceva lacrimare gli occhi.
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Cibi barbari Prima di cominciare la scuola elementare, amare il cibo che mangiava la mia famiglia era facile; i miei unici compagni di gioco erano dei cugini che avevano una dieta simile alla mia, nonostante qualche differenza tra la cucina del ramo turco-armeno e di quello persiano-armeno della famiglia. Anche alla Public School 189 di New York gran parte dei miei amici erano figli di immigrati e, come me, molti di loro in casa parlavano una lingua diversa; i greci mangiavano cibi molto simili ai nostri. Ma, nonostante le analogie, imparai a stare attenta a ciò che dicevo ai miei nuovi compagni di gioco sul nostro cibo dopo che uno di loro definì barbari me e la mia famiglia perché mangiavamo carne cruda. Anni dopo, mi resi conto che mia madre serviva questa squisitezza soltanto le rare volte in cui papà non era a casa per cena. La chee kufta è una ghiottoneria turco-armena che anche mio padre, persiano-ar-
meno, giudicava barbara. Una cosa che sapevo di non dover dire a nessuno al di fuori della cerchia familiare era il mio amore sviscerato per le cervella di agnello al vapore, un piatto riservato alle occasioni speciali. Era servita intera – e sembrava esattamente ciò che era – con una generosa spruzzata di succo di limone e prezzemolo italiano tritato. Arrivata alla pubertà negli anni ’50, provavo un forte impulso all’assimilazione e discutevo all’infinito con mia madre perché volevo che ci comportassimo più da americani, perfino mangiando alcuni dei “loro” cibi. Con suo grande orrore, volevo la Lipton
più velocemente degli adulti, strappando una foglia, immergendola nella salsa e infilandosela nella boccuccia, per ricominciare subito dopo. Insieme ai carciofi, i suoi piatti preferiti a quell’età erano i funghi marinati e le aringhe in una salsa a base di panna. Non mangiava le cervella perché non le cucinavo mai. Da quando me ne sono andata da New York City, ho abitato lontano dai mercati che vendono cervella. Tuttavia, uso il fatto di mangiare cervella per spiegare la costruzione culturale del cibo, e per estensione altri aspetti della vita, nel corso di ”Introduzione agli studi femminili”, se-
non mi sento a mio agio a parlarne – nascono dall’essere una femmina cresciuta in una famiglia di immigrati armeni negli anni 1950. Preparando la lezione per la prima volta, terrorizzata all’idea che 300 studenti mi fissassero mentre parlavo di sessualità, ho cominciato a pensare a qualcosa di analogo al sesso di cui mi fosse più facile parlare e ho subito pensato al mangiare. Entrambi appetiti con una componente biologica, cibo e sesso sono altresì forgiati entrambi dalle loro culture. Uno dei miei cibi preferiti non è considerato commestibile da tante persone che conosco, così come talune pratiche
non sono né puramente biologici né identici nel corso del tempo e dello spazio. In questa società la sessualità è costruita dalla cultura, in particolare da sessismo, razzismo, classismo ed eterosessismo. Giocare sull’etnocentrismo alimentare degli studenti si è rivelato un utile strumento pedagogico, ma mi chiedo quanti genitori di questi studenti ne abbiano limitato le scelte in fatto di cibo quando erano bambini. Mi piacerebbero cervella d’agnello, ostriche, chee kufta, gombo e tanti altri cibi meravigliosi se i miei genitori avessero aspettato che fossi “abbastanza grande” per
di Arlene Voski Avakan*
Di agnello al vapore, tra ricordi proustiani e facce schifate. Giocando sull’etnocentrismo alimentare degli studenti, uno strumento pedagogico
Il sesso della cervella Chicken Noodle Soup in scatola, ma non mi sfiorò mai l’idea di rinunciare al cibo armeno, neppure le cervella. Messi al mondo dei figli, mi aspettavo che assaggiassero tutti i cibi che mangiavamo. Quando mia figlia aveva circa quattro anni, dovevo preparare due piatti di carciofi se volevo servirli come stuzzichino ai commensali: uno per gli adulti e l’altro per Leah. In genere stava in cucina mentre preparavo la salsa, guardandomi con ansia mentre sbattevo noci di burro con succo di limone ridotto finché il miscuglio diventava spesso e giallo chiaro. Non appena li posavo sul tavolino, Leah diventava una specie di piranha, lanciandosi verso i carciofi più agilmente e di certo
guito da 300 studenti, che insegno da anni. Dopo una discussione sulle costruzioni culturali del sesso e in che modo si interseca con classe, razza e sessualità, e una parte sulla storia delle donne negli Usa, affronto temi d’importanza centrale nella vita delle donne quali il lavoro, la famiglia, la violenza, l’immagine dei media, la resistenza e la sessualità. Sessualità Su quest’ultimo tema non mi sento a mio agio, neppure in ambienti ristretti, ma non posso evitare di affrontarlo. È di vitale importanza che gli studenti riconoscano che la sessualità è costruita socialmente. So che i miei sentimenti circa il sesso – compreso il fatto che
sessuali privilegiate in un certo posto possono essere tabù in un altro. Sicché inizio a parlare della sessualità mostrando i nessi tra questi due appetiti e, a mo’ di esempio, parlo di uno dei miei cibi preferiti da bambina. Faccio una pausa e dico che andavo matta per le cervella di agnello al vapore, tagliate a fettine e mangiate su una galletta con prezzemolo e limone, e che ne vado ancora matta. L’aula si riempie immediatamente di espressioni di disgusto, una reazione che traspare anche dalle facce. Ho catturato la loro attenzione e quando l’incubo di mangiare l’immangiabile si è dissolto, sono pronti a prendere in considerazione l’idea che il cibo e la sessualità
mangiarli? Qual è l’età della ragione in fatto di cibo? Perché pensiamo che i bambini apprezzeranno solo ciò che per decisione di qualcun altro è «cibo per bambini»? Che c’è di tanto buono in ciò che i bambini mangiano oggi? Potrebbero essere molto più sani se mangiassero cervella di agnello al vapore, ostriche (non dimenticate rafano e tabasco) o insalata di pomodori con prezzemolo, cipolle e peperoncini piccanti. Forse l’obesità infantile non sarebbe quel serio problema che è e forse i bambini e anche i loro genitori potrebbero avere un po’ più di rispetto per la differenza se la loro dieta non fosse così chiusa in un compartimento stagno. *Slow Food
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«O nonna mia, che denti grandi avete!». «Gli è per mangiarti meglio». E nel dir così quel malanno di Lupo si gettò sul povero Cappuccetto Rosso e ne fece un boccone. iente nonne e lupi di collodiana (in questa versione) memoria, ma nonni e zii, pecore, cani e chiocciole (potevano mancare?) sono i protagonisti dei primi titoli della neonata collana di Slow Food Editore dedicata ai più piccoli. Anche la chiocciolina, alla fine, ha deciso di dire la sua nel variegato mondo della letteratura per l’infanzia, proponendo una serie di libri biodiversi, a partire dall’avvicendarsi di autori e illustratori, che si propongono di narrare un cibo «buono, pulito e giusto» a chi muove i primi passi nel campo dell’educazione del palato. Ogni volume non si basa su un semplice racconto che catturi l’interesse dei lettori e nemmeno, per carità, su un attento elenco di che cosa è bene mangiare e che cosa è da evitare come la peste; è piuttosto un diario, un quaderno tra le cui pagine scoprire le avventure di nuovi amici, ma anche come utilizzare i cinque sensi,
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Leggendo
si impara di Chiara Cauda*
Per mangiarti meglio. Oppure no? Una collana di libri per bambini in relazione al cibo, a cura della chiocciola
giocare, mettersi alla prova come veri cuochi, imparare a degustare e conoscere da vicino il cibo quotidiano per… mangiarlo meglio, appunto. Spunto per le prime storie sono stati i Presìdi – quello del pecorino della montagna pistoiese e quello del cacao nacional equadoregno (vedi box) – comunità di coltivatori, allevatori, trasformatori che sanno svelare a bambini e ragazzi le tradizioni e i segreti legati ai loro prodotti. E spiegare ai futuri lettori non solo le caratteristiche organolettiche di ciascun alimento, ma anche il suo legame con il territorio dove nasce e le persone che ne curano la crescita o la lavorazione. Ed ecco che il rapporto con il cibo, sempre a rischio
di asetticità e igienismo nelle pubblicazioni per bambini, si arricchisce di trame fatte di incontri con persone più o meno reali, emozioni e scoperte, parola dopo parola. Non meno importante è, infine, la componente ludica che contamina sotto diverse forme la collana: dal cruciverba alle ricette da provare, dalla collezione di etichette ai giusti abbinamenti tra immagini, forme, colori, il percorso si profila tutt’altro che noioso. La chiocciola, inoltre, saprà ricompensare a dovere chi vorrà cimentarsi non solo con sensi e papille, ma pure con matite, pennelli, computer, macchine fotografiche, forbici e colla: spazio a tutte le opere sul sito www.permangiartimeglio.it e qualche sorpresa per le migliori. Per iniziare, Riccardo e nonno Renzo, disegnati e raccontati da Cinzia Ghigliano e Marco Tomatis, e Marta e lo zio Ugo, usciti dalla matita di Simone Frasca e dalla penna di Sara Marconi e Francesco Mele: ci guideranno attraverso i fantastici mondi del formaggio e del cioccolato. Ma altro bolle già in pentola, o meglio cuoce in forno: Giusi Quarenghi, insieme ad Alessandra Mastrangelo, si confronterà con il pane, illustrato con i colori di Daniela Villa. E dopo, che cosa ci mangiamo? «La storia di Cappuccetto Rosso fa vedere ai giovinetti e alle giovinette, e segnatamente alle giovinette, che non bisogna mai fermarsi a discorrere per la strada con gente che non si conosce: perché dei lu-
pi ce n’è dappertutto e di diverse specie, e i più pericolosi sono appunto quelli che hanno faccia di persone garbate e piene di complimenti e di belle maniere». Ci perdoni il signor Collodi, ma a noi questo finale piacerebbe riscriverlo così: la collana “Per mangiarti meglio” invita i giovinetti e le giovinette, e segnatamente sia gli uni sia le altre, che ci si può fermare tra le pagine di un libro per scoprire un cibo che non si conosce: perché di pietanze ce n’è dappertutto e di diverse specie, e le più straordinarie possono essere proprio quelle che ancora non si conoscono. *Slow Food
Infiniti sapori n gregge di pecore nere? Un ragazzino che le accompagna al pascolo, le sa accudire e si diverte a fare formaggi e ricotta con il loro latte? Ma questa è fantasia! Invece no, fidatevi. Riccardo assomiglia proprio a voi: gli piace nuotare, suona il flauto più o meno bene, va a scuola tutti i giorni con il pulmino. I suoi compagni un po’ lo invidiano quando nell’intervallo gli chiedono che cosa c’è nel suo panino e lui può rispondere orgoglioso: «Formaggio. Fatto da me». Anzi, volete saperla tutta? Riccardo, suo nonno Renzo, i genitori Paola e Stefano, i cani Black, Turbo, Fly e la capra Ninetta esistono davvero. Ops, era un segreto… E l’altra storia vera? È quella del formaggio, delle sue cento forme e origini, dei suoi infiniti sapori. Con Riccardo e la chiocciola potrete scoprire le prime e appassionarvi a sperimentare i secondi, allenando i sensi e comprendendo che cosa vuole dire essere un degustatore. Vero, come le due storie del libro.
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Cinzia Ghigliano e Marco Tomatis Il formaggio. Una storia vera, anzi due Slow Food Editore, 2008
Assaggi assaggi
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alone del Gusto e Terra Madre rappresentano le due facce di un unico evento, un viaggio di andata e ritorno alle radici del cibo, per costruire un percorso virtuoso dal Sud al Nord, dalla produzione al consumo, dai contadini ai gastronomi ai co-produttori. Lo stesso viaggio che compiono Marta e lo Zio Ugo, i due personaggi ideati da Sara Marconi e Francesco Mele per raccontare ai bambini come il cacao si trasforma in praline, tavolette, cioccolatini, barrette… Ne Il cioccolato. Diario di un lungo viaggio Marta e lo zio Cerca Gusti volano in Ecuador per visitare una piantagione di cacao nacional, un discendente delle prime piante coltivate dai Maya nell’America del Sud. Si tratta di un cacao delicato, tipico solamente dell’Ecuador. La provincia di Napo, oggi centro di produzione del cacao nacional, si trova nel cuore dell’Amazzonia ecuadoriana. La collocazione geografica ha contribuito all’isolamento culturale della popolazione, in gran parte indigena: ancora oggi l’unico modo per raggiungere il capoluogo Tena è viaggiare da Quito in bus lungo una strada sterrata e dissestata (come fanno Marta e lo zio). Il Presidio è nato con produttori Quichua riuniti nella Cooperativa Kallari per salvaguardare il numero ormai esiguo di alberi di nacional. Grazie al supporto della Fondazione Slow Food per la Biodiversità i produttori possono ora contare su una struttura centralizzata per la fermentazione e l’essiccazione delle fave, che faciliterà l’elaborazione di un prodotto eccellente e omogeneo in grado di spuntare prezzi migliori sul mercato. Dato che la provincia sta correndo un serio rischio ambientale a causa della recente scoperta di riserve di petrolio, Kallari sta lavorando per dimostrare che la produzione del cacao può rappresentare un importante traino per l’economia della regione, oltre a garantire indubbi benefici per l’equilibrio ambientale. Riccardo, il protagonista de Il formaggio. Una storia vera, anzi due, il pecorino ce l’ha invece sotto gli occhi tutti i giorni, anzi ne produce delle piccole forme fin da quando aveva sei anni. I suoi genitori, infatti, con l’aiuto del nonno paterno allevano pecore massesi dalle quali ricavano il latte per caseificare pecorino della montagna pistoiese, un formaggio non celebre come i cugini di Pienza e Siena, ma forse anche per questo rimasto fedele alla ricetta tradizionale e, soprattutto, al latte crudo, una vera e propria rarità nel panorama caseario toscano. Il Presidio riunisce una ventina di produttori, valorizzando i loro formaggi, e intende salvaguardare i pascoli e garantire una giusta remunerazione alle famiglie che hanno deciso di rimanere o di ritornare in montagna. Proprio come quella di Riccardo.
Storie di praline
l giorno dopo il giorno del suo nono compleanno, oltre a regali, auguri e all’immancabile torta, Marta riceve un biglietto. Arriva dallo Zio Ugo, un simpatico vecchietto baffuto, di professione Cerca Gusti. Lo zio convoca Marta a casa sua e la invita ad accompagnarlo in un lungo e indimenticabile viaggio: andranno a rintracciare le origini del cioccolato e seguiranno passo passo le tappe che trasformano strani semi biancastri in tavolette, praline, uova, barrette. Dopo decine di ore di volo, migliaia di chilometri in bus, automobile, a piedi e in bicicletta, concerti, riunioni, escursioni nella foresta e assaggi, assaggi, assaggi, Marta sarà pronta ad affrontare l’esame da Cerca Gusti. Perché non ci provate anche voi? Le sacre regole del Cerca Gusti sono soltanto due e poi la scheda di degustazione è un bel coniglio di cioccolato…
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Sara Marconi, Simone Frasca, Francesco Mele Il cioccolato. Diario di un lungo viaggio Slow Food Editore, 2008
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educazione agisce come strumento utilizzato per facilitare l’integrazione delle nuove generazioni nella logica del sistema vigente e creare conformità a esso, oppure diventa la pratica della libertà, il mezzo con cui uomini e donne affrontano in modo critico e creativo la realtà e scoprono come partecipare alla trasformazione del loro mondo… Paulo Freire
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l’esperienza sensoriale e connettono il sapere pratico quotidiano a materie accademiche. Il corso sul cibo è basato su un modello in tre fasi che collega una verdura (dell’orto scolastico) a una cultura, con una terza lezione sul funzionamento generale del sistema alimentare.
A West Philadelphia, su un terreno recuperato da un lotto inutilizzato, studenti delle medie superiori e dell’università, con gli educatori dell’Urban Nutrition Iniziative della University of Pennsylvania, hanno creato un orto accanto a una scuola del centro. Situato a fianco degli alti muri di mattoni dell’edificio scolastico degli anni Settanta, è un piccolo sogno di Villandry, il castello della Loira famoso per il suo giardino, in un luogo altamente improbabile. Ma il fatto più interessante è la sua finalità, dovendo costituire il cuore, l’anima e lo stomaco di un programma unico ed efficace che unisce gli studenti della University City High School, membri della comunità e studenti, docenti e personale della University of Pennsylvania. L’orto è piccolo, forse mezzo acro in tutto. Dopo l’inaugurazione nella primavera del 2000, ogni anno è stato ampliato con la creazione di uno spazio per coltivare frutta, verdura ed erbe, un’area per i picnic, un bordo di piante perenni e perfino servizi igienici costruiti dagli studenti. In ogni parcella di verdure, con i suoi tanti colori, ci sono i cartellini con le indicazioni dei vari prodotti; le parcelle sono ordinate, pulite e (di solito) assai fertili. L’entusiasmo e gli incoraggiamenti riversati su questo orto sono di grande aiuto per coltivare prodotti sani, e sembra quasi che riescano a proteggere le piante coltivate biologicamente dalle incursioni degli insetti, anche se gli scoiattoli paiono farsi regolarmente beffe delle fatiche umane. L’esperimento didattico da cui è nata l’idea dell’orto è non meno interessante. La Urban Nutrition Iniziative (www.urbannutrition.org) è un’iniziativa congiunta comune-università che fa capo al Center for Community Partnerships della University of Pennsylvania. La Uni sostiene una serie di programmi che impegnano gli studenti delle scuole pubbliche in corsi sulla soluzione dei problemi della comunità, a partire dai paradigmi dell’apprendimento attraverso la risoluzione dei problemi e il «service learning» (l’apprendimento attraverso attività di servizio collettive). Studenti e docenti della University of Pennsylvania lavorano accanto a studenti della University City High School e di altre tre scuole medie ed elementari locali per integrare le lezioni di orticoltura, ecologia e alimentazione con i programmi accademici e parascolastici annuali della piccola comunità Ecotech, una scuola nella scuola tematica, costituita da circa 200 studenti e otto insegnanti. Il personale dell’Uni, con gli studenti della Penn e gli insegnanti della Uchs, organizza per gli studenti corsi relativi alla soluzione dei problemi in alcune materie essenziali (scienza, studi sociali e arti linguistiche). Quindi il cibo e l’educazione alimentare sono il veicolo di uno sforzo didattico più generale in cui i giovani sono impegnati a sviluppare le loro capacità nella soluzione dei problemi all’interno della propria comunità. I programmi prevedono modelli didattici per promuovere l’interesse per la preparazione di cibi integrali e scelte alimentari sane, corsi di ginnastica collettivi e progetti di sviluppo di micro-imprese, per esempio farmers’ markets, bancarelle di frutta e verdura gestite dagli studenti e, ultimamente, l’organizzazione di una cooperativa alimentare locale. Mettendo l’accento sul cibo, il programma rafforza un approccio positivo, con lezioni interattive di orticoltura e cucina che coinvolgono
La conoscenza Gli studenti che partecipano a queste lezioni costruiscono la propria conoscenza del cibo a partire dalla sua comprensione. Questi blocchi cognitivi sfaccettati e coerenti completano le lezioni sul cibo. In breve, collegando il consumo di verdure all’educazione, il programma coinvolge gli studenti in un apprendimento attivo. Si parte dall’ipotesi che i giovani abbiano maggiori probabilità di consumare frutta e verdura se le inseriscono in un contesto globale in cui ogni prodotto è legato a una storia più ampia. Apprendendo in questo modo, gli studenti sono in grado di entrare in un supermercato o di andare in un farmers’ market identificando e utilizzando ciò che vedono e di comprendere gli elementi cruciali del sistema alimentare che porta i prodotti sul mercato in quel momento e in quel luogo. Tutto inizia e finisce nell’orto e con gli studenti. L’orto fornisce verdure per i corsi di cucina nonché per le lezioni di biologia e nutrizione. Gli studenti vendono le piante, le erbe e le verdure che hanno coltivato in un farmers’ market settimanale, il che offre lavori temporanei dopo la scuola e d’estate. Inoltre, l’orto ha trasformato il paesaggio di quest’angolo di West Philadelphia: uno spazio vuoto pieno di sporcizia adesso abbonda di fiori, alberi da frutta, aree attrezzate per i picnic e cibo. Studenti e membri della comunità ci lavorano quasi tutti i giorni dopo la scuola e spesso anche nei fine settimana. Le trasformazioni determinate da quel piccolo pezzo di terra sono di natura spaziale, didattica, personale e sociale oltre che nutrizionale. Alla domanda sulla funzione dello spazio destinato all’orto all’interno della comunità, gli interni dell’Uni rispondono che «conferisce un aspetto migliore alla comunità e fa capire che la gente di qui pensa in modo positivo e costruttivo»; «permette di mangiare cibi sani anziché roba preconfezionata e sostiene gli agricoltori locali»; «invoglia la gente a uscire, perché non c’è un orto in ogni comunità»; «è un posto tranquillo in cui ci si può rilassare». Quest’ultima caratteristica si nota nelle attività degli stessi studenti. Secondo Bruce Poulson, l’insegnante di studi sociali e storia dell’Uchs, «quando osservi gli studenti nell’orto vedi pace, lì dimenticano le preoccupazioni. L’orto e il lavoro che svolgono lì, allontanano gli altri problemi, scolastici, sociali o familiari che siano». Kyneshaa Hampton, un’interna, fa eco a questa sensazione affermando che «è divertente stare lì a lavorare e piantare qualcosa, e quando lo vedi crescere sei felice. È la tua aiuola di verdure, puoi mangiarle o venderle al farmers’ market… Proteggi il tuo orto, stare lì rende la tua vita eccitante». Jennifer Rulf, uno dei direttori dell’Uni, sottolinea i vantaggi didattici. L’uso del service learning nel contesto di un apprendimento che si basa sull’orto permette agli ideatori del programma di lavorare con gli studenti di West Philadelphia – di un’ampia fascia di età – per creare modelli di progresso della comunità ispirati e alimentati dagli stessi studenti. L’orto è «uno strumento che crea speranza per lo sviluppo della comunità: partecipando attivamente a progetti alimentari e di orticoltura che incidono sulla loro vita, questi giovani cominciano a vedere maggiori possibilità per sé e si impegnano di più nella propria educazione». Bruce Poulson sostiene che gli studenti che lavorano nell’orto sono più attenti e informati anche in aula: «Sono i miei esperti di risorse in classe, sono più seri, fanno ricerche e si esprimono, sono in grado di capire e analizzare il materiale. Il processo di cre-
che scita dei semi, il fatto di nutrire le piante e portarle fino alla maturazione e raccoglierle fa capire loro l’intero ciclo vitale e il modo in cui li influenza. Li rende consapevoli di ciò che mettono in bocca e nel corpo. E, meglio ancora, hanno maggiore rispetto per la natura e gli uni degli altri». Lakeisha Alexander, una delle interne dell’Uni, spiega che l’orto è un elemento positivo: «Ci aiuta a imparare molto sul cibo. Studiare e imparare che cos’è la nutrizione è un bene; possiamo portare nella vita quotidiana ciò che abbiamo imparato, per capire che cosa mangiamo, e possiamo anche insegnarlo ad altri». La consapevolezza Le opportunità di crescita sociale e personale sono state sottolineate da tutti gli studenti e dagli educatori. Questi ultimi sono convinti che l’orto e la responsabilità di conservarlo e far crescere le piante aprano la mente degli studenti, che accettano di più nuove esperienze, gusti e idee. «Stimola la capacità degli studenti di immaginare opportunità nuove e più positive per
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nella valutazione di fine anno, «assaggio più frutta e verdura di quante ne conoscessi… il kohlrabi (un tipo di rapa) mi ha fatto riflettere». L’ultimo passo, naturalmente, riguarda la dieta. Dopo aver passato tempo nell’orto lavorando per coltivare verdure, imparando a prepararle, servirle e mangiarle, gli studenti si trovano non solo ad alimentarsi in modo diverso, ma a pensare in modo totalmente nuovo a ciò che mangiano. Kyneshaa lo ha detto in modo chiaro: «Nella vita di tutti i giorni quello che vedi è fast food. L’orto invece aiuta molti ragazzi a pensare a quello che mangiano e a quello che fanno con il cibo. Non mangiare fast food ogni giorno, ma frutta e verdura». Lakeisha dice che l’orto ha cambiato il suo modo di alimentarsi: «ora mangio più verdura, la inserisco nei miei pasti, in ogni pasto, possibilmente tutti i giorni. Mi piace assaggiare nuove verdure e mi piace mangiarle fresche, appena colte nell’orto». Un elemento interessante venuto alla luce è che il «normale cibo quotidiano» degli studenti non prevedeva frutta e verdura, anche se le famiglie raccomandavano loro di consumare verdura. A West Philadelphia è difficile trovare verdure fresche, perché ci sono pochi supermercati o mercati ortofrutticoli e la grande maggioranza dei negozi non ne vende. Invece le catene di fast food e i take-away cinesi sono onnipresenti, sicché per molti studenti il cibo «normale» è questo. L’orto, con le attività che comporta – bancarelle di frutta e verdura, farmers’ markets in tre stagioni, educazione alimentare –, crea un
L’orto insegna sé, per la loro comunità, per il proprio futuro», afferma Rulf Poulson, e aggiunge che gli studenti cominciano a intravvedere un mondo più grande. La loro consapevolezza cresce a mano a mano che si addentrano nel programma e acquistano maggiore fiducia. «Le dinamiche sociali danno ai giovani la possibilità di prendere parte ai processi di sviluppo dell’orto». Lakeisha concorda: «Ha davvero cambiato gli studenti che lavorano con l’Uni e nell’orto. La loro mente si apre, provano cose nuove e guardano in modo diverso all’intera questione del cibo e dell’alimentazione». L’ho constatato di persona quando ho cominciato a sviluppare e insegnare (con l’aiuto di alcuni soci del convivium Slow Food di Philadelphia e di Liz Willetts, educatrice dell’Uni) il programma Urban Nutrition Iniziative/Slow Food Education nel corso di nutrizionebiologia. Gli studenti che all’inizio di settembre rifiutavano perfino di toccare i pomodori tradizionali a dicembre insistevano per assaggiare di tutto, crudo o cotto che fosse. Abbiamo studiato verdure che i ragazzi non avevano mai visto
di Janet Chrzan*
Perché una lezione di verdura è una lezione di cultura e di geografia. Come accrescere la consapevolezza di generazioni di consumatori
né mangiato prima, oltre a qualche vecchia conoscenza. In base alle disponibilità di stagione, abbiamo parlato di pomodori al culmine della maturità, ai primi di settembre, per poi passare a tomatillos, abelmosco e fagiolini fino alle specialità autunnali e invernali come zucche, cavoli e vari tipi di legumi secchi. La primavera e l’estate seguenti l’Uni ha continuato con verdure di stagione, fragole, funghi, piselli freschi, semi di soia (l’edamame è stato un successone), granturco, peperoni, zucchini ed erbe, fino a tornare ai pomodori. Ciascuna lezione sulle verdure era anche una lezione di cultura e geografia, dato che il corso prevede lo studio dell’antropologia e della storia mondiale nel quadro dell’insegnamento su cibo e alimentazione. Ho osservato tra gli studenti un evidente allargamento delle scelte alimentari, soprattutto grazie al fatto che prelevare le «loro» verdure ed erbe dall’orto permetteva loro di prendere possesso in modo positivo del cibo e di vincere la diffidenza nei confronti di nuovi prodotti commestibili. Come ha scritto un interno
ambiente di tipo nuovo. «Mia madre mi diceva sempre di mangiare verdure ma non le ho dato retta finché non ho lavorato nell’orto», ha detto uno studente. In tal modo, l’orto agisce a più livelli per migliorare l’apporto e la qualità della dieta, facendo conoscere scelte e disponibilità, uso e necessità, e mettendo a disposizione della comunità i suoi frutti. Accrescendo la consapevolezza in questa generazione di consumatori e aumentando la conoscenza dei sapori e il piacere che si prova con cibi equilibrati, sani ed ecologicamente sostenibili, l’Uni e la Uchs sperano di formare una generazione di adulti che non si considerino semplici consumatori ma partecipi e «azionisti» del sistema alimentare. Si spera che questi cittadini comprendano e facciano proprie abitudini dietetiche sane, supportando al contempo una realtà alimentare locale e sostenibile. Citando uno degli studenti di Bruce Poulson, un «esperto di risorse»: «Mi piace l’orto e anche il cibo. È stupefacente che un orto così piccolo possa fare tanto». *Slow Food
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uando si svolge un’indagine in una qualsiasi mensa scolastica per capire quali sono i cibi meno amati dai bambini, spesso viene fuori che il maggior “rifiuto” – sia nel senso di repulsione rispetto a un piatto, sia nel senso di scarto che va a finire nella pattumiera – riguarda pesce e verdura. Se ciò dipende molto sovente da una qualità dei piatti serviti poco invitante forse bisognerebbe provare a cercare il modo di far apprezzare ai bambini anche ricette a base di prodotti ittici piuttosto che cavoli e rapanelli. Magari con progetti di educazione alimentare che sappiano coinvolgere attivamente i ragazzi, rendendoli protagonisti di percorsi didattici capaci di intervenire sui loro stili alimentari e di vita. Una delle iniziative che sta dando risultati davvero formidabili è quella degli Orti in Condotta, promossa da Slow Food in tutta Italia da poco più di quattro anni e capace di creare nel tempo una rete di oltre 150 orti scolastici in ogni angolo della penisola, da Tolmezzo a Lentini, passando per Roma e di recente anche per Milano. Con queste esperienze i bambini, a scuola, hanno cominciato a prendersi cura di orti che pian piano sono cresciuti in di-
mensioni e biodiversità. È il caso di Caltanissetta, dove gli studenti delle elementari coltivano ormai un appezzamento di oltre 400 metri quadrati. E così giovanotti nati in molti casi già nel XXI secolo hanno ricominciato a imparare quanto è bassa la terra, che cosa sono la pacciamatura, le consociazioni, il sovescio e come si coltiva un orto biologico, e hanno iniziato a mangiare i pomodori e i fagiolini d’estate e i cavolfiori in inverno – e non tutto l’anno come invece li aveva abituati la grande distribuzione (e noi genitori, che da troppo tempo non facciamo più caso alla stagione di frutta e verdura). L’orto a scuola, però, in realtà spesso è solamente un
di Davide Ghirardi*
Se i bambini coltivano una rete di oltre 150 orti scolastici in ogni angolo della penisola, passando per Roma e di recente anche per Milano
Cavoli
Orti in condotta
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a pima Festa Nazionale degli Orti in Condotta si terrà l’11 novembre, proprio durante l’Estate di san Martino, ovvero quando finisce l’anno agricolo e scadono i contratti agrari, e quindi anche gli orti scolastici possono iniziare il meritato riposo invernale. Nelle scuole che hanno al loro interno un orto, l’11 novembre sarà preparata la dispensa per l’inverno con gli ortaggi raccolti, gli insegnanti organizzeranno attività didattiche di educazione alimentare e gli studenti compileranno un questionario sui loro consumi di frutta e verdura. Alla sera, poi, sotto la regia della Condotta Slow Food, gli orti saranno festeggiati con un momento conviviale a cui parteciperanno i soci della chiocciola, le comunità del cibo locali, i produttori dei Presìdi e naturalmente insegnanti, genitori, bambini e nonni ortolani.
punto di partenza: per capire un po’ meglio che cosa mangiamo e provare a cambiare qualche abitudine alimentare non proprio virtuosa. Come è successo a San Mauro Torinese, dove i bambini – leggendo l’etichetta – hanno scoperto che l’acqua minerale servita in mensa proveniva dall’Umbria: centinaia di chilometri per portare acqua in una terra ricchissima di fiumi, torrenti, sorgenti... E l’hanno fatta cambiare, quell’acqua, con buona pace della ditta appaltatrice. In alcuni casi le strade degli Orti in Condotta e della ristorazione collettiva si sono incontrate: gli ortaggi coltivati dagli scolari sono stati serviti in mensa. Che cosa c’è di strano? penserà qualcuno. Non è normale che l’orto della scuola rifornisca di verdure la mensa della scuola stessa? No, purtroppo non è normale. Anzi, la burocrazia e una lettura troppo igienistica e divietologica della normativa il più delle volte lo im-
nostri
pediscono, così come rendono complicata la vita a quei bambini che, il giorno del compleanno, vorrebbero festeggiare in classe con la torta della mamma invece che con il dolce confezionato. A Moncalieri, però, un gruppo di insegnanti e dirigenti scolastici cocciuti e creativi è riuscito a far portare in tavola le insalate e i pomodori coltivati dai bimbi della scuola dell’infanzia. Come? Inserendo nell’elenco dei fornitori della mensa anche l’orto scolastico. Filiera cortissima, insomma. L’esperienza negli orti non si è limitata a coinvolgere la scuola. Nel tempo è successo qualcosa di inaspettato se non addirittura incredibile: pian piano la comunità locale ha cominciato a incuriosirsi di ciò che stava avvenendo nei giardini delle scuole, di questo proliferare di zucche, fagioli e peperoni a pochi metri da lavagne e quaderni. Ecco allora che in molte zone, come ad esempio dalle parti di Albenga, tanti anziani – ribattezzati nonni ortolani o nonni custodi – si sono fatti avanti, hanno provato a portare in classe la loro sapienza contadina, esperienza di lavoro o ricordo dell’infanzia che fosse. E hanno incominciato a dare consigli alle maestre, hanno portato attrezzi antichi dimenticati per anni in soffitta ma ora utili per soddisfare la curiosità dei più piccoli, hanno
iniziato a dare una mano a zappare e a irrigare, soprattutto nei mesi estivi quando l’orto dà il meglio di sé ma la scuola è chiusa e l’appezzamento scolastico rischia di trasformarsi in un roveto. Agli anziani si stanno aggiungendo anche tanti genitori, curiosi di imparare i segreti dell’orto biologico o soltanto desiderosi di saperne di più per fare scelte quotidiane più consapevoli al momento della spesa. Molti nonni, genitori, insegnanti e bambini, da oggi a lunedì, a Torino potranno incontrare genitori, insegnanti, anziani che hanno vissuto la stessa esperienza in altre scuole italiane e straniere. Che incredibile occasione di scambio e di confronto: dalla semplice coltivazione di un fazzoletto di terra nel giardino della scuola a Terra Madre, l’incontro mondiale delle comunità del cibo! Negli stessi giorni, quegli stessi bambini, al Salone del Gusto saranno impegnati in laboratori didattici dove si degusta la zucca nelle sue molteplici preparazioni (dai semi caramellati alla confettura), si riconoscono giocando le differenze tra peperoni di differenti varietà, ci si sfida alla “miglior pizza quattro stagioni” (cioè la più attenta alla stagionalità e alla riduzione delle food miles, senza dimenticare un apprezzabile risultato organolettico). Per gli adulti, invece, non mancano appuntamenti specifici di confronto e scambio di esperienze: in particolare, nella giornata di domenica, alle 10 del mattino, è previsto un seminario di confronto dedicato alle comunità dell’apprendimento, seguito, nel pomeriggio, da una conferenza sulla rete degli school garden di tutto il mondo e sui progetti educativi che prevedono il cibo come sfondo integratore. *Slow Food
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urder on the Alps, Spotted D i c k , F r o g s Eyes, Squashed Flies: sono i nomi di alcuni dei piatti meno slow che si possano trovare, cibi caratteristici dei collegi anglosassoni. Dai 12 ai 17 anni ho frequentato un collegio femminile nelle campagne del Nuovo Galles del Sud, in Australia, e poiché già da tre generazioni le donne della mia famiglia studiavano in collegio, posso affermare per esperienza che si tratta di un’istituzione pessima e assolutamente non slow. L’idea è di nutrire gli studenti nel modo più economico possibile, rifornendoli al contempo di energie e carboidrati. La parola chiave era «rimpinzare», mentre il gusto non era preso in considerazione e l’odore immancabile dei cavoli bolliti ci perseguitava ogni giorno. Sventuratamente, il cibo dei collegi australiani somiglia come una goccia d’acqua a quello dei collegi britannici: una cultura alimentare ben documentata accusata da molti di aver contribuito a creare la pessima reputazione culinaria del Regno Unito. Tutti i classici dei collegi si sono fatti strada nella cultura alimentare tradizionale della Gran Bretagna e cuochi famosi come Nigella Lawson e Jamie Oliver li hanno reinventati sotto forma di «comfort food». Prodotti con ingredienti e tecniche migliori, oggi questi piatti sono di moda e sono commestibili: dallo Spotted Dick, un pan di Spagna cotto al vapore servito con una crema in polvere, al Murder on the Alps, un pudding di fecola guarnito con bacche rosse vischiose, fino allo Squashed Flies, uva passa schiacciata tra due strati di pasta, e ancora merluzzo affumicato con curry giallo e uva passa e manzo al sangue sotto sale con una salsa bianca grumosa. Come ha scritto la critica gastronomica Emily Hall sulla rivista Chow, «dentro di me associo ancora la cucina britannica al cibo del collegio, forse a causa di qualche legame letterario radicato in me tra gli orfani dickensiani e istituzioni in cui quindicenni innocenti sono costretti a mangiare manzo a fette su pane tostato». In effetti, la letteratura ha creato buona parte di questa strana cultura alimentare, dalle opere di Charles Dickens a Enid Blyton. Poiché sono cresciuta leggendo i romanzi della Blyton, quando entrai al collegio coltivavo il sogno di fantastici banchetti notturni, tavoli colmi di morbidi pasticcini bianchi, candidi panetti di burro cremoso e vasetti di marmellata per le feste serali. Descrizioni come la seguente, tratta dal
Odor di collegio
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di Sophie Herron*
Come si mangia (male) nelle scuole anglosassoni. Tra reminiscenze letterarie, seduti alla mensa del dottor Saha, gentiluomo indiano
fondamentale scritto della Blyton sul collegio, The Twins at St Clairs, avevano suscitato bramosi sogni a occhi aperti: «Perbacco! Pasticcio di maiale e torta al cioccolato, sardine e latte Nestlè, creme al cioccolato e alla menta piperita, ananas in scatola e bibita allo zenzero – questo è un banchetto!». La mia realtà, ahimè, era ben diversa. Il nostro cuoco era un gentiluomo indiano, il dottor Saha. Non avendo mai saputo in che cosa fosse dottore, molti di noi pensavano che potesse trattarsi di un diploma per la trasformazione di schifezze in qualcosa di vagamente commestibile. Di certo aveva studiato accuratamente testi quali il classico di JeanPaul Aron L’arte di riutilizzare gli avanzi, una descrizione del modo in cui, nella seconda metà dell’Ottocento, certi spregevoli ristoratori parigini usavano «un po’ di disinfettante sopra il tutto e qualche guarnizione» per mascherare cibi sfioriti da tempo: un’arte di cui tutti i cuochi di ogni istituzione sembrano essersi impadroniti. Il dottor Saha conosceva bene i classici, ma l’influenza indiana si faceva sentire nel suo piatto forte, il tandoori. Faceva «tandoori» con qualsiasi ingrediente, dal pollo al manzo all’agnello, dal coniglio alle verdure. Due e in certi casi tre volte alla settimana, sui nostri tavoli atterravano i vassoi d’argento della cena ca-
richi di fluorescenti corpi solidi arancioni. La carne era fibrosa e dura e colorata dalla pasta tandoori che rendeva arancioni anche le nostre lingue. L’altra grande creazione del dottor Saha era una versione corrotta della vanilla slice. Alquanto elegante nella forma originale – un denso strato di crema avvolto da due delicati strati di pasta – nella versione del nostro cuoco diventava una palla gelatinosa di colore giallo acceso schiacciata tra due biscotti friabili e guarnita con una glassa. Il fatto davvero tremendo è che la divoravamo fino all’ultima briciola, e questa è la cosa realmente non-slow del cibo del collegio: il modo in cui influenza l’atteggiamento verso il mangiare. Si ricavava (e ci si aspettava) ben poco piacere dal cibo, ma per essere giusti i piatti che ci servivano non suscitavano mai grandi emozioni culinarie. Mangiavamo le bistecche ai ferri, umide fette di agnello color argento, e carote quasi verdi non perché volessimo ma perché dovevamo. Le gare per stabilire quale ragazza mangiava più salsicce o pane tostato o ingurgitava più dolci rendevano interessanti le ore dei pasti. Dato che nessuno poteva alzarsi da tavola finché tutti i piatti non fossero stati ripuliti, pranzo e cena si trasformavano in una specie di corsa a chi finiva prima, in modo da potercene andare. Ma alle porte della sala
da pranzo si effettuava il controllo: gli insegnanti frugavano nelle tasche dei nostri abiti per controllare che non ci fossero fette di carne o filetti di pesce mollicci avvolti in tovaglioli per essere buttati più tardi. All’inizio di ogni pasto, dopo che la direttrice ci aveva guidato in una preghiera di ringraziamento, il dottor Saha annunciava il menù e noi, la sua clientela, aspettavamo nella speranza di sentire l’agognato annuncio, ossia che come dolce avremmo avuto il gelato. Chiedete a chiunque abbia frequentato un collegio negli ultimi cinquant’anni e vi dirà che il gelato era sempre il cibo preferito, soprattutto perché era servito direttamente dal recipiente e non veniva mai manipolato dalla «cucina»: era un cibo puro, non adulterato, «esterno». Il cibo del collegio influenza chiunque lo mangi. Mia madre, che fu mandata al collegio quando aveva sei anni, ha una grande passione per il burro, secondo lei originata dal fatto che non ne mangiava mai. Nella scuola c’erano alcune mucche da latte sull’ultimo campo sportivo, ma il latte era bevuto, non trasformato in burro. Quando mia nonna studiava nel mio stesso collegio negli anni Trenta, il cuoco non era indiano ma i suoi ricordi sono simili ai miei: dallo Spotted Dick all’abitudine di rimpinzarci in mancanza di meglio. *Slow Food
Il giorno
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uell’ombra era passata un’altra volta nel buio della mia camera nella casa di Huddersfield, Yorkshire, nel nord dell’Inghilterra. Aprii le tende, battei le palpebre e mi girai verso il comodino. Prima ci trovavo qualche camion-giocattolo, quel giorno c’era un giornalino di fumetti. Sceso per la prima colazione, appoggiai i gomiti sul tavolo e lessi il giornalino. Così facendo, infrangevo due delle tante regole imposte da mia madre. Voleva farmi diventare un “signore”. Tra me e me, giuravo che, da grande, avrei apprezzato i suoi sforzi. E così è. Quel giorno tutto era diverso, in ogni senso. Oggi lo ricordo come il “giorno della liberazione”. Mia madre non c’era, ma mio padre – l’ombra di cui parlavo – era uscito dal buio e non era andato a lavorare. Era ancora in casa, in pigiama, intento a preparare la colazione. Stava friggendo pancetta, uova e black pudding, sanguinaccio. Mentre mia madre si sarebbe offesa con me per i gomiti sul tavolo, i genitori di mio padre, che rispettavano le regole kasher, si sarebbero offesi con lui per il black pudding. Il codice di condotta di papà, assai flessibile, esercitava una nuova influenza sulla mia vita. Non ho mai seguito alcuna religione, tanto meno le connesse regole alimentari, ma il black pudding costituiva un frutto proibito per lui… e dà ancora un fremito di piacere a me. Il black pudding dello Yorkshire, beninteso, quello pieno di dadini di grasso. Oppure quello del Lancashire, lessato non fritto, oppure quello scozzese, preparato con l’aggiunta di avena. In Gran Bretagna, il black pudding è prerogativa del nord. Quando andai a vivere a Londra negli anni Sessanta, ne domandai un pezzo al droghiere sotto casa. Mi rispose con una smorfia. Se gli avessi chiesto del boudin noir, magari avrebbe capito meglio. Il “giorno della liberazione” risaliva a una dozzina di anni prima. «Dov’è la mamma?» chiesi a mio padre. «Sta preparando la valigia» rispose. «Oggi va alla maternità». Mi ero del tutto dimenticato dell’arrivo di un nuovo fratellino. Eppure i miei non facevano altro che parlarne. Quando nasce il bambino? Come mai non è ancora arrivato? A me piaceva l’idea di un fratellino. E volevo che arrivasse al più presto. Lo immaginavo già: della mia stessa età, vestito da cowboy, in testa un cappello stetson nero. Ora, di colpo, la sua nascita era imminente. I miei non avevano tempo per aspettare il tram, ma mio padre aveva parcheggiato il suo camion davanti a casa. Lavorava per un’impresa di autotrasporti: oltre a rotoli del tessuto pettinato tipico di Huddersfield, consegnava coloranti in damigiane di vetro, motori elettrici e componenti per macchinari tessili. «Questa volta forse mi tocca consegnare un bambino» scherzava. «Meno male che la mamma si trova nella contea giusta». Allora si raccontavano episodi di mariti che avevano trascinato mogli incinte attraverso il confine dal Lancashire perché il bambino si qualificasse per giocare nella squadra di cricket della contea giusta: lo Yorkshire, la più grande dell’Inghilterra e di gran lunga la più fiera. Mia madre mi abbracciò stretto e mi disse di fare il bravo bambino in sua assenza. Prima di uscire, mio padre mi promise che, al suo ritorno, mi avrebbe portato a pranzo in città, e che poi mi avrebbe fatto una sorpresa. Io mi domandai dove avremmo pranzato e che cosa avremmo mangiato. In una stradina del centro storico di Huddersfield, c’erano tre tripperie, ognuna con piastrelle alle pareti come quelle dei gabinetti pubblici, ognuna con pochi tavoli di legno ben lucidato. C’erano anche delle friggitorie art déco che servivano i magnifici fish and chips dello Yorkshire (piccoli filetti fritti in grasso di manzo): sui pochi tavoli, con tovaglie in tela cerata, campeggiavano pesanti saliere in alluminio. All’interno del mercato coperto vittoriano, infine, c’era uno snack bar – panche ricoperte di pelle consumata e tavoli in formica – che vendeva pork pies, tortini salati ripieni di carne di maiale in gelatina. La pork pie resta il trionfo culinario più legato alla mia città di Huddersfield. Se il nostro dialetto dovesse meno ai vichinghi e più ai normanni, si chiamerebbe ter-
di Michael Jackson*
Dal black pudding dello Yorkshire, pieno di dadini di grasso, a quello del Lancashire, lessato non fritto, oppure quello scozzese con l’avena...
rine de porc en gelée en croute e la sua fama sarebbe diffusa in tutto il mondo. Le mie speculazioni sul pranzo del “giorno della liberazione” non avevano previsto una tovaglia bianca con posate d’argento e cameriere vestite di nero, con mini-grembiuli senza maniche dai risvolti in pizzo. Non ero mai stato esposto a tanta classe. Il mio ricordo più forte è quello delle saliere e delle pepaiole: incisa sul fondo di esse c’era la scritta “Rubata dal Co-op Café, Huddersfield”. Non avendo avuto esperienze precedenti in materia, mi chiedevo se tutti i ristoranti dessero per scontato che i propri clienti fossero ladri. E i clienti stessi, non si offendevano? Sì, eravamo al Co-op Café. La Co-op, ovvero la Co-operative Retail Society, era uno strumento di socialismo applicato e, per quanto lesti di mano, i clienti ne erano anche i proprietari. Era stata fondata a Dewsbury, cittadina laniera dello Yorkshire, e a Rochdale, cittadina del cotoniera del Lancashire. Mio padre prese la pepaiola, tolse una piccola lente dalla tasca interna della giacca ed esaminò il marchio di garanzia. «Cosa dici se la freghiamo?» mi disse sottovoce. «Se ci hanno già condannati come ladri, tanto vale portare a casa il bottino». Pranzammo a base di brown Windsor soup, una minestra che prenderebbe il nome dalla famiglia reale britannica, manzo cotto al forno con Yorkshire pudding (sformato di uova), e jam rolypoly (rotolo alla marmellata) con crema pasticciera. Tutto era insapore, a causa, in parte, dei disagi del dopoguerra: razionamento del cibo, scarsità di materie prime, ingredienti succedanei. La carne di manzo sapeva di cartone e, anche se lo avevo laboriosamente riempito di sugo d’arrosto, il mio Yorkshire pudding rimase croccante. Secondo lo stereotipo, uno Yorkshireman, l’abitante dello Yorkshire, sa il fatto suo e dice quello che pensa. Con la schiettezza tipica della nostra contea, mio padre chiese alla donna in nero se avesse del relish. Impassibile, la donna annuì. Lo Yorkshire relish è un condimento di quelli che i britannici definiscono genericamente brown sauce, salsa bruna, ma per il quale gli americani hanno in-
ventato un’espressione più grandiosa: steak sauce, salsa per accompagnare la bistecca. Pensavamo che la cameriera ne portasse una bottiglia, ma arrivò con una salsiera. Secondo mio padre, si trattava di un’affettazione esagerata, ma ammise che la salsa aveva il sapore giusto, più robusto di quello della versione industriale. Gli raccontai del gioco che facevamo nella mensa della scuola. Si allentava il tappo della bottiglia della salsa in modo impercettibile; chi l’apriva poi annegava il proprio piatto in un mare di salsa. Il colpevole veniva picchiato con Maurice. «Chi?» domandò mio padre. Maurice era una mazza da cricket firmata da un giocatore della squadra dello Yorkshire. Il nostro professore la adoperava anche per le minime trasgressioni. Raccontai a mio padre che, a furia di essere picchiato da Maurice, mi stavo rovinando la salute mentale. Mio padre capì. Uno Yorkshireman al quale non piace il cricket è considerato un deficiente. Non che mio padre fosse un appassionato convinto. Credeva che troppo potere fosse esercitato dal cosiddetto old school tie system, la rete di solidarietà che legava i vecchi compagni di scuole private e, di fatto, formava la classe dirigente del Paese. Oggi mi rendo conto che furono la crescita di città industriali come la nostra e l’avvento delle ferrovie a rendere possibile il concetto di sport nazionale. Ma capisco anche che una élite istruita fu necessaria per stabilirne le regole. Ogni anno si disputava una partita di cricket gentlemen versus players, ovvero signori contro giocatori. La cosa mi lasciava perplesso. Ma non erano giocatori anche i signori? E sicuramente anche i giocatori erano signori? Mio padre mi spiegò che i signori erano dilettanti, i giocatori professionisti. Quando si giocava in trasferta, signori e giocatori alloggiavano in alberghi diversi, entravano allo stadio da ingressi diversi e si cambiavano in spogliatoi diversi. La distinzione era la stessa che corre tra un castellano e il suo guardiacaccia. Perfino la presentazione delle formazioni evidenziava una forma minore di apartheid. Dei dilettanti appariva il cognome con le iniziali, dei professionisti solo il cognome.
o della liberazione Imparai tante cose nel corso del “giorno della liberazione”: che la prima colazione può essere più gustosa del pranzo; che, se la preparazione e le materie prime sono buone, il piatto del povero può essere molto più appetitoso di quello dell’arrivista; che la politica è funzionale allo sport come a tutti gli altri aspetti della vita; che anche il pasto più semplice può essere valorizzato dalla buona compagnia e dalla buona conversazione. Mi auguravo che ne sarebbero seguite altre di giornate così. Il “giorno della liberazione”, le mie prime lezioni di gastronomia e di politica furono seguite da una partita dell’Huddersfield. Ora avevo un padre davvero. Stava facendo, finalmente, quello che un buon padre deve fare: portare il figlio allo stadio. Punto di vista antiquato? Sarà, ma per me fu quello un momento di metamorfosi. Allo stadio quindi. Sulla fascia destra, vantavamo uno scattista neozelandese che aveva vinto una medaglia
d’argento olimpica. Era capace di ricevere la palla nella propria metà campo e fare meta percorrendo tutta la fascia a 100 all’ora. L’ala sinistra, invece, era un australiano grosso come un toro che puntava gli avversari per mandarli a gambe in aria. Il mediano di mischia, gallese, strisciava e sgusciava attraverso la difesa avversaria senza mai perdere l’equilibrio. La terza linea centro, scozzese, perdeva sangue da una brutta ferita alla testa, ma riusciva, comunque, a intuire varchi invisibili ai compagni. Si chiamava Dave Valentine, e di lì a poco sarebbe diventato capitano della nazionale britannica. Mio padre mi ha fatto una sorpresa, ma anche un regalo: quello di una squadra di eroi, tra cui il più grande era Valentine. Nella mia fantasia, io ero Dave Valentine. E lo sono ancora. E il mio fratellino con lo stetson nero? Alla fine, è nata una sorellina. Ora ha una cinquantina d’anni. Non è mai stata una cowgirl… ma va a cavallo ogni tanto! *Slow Food
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vitare i luoghi comuni, è quasi un motto, un modo d’essere delle persone colte e curiose abituate a vivere senza pregiudizi, rapportandosi di volta in volta alla realtà mutante. Ci sono situazioni, però, in cui i luoghi comuni hanno solide fondamenta e automaticamente si trasformano in saggi consigli. Come quello che dice: mai ordinare polpette o polpettoni in una trattoria di cui non si conosca, se non biblicamente quasi, il cuoco. La ragione della storica diffidenza nei confronti della nobile polpetta – al pomodoro (al sugo, si dice a Roma), semplicemente fritta, al curry, come ricco condimento degli spaghetti e via polpettando – è legata al dubbio legittimo che nella carne tritata che ne costituisce la materia prima finiscano gli avanzi dei piatti precedenti. Fidarsi è bene... Un altro luogo comune in trattoria, che in passato ha avuto qualche giustificazione, sconsigliava l’avventore affamato dall’ordinare coniglio in qualsiasi salsa – al vino bianco, al pomodoro, in porchetta con il finocchio selvatico come ben sanno i ghiotti marchigiani - per evitare di contribuire alla degattizzazione del territorio. Oggi e nel nostro mondo è estremamente improbabile incontrare di notte nei vicoli bui dei perfidi osti muniti di sacco e armati di randello che fischiettando «più che l’onor poté il digiuno», hanno una sola religione: non dire gatto se non ce l’hai nel sacco. Così, perché mai si dovrebbe acquistare formaggio fuso? Basterebbe sapere in cosa consista il principio della fusione per evitarla, almeno a tavola. Pensate agli altoforni: dentro ci finiscono rottami di ogni genere, poi c’è la colata e quindi il metallo viene trasformato in bobine per essere utilizzato nella costruzione di automobili o di qualsiasi altra diavoleria. Ora, provate a sostituire i rottami metallici con avanzi di formaggio: alla fine del processo lavorativo, invece della bobina o degli acciai speciali tipo ThyssenKrupp avrete milioni di sottilette. La genialità dell’inventore della sottiletta sta nel fatto di aver concepito un parallelepipedo rettangolo di presunti formaggi della stessa forma del pane in cassetta. Invenzione subito copiata da chi ha ridotto del presunto prosciutto cotto nella stessa forma del parallelepipedo del latticino, nonché del pane in cassetta. Ed ecco il toast, basta una scaldata ed è pronto da mangiare. Saremo pure diffidenti, ma quando il pregiudizio sugli ingredienti base del suddetto toast viene ampiamente confermato dalle smorfie automaticamente
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Via polpettando
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espresse dal palato, allora viva il pregiudizio. Non sarebbe più ragionevole prendere due fette di pane, magari fresco e non in cassetta - dunque conservato, con quel che comporta – e tagliarsi una «sottiletta» di vera fontina e una di vero prosciutto cotto, poi mettere il tutto in un tostapane? Può darsi che questa seconda strada comporti una spesa lievemente maggiore, ma non si può avere tutto dalla vita. Persino al bar – luogo dove normalmente si consumano i toast – esiste quasi sempre un’alternativa ragionevole. E’ giusto scandalizzarsi quando si scopre che un’importante azienda alimentare utilizzava merce scaduta per produrre formaggi fusi, ma più sensato sarebbe stato evitare di cadere nella trappola, grazie a un minimo di cultura alimentare e all’ascolto di qualche saggio consiglio.
di Loris Campetti
Storie di gusto e di gusti che ci insegnano come mangiare meglio. Dai pomodori cubici passando per la forma delle sottilette e adesso del cotto
Il valore del cibo non può essere dato esclusivamente dal basso costo, e tanto meno dalla razionalizzazione imposta dal processo distributivo. Esemplare da questo punto di vista è il caso di quel produttore californiano che aveva inventato i pomodori cubici. Perché cubici? Semplice, perché in questo formato si riesce a confezionarli meglio nelle cassette, utilizzando senza sprechi tutto lo spazio del contenitore. Naturalmente quei pomodori, oltre che cubici, dovevano essere della stessa identica dimensione. Tutto il resto, qualità e gusto, era secondario. Per fortuna, siccome l’occhio vuole la sua parte, il gusto anche e, checché se ne dica, gli americani non sono tutti via di testa, della fantastica invenzione dei pomodori cubici è rimasta traccia soltanto in qualche pubblicazione sui guinness delle stronzate. Cultura alimentare vuol dire innanzitutto decidere di dedicare un po’ del proprio tempo alla ricerca e alla lavorazione del cibo. L’obiezione classica – il tempo è danaro, ho tante cose da fare durante la giornata e per fortuna esistono supermercati, discount, cibi precotti, surgelati o almeno dal formato più razionalmente coerente con le forme del frigorifero – sembrerebbe ineccepibile. In realtà è soltanto la testimonianza di quanto poco ci si voglia bene, e di come sia fallace il sistema di priorità in base alle quali impostiamo la nostra vita: essere più veloci (e andare dove?), più competitivi (e perché), più normali (quale
normalità?). L’alternativa a una vita (alimentare) imposta dagli imput del dio mercato non è necessariamente integralista, comunitaristica, nostalgicamente rivolta al passato e al mito del buon selvaggio. Il supermercato è davvero una buona invenzione, ci si trovano anche prodotti ottimi a buon prezzo, ma anche schifezze globali, prodotti cubici e asparagi in pieno autunno d’origine peruviana. Tutto sta a usarlo cum grano salis (per citare Plinio il vecchio in Naturalis Historia), senza escludere altre forme di approvvigionamento alimentare, dal mercatino rionale alla ricerca dei produttori di qualità. Facciamo un esempio: la patata di montagna è mediamente molto migliore di quelle acquistate a sacchetti al supermercato, che avranno pure il selenio ma mediamente fanno schifo. Non per questo si può pretendere che l’acquirente saggio rimasto sprovvisto del povero quanto prezioso tubero prenda l’automobile e si faccia cento chilometri sulle Alpi o sugli Appennini per comprarsi 10 chili di patate di qualità. Ci sono molti modi per trovare patate decenti. E in ogni caso, un consiglio ci sentiamo di proporlo al lettore: quando partite in automobile per un viaggio studiatevi bene il percorso: quasi certamente, lungo la strada troverete prodotti tipici di qualità, che sia l’olio della Sabina o il vino della Franciacota, le patate o la cicerchia di Colfiorito o la pasta di Gragnano. Insomma, fatevi furbi e vogliatevi bene.
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n super riso per salvare l’Africa. Si chiama Nerica, e non è un Ogm. A nome del Fara (Forum per la Ricerca Agricola in Africa), ne ha parlato a Bergamo scienza il ricercatore ghanese Sidi Sanyang, durante le settimane della rassegna, che ha chiuso i battenti il 19 ottobre. Il padre del Nerica – Nuovo riso per l’Africa - è il sierraleonese Monty Jones, direttore del Fara, un’organizzazione dell’Unione africana che agisce nell’ambito degli accordi di partenariato (Nepad) e “forma coalizioni dei maggiori gruppi di interesse nei campi della ricerca agricola e dello sviluppo”. Nel 2004, Jones è stato il primo africano ad essere insignito del prestigioso Premio mondiale per l’a-
U
limentazione perché la sua scoperta potrebbe mettere in moto una vera e propria rivoluzione alimentare. Il riso, il secondo cereale coltivato al mondo, costituisce infatti l’alimento base dei paesi africani, che dipendono dalle importazioni estere per il loro fabbisogno. Un dramma che si aggrava sempre più, visto l’incremento vertiginoso dei costi per le importazioni di cereali nei paesi più poveri, a causa delle ulteriori restrizioni imposte all’esportazione da alcuni grandi paesi esportatori. Un aumento del 56 per cento nel 20072008, secondo la Fao, e il maggior aumento lo ha fatto registrare il riso. Già a fine marzo, riso e grano costavano il doppio dell’anno precedente e inoltre, in molte regioni dell’Africa Orientale – dove sono iniziati o stanno per iniziare i raccolti 2008 - le prospettive sono assai negative. In un continente che per l’irrigazione dipende soprattutto dalla pioggia (solo il 7 per cento dei terreni è irrigato), un riso resistente alla siccità come il Nerica è dunque una vera e propria manna. Monty Jones – che ha cominciato le sue ricerche nel ’91ha scoperto che incrociando due varietà di riso, l’Oryza glaberrima, di provenienza africana, e l’Oryza sativa, importato dall’Asia, si otteneva un nuovo tipo di seme, resistente alla sic-
cità e molto ricco di proteine. In certe regioni d’Africa, l’Oryza glaberrima si coltiva da oltre 3.500 anni. Ma sulle terre africane, dure da coltivare con pochi mezzi e clima sfavorevole, quel tipo di riso ha un basso rendimento e poca resistenza. Il rendimento del Sativa è invece più alto, ma la qualità è meno resistente. Lo hanno portato dall’Asia dei viaggiatori portoghesi circa 450 anni fa e da allora ha progressivamente rimpiazzato le varietà africane coltivate in pianura. Il Nerica mette insieme il meglio delle due varietà. Sull’impiego del Nerica si è discusso molto fra le organizzazioni contadine che si battono per la sovranità alimentare del continente africano, e che sono contrarie all’utilizzo delle sementi geneticamente modi-
ficate imposte dai grandi gruppi multinazionali. Nelle sue conferenze, Monty Jones ha spiegato però di aver utilizzato una “biotecnologia di modesta entità” su due varietà della stessa specie: nient’altro che la riproduzione in laboratorio degli innesti che gli agricoltori praticano da secoli in modo naturale. E così il super riso ha passato l’esame. Dopo vari tentativi, come spesso capita ai ricercatori, l’elemento finale che ha reso completa la scoperta, è arrivato quasi per caso. Dopo un viaggio in Cina, Monty Jones ha pensato di aggiungere alle sue colture latte di cocco, e ha funzionato. La sperimentazione è cominciata nel ’97 in 17 paesi, che ora sono diventati 21: Guinea Bissau, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Gambia, Ghana, Liberia, Mali, Mauritania, Niger, Senegal, Sierra Leone, Togo… Per qualche anno, i ricercatori hanno compiuto dimostrazioni in alcuni campi e verificato i risultati presso i contadini. In seguito, basandosi sulle esperienze realizzate in Guinea Bissau e nell’Ovest della
Chicco
di super riso
Costa d’Avorio, e su un sistema messo a punto in Senegal, si è cercato di coinvolgere i coltivatori a creare un sistema comunitario di produzione e diffusione dei nuovi semi. E i risultati ottenuti dal Nerica su 200mila ettari di terreno sono tutti in positivo. In Guinea Bissau – il primo paese in cui è partita la sperimentazione – le importazioni dall’estero sarebbero già diminuite del 50 per cento. Il Nerica, infatti, ha due vantaggi: matura due volte all’anno e in meno tempo degli altri semi ed è robusto, fa fronte al clima e ai parassiti. Due caratteristiche fondamentali, in Africa. E così, per i contadini che hanno adottato il Nerica nel corso della sperimentazione, il raccolto è stato buono anche durante i periodi di siccità. Secondo i dati e le testimonianze raccolte dal Fara, illustrati al pubblico di Bergamo scienza con grafici e filmati, grazie al super riso molti contadini hanno potuto sfamare le famiglie durante tutto l’anno e anche pagare le tasse per mandare i figli a scuola. Ad aiutare le famiglie nel settore
di Geraldina Colotti
Storia di Nerica, che vuole salvare l’Africa. Matura due volte all’anno, in meno tempo degli altri semi. Ed è robusto per fare fronte al clima e ai parassiti
agricolo africano, che rappresenta il 60 per cento circa di tutta la forza lavoro (e il 20 per cento delle merci esportate e il 17 per cento del Pil) sono purtroppo infatti anche i minori. Un riso come il Nerica che matura prima, si raccoglie e si vende prima della ripresa scolare, ha perciò anche ricadute sociali importanti. Stesso discorso per quanto riguarda la manodopera agricola femminile, che caratterizza fortemente il settore. Secondo le testimonianze delle contadine della Guinea Bissau, il Nerica ha ridotto il loro tempo di lavoro e la fatica, consentendo così di piantare anche il niebé, una particolare qualità di fagiolo che viene su in due mesi e che rigenera le proprietà del terreno per altro riso. Inoltre, dicono le coltivatrici, data la robustezza del Nerica, non ci si spezza più la schiena a sradicare le erbacce, attività che prima richiedeva dal 40 al 60 per cento del tempo di lavoro complessivo necessario alla coltivazione del riso. Un chicco di riso che – dicono i ricercatori del Fara – se fosse messo a disposizione di tutta l’Africa subsahariana, produrrebbe una vera e propria rivoluzione alimentare. Ma intanto, dimostra che le risorse dell’Africa possono essere reperite e sviluppate tutte al suo interno.
22scritto&mangiato
o alla dieta! Vogliamo mangiare cose ganze!” Una piccola folla di ragazzini, obesi come i genitori che li accompagnano, sciopera contro la scuola che ha introdotto un’alimentazione più regolare: piatti meno ricchi di grassi e zuccheri, frutta fresca, e acqua sul tavolo al posto di Coca cola. Siamo a Rio Grande City, una delle ultime città del Texas prima di arrivare in Messico. Rio Grande è capoluogo della Contea di Starr, una delle più povere degli Stati uniti. L’odore di fritto annuncia la presenza di quasi tutte le catene del cibo-spazzatura: McDonald’s, Burger King, Taco Bell… Ognuna di queste espone promozioni a caratteri cubitali, difficili da ignorare per chi vive sotto la soglia di povertà come a Rio Grande City, dove abitano 11.923 persone, quasi tutte di origine messicana e in maggioranza senza permesso di soggiorno. Il 50 per cento dei ragazzi di dieci anni è obeso. Una tendenza che si riscontra già nel 24 per cento dei bambini della scuola materna. Metà della popolazione adulta soffre di diabete di tipo 2. Situazione simile nelle città del sud del Texas, punte massime di una situazione allarmante, diffusa in tutti gli Stati uniti. Negli Usa, “la pandemia di obesità” è entrata in una seconda fase, più legata alle tossicità presenti nei cibi e nell’ambiente e meno alle diete e alla ginnastica. E se non cambia nulla, “un simile sviluppo colpirà anche l’Europa e il resto del mondo”. E’ questa la tesi di Toxic, un libro inchiesta di William Reymond, edito da Nuovi Mondi. Basandosi sulla sua esperienza diretta e su diversi studi scientifici, Reymond - un giornalista francese che vive da tempo negli Stati uniti - conduce un’indagine approfondita su cibo, obesità e sofisticazioni alimentari. Oggi, dagli Stati uniti all’Europa (5,9 milioni di obesi in Francia, l’8 per
N
bino. Nella loro corsa al guadagno – scrive Reymond – le aziende hanno semplicemente cercato di impossessarsi dell’”anima” di un’intera generazione. A questo punto, dalla brillante inchiesta di Reymond - corredata di cifre, racconti e brevi incursioni storiche, economiche, politiche -, emerge la tesi inquietante: nella sua “seconda fase”, la pandemia obesità non si spiega più soltanto con l’eccesso alimentare e l’assenza di attività fisica. Entrano in campo i tanti veleni immessi nell’ambiente e i trucchi inventati dal business dell’industria alimentare: antibiotici, coloranti, pesticidi, bagni di cloro. “Ci ammaliamo non a causa della quantità di alimenti che ingurgitiamo, ma a causa della loro qualità o, più precisa-
Giovani lettori cento della popolazione in Italia, il 12 per cento in Germania, e al primo posto, Gran Bretagna e Bulgaria), i peso-forma sono ormai una minoranza. E la geografia del grasso, monitorato a tutto il 2006, si estende a zone mai colpite prima. Reymond cita una ricerca pubblicata dal British Medical Journal il 19 agosto 2006 secondo la quale “oggi più di 10 milioni di ragazzi cinesi tra i sette e i 18 anni sono obesi”. Nel 2000 erano “solo” quattro milioni… Secondo i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità – considerati però ancora al di sotto della realtà dal responsabile dell’Accademia di Scienze mediche di Pechino, Yangfenf Wu - un cinese su cinque è in sovrappeso. In Thailandia, il tasso di obesità dei giovani dai 5 ai 12 anni è “passato dal 12,2 per cento al 15,6 per cento in appena due anni”. In Polinesia, “la pandemia ha contagiato più del 60 per cento della popolazione”. Persino in Africa, dove la piaga principale è la malnutrizione, “il 20 per cento dei bambini di quattro anni, in Zambia, è obeso”. Nel 2004, un rapporto della Fao documentava come, per un meccanismo di protezione del Dna, una donna incinta malnutrita avesse maggiori probabilità di mettere al mondo figli predisposti all’obesità. A fronte di 800 milioni che soffrono la fame – dice il rapporto dell’Oms - oltre un miliardo è in sovrappeso e 300 milioni sono obesi. Paradossi della globalizzazione governata dal profitto, in cui impera il cibo “tossico”, e in cui le grandi marche cercano di accalappiare il consumatore fin da bam-
mente, a causa degli elementi tossici che accompagnano il nostro cibo quotidiano”. Attenzione, però, ad accettare l’idea che l’obesità sia semplicemente una malattia. A Washington – spiega il giornalista – l’industria farmaceutica ha investito milioni di dollari nella lobby destinata a far accettare che l’obesità sia una malattia denominata sindrome metabolica. La posta in gioco? Un business “davvero colossale” per vendere l’ennesimo farmaco che “sostiene di riuscire anche a far smettere di fumare”. Il problema, invece, è più complicato. Lo dimostra “l’incredibile mutamento degli indiani Pima”, una tribù emigrata dal Messico per insediarsi in Arizona, a pochi chilometri da Phoenix. Una riserva indiana in cui il tasso di individui che hanno un Indice di massa corporea (Imc) superioriore a 30 sfiora il 70 per cento: il doppio di quello della popolazione bianca americana. Fra i bambini Pima, la percentuale di obesi è la più alta del mondo e anche il diabete di tipo 2 è molto diffuso. Per gli studiosi che hanno osservato per 16 anni il “paradosso di Pima” – dice Reymond – l’eredità genetica degli indiani non si è adattata al nostro ambiente. Tant’è che altri discendenti dei Pima che sono rimasti nella Sierra Madre e mangiano quello che coltivano, pesano in media 20 chili di meno e non soffrono di obesità. Eppure anche i Pima dell’Arizona erano di costituzione esile fino alla fine della Seconda guerra mondiale. In seguito, il tasso di obesità è andato progressivamente aumentando, fino ad esplodere in soli
di Geraldina Colotti
Bambini in sovrappeso e donna-balena, uomini contro e pandemie. Storie e paradossi della globalizzazione raccontati da alcuni libri
trent’anni. Vanno nella direzione di questa tesi anche gli studi dello scienziato George Bray, che dichiara: “Se l’obesità fosse facilmente controllabile attraverso la limitazione dell’apporto calorico e un’attività fisica regolare, l’esercito americano non dovrebbe congedare ogni anno 5.000 dei suoi soldati per aver oltrepassato i limiti di peso”. Bombe umanitarie fuori registro? Una ragione di più per disertare… Un bel volume per ragazzi, tradotto dal francese, e pubblicato dall’Ippocampo junior, fotografa “la terra dal cielo” e mostra la provenienza del cibo e come preservarlo. S’intitola La nostra Terra vivente. Le splendide fotografie, prese dall’alto, sono di Yann Arthus-Bertrand, i testi di Isabelle Delannoy, le illustrazioni, di David Guraudon. Ampie e colorate sezioni, ricche di dati, cartine e proiezioni, sono dedicate a come nutrirsi, alle agricolture nel mondo, ai veleni nel piatto. Il “problema della carne” è presentato in termini chiari: il numero degli abitanti sulla terra è raddoppiato nel giro di cinquant’anni, mentre il consumo della carne – soprattutto nei paesi ricchi - è aumentato di cinque volte. Perciò sono aumentate anche le emissioni di gas serra, prodotte per il 18 per cento dagli allevamenti. E così, grandi quantità di cereali che potrebbero servire a sfamare le popolazioni denutrite, vengono destinate all’alimentazione animale. E per di più gli animali da macello troppo spesso vengono tenuti in pessime condizioni. Troppa car-
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la cucina all’uso dei mezzi pubblici o del denaro”. Un agnellino compare invece sulla copertina di Vegagenda 2009, ma non è da mangiare. Nella filosofia vegana, la rilevanza etica dell’alimentazione e la responsabilità ecologica vengono messe in primo piano, non si consuma carne né uova, né formaggi. In compenso, l’agenda propone facili ricette vegane in cui l’impiego di proteine vegetali funziona altrettanto bene, come dimostrano i quattro menù completi (e appetitosi) per ogni occasione: fusion, single, conviviale, per tutte le stagioni. Uova e formaggi sono invece inclusi nell’ampia scelta di ricette vegetariane proposte nel volume VegPyramid, di Luciana Baroni, edito, insieme a Vegagenda dalle edizioni Sonda e con una presentazione di Umberto Veronesi. La prima parte del volume mostra quanto ci guadagna in salute chi adotta una dieta vegetariana, a fronte dell’obesità crescente e delle malattie correlate.L’ultima parte, contiene vari menù per mettersi a dieta e tornare a nutrirsi, come faceva il nostro antenato orango, di cereali e vegetali. “Mangiamo?”, chiese Max. “Dopo i video che mi hai fatto vedere ieri non ho più tanta fame”, risponde Dan. I video in questione mostravano le atrocità compiute sugli animali da pelliccia e su quelli destinati al cibo di lusso. Al ristorante, i due ordinano solo “frutta e panini”, perché sono due convinti animalisti iscritti al Peta (che sta per People for Ethical Treatment of the Animals). Uno è Dan Mathews, che racconta l’episodio in Committed, autobiografia di un guastafesfe, edito da Arcana. Un’immersione esilarante nell’attivismo animalista e nelle sue memorabili battaglie per la dignità degli animali. Un viaggio di formazione del protagonista deriso e perseguitato da piccolo a causa della
i, fate qualcosa ne, infine, fa male alla salute, favorisce “le malattie cardiovascolari, l’obesità e anche certi tipi di cancro”. Un altro capitolo è dedicato agli oceani, alla pesca o a come “coltivare il mare”. Non soffrono di obesità quelle persone che nei paesi in via di sviluppo dipendono dalla pesca per guadagnarsi da vivere e garantirsi un minimo di sicurezza alimentare. Quasi 200 milioni di persone vivono della pesca, che è fonte di proteine di ottima qualità e a buon mercato. In Thailandia o in Senegal, il pesce viene spesso essiccato, mentre i molluschi vengono raccolti sulla spiaggia durante la bassa marea. Ma quanti ragazzi sanno che “i pesci degli abissi sono più vecchi di mia nonna”? Il pesce specchio atlantico, il granatiere e il pesce sciabola – esemplari molto delicati e “dai ritmi lentissimi” – quando arrivano nel piatto possono avere più di cento anni. Però alcune specie vanno scomparendo. Come mai? E cosa si può fare? “Dobbiamo trovare un altro modo di vivere” – scrive ArthusBertrand nell’introduzione, e mostra ai ragazzi “le immense ineguaglianze” e le differenze di condizione esistenti fra gli uomini nei diversi luoghi del pianeta: “Sono sicuro – dice al giovane lettore – che avrai voglia di fare qualcosa anche tu, tra qualche tempo, o forse subito”. Ma come insegnare ai bambini a riconoscere le proprie emozioni e a metterle in gioco nelle relazioni senza calpestare gli altri o annullare se stessi? Preziosi suggerimenti arrivano dal libro di
Alberto Pellai, Ricciocapriccio e Bettaperfetta, edito da Erickson. Una favola illustrata da Umberto Rigotti, con Cd audio allegato e consigli educativi. Per cominciare, Michele deve smetterla di comportarsi come un piccolo imperatore: i genitori gli portano una spremuta d’arancio e lui la vuole di mandarino. Gli servono un gelato al limone e ne chiede uno alla fragola. La mamma corre avanti e indietro dalla cucina e lui continua a fare i capricci. E sua sorella Elisabetta, che invece mangia tutto quello che la mamma le mette nel piatto, è sempre buona “come un bignè alla panna” e precisa “come un orologio svizzero”, non deve accontentare sempre tutti… Sempre da Erickson, Coltelli e fornelli, di Anna Contardi e Daniele Castignani. Un originale libro di ricette e consigli dedicato ai ragazzi con sindrome di Down, ma utilissimo anche per chi voglia utilizzare la cucina come strumento di apprendimento. Ogni attrezzo viene illustrato e spiegato in modo semplice ed efficace, ogni avvertenza evidenziata con colori diversi. Vi si trovano piatti gustosi, come le Farfalle con ricotta, la polenta con salsicce e spuntature, le melanzane alla parmigiana… E in allegato, una guida rivolta a educatori e famiglie su come utilizzare al meglio questo primo volume della collana Laboratori per le autonomie, coordinata da Contardi e Castignani. Il progetto, promosso dall’Aipd, Associazione persone Down, si propone “di affrontare temi utili nella gestione della vita quotidiana: dal-
ciccia e della sua omosessualità - verso la libertà dal grasso e dalle sue paure. E così, abolita la carne, venti chili dopo, eccolo imperversare tra Roma, Parigi e Vienna. Tra un “gustoso caffè viennese” e una Sachertorte “neppure lontanamente allettante come le ciambelle di Krispy kreme e fragole”, Dan conquisterà alla causa noti musicisti, filantropi e drag queen, e persino lo stilista Kalvin Klein. Un “guastafeste” dei quartieri poveri in cerca di una causa “persa” in cui spendere e far risplendere la propria diversità. Il ragazzo l’ha lasciata di fronte al ristorante di hamburger: “visto che sei così grassa – le ha detto – preferirai di certo mangiare piuttosto che ballare”. Vicino a quel “sudicio fast food” di fronte al mare, Rebeca capisce di essere stata vittima di uno scherzo cattivo. E l’umiliazione per lei non è ancora finita…Rebeca è la protagonista del romanzo Il sussurro della donna balena, dello scrittore peruviano Alfonso Cueto, edito da Cavallo di ferro. Una storia crudele, ambientata a Lima, dove aleggia il profumo di chicharrones, il piatto tipico di carne di maiale, cucinato in acqua e grasso e con tutta la pelle. La storia dell’amicizia fra una ragazza brutta e grassa, che si rimpinza di pasticcini, emarginata da tutti fin dall’infanzia, e un’altra ragazza bella a cui la vita sembra aver regalato tutto. Si ritrovano dopo vent’anni. Ma la vita – sussurra la donna-balena – “non è che una somma di casualità e bisogna aspettare che arrivino quelle a nostro vantaggio…”