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MONDI NUOVI Consumare meno e risparmiare di pi첫 ai tempi di una crisi extra large. Dal petrolio al gas alle FONTI rinnovabili, un vademecum per tentare di guardare lontano
OTTOBRE 2008
Supplemento al numero odierno de il manifesto
Meno consumi, la lunga marcia
[GUGLIELMO RAGOZZINO]
Come migliorare davvero la quantità di energia necessaria, nel senso di ridurla. Consigli per un uso responsabile in tempi di crisi
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consumi energetici in Italia sono distribuiti su tre settori che più o meno si equivalgono, pur con caratteristiche e necessità specifiche assai diverse: industria, usi civili in senso lato e trasporti. Del tutto comprensibilmente il problema di risparmiare energia non può che tenere conto della diversa offerta energetica e applicarsi ad essa servendosi delle tecnologie appropriate; con scienza e coscienza, per dirla con altre parole.
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Ciascuno dei tre settori sperpera energia; e con qualche accorgimento nella domanda da parte di persone e imprese coinvolte e nell’offerta di merci e servizi da altre persone e altre imprese, si può migliorare in larga misura la quantità di energia necessaria, nel senso di ridurla. Questo va specificato,perché a volte l’atteggiamento di una parte dell’industria energetica nazionale sembra l’opposto. Sembra che non si debba apprendere tutti insieme come risparmiare petrolio e gas serra, ma piuttosto disporre di energia in quantitativi massicci e crescenti per superare senza pensieri molesti ogni eventualità di blackout nei giorni di picco nella richiesta di chilowatt da parte della rete. Il risultato è un parco elettrico che supera di gran lunga (oltre un terzo) i livelli massimi raggiunti di domanda. Si può pensare a ogni buon conto che il 20% di riduzione nei consumi previsto per il 2020 dall’Europa non sia un obiettivo irraggiungibile… In altre parole, è possibile risparmiare una parte considerevole dell’energia ritenuta necessaria, purché si accetti un fine condiviso tra tutti i cittadini, tutte le imprese e tutti i sistemi pubblici, locali e centrali. Si guardi il caso dei trasporti. Una volta inteso che i trasporti consumano principalmente petrolio, mettendo il risparmio al primo posto nella concezione del mezzo di trasporto, è possibile migliorarne l’efficienza, modificarne le caratteristiche, il peso, la forma, i carburanti da usare, le strade; inoltre non guasterebbe limitare l’uso dei mezzi privati, sviluppare un uso collettivo come il car pooling o il car sharing; tutto questo mantenendo immutata la funzione del mezzo. Poi si può scegliere la via di una tecno-
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logia diversa, con mezzi di trasporto a propulsione elettrica o un criterio di vita diverso con mezzi di trasporto prevalentemente pubblici e per i lunghi percorsi su ferro, con città e mercati non più dipendenti dall’auto e disegnati per renderla indispensabile. Analogamente si può intervenire sugli usi civili, costruire edifici e quartieri autosufficienti o quasi da un punto di vista energetico e quindi rifornirli di materiali costruttivi e macchinari capaci di ridurre il caldo e il freddo nelle abitazioni e egli altri spazi chiusi. Altrove si raggiungono risultati importanti. Occorre imparare le modalità di una domanda e di un’offerta indirizzate a un diverso modo di costruire e svolgere la manutenzione degli edifici. Alla crisi energetica degli anni ’70, la più interessante delle risposte italiane è stata una riconversione dell’industria che ne ha fatto quella più avanzata nel rapporto tra energia necessaria e prodotto interno. Ma poi il paese si è fermato. «L’Italia ha un’Intensità Energetica totale tra le più basse in Europa, ma, diversamente dal resto dei Paesi Ue, dal 1990 ad oggi, a livello generale, non ha fatto registrare grandi miglioramenti». Così l’Enea (Ente per le nuove tecnologie, l’energia e l’ambiente) in uno studio svolto in collaborazione con i ricercatori francesi di Edeme e presentato nel febbraio del 2008. Ma l’Enea prosegue: «Nel settore Industriale l’Intensità Energetica è aumentata complessivamente di circa lo 0,3% medio annuo dal 1990, con un picco negli ultimi quattro anni, anche per effetto dei cambiamenti strutturali intervenuti; è diminuita pertanto l’Efficienza Energetica, con una tendenza alla stabilizzazione negli ultimi anni, mentre in molti Paesi Ue si assiste ad evidenti e spiccati miglioramenti. Nel settore residenziale l’Efficienza Energetica è leggermente migliorata dal 1990 ad oggi, con un tasso medio annuo dello 0,7%, al di sotto del miglioramento avutosi per la Ue-15. Nel settore dei Trasporti l’Efficienza Energetica è migliorata solo dello 0,3% medio annuo, tenuto conto che i consumi energetici dal 1990 ad oggi sono aumentati in tutti i Paesi Ue, pur con un miglioramento globale dell’efficienza energetica pari allo 0,7% medio annuo”.
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L’obiettivo europeo del .20/20//20 con scadenza 2020 non piace al governo italiano e neppure agli industriali. Anzi, il ministro per le politiche europee Andrea Ronchi si muove per l’Europa, in compagnia della presidente di Confindustria Emma Marcegaglia per strappare all’Europa dilazioni e sconti nei tagli. Senza essere due maestri di pensiero, i due personaggi rappresentano con molta probabilità un’opinione assai diffusa tra i decisori nazionali o meglio tra coloro che hanno voce in capitolo. I tre 20 della formula indicano alla scadenza del 2020, un taglio del venti per cento nelle emissioni di gas di serra, cioè in sostanza di anidride carbonica; una partecipazione del venti per cento di energie rinnovabili su tutte le energie utilizzate; infine una riduzione del venti per cento nell’uso di energia, sulla base dei consumi e delle emissioni dell’anno. E mentre il governo italiano vuole rallentare tutto e punta a farlo nella prossima riunione del consiglio europeo prevista per il 17 ottobre, l’Europa accelera e si propone di aumentare i tagli nelle emissioni, portandoli al 30%, sempre che gli altri grandi paesi inquinatori del mondo, avanzati o arretrati che siano, si decidano anch’essi a porre un limite al proprio inquinamento. L’Europa, insomma, chiede ai paesi del mondo uno sforzo comune. Secondo il governo italiano, così come per la Confindustria, l’applicazione della direttiva europea su energia e clima costerebbe alle industrie italiane tra i 20 e i 30 miliardi di euro l’anno. «Ma secondo quali stime? Perché il governo non rende pubblici i dati alla base di questi calcoli? I numeri forniti dalla commissione Ue sono altri e assolutamente differenti da quelli sparati dal governo in questi giorni», sostiene Edoardo Zanchini, responsabile Energia di Legambiente. Il ministero dell’ambiente, assai piccato, ha tirato fuori suoi dati, suffragati dall’istituto specializzato di Bologna Rie (ricerche industriali ed energetiche) di Alberto Clô che indica 23 miliardi (che potrebbero arrivare a 27). Affinché la popolazione, che evidentemente conosce solo i numeri che finiscono con lo zero non si senta ingannata, il ministero dà una valutazione «da 20 a 30 miliardi», contro gli 8 che per «la Commissione europea … l’adeguamento alla direttiva costerà all’Italia» sempre secondo Zanchini, «senza contare i vantaggi in termini di riduzioni delle importazioni e di risparmio rispetto alle attuali spese per i danni da inquinamento, oltre ai benefici relativi all’efficienza e all’ammodernamento industriale». In primavera, in Italia, non è cambiato solo il governo con relativa maggioranza e personale politico di primo e secondo rango. E’cambiata anche la Confindustria. Ci si domanda a volte cosa venga prima e cosa dopo, quale sia la causa e quale l’effetto. Nel caso in esame è stato il governo atteso, espressione della volontà politica del paese e della
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legge maggioritaria, a influire sulla scelta della leadership confindustriale, oppure è stata la rottura dell’antica alleanza tra la Confindustria di Luca Cordero di Montezemolo e il duo Prodi-Bersani a spingere il paese forte verso il governo Berlusconi? E’ certo che l’industria pesante odierna (cemento, siderurgia, centrali elettriche, raffinerie, petrolchimica) ha chiesto di rivedere la partita delle emissioni, delle rinnovabili, del risparmio, non accontentandosi più dei certificati bianchi e verdi. Così nel giro di pochi mesi il governo ha accontentato uno strato sensibile del suo elettorato di riferimento, cancellando gli indirizzi precedenti. Gran parte di essi si ritrovavano nella «lenzuolata», come amava chiamare i suoi decreti il ministro Pierluigi Bersani, sul risparmio e sulle rinnovabili che è apparsa e scomparsa in un tempo molto breve. Il decreto Bersani si presentava così: «Risparmiare energia e puntare sulle rinnovabili / due necessità che si trasformano in occasione di sviluppo industriale e /crescita per l’Italia (con) vantaggio economico per i cittadini».Tale titolo aveva anche un occhiello: «Vincere la sfida del clima e dare sicurezza energetica al paese». Due gli argomenti trattati: incremento della domanda di prodotti che consentono di risparmiare energia e ridurre l’impatto ambientale e d’altra parte sviluppo dell’offerta con una forte industria italiana del settore. Travolto Bersani, il suo governo, l’industria che confidava in lui, del progetto è rimasto soltanto l’involucro. Un compito affidato all’Enea che avrebbe dovuto dirigere tanto la domanda di prodotti capaci di risparmio energetico che l’auspicata offerta da parte dell’industria nazionale. Il nuovo governo aveva infatti una patata bollente come un decreto che fissava presso l’Enea un’agenzia ad hoc. La brillante soluzione è stata quella di varare il decreto 115 del 30 maggio 2008, ma privando la neonata agenzia di ogni capacità di spesa e affidandole quindi solo il compito di controllo e registrazione tecnica dei certificati da scontare presso l’autorità dell’energia. Nessun compito di ulteriore ricerca avanzata o pratico-operativa. E il 20/20/20 obiettivo 2020 è sempre più lontano.
direttore responsabile Sandro Medici Via A. Bargoni, 8 00153 Roma tel. 06687191 www.ilmanifesto.it
I più sostenibili del mondo Nell’Annual review 2008 stilato ogni dodici mesi dal Dow Jones Sustainability Index, primo indice borsistico mondiale di valutazione della responsabilità sociale delle imprese, l’Eni è risultata la prima compagnia a livello mondiale in termini di sostenibilità nel settore petrolio e gas. La compagnia italiana era entrata nell’Index nel settembre del 2007 sulla base di un buon giudizio di accessibilità da parte del tre società che lo curano, Sam, Dow Jones e Stoxx. Nel prossimo Annual review entreranno 30 nuove compagnie e 25 verranno eliminate, portando il numero delle aziende prese in esame dalle attuali 312 a 320.
direttori Mariuccia Ciotta Gabriele Polo supplemento a cura di Francesco Paternò progetto grafico e impaginazione ab&c grafica e multimedia Via A. Bargoni, 8 00153 Roma tel.0668308613 www.ab-c.it pubblicità poster srl Via A. Bargoni, 78 00153 Roma tel.0668896911 www.poster-pr.it
Risparmiare A è giusto oltre un anno dalla liberalizzazione del mercato domestico italiano dell’energia (1 luglio 2007), dalle compagnie fornitrici fioccano offerte e iniziative all’insegna di risparmio energetico, sostenibilità ambientale e «consumo intelligente». Da un lato c’è il pacchetto energia varato dall’Ue lo scorso 23 gennaio, che stabilisce di raggiungere l’obiettivo cosiddetto del 20-20-20: entro il 2020, ridurre del 20% le emissioni di gas serra (rispetto ai livelli del 1990), aumentare fino al 20% la quota di energie rinnovabili nel consumo totale di energia e portare al 20% l’efficienza energetica. Dall’altro, l’alternativa delle fonti «rinnovabili» come acqua, vento, sole, biogas e biomasse (contrapposte a quelle fossili, petrolio, carbone, gas o uranio, con tempi di formazione molto più lunghi del consumo e riserve non inesauribili), rappresenta anche una chance per ridurre i costi dell’energia, a fronte dei continui rialzi del prezzo del petrolio. Un terreno di battaglia per le aziende che competono in una fetta di mercato di 3 milioni e 700mila clienti in Italia per incalzare i 32 milioni e 400mila rimasti ancorati al «servizio di maggior tutela», il regime stabilito dall’autorità che trimestralmente aggiorna le tariffe per chi è rimasto legato al vecchio operatore (e che, col regime combinato che mantiene anche le «fossili», è più soggetto agli aumenti, 15,5% in più nell’ultimo anno). L’adesione al sistema di certificazione internazionale Resc (Renewable energy certificate system), che garantisce appunto l’impiego di energia «verde» è diventato così un must per i fornitori, così come le convenzioni con Legambiente, le campagne per la riduzione dei consumi e le offerte di energia «a prezzo bloccato». Particolarmente sensibile a queste tematiche, tra i big dell’energia, è l’Eni, ospite recente di Zero emission, il grande meeting internazionale tenutosi ai primi di ottobre a Roma e dedicato proprio all’energia rinnovabile e all’ambiente. La compagnia ha lanciato già da un anno e mezzo la campagna di efficienza energetica «30 percento», un vademecum di 24 consigli sull’utilizzo responsabile di elettrodomestici e automobili che, applicati, ridurrebbero i consumi di una famiglia tipo del 30%, corripondente - secondo le stime - a un risparmio di 1600 euro l’anno e, se applicati da tutti, alla metà del deficit italiano annuo rispetto ai parametri di Kyoto. Novità di quest’anno è invece l’offerta dual «10conte» per il mercato domestico, rivolta a chi sceglie gas ed elettricità Eni, a cui sarà garantito uno sconto del 10% sulla componente energia del prezzo dell’elettricità (il prezzo dell’energia corrisponde a circa il 6065% della bolletta). Sempre l’Eni ha avviato inoltre una serie di progetti di ricerca con il Massachussets institute of technology (Mit), tra cui uno finalizzato allo sviluppo di tecnologie solari avanzate. Passando invece all’Enel, che con 2 milioni e 700mila clienti tra partite iva (1 milione e mezzo) e famiglie (un milione e 200mila) è la maggiore delle sorelle dell’energia in Italia, si può avere la «pulita» pagando due euro al mese in più; mentre con l’offerta «elight» viene premiato con prezzo fisso per due anni (9,3 centesimi/kilowatt) sia chi consuma
stampa Sigraf srl Via Redipuglia, 77 Treviglio [BG] tel.0363300330 chiuso in redazione: 10 ottobre 2008
[Andrea Cangemii]
di meno, che chi sottoscrive la bolletta online (ogni bolletta cartacea risparmiata evita l’emissione di oltre 150 grammi di Co2). Secondo l’azienda, questi clienti «vedono oggi un risparmio del 26% rispetto alla tariffa attuale». Ma c’è anche un nuovo piano di crescita Enel che «prevede 4 miliardi di euro di nuovi investimenti nei prossimi 5 anni – dichiara l’amministratore delegato Fulvio Conti - destinati in gran parte ad aumentare di 1700 MW gli impianti per le rinnovabili, oltre che allo sviluppo di tecnologie – continua l’ad - per ridurre l’emissione della Co2 delle centrali, fino alla realizzazione, entro il 2020, di impianti ad emissione zero». La «220», con l’offerta «Fiorespina» promette energia verde per la casa «economica, certificata e a prezzo fisso per due anni», e precisa: «Il kWh più ecologico rimane sempre quello che non si consuma». La A2A dedica invece tre offerte ai clienti non domestici e punta su quelle aziende «che vogliono contribuire alla salvaguardia dell’ambiente acquistando energia prodotta da fonti rinnovabili». C’è poi la Edison, che ha lanciato insieme a Legambiente la campagna «Kyoto anch’io - La scuola amica del clima» che premierà, oltre alle classi che avranno realizzato buone pratiche di educazione al risparmio energetico, anche le scuole che attraverso interventi di tipo strutturale, organizzativo ed educativo avranno ridotto le emissioni dei gas serra dell’istituto.
Famiglie di tutto il mondo unitevi. Consigli operativi per ridurre le spese da energia, tra offerte e speranze. Le campagne dell’Eni e degli altri
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I primi 10 paesi al mondo per consumo di petrolio
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l declino dell’Occidente – ormai evidente con l’implosione della crisi finanziaria - è misurabile con criteri obiettivi. E di tutti i «marcatori» utilizzabili, il più attendibile resta il consumo energetico. Qui non è infatti possibile barare, perché per esempio agricoltura e industria “pesano” molto di più dei consumi individuali. E in ogni caso si tratta di consumi «sistemici», dipendenti da una determinata organizzazione sociale (stili di vita, struttura dei servizi, ecc) molto più che dalla somma delle abitudini individuali. Il 50% degli attuali consumi petroliferi sono assorbiti dai trasporti; soprattutto da quelli industriali o pubblici. A questo livello o si cambiano le politiche strutturali che regolano il modo di produrre (filiere corte, ecc), oppure si sfiora appena la superficie del problema. L’unica complicazione viene dalle «stime» sui consumi prossimi futuri, perché una cosa è confrontarsi sul «certo» - quello che ci sta alle spalle – tutt’altra sulle «previsioni», incerte e continuamente riviste. Non sfugge a questa legge neppure il rapporto dell’International Energy Agency, che getta luce su due processi che avvengono nell’identico tempo, ma secondo dinamiche differenti. Il processo fondamentale viaggia a cavallo della relazione esistente tra produzione (estrazione di petrolio, gas, carbone, ecc, detta anche offerta) e domanda di risorse energetiche. Determinante per l’andamento dei prezzi è la capacità produttiva di riserva o potenziale, la cosiddetta spare capacity, ovvero la possibilità di compensare picchi improvvisi di domanda
Fonte: ENI – WORLD OIL GAS REVIEW 2008
I primi 10 paesi al mondo per importazione di petrolio
Fonte: ENI – WORLD OIL GAS REVIEW 2008
o crolli locali di produzione dovuti a eventi politici (l’invasione dell’Iraq, per dirne uno). Minore è questa capacità, maggiore è la volatilità dei prezzi, con prevalenza della tensione all’aumento. E già questa è una prova del fatto che la dinamica tra domanda e offerta di energia si gioca ormai sul «margine», svuotando tutte le promesse di «decenni di disponibilità» senza problemi. Anche perché diventa necessario produrre ogni anno 3,5 milioni di barili al giorno di petrolio «nuovo» (proveniente da pozzi prima neppure aperti) in sostituzione di quello in esaurimento. Qui la situazione viene descritta come «tesa» almeno fino al 2013, quando dovrebbero entrare in produzione nuovi giacimenti su cui si stanno facendo importanti investimenti. Si tratta però di impianti collocati in zone estreme (per condizioni climatiche, profondità marine o terrestri, ecc), che forniranno un greggio comunque più costoso, anche se spesso di bassa qualità. Il secondo processo descrive invece il declino occidentale. I
Basilicata, sopra e sotto In Basilicata il petrolio è stato trovato nel 1988 ed estratto dieci anni dopo, a seimila metri di profondità. L’Eni è giunta per prima, poi sono arrivati altri operatori, in un rapporto a volte difficile con chi vive nella regione ma instaurando comunque un dialogo. Negli anni il colosso petrolifero ha stabilizzato un confronto con le comunità locali sul modello di relazioni da tenere sul territorio in cui opera. Partendo proprio da Calvello e Abriola, definiti «comuni polvere» del Mezzogiorno d’Italia, per poi allargare l’esperienza ad altri «comuni polvere» del resto del mondo dove i suoi pozzi sono presenti. La sfida sta in un progetto che ha come obiettivo la promozione di uno sviluppo sostenibile utilizzando le risorse naturali e culturali per creare opportunità di crescita in tutte le filiere produttive, sociali e dei servizi. Un percorso comune, tutto da verificare.
Consumi e tendenze per l’oro nero. Il declino occidentale, dove la richiesta è stagnante o in moderata riduzione, e la richiesta di paesi come India e Cina
Sull’ottovolante del petrolio
[Francesco Piccioni]
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caucaso, la guerra di dipendenza [Astrit Dakli]
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consumi dei paesi industrializzati «storici» sono infatti stagnanti o in moderata riduzione. Confermata l’ancora bassa incidenza delle politiche miranti a sviluppare l’efficienza energetica, la contrazione riflette soprattutto il forte incremento dei prezzi dal 2002 a oggi (periodo in cui il greggio è passato dai 20 ai 100 dollari al barile, con un picco di 147 nel corso di quest’anno). Nei primi sei mesi di quest’anno gli Stati uniti hanno consumato tra i 600 e i 900mila barili al giorno in meno rispetto al 2007. Mentre India e Cina, insieme, ha aumentato la rischiesta di oltre 500mila barili. La recessione ha cominciato a farsi sentire soprattutto nel terzo trimestre, quindi questo calo è imputabile soprattutto all’alto prezzo. Una conferma, volendo, la si può trovare dalla crisi di vendite di Suv e dalla contemporanea eslosione delle vendite di ciclomotori (Piaggio, +86% negli Usa); ma anche dall’improvviso incremento dei viaggi in treno (+12% nello stesso periodo). Nei paesi emergenti, dunque, un prezzo dell’energia più alto incide meno sui consumi; probabilmente perché molto minore è il peso dei trasporti privato. Ma è chiaro anche che se la Cina da sola dovesse arrivare al consumo pro capite della Corea del Sud la produzione globale di greggio dovrebbe salire di 10 milioni di barili al giorno. Semplicemente impensabile. E qui torniamo al problema dei limiti della capacità estrattiva. I paesi non-Opec da oltre 12 mesi sono costretti a diminuire la produzione (-0,4 mbg) e solo lo sforzo estremo dell’Opec (+1,69 mbg) Arabia Saudita, soprattutto ha permesso di compensare questa perdita e far diminuire il prezzo. La recessione, se ci fosse una razionalità globale, sarebbe addirittura l’occasione perfetta per modificare il modello.
opo la guerra d’agosto fra Georgia e Russia – e prima che esplodesse in modo aperto l’attuale spaventosa crisi finanziaria globale – la maggior parte dei leader europei e americani affermava con enfasi, come cosa da attuare subito, la necessità assoluta di diversificare le fonti di approvvigionamento energetico dei paesi dell’Unione europea, per ridurre significativamente la dipendenza dalle forniture russe di petrolio e soprattutto di gas. Una diversificazione da più parti indicata come «strategicamente vitale», «compito prioritario» e via dicendo. Passi concreti, però, non ne sono stati compiuti. Non solo, ma le poche novità emerse nelle settimane post-guerra vanno tutte in senso esattamente inverso, in direzione di una dipendenza sempre più grande dall’energia made in Russia: anche la recessione mondiale provocata dal crack di Wall Street indurrà un calo della bolletta energetica legato a un minor consumo, ma non cambierà il livello di dipendenza dal fornitore principale, rendendo al contrario più complicate le possibili alternative. In pratica, la guerra e la crisi hanno fatto crollare in via pressoché definitiva tutti i maxiprogetti relativi all’utilizzo di gas e petrolio provenienti dai paesi ex-sovietici del Caucaso (Azerbaigian) e dell’Asia centrale (Kazakhstan e Turkmenistan), in particolare tutti i progetti per far arrivare quel gas e quel petrolio senza passare dal territorio – e dunque dal controllo – della Russia. Di tali progetti resta in piedi soltanto quello già operante, cioè l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan, che porta il greggio dell’Azerbaigian fino a un terminale turco affacciato sul Mediterraneo orientale: un oleodotto che
Europa e Russia dopo il conflitto in Georgia che ha spazzato via tutti i progetti per l’utilizzo di gas e petrolio provenienti dai paesi ex-sovietici e dell’Asia centrale peraltro non basta nemmeno al transito del petrolio azero, figurarsi per quello, potenzialmente assai più rilevante, del Kazakhstan. E non si parla proprio del gas. Le altre costosissime pipelines progettate, come l’oleodotto transcaspico (dai campi petroliferi kazakhi all’Azerbaigian), il gasdotto pure transcaspico dal Turkmenistan a Baku, il gasdotto Nabucco (attraverso la Georgia e poi via Mar Nero fino in Bulgaria) sono praticamente tutte morte. La stessa Bp, capofila del progetto Nabucco, sembra orientata ad abbandonare la sua creatura; il governo del Kazakhstan ha annunciato di non essere più interessato alla costruzione del terminale petrolifero e della raffineria di Poti, in Georgia. Inoltre, poco prima dello scoppio del conflitto, il colosso energetico russo Gazprom aveva stipulato una serie di contratti per l’acquisto in blocco, a prezzi assai vantaggiosi per i venditori, del gas turkmeno e di quello kazakho. Dunque dall’Asia centrale le strade per approvvigionamenti alternativi all’Europa appaiono ormai tutte chiuse.
Gli altri fornitori di gas alternativi per l’Unione europea non sono in grado di sostituirsi alla Russia, o non vogliono farlo. La Norvegia ha delle riserve che appaiono in declino; l’Algeria ha stretto un accordo con Mosca, di cui fanno parte sia forniture di armi russe sia un vasto accordo di cooperazione tecnica e commerciale fra la compagnia algerina Sonatrach e Gazprom; la Nigeria, la Libia e alcuni altri paesi che spediscono in Europa il loro gas, liquefatto, via nave, non sono in grado di aumentare più che tanto le loro forniture, mentre difficilmente vedranno la luce, vista la crisi, i grandi progetti di rigassificatori costieri in Europa. Un fornitore alternativo importante potrebbe essere l’Iran, ma su di esso grava un veto politico insormontabile – e comunque la via più economica per portare gas iraniano in Europa sarebbero ancora una volta le pipelines russe. Non meraviglia quindi che, a due mesi dalle grida occidentali contro il «ricatto energetico» di Mosca, il commissario europeo per l’energia Andris Piebgals abbia inopinatamente cambiato opinione e si sia pronunciato per «un rafforzamento dei legami
energetici con la Russia» attraverso un pieno sostegno ai progetti per portare il gas russo in Europa – in particolare il gasdotto sottomarino North Stream, che collegherà la Russia e la Germania e al quale alcuni paesi nordeuropei della Ue (Svezia, Polonia ed Estonia in particolare) si oppongono strenuamente. E non meraviglia neppure che il paese europeo oggi più aspramente anti-russo, l’Ucraina, stia disperatamente cercando di rinnovare il contratto con Gazprom per l’approvvigionamento di gas per quest’inverno, e sia addirittura finito a comprare direttamente energia elettrica da Mosca per supplire una serie di problemi nell’approvvigionamento di carbone (che produce in proprio) e nel funzionamento di un paio di centrali nucleari. Nel contempo, si apprende che – sempre nello sforzo di diversificare i propri fornitori di energia – la Turchia ha dato al via alla costruzione della sua prima centrale nucleare, la cui gara d’appalto è stata vinta da... Atomstrojexport, cioè l’azienda statale russa che costruisce centrali atomiche all’estero (in primis quella contestatissima di Bushehr, in Iran). Ma è davvero impossibile diversificare le fonti di energia dell’Europa occidentale? E ridurre il grado di dipendenza dalla Russia? Se la strada è quella indicata sistematicamente da Washington e da molti politici europei – aumentare gli acquisti di gas e petrolio da altri fornitori e costruire nuove infrastrutture (pipelines e rigassificatori) per ricevere queste forniture aggirando la Russia – essa sembra proprio non condurre da nessuna parte, se non a spese insostenibili e tensioni – interne e internazionali – sempre crescenti. Ben altra sarebbe l’efficacia di una «diversificazione» basata sul ricorso alle fonti rinnovabili e sul risparmio: a parte l’enorme valore di una simile strategia sul piano ambientale, anche rispetto al rapporto con Mosca ci sarebbe un grandissimo guadagno. Sia perché ridurrebbe appunto la «dipendenza» e la possibilità di ricatti energetici, sia perché la Russia è (ancora) uno dei paesi più in ritardo su questo terreno, e con più necessità di farsi aiutare. Una scelta strategica di questo tipo porterebbe probabilmente l’Europa a una collaborazione vasta e importante con il suo vicino dell’est, con vantaggio di entrambi. C’è da sperare che la crisi finanziaria globale aiuti almeno, come effetto secondario positivo, a incamminare l’Europa su questa strada.
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Energia eolica. Perché la Cina è destinata a vincere questa nuova sfida, tra capacità di installazione e fabbricazione di turbine. un business miliardario
e adesso ti vendo V il vento endere il vento, un’idea geniale molto redditizia e poco inquinante che sta conquistando il mondo. Se dodici anni fa sul vecchio continente questa forma di energia era pressocché inesistente, oggi rappresenta più del 7% dell’energia totale prodotta. Negli ultimi cinque anni in Europa l’energia eolica ha registrato una crescita media del 40% e – come auspica l’European Wind Energy Association (Ewea) – potrebbe arrivare a coprire il 12% del fabbisogno elettrico mondiale nel 2020. Un incremento superiore a quello che si registra negli Usa, il paese che per primo ha cominciato a sfruttare le enormi potenzialità del mercato eolico. Potenzialità sovrastimate, secondo alcuni. Tanto che in Francia si è scatenata una crociata anti-eolica contro quello che sarebbe solo uno sviluppo «sconsiderato» e «irresponsabile», di più, una vera e propria «menzogna organizzata» dalle potenti multinazionali degli aerogeneratori (Vestas, General Electric, Siemens) con la «complicità» dei governi pronti a stanziare miliardi di euro di fondi pubblici. Il capo di accusa? I poli eolici rovinerebbero l’estetica del paesaggio - la «douce France» - sarebbero troppo costosi e soprattutto sarebbero soggetti ai capricci di una forza lavoro intermittente impossibile da domare: il vento. Opinioni discutibili, e infatti in Francia se ne discute, ma del tutto inconcepibili per la seconda nazione al mondo come consumo di combustibili fossili (quella che insieme agli Usa emette maggiormente i gas responsabili dell’effetto serra e del surriscaldamento globale) che ha già deciso di bruciare le tappe diventando il primo produttore mondiale di energia eolica nel 2009. Grazie alle sue vaste regioni semi-desertiche, alle nuove politiche in favore delle energie alternative e alle capacità di investimento industriale e tecnologico fuori dal comune, la Cina è destinata a vincere anche questa sfida, sia per quanto riguarda la capacità di installazione che per la fabbricazione di turbine, un business miliardario che la porrebbe in cima alla piramide degli esportatori di energia pulita. «La Cina sta entrando nell’epoca d’oro dello sviluppo eolico e l’ampiezza della crescita ha preso alla sprovvista anche i responsabili politici», ha scritto Jinfeng Li, segretario generale dell’Associazione delle industrie delle energie rinnovabili in Cina (Creia). «La nuova capacità installata – ha precisato – è aumentata del 60% nel 2005, ed è più che raddoppiata nel 2006 e nel 2007. Alla fine del 2007, la capacità accumulata ha raggiunto 6 gigawatts (GW), piazzando la Cina al quinto posto mondiale per le installazioni eoliche» (dietro Germania, Stati Uniti, Spagna e India). Ma è ancora niente rispetto alle previsioni di crescita stabilite dal piano quinquennale messo a punto lo scorso marzo dal ministero dell’economia per ridurre la dipendenza dal carbone per produrre energia: installazione di 20 GW entro il 2010, e più di 100 GW entro il 2020. Quando si dice la politica che indirizza il mercato, e non viceversa: la rapidissima espansione del settore eolico è il risultato di politiche locali mirate sostenute da incentivi per lo sviluppo, risorse che hanno attratto sia il settore pubblico che quello privato. E il futuro sembra avere il vento in poppa. «Con una più ampia politica di supporto all’energia eolica – ha ipotizzato Li - la
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• Energie
[Luca Fazio]
Cina potrebbe diventare una dei tre maggiori mercati di energia eolica al mondo dal 2020, e solo due anni fa la gente pensava che fosse uno scherzo, nessuno pensava che fosse possibile raggiungere una quota simile di gigawatts». La lista dei parchi eolici già funzionanti testimonia una potenza di investimento che non ha eguali. Tra i più notevoli, quello di Dabancheng, nella regione dello Xinjiang, con 118 turbine, e quello di Huitengxile Huadian, il più grande della Cina, che fornisce energia elettrica a Pechino; mentre nel Gansu, una provincia dell’Ovest, è in costruzione quello che diventerà il più grande parco eolico del mondo (3,8 GW di capacità). Per i prossimi dodici anni - avendo come obiettivo l’aumento della percentuale di energia tratta da tecnologie a basso consumo dall’attuale 8 al 15% - la Cina ha dichiarato di essere pronta a investire 33 miliardi di dollari all’anno, una svolta ecologica per replicare all’accusa di essere «il più grande inquinatore del pianeta» ma soprattutto per mettere le mani su un business colossale, considerando la domanda di turbine proveniente da Usa e Europa (senza contare che già oggi la Cina è il principale produttore in termini di capacità di generazione di energia rinnovabile: possiede la più grande capacità di energia idroelettrica, oltre alla quinta flotta di turbine di tutta la Terra). La crescita dell’eolico non avrebbe avuto luogo senza l’exploit industriale dei fabbricanti di turbine: in tre anni i cinesi, che si limitavano a costruire piccole turbine importando i componenti, sono stati capaci di fabbricare turbine da 1,5 e 2 megawatts (MW). Secondo il rapporto 2007 realizzato da China Wind Energy Association, oggi il primo produttore di impianti eolici del paese è la cinese Goldwind con il 25,% del mercato (8% a livello mondiale), seguita dalla spagnola Gamesa (17,7%) e dalla danese Vestas (14,5%), che è la più grande azienda di energia eolica del mondo e si vanta di installare una nuova turbina ogni quattro ore (33.500 installate in 63 paesi); e proprio quest’anno Goldwing, forte delle agevolazioni fiscali che il governo cinese ha concesso ai fabbricanti di turbine, ha acquistato il 70% della tedesca Vensys Energy, il principale fornitore di tecnologia eolica della Cina. Se a questa vorace capacità di assorbimento aggiungiamo che già oggi la stragrande maggioranza dei produttori stranieri ha fabbriche in Cina, si capisce perché Steve Sawyer, segretario generale del Global Wind Energy Council (Gwec), sostiene che presto «arriveranno sul mercato mondiale turbine cinesi relativamente a buon mercato». Le prime, per ora, sono state già vendute a Cuba. «La battaglia mondiale contro il cambiamento climatico – ha concluso Sawyer – non può essere vinta senza che la Cina vi giochi un ruolo fondamentale». E forse questa non è una buona notizia per i venditori «occidentali» di tecnologie pulite. Ma mai come in questo caso vale il detto «chi semina vento...».
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energia rinnovabile – quella vera, non il Cip6 – sarà uno dei banchi di prova del futuro energetico nazionale, perché la necessità di agguantare la soglia europea costringerà a chiarire alcune questioni di fondo. Come la politica degli incentivi che la mano pubblica intende perseguire, visto che le tecnologie avranno ancora per un lungo periodo costi largamente superiori a quelli delle fonti «tradizionali». In generale, una politica di incentivazione delle fonti rinnovabili ha senso se è in grado di offrire benefici di natura strategica: la riduzione delle emissioni e il contenimento della dipendenza e della vulnerabilità energetica, ma allo stesso modo il risparmio e anche la possibilità (perché no?) di evitare la realizzazione di impianti di grandi dimensioni. Le tariffe di cessione, o il sistema dei certificati verdi, hanno avuto l’effetto di stimolare in tempi rapidi uno sviluppo rilevante delle energie «alternative». Con la Finanziaria del 2008 si sono finalmente legati in misura differenziata i prezzi dei certificati a ogni fonte rinnovabile. Il problema diventa però congiungere la crescita delle energie rinnovabili al beneficio ambientale, un obiettivo che si può raggiungere più efficacemente con l’introduzione di meccanismi indiretti: forme di imposizione fiscale («carbon tax») o permessi d’inquinamento (Kyoto, Ets), che causano un aumento del costo dell’energia che viene prodotta con fonti fossili. I meccanismi di «cap and trade», rispetto a una più semplice «carbon tax», presentano un vantaggio: pongono un tetto alle emissioni e quindi stimolano anche il risparmio energetico. Ma con entrambi i sistemi si ottiene un risultato importante: quello che la teoria
economica definisce «internalizzazione» di un costo esterno, come è appunto quello ambientale. E senza che si alterino le condizioni di un mercato liberalizzato. Ma oltre alla politica degli incentivi altri nodi andranno sciolti. Come il potenziale «fisico» del Paese, ovvero quanta energia rinnovabile l’Italia può effettivamente sviluppare date le sue caratteristiche geografiche e abitative. E ancora: la politica energetica delle fonti rinnovabili continuerà a essere pagata in bolletta o si passerà alla fiscalità generale? Il ventaglio delle opportunità offerto dalle fonti rinnovabili è abbastanza noto. Se in Italia valgono circa un sesto dell’attuale produzione annua di elettricità (il 16,6%), più dell’80% del loro contributo è coperto con la fonte rinnovabile per eccellenza, l’idroelettrico, ormai ampiamente sfruttata: il rischio di siccità e le norme sul «deflusso minimo vitale» potrebbero in futuro condizionare l’incremento della produzione più ecologica che sia disponibile. Secondo l’Enea, il solare termico a concentrazione con collettore parabolico – quello del premio Nobel per la Fisica Carlo Rubbia – rappresenta una delle tecnologie più promettenti dopo il fotovoltaico a moduli, sul quale Germania e Giappone si sono lanciate con entusiasmo, se-guito dalla produzione eolica, sia su terra che a mare, mentre altre tecniche interessanti sono applicabili alle biomasse di origine forestale, vegetale, agricola, industriale (scarti di lavorazione), da rifiuti e da reflui civili. Il fatto di essere fonti di energia intermittenti e non continue, soprattutto nel caso del solare e dell’eolico, costituisce uno dei maggiori limiti per un loro contributo decisivo in termini di capacità disponibile. L’incostanza nella disponibilità fa sì che mediamente solo un terzo della capacità installata assicuri una sostituzione effettiva di quella alimentata con fonti non rinnovabili. Quando si punta su idee che promettono una maggior stabilizzazione, come ad esempio l’eolico in mare aperto – pale appoggiate su fondali di 40 metri – i costi sono destinati ad aumentare considerevolmente.
A condizionare un inserimento più consistente delle fonti rinnovabili sono anche problemi tecnici, come il sistema delle infrastrutture e delle reti, e ancora di più questioni di «accettabilità sociale» a causa, ad esempio, delle dimensioni e degli impatti (anche sonori) delle pale eoliche, o dal calore sprigionato dai moduli fotovoltaici. Secondo il Cesi Ricerca, nel caso di impianti fotovoltaici a terra di grandi rilievo difficilmente in Italia si potrebbe pensare di utilizzare più di 100 chilometri quadrati di territorio, equivalenti a 10 chilometri quadrati di pannelli e a un totale di 1.000 megawatt installati. L’ostacolo principale, tuttavia, è ancora legato ai costi, e al tempo necessario perché le tecnologie sperimentate attualmente dimostrino di poter affrontare la concorrenza di petrolio, gas e carbone. Le differenze con il sistema diproduzione che va per la maggiore, il «ciclo combinato a gas», sono notevoli. Se si guarda al costo di investimento non c’è proprio competizione: dai 550 euro per ogni chilowatt relativo al gas si passa ai 1.700 euro dell’eolico onshore e ai 2.800 di quello offshore. Per il solare termodinamico siamo a 2.700 euro, per il fotovoltaico a terra sui 5.000 euro, cifra che sale a 6.000 per i tetti fotovoltaici. Il geotermico è a circa 2.750 euro. In parecchi casi le evoluzioni delle tecnologie condurranno, nel giro di dieci-quindici anni, a una diminuzione, e anche a un dimezzamento del costo dell’investimento prevedibile oggi. Un processo che potrebbe anche non essere lineare: come è accaduto in alcuni periodi nel caso degli impianti a cicli combinati, potrebbe verificarsi un temporaneo eccesso di domanda rispetto alla capacità di offerta, che causerebbe una spinta al rialzo nel prezzo delle tecnologie. La distanza, tuttavia, rimarrà pur sempre rilevante, se non insormontabile, anche in termini di costo di produzione per megawattora: al 2007 l’eolico onshore variava tra i 72 e i 110 euro, quello offshore era a circa 90 euro, il fotovoltaico da 410 a 545 euro (ma al 2020 è previsto che si dimezzi), il solare termodinamico si posizionava sopra i 90 euro, il
In Italia vale circa un sesto dell’attuale produzione annua di elettricità (il 16,6 per cento), l’80 per cento viene dall’idroelettrico. Un’analisi sulle prospettive
geotermico a 65 euro. Stando così le cose, risulta impossibile non ricorrere a forme di incentivazione. Secondo alcune simulazioni (sempre del Cesi Ricerca) che assumono una crescita della domanda di elettricità da 320 a 410 terawattora nel 2005-20 e prezzi di carbone e gas naturale in crescita secondo le previsioni Iea, il potenziale italiano di espansione delle fonti di energia rinnovabile potrebbe arrivare a 20mila megawatt di potenza, di cui la metà derivanti dall’eolico e un altro 30% dal solare nelle sue diverse forme. Se si tiene conto anche delle disposizioni contenute nella Finanziaria 2008, il sistema incentivante permetterebbe di raggiungere alla stessa data una produzione di circa 96 terawattora, quasi raddoppiando quella disponibile al 2006. A che prezzo però? I costi di investimento extra sarebbero pari a qualcosa come 25 miliardi di euro e gli incentivi cumulati a 69 miliardi di euro. Un conto salato per arrivare a una quota di rinnovabili superiore al 23% della domanda elettrica nazionale, erodendo in parti uguali l’apporto di carbone e gas naturale. Ricordiamo che l’obiettivo assegnato dall’Europa all’Italia è del 17%, calcolato però sulla domanda finale di energia. Anche uno sforzo di così grande entità, sembra essere una delle conclusioni da trarre, potrebbe non essere sufficiente a centrare gli obiettivi, e a invertire l’andamento delle emissioni. Il Cesi Ricerca fa però un altro interessante confronto. Costruendo uno scenario teorico di incentivazione «minima», dove a ogni fonte rinnovabile si erogano solo i contributi strettamente indispensabili a renderla competitiva con il ciclo combinato a gas, che rimane il più economico ed efficiente, si raggiungerebbero risultati simili sul fronte della produzione (93 terawattora al 2020), ma con esborsi decisamente inferiori: 22 miliardi di investimenti extra e «solo» 29 miliardi di incentivi. A che cosa si deve la differenza con lo scenario prevedibile in virtù dell’applicazione delle norme dello Stato? Si può ipotizzare che quei 40 miliardi di euro rappresentino le «inefficienze del sistema», tra cui i ritardi per le autorizzazioni, i contenziosi con le comunità locali e le compensazioni ambientali. Non c’è molto da commentare: il margine di miglioramento del sistema Italia, come si vede, è di tutto rispetto.
Energia rinnovabile, banchi di prova
[Stefano Agnoli, Giancarlo Pireddu*]
[ * ] Autori di «Il prezzo da pagare/L’Italia e i conflitti del panorama energetico mondiale», Baldini Castoldi Dalai editore, pp285 euro 17,50, da cui triamo “Rinnovabili, la sostenibilità degli incentivi”, per gentile concessione.
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