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Diamoci una ripulita Meglio vivere con le fonti rinnovabili, un mercato da 70 miliardi di dollari all’anno. Che raddoppia ogni tre, secondo Greenpeace. E meglio ancora consumare meno, tagliare gli sprechi e vedere l’effetto che fa
novembre 2008
Supplemento al numero odierno de il manifesto
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• Energie
SOMMARIO [4/5] CORSA A OSTACOLI SENZA TRAGUARDO di Matteo Leonardi se il vento gira davvero di Massimiliano Varriale
[7] dal fronte del no nuke di Ruoteperaria
[8/9] i più spreconi di tutte le russie di Astrit Dakli
[11] Mobilitiamoci meglio, grazie di Francesco Paternò
[13] geografia in rima con ecologia di Ruoteperaria
[15] tante pagine per una buona foresta di Geraldina Colotti
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l rapporto è allarmante come quasi tutti i rapporti, e sicuramente tutti i rapporti che vengono di questi tempi bui. È stato reso noto la settimana scorsa, si chiama World Energy Outlook 2008 ed è firmato dall’Agenzia internazionale dell’ambiente, roba assai istituzionale e non facinorosa. Il giapponese Nobuo Tanaka, che è il suo direttore, ha chiesto però di fare la rivoluzione, altrimenti il mondo non si salverà. Parole nette: l’andamento dei consumi energetici e degli approvvigionamenti «sono chiaramente insostenibili, sia da un punto di vista economico, che sociale, che ambientale: devono e possono essere cambiati. Dobbiamo avviare una rivoluzione globale dell’energia migliorando l’efficienza energetica e incrementando l’utilizzo di fonti a basse emissioni». Insomma, siamo dentro un nuovo triangolo delle Bermuda delimitato da 3 C: Costi, Clima e Crisi. Se non cambiamo rotta, ci finiamo dentro e buonanotte a tutti. In questo supplemento, diciamo altre due o tre cose che possono essere utili per l’agenda di qualsiasi buon governo e magari anche per dare una prima risposta al signor Tanaka. Prendiamo la «meglio energia»:, è quella delle fonti rinnovabili: sole, vento, eccetera. Due esperti del WWF Italia provano a raccontarci cosa sono, cosa si fa e non si fa per loro, quale è il futuro. Vale davvero la pena saperne di più. E’ un messaggio per tutti, tanto più che il 76% degli italiani apprezza le aziende attente all’ambiente, secondo un recente studio promosso da Viscolube, azienda italiana leader in
la sfida delle 3 C Europa nella rigenerazione di oli usati, realizzato dall’Ispo (Istituto per gli Studi sulla Pubblica Opinione) di Renato Mannheimer. Un altro esperto della rivista Ruoteperaria (www.ruoteperaria. it) ci racconta invece le ultime dal fronte del no al nucleare, dibattito che impazza anche grazie alle scelte del governo Berlusconi. A seguire facciamo un salto nella Russia degli sprechi energetici, patria dei fossili e dove pure si muove un movimento ambientalista di cui in genere è difficile trovare traccia sui giornali. Dall’album non mancano naturalmente le automobili, che stanno vivendo una loro rivoluzione sotto i colpi pesanti sempre delle 3 C. Auto a minor impatto ambientale, ibride, elettriche, a gas ma anche alimentate da agricarburanti, che però pongono dei problemi al nostro mondo. Basti pensare che gli Stati uniti prevedono di produrre circa 133 miliardi di litri di bioetanolo all’anno per il 2017. O che l’Europa conta di coprire quasi il 10 per cento del suo fabbisogno energetico proprio con gli agrocombustibili, sacrificando entro il 2020 circa il 20 per cento dei terreni agricoli. Un disastro,
[FRANCESCO PATERNÒ]
direttore responsabile Sandro Medici Via A. Bargoni, 8 00153 Roma tel. 06687191 www.ilmanifesto.it direttori Mariuccia Ciotta Gabriele Polo supplemento a cura di Francesco Paternò progetto grafico e impaginazione ab&c grafica e multimedia Via A. Bargoni, 8 00153 Roma tel.0668308613 www.ab-c.it pubblicità poster srl Via A. Bargoni, 78 00153 Roma tel.0668896911 www.poster-pr.it stampa Sigraf srl Via Vailate 14, Calvenzano [BG]
chiuso in redazione: 13 novembre 2008 prevede la Fao: 1,6 miliardi di tonnellate, cioè tra il 25 e il 30 per cento dei gas serra rilasciati nell’atmosfera ogni anno sono causati dal disboscamento. Stime, certo, ma su queste pagine respirate e leggete tutto d’un fiato.
Energie •
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[Matteo Leonardi*]
Corsa a ostacoli senza traguardo
È
opinione comune che in Italia non ci siano incentivazioni sufficienti ed adeguate per lo sviluppo delle fonti rinnovabili (FER) e che altri paesi, Germania, Spagna e Danimarca siano molto più bravi di noi. In parte è vero in parte no. L’Italia è uno dei primi paesi ad avere inaugurato un programma d’incentivazione degli impianti rinnovabili nel 1992, con il cosiddetto CIP6, e quindi nel 1999 con i certificati verdi del decreto Bersani. Ciò avveniva contestualmente alla liberalizzazione del mercato elettrico addirittura in anticipo rispetto alla direttiva europea specifica sullo sviluppo delle FER del 2001. A ben vedere il nostro paese ha dei costi di sviluppo per le FER pari, se non maggiori alla gran parte dei paesi europei. Incentivare specifici impianti, promuovere determinate fonti, non è un compito facile, e lo è ancora meno in un contesto di riforma dei mercati elettrici. Bisogna destinare
abbastanza risorse da attirare gli investimenti ma nel contempo tenere d’occhio la spesa pubblica, è importante promuovere le tecnologie più promettenti stando attenti a non inciampare nella normativa sugli aiuti di stato, bisogna mettere in campo una procedura di autorizzazione, allacciamento, contabilizzazione, dividendo ambiti e competenze ai diversi livelli dell’amministrazione pubblica ed in ultimo e non certo meno importante conciliare l’obiettivo nazionale di sviluppo con le richieste di salvaguardia del territorio e dell’ambiente a livello locale. Non è facile ma è possibile. Il problema è che l’Italia pur avendo iniziato prima di gran parte dei paesi europei a promuovere le FER, negli ultimi 15 ed oramai 20 anni non ha imparato nulla. Le stesse pecche di allora le ritroviamo nelle incentivazioni di oggi. Le chiamiamo pecche per non perderci nel fitto intreccio di interessi privati, dei nuovi operatori e dei vecchi monopolisti, con un amministrazione pubblica povera di risorse e frammentata nelle competenze. Le caratteristiche ricorrenti sono: meccanismi tendenzialmente generosi e quindi cari, contaminati da fonti per nulla rinnovabili, privi di un inquadramento amministrativo ben coordinato sul territorio e drammaticamente discontinui. Non c’è nulla di peggio di drogare un mercato e poi fargli penare l’astinenza. Non c’è nulla di peggio se stiamo parlando di tecnologie innovative. Le concessioni per gli impianti in CIP6, partito nel 92, sono state interrotte nel 97 (fatti salvi i diritti acquisiti e gli inceneritori), i certificati verdi dal 2002 hanno visto continue variazioni normative ed i nuovi impianti rinnovabili da remunerazioni eccessive, a seguito della riforma introdotta dalla Finanziaria del 2008, rischiano di fronteggiare entrate irrisorie. Tutto questo è in parte permesso dalla mancanza di un obiettivo di sviluppo delle fonti rinnovabili di lungo periodo. Un obiettivo preciso, quantificabile. Senza di esso il legislatore non costruisce un sistema d’incentivazione al fine di raggiungere, ad esempio, il target europeo di sviluppo delle fonti rinnovabili al 25% al 2012 (oramai peraltro impossibile) ma un po’così, perché gli incentivi piacciono sempre, perché sono autorizzati dall’Europa e perché tutto
Ecco perché il consumatore italiano paga molto per lo sviluppo delle energie rinnovabili ma il paese arranca nel raggiungimento degli obiettivi europei
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• Energie
sommato il consumatore non si lamenta. E’ assai noto come nel CIP6 assieme alle fonti rinnovabili siano stati incentivati impianti di generazione tradizionali che impiegano combustibili fossili. E’noto che tali impianti abbiano assorbito ben oltre la metà delle risorse raccolte nelle bollette dei consumatori e che gli incentivi siano nel tempo lievitati senza alcun riferimento ai reali costi sostenuti dagli operatori; che tali incentivi si siano trasformati in diritti acquisiti contro i quali diverse azioni di governo e parlamento e dell’Autorità per l’energia abbiano avuto esito parziale. Passiamoci sopra, era il 1992, la storia e le esigenze del sistema elettrico erano altre. Veniamo ai certificati verdi, ideati, proprio a rottura con il CIP6. Dal 2002 è stato introdotto un obbligo per i produttori di energia elettrica di generare un quantitativo minimo crescente nel tempo di nuova energia rinnovabile, la prova è il possesso a fine anno di un numero sufficiente di certificati verdi. Per intenderci, in base a questo obbligo, nel 2002 un produttore doveva immettere almeno il 2% di nuova energia rinnovabile, oggi ne deve immettere almeno il 4%. Tale obbligo genera un costo ed i produttori riversano tale costo sul prezzo di vendita dell’energia elettrica. Sono evidentemente i consumatori in ultima istanza a pagare (giustamente) la promozione delle fonti rinnovabili. Tuttavia solo il 60% dell’energia in Italia è soggetta all’obbligo dei certificati verdi, l’altro 40% a cui fa capo l’energia prodotta da grandi impianti idroelettrici, gli impianti di cogenerazione e la stragrande maggioranza delle importazioni non paga l’obbligo. Dal momento che il prezzo dell’elettricità è definito dal mercato, chi è esentato da un obbligo ne incassa il beneficio. Esentare infatti significa riconoscere un incentivo. Non solo, dal momento che l’obbligo è crescente, anche l’incentivo alle categorie esentate sarà crescente. Il consumatore italiano per ogni nuovo kWh di energia rinnovabile promossa coi certificati verdi paga in bolletta un costo di 14 c€/kWh. Eliminando le esenzioni tale costo sarebbe di 8,8 c€/kWh. E se proprio si vuole riconoscere qualche beneficio alle categorie oggi esentate (che peraltro, idroelettrico in particolare, hanno negli ultimi anni più che raddoppiato i ricavi grazie all’aumento del prezzo del petrolio e alla direttiva sull’emission trading) si potrebbero meglio studiare i canoni idroelettrici e la fiscalità energetica. Il fatto è che alle categorie esentate fanno capo in prevalenza gli ex monopolisti e qualche operatore storicamente influente ed allora il sistema non cambia. Un altro aspetto tipico e mai sanato è l’inclusione dei rifiuti nei sistemi d’incentivazione dedicati alle fonti rinnovabili. Una costante: così nel CIP6 così nei certificati verdi. E’ importante differenziare l’opposizione agli inceneritori come pratica di smaltimento dei
rifiuti (che in questo testo non trattiamo) dalla necessità di tenere separata questa pratica dal meccanismo di incentivazione proprio delle fonti rinnovabili. Gli inceneritori devono essere pagati dalla tassa di smaltimento dei rifiuti (la cosiddetta TARSU per chi la paga) non dalla bolletta elettrica. Se accedo alle incentivazioni delle fonti rinnovabili attraverso la tariffa elettrica finisco per bruciare più rifiuti di quanto sarebbe necessario a detrimento delle pratiche più sensate di raccolta, riciclo, riuso. Oltre ai rifiuti la legislazione italiana ha permesso il riconoscimento dei certificati verdi ai nuovi impianti di teleriscaldamento che come economia e dimensioni non hanno nulla a che vedere con le FER. Dal momento che lo sviluppo delle fonti rinnovabili è confinato all’interno di una percentuale di sviluppo, che abbiamo detto essere il 4% della produzione soggetta ad obbligo, e dal momento che la base imponibile di questa percentuale è già ridotta dalle esenzioni, se permetto a categorie non rinnovabili (rifiuti, teleriscaldamento) di contribuire a raggiungere tale obbligo, alle rinnovabili vere e proprie rimane ben poco. Ecco spiegato come mai il consumatore italiano paga molto per lo sviluppo delle energie rinnovabili ma il paese arranca nel raggiungimento degli obiettivi europei al cospetto di altre realtà europee. Con la nuova proposta di Direttiva, l’Europa chiede agli stati membri obiettivi vincolanti di sviluppo delle FER al 2020. I target sono stati assegnati con una metodologia equa che prevede il 50% dell’obiettivo europeo essere spartito ugualmente tra tutti gli Stati (tutti i paesi membri devono incrementare del 5,5% al 2020 l’apporto da fonti rinnovabili rispetto al 2005) ed il rimanente 50% essere distribuito in base al PIL pro-capite dei diversi paesi. L’ Italia, per essere in regola, dovrà mostrare al 2020 una quota di fonti rinnovabili pari al 17% sui consumi energetici nazionali. E dovrà presentare periodicamente alla Commissione Europea il modo e gli strumenti con i quali intende raggiungere tali obiettivi.
* WWF Italia
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e fonti rinnovabili (FER) come il solare termico, il fotovoltaico, l’eolico, il geotermico, il moto ondoso, l’idroelettrico, le biomasse, il biogas sono fonti energetiche che, a differenza delle fossili e fissili, hanno la capacità di rigenerarsi con tempi equiparabili a quelli umani. La loro apparente inesauribilità trova in realtà importanti eccezioni, come nel caso delle biomasse o della geotermia, dove un troppo eccessivo, rapido e non corretto sfruttamento può pesantemente comprometterne le capacità rigenerative. Oggi il dibattito sulle FER è particolarmente vivo sia perché considerate come utile soluzione nella lotta ai cambiamenti climatici, grazie alle minori emissioni di CO2 che le caratterizzano, sia perché capaci di creare maggiore occupazione e benessere diffuso. Peraltro, mentre per i combustibili fossili e l’uranio è possibile prevederne soltanto un costante incremento dei costi, dovuto alla progressiva scarsità, per le rinnovabili possiamo essere abbastanza sicuri di una loro progressiva diminuzione di costi, grazie ai miglioramenti tecnologici e alle economie di scala. Allo stesso tempo le FER costituiscono le tecnologie ideali per quei modelli di generazione distribuita che sempre più si stanno candidando come sistema energetico del futuro. Tra le moderne fonti rinnovabili quella che ha raggiunto il maggiore livello di competitività è l’eolico. Questa tecnologia già oggi è in grado di misurarsi alla pari con i combustibili fossili, anche in assenza di sussidi. La crescita mondiale dell’eolico è stata sorprendente. Alla fine del 2007 erano installati nel mondo circa 94.000 MW di generatori eolici, di cui oltre 19.000 MW realizzati solo nell’ultimo anno. In Europa a fine 2007 erano installati complessivamente oltre 56.000 MW. A guidare la classifica troviamo la Germania con 22.246 MW, subito dopo, con 15.145 MW, si colloca la Spagna che negli ultimi anni ha vissuto una crescita esponenziale: 3.514,9 MW la potenza in-
stallata nel solo 2007. L’eolico è in grado di offrire un’alternativa credibile anche per i paesi in via di sviluppo. E’ il caso dell’India che in pochi anni è diventato il quarto paese per potenza installata (8.000 MW a fine 2007) dopo Germania, Spagna e Stati Uniti. L’India si presenta sul mercato con la società Suzlon, la quinta a livello mondiale, dopo Vestas (Danimarca), Gamesa (Spagna), GE Wind (USA) e Enecorn (Germania). In Italia a fine 2007 era installata una potenza di circa 2.725 MW. Uno dei motivi del più modesto sviluppo eolico in Italia è da attribuire a condizioni di ventosità relativamente meno favorevoli e, soprattutto, alla complessità del processo autorizzativo. La mancanza di un quadro normativo certo e la poca chiarezza tra le competenze tra i vari livelli dell’amministrazione centrale, regionale, comunale hanno, di fatto, rallentato la realizzazione degli impianti. In Germania, uno dei motivi del successo dell’eolico, oltre al vento e un territorio meno articolato di quello italiano, è stato l’identificazione a priori delle aree sulle quali si potevano realizzare gli impianti, nel rispetto dell’ambiente da un lato e nella consapevolezza dell’importanza di promuovere le energie rinnovabili dall’altro. Il potenziale eolico italiano, a seconda delle differenti stime, si aggira tra gli 8.000 e i 16.000 MW. E’ inoltre da non trascurare la potenzialità offerta dagli impianti mini-eolici (sotto i 100kW). In grado di operare in condizioni in cui sarebbe difficile, anche per vincoli ambientali, installare impianti industriali. Peraltro già oggi il minieolico ha costi interessanti solitamente inferiori ai 2000€ al kW. Negli Stati Uniti, l’American Wind Energy Association (AWEA) ha predisposto un piano d’azione per favorire l’installazione di 50.000 MW di piccoli impianti eolici nei prossimi anni. Un discorso ancora diverso riguarda gli impianti micro eolici (potenza inferiore 5 kW) che, ad esempio nelle tecnologie ad asse verticale, ben si prestano ad una forte penetrazione anche in ambienti urbani grazie al loro ridotto impatto visivo e alla capacità di meglio sfruttare venti intermittenti e con turbolenze.
Anche sul fronte dell’energia fotovoltaica (PV) stiamo assistendo ad una rapida crescita del mercato. Nel 2007 in tutto il mondo gli impianti fotovoltaici hanno superato i 9.200 MW di potenza complessiva installata, di cui circa 4.670 MW nella sola Europa. Ancora una volta a guidare è la Germania che alla fine del 2007 aveva una potenza complessiva installata superiore ai 3.800 MW di cui oltre 1.100 realizzati nel solo 2007. Nello stesso anno in Italia si stima che la potenza installata abbia raggiunto i 100 MW, praticamente 38 volte meno della Germania. Risultati ancora più singolari se si considera che il nostro paese gode del 50% in più di insolazione annua. Il successo tedesco è da attribuire all’avere da subito adottato un valido meccanismo d’incentivazione in “conto energia”. L’Italia solo nel 2005 ha varato i decreti attuativi del Decreto legislativo 387/03 (recepimento direttiva europea 77/2001 per lo sviluppo del mercato interno dell’energia rinnovabile) in cui finalmente si introduce il meccanismo del “conto energia” che riconosce un valore economico incentivato al kWh prodotto da impianti a fonti rinnovabili quali il fotovoltaico. I costi oggi ancora alti del PV sono comunque destinati a calare sensibilmente nel corso dei prossimi anni. Per l’Italia le potenzialità di sviluppo del fotovoltaico sono
elevatissime e entro il periodo 2015-2020 alcune stime dichiarano possibile la realizzazione di 10-16.000 MW. Nel 2007 il 28.5% delle celle PV è stato prodotto dall’Europa , 24.6% in Giappone, 22% in Cina, 9.9% a Taiwan e il 7.1% negli USA. Le principali aziende produttrici di moduli sono rispettivamente la Q-Cells (Germania), la Sharp (Giappone), la Suntech Power (Cina), la Kyocera (Giappone), la First Solar (USA), la Motech (Taiwan), la Sanyo (Giappone), la SunPower (USA-Philippines). Il solare termico costituisce una tecnologia matura, affidabile, economicamente competitiva e dalle immense potenzialità che purtroppo in Italia continua a essere piuttosto trascurata. In Europa l’80% del mercato è rappresentato da Germania, Grecia e Austria. In questi paesi i tassi di crescita di questi anni sono stati imponenti: ad esempio in Germania, nel solo 2005, sono stati istallati quasi 1.000.000 di m2 di collettori solari, nel 2006 si è addirittura superato il 1.500.000 di m2. In Austria ne sono stati istallati quasi 240.000 m2 nel 2005 e quasi 300.000 nel 2006. In Grecia oltre 220.000 m2 nel 2005 e 240.000 nel 2006. Proprio nel 2006 anche la Francia ha fortemente movimentato il mercato istallando oltre 300.000 m2 di pannelli. L’Italia, dopo anni di scarso sviluppo del settore, inizia a far vedere qualche segnale:
nel 2006 sono stati istallati circa 186.000 m2. Si tratta di un dato che fa ben sperare ma che certo non può colmare il divario con la poco soleggiata Germania dove si contano complessivamente oltre 8.500.000 m2 di pannelli istallati: in Italia siamo a 1.160.000 m2. A tale proposito il Libro Bianco italiano prevede di raggiungere 3.000.000 di m2 entro il 2010. In Cina 35 milioni di abitazioni sono scaldate con collettori solari. In questo paese l’energia derivante da queste installazioni è pari a quella generata da 54 impianti a carbone. Biomasse e bioenergie basate su filiere sostenibili, mini idroelettrico ad acqua fluente, recupero d’efficienza dalle vecchie centrali idroelettriche a bacino, sistemi geotermici a bassa entalpia, energia dalla maree e dal moto ondoso, costituiscono alcune delle altre importanti opzioni di sviluppo del mercato energetico che possono andare nella direzione di una maggiore sostenibilità ambientale, sociale ed economica. * WWF Italia
Fonti rinnovabili di energia, prospettive e criticità di un mercato in rapida crescita, dal solare al fotovoltaico, all’eolico e ai loro fratelli
Se il vento gira davvero [Massimiliano Varriale*]
Energie •
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Dal fronte del no nuke
[ruoteperaria]
zona su cui è edificata la centrale ndr) degli impianti il conto aumenta. Cambiamenti climatici. Il nucleare non è la risposta giusta. Se si avesse come obiettivo il raddoppio delle centrali nucleari esistenti entro il 2030, rimpiazzando anche quelle che andranno a fine vita nei prossimi 20 anni, l’effetto sulle emissioni globali sarebbe di una riduzione solo del 5%. Inoltre la produzione nucleare è solo apparentemente esente da emissioni di CO2, dal momento che gli impianti per motivi di sicurezza richiedono enormi quantità di acciaio speciale, zirconio e cemento, materiali che per la loro produzione richiedono carbone e petrolio. Sicurezza. Non è vero che il nucleare di oggi sia sicuro. Sulla sicurezza degli impianti ancora non esistono garanzie per l’eliminazione del rischio di incidenti. A livello internazionale si parla del 2030 per vedere in attività la prima centrale di “quarta gene-
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ra il 1987 quando l’Italia, un anno e mezzo dopo la tragedia di Cernobyl, decise che l’utilizzo dell’energia nucleare era troppo pericoloso (malgrado l’oggettiva efficienza) e decretò, tramite referendum abrogativo, che tutti gli impianti esistenti sul territorio venissero spenti e successivamente denuclearizzati. Ventuno anni dopo gli scenari sembrano cambiati. Il nucleare è tornato d’attualità vista la crisi e il costo del petrolio e la difficoltà di sviluppare nel nostro Paese un sistema credibile di fonti energetiche alternative. Il governo ne riparla in maniera concreta cercando di dare tutte le rassicurazioni possibili, soprattutto dal punto di vista della sicurezza, come confermato dallo stesso ministro dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo, secondo cui «il progetto per il ritorno al nucleare si svolgerà con le massime garanzie e i massimi controlli, nei tempi richiesti dalla complessità di un simile programma». Ma quanto ci vorrà per trasformare le intenzioni in fatti concreti? Per la maggior parte degli esperti i tempi non saranno brevissimi, come sostiene il professor Vincenzo Naso, presidente della sezione italiana dell’International solar energy society (Ises Italia) e docente ordinario di Sistemi Energetici alla Sapienza - Università di Roma: «La nostra convinzione è che in Italia per i prossimi 10-15 anni si potrà parlare tranquillamente di nucleare, ma difficilmente si realizzeranno nuovi impianti». Ma nello Stivale che sta seriamente riconsiderando l’atomo
come risorsa per il prossimo futuro, prescindendo dal quando e dal come, rimane solido lo schieramento degli scettici secondo cui le scelte da fare in materia energetica dovrebbero essere ben altre. Tra questi Legambiente, Wwf e Greenpeace che rilanciano proposte fondate sul risparmio e sullo sviluppo delle fonti rinnovabili: una via più immediata, economica e sostenibile. Per esprimere i dubbi e le preoccupazioni in merito, le tre associazioni ambientaliste hanno di recente redatto un dossier congiunto per evidenziare i lati negativi di una scelta che giorno dopo giorno sembra divenire sempre più concreta. Nel documento i costi, l’effetto del nucleare sui cambiamenti climatici, la sicurezza e le scorie sono argomenti principali di discussione. Costi. Non è vero che l’energia derivante dall’atomo sia economica, anzi è forse la più costosa che ci sia. Gran parte del costo dell’elettricità da nucleare è legato al costo di investimento per la progettazione e realizzazione delle centrali, che è almeno doppio di quanto ufficialmente dichiarato e richiede tempi di ritorno di circa 20 anni. Se a questo si considerano anche i costi di smaltimento delle scorie e di decommissioning (la bonifica della
Rifiuti d’Italia Dal 1987, data della rinuncia al nucleare in Italia, i siti di stoccaggio e le centrali non sono stati completamente «ripuliti» dalle scorie del materiale atomico. Sul territorio italiano sono presenti attualmente diverse migliaia di metri cubi di rifiuti radioattivi, la vera bestia nera dell’energia atomica, che spesso ha rafforzato dubbi nel fronte dei contrari. Secondo i dati disponibili i metri cubi di materiale radioattivo non ancora smaltito sono circa 22mila. Il volume è diviso tra centrali e siti di stoccaggio alcuni completamente dismessi e altri, invece, utilizzati per la ricerca, come il centro Casaccia e Itrec di Rotondella gestiti dall’Enea, il reattore Cisam di Pisa (destinato ad attività di ricerca militare), il reattore Cesnef di Milano, il sito Lena dell’università di Pisa, l’impianto SM-1 di Legnano e il centro nucleare Ccr-Ispra.
razione”; il governo italiano promuoverebbe così un programma arretrato e insicuro di “terza generazione”. Rimangono poi i problemi legati alla contaminazione “ordinaria”, derivante dal rilascio di piccole dosi di radioattività durante il normale funzionamento delle centrali, a cui sono esposti i lavoratori e la popolazione che vive nei pressi. Scorie. Non esistono oggi soluzioni concrete al problema dello smaltimento dei rifiuti radioattivi derivanti dall’attività degli impianti o dalla loro dismissione. Le circa 250mila tonnellate di rifiuti radioattivi prodotte finora nel mondo sono tutte in attesa di essere conferite in siti di smaltimento definitivi. Lo stesso vale anche per l’Italia che conta circa 25mila metri cubi di rifiuti radioattivi, 250 tonnellate di combustibile irraggiato, cui vanno sommati i circa 1.500 m3 di rifiuti prodotti annualmente da ricerca, medicina e industria e i circa 80-90mila m3 di rifiuti che deriverebbero dallo smantellamento delle nostre quattro centrali. Insomma, per Legambiente, Wwf e Greenpeace la strada del nucleare rappresenta un ritorno al passato, come conferma il presidente di Legambiente Vittorio Cogliati Dezza: «Dobbiamo impegnarci investendo in tecnologie capaci di farci uscire dall’emergenza sfruttando le fonti rinnovabili, a partire da quella che abbiamo a disposizione in misura ben superiore a tanti altri Paesi: il sole».
Redazione “Ruoteperaria Magazine” www.ruoteperaria.it
Un dossier preparato da Legambiente, Wwf e Greenpeace contro l’atomo: ecco perché è una soluzione sbagliata
Energie •
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ci risiamo, QU [Astrit Dakli]
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a parola Russia e la parola Energia hanno un legame molto forte tra loro. Lo hanno nell’immaginario di chi segue le notizie economiche internazionali, dato che quando si parla di prezzi del petrolio, o di forniture di gas, o di pipelines in costruzione o in progetto, la Russia c’entra sempre in qualche modo. Ma hanno un legame anche storico, perlomeno radicato nella storia del secolo scorso, quando energia era quasi un sinonimo Qualche dato per iniziare. Oggi la Russia è il maggior produttore di fonti di energia fossile del mondo, con oltre 600 miliardi di metri cubi di gas naturale e oltre 3,5 miliardi di barili di petrolio all’anno, cui vanno aggiunti circa 320 milioni di tonnellate di carbone. È anche il maggior esportatore globale di tali fonti, dalla cui vendita sui mercati internazionali ricava una quota decisiva della sua ricchezza. Contemporaneamente la Russia è anche uno dei maggiori consumatori mondiali di energia – sia in termini assoluti sia procapite – nonché uno dei paesi a minore efficienza energetica, cioè che usa la maggior quantità di energia per unità di prodotto interno lordo. In altre parole, uno dei paesi più «spreconi».
Lo stato dell’arte per energie e ambiente nel paese maggiore produttore di fonti di energia fossile del mondo. Un domani complicato, tra lasciti sovietici e nuovi obiettivi di cambiamento
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Conviene partire da quest’ultimo dato, per capire quali siano le prospettive di sviluppo delle tematiche ambientali in un paese che comprende entro i suoi confini circa un ottavo delle terre emerse di tutto il pianeta e dunque influisce in misura importantissima sui cambiamenti climatici globali. Il paese infatti è dotato di una poderosa struttura industriale, che risale però in gran parte ai decenni sovietici: si tratta di impianti realizzati in un’epoca in cui – sia per ideologia che per capacità tecnologiche – l’attenzione al risparmio energetico e quella all’inquinamento erano assolutamente secondarie rispetto all’imperativo delle massime quantità possibili di prodotto. L’ideologia industrialista e produttivista dominante, frutto distorto delle teorizzazioni «socialiste» elaborate durante lo stalinismo, non considerava proprio né la possibilità che le risorse na-
turali (per esempio i combustibili fossili) fossero destinate a finire, né tantomeno che la «Natura» fosse una variabile da tenere in considerazione e potesse prima o poi presentare il conto dei cambiamenti introdotti dall’homo faber; la necessità di competere con gli Stati uniti rendeva poi ancor più estrema la ricerca della quantità ad ogni costo. La fine dell’Urss, e con essa dell’ideologia industrialista e della competizione «tra sistemi», non ha cambiato le cose esistenti, per il semplice motivo che mancavano le risorse necessarie ad ammodernare gli impianti e mancavano gli uomini con una formazione diversa, che potessero imprimere un cambiamento almeno al quadro normativo e legale del paese: la privatizzazione dell’economia negli anni Novanta è quindi avvenuta come pura e semplice appropriazione delle aziende, a costo zero o quasi, da parte dei pescecani più intraprendenti e aggressivi in circolazione, e nella maggior parte dei casi si trattava dei direttori delle stesse aziende, che non vedevano motivo per cambiare – a maggior ragione ora che avrebbero dovuto farlo investendo propri capitali. L’arrivo del capitalismo, quindi, non ha portato alcun miglioramento dal punto di vista del risparmio energetico e del rispetto dell’ambiente. Al contrario: questa struttura industriale, realizzata in massima parte negli anni Sessanta e Settanta, è diventata oggi non soltanto obsoleta per concezione e tecnologie, ma anche in buona parte vecchia e logora per mancanza di aggiornamento e manutenzione e per supersfruttamento. In altre parole, è come una vecchia auto usata rispetto alla stessa auto nuova (e a maggior ragione rispetto a un’auto di produzione più recente) quando la si vuol far correre allo stesso modo: consuma molto di più e inquina molto di più. Consuma più energia, più acqua, più materie prime e river-
EL PONTE SULLO I più spreconi STRETTO TROPPO diÈtutte leLARGO Russie
sa nell’atmosfera, nei fiumi e sul terreno maggior quantità di gas e scorie di ogni genere. Un discorso analogo, anche se con una storia diversa, si può fare per l’uso non industriale dell’energia: il grosso degli impianti di riscaldamento per le abitazioni è di concezione antiquata, risale a diverse decine di anni or sono e non ha avuto nel tempo né manutenzione né miglioramenti tecnologici. Tutto ciò si traduce in alcune constatazioni impressionanti: per esempio, che il 40 per cento circa del consumo complessivo di energia della Russia va semplicemente perduto in sprechi e dispersioni, e di questo oltre un terzo è buttato via nel riscaldamento domestico (fonte: Greenpeace); oppure che circa 50 miliardi di metri cubi di gas naturale ogni anno finiscono bruciati nelle «candele» dei campi di estrazione petrolifera (contribuendo non poco a modificare il clima nelle regioni sub-artiche del paese) per l’incapacità di incanalare il gas in un sistema di tubazioni. L’enormità dello spreco, l’aumento dei prezzi mondiali di petrolio e gas (dunque della convenienza a esportarne grandi quantità) e l’accresciuto benessere e livello di vita della popolazione hanno portato come conseguenza diretta una sempre maggior domanda interna di energia. Il Cremlino ha cercato di soddisfarla in diversi modi: in primo luogo con un massiccio ricorso al nucleare – impianti esistenti sfruttati molto oltre il termine fissato, nuovi impianti in costruzione ovunque – e con l’avvio di nuovi giganteschi progetti di sfruttamento di risorse fossili; ma anche con nuovi progetti di sfruttamento idroelettrico e, per la prima volta, con un tentativo di utilizzo di fonti rinnovabili: un progetto governativo di un anno
fa prevede la creazione di una trentina di impianti per la produzione di biocombustibili, di cui alcuni a partire dagli scarti delle lavorazioni del legno (abbondantissimi in Russia) e altri a partire da coltivazioni ad hoc. Nessuno di questi progetti, comunque, sembra in qualche modo distaccarsi dalla logica tradizionale che ha portato alla difficile situazione odierna. Non si investe nulla nel risparmio e nel miglioramento dell’efficienza energetica dell’industria e degli impianti domestici, nulla nella lotta agli sprechi e alle dispersioni; e si puntano tutte le carte sul gigantismo e sulla quantità di produzione. Un esempio terribile, nel suo genere e nella sua esemplarità, è l’impianto idroelettrico che dovrebbe essere realizzato l’anno prossimo a Turukhansk, nella Siberia centroorientale, con uno sbarramento del fiume Tunguska: sarà il più grande impianto idroelettrico del paese, comporterà danni ecologici (e umani) incalcolabili con la sommersione di milioni di ettari di foresta e con lo spostamento forzato di intere popolazioni indigene che occupano la regione vivendo di caccia e pesca; costerà un’enormità e, dulcis in fundo, sarà situato in un’area che non ha alcun bisogno di altra energia, per cui l’elettricità prodotta dovrà essere trasportata – con altri costi immani, devastazioni ambientali e sprechi e dispersioni spaventose – a migliaia di chilometri di distanza attraverso enormi elettrodotti. Una coscienza ambientalista, in effetti, in Russia esiste da tempo (secondo autorevoli sondaggi oltre i due terzi dei cittadini ritiene il proprio ambiente di vita e lavoro «inquinato» o «molto inquinato») e risale agli ultimi anni del regime sovietico: a volte in forme solo embrionali, affidata a testimonianze singole per quanto importanti; altre volte in forma
di veri e propri movimenti «single issue», che su una questione particolare, di solito di interesse locale o regionale, riescono a raccogliere una vasta mobilitazione e persino a sfidare le autorità ottenendo dei risultati importanti. Senza nulla togliere al valore dei gruppi “liberal”, o di quelli “nostalgici”, che periodicamente scendono in piazza a Mosca o a San Pietroburgo per manifestare contro il potere, si può dire che sono i numerosi gruppi ambientalisti a costituire oggi, nel loro insieme, la vera opposizione in Russia. Non senza correre rischi anche gravi: è dell’estate scorsa l’uccisione di un giovane partecipante a una manifestazionecampeggio in Siberia, nel corso dell’attacco condotto da una gang neonazista; e sono ormai numerosi gli ambientalisti finiti in carcere, a volte con pesantissime condanne, per aver pubblicamente denunciato casi di inquinamento da parte di enti ed istituzioni legati al complesso militar-industriale, o di aziende «protette» da questo o quel boss. Teoricamente la legge è dalla parte del movimento ambientalista: ci sono numerose leggi, varate nel corso degli anni ‘90, che stabiliscono limiti anche abbastanza stretti per le emissioni nocive, e attribuiscono notevoli poteri di intervento in materia ambientale ai magistrati. Quando serve – cioè quando è politicamente utile oppure torna a vantaggio di qualche potente – queste leggi e questi poteri vengono usati in modo rigidissimo: colossi mondiali come Exxon e Shell si sono visti costretti da un giudice a lasciare i ricchissimi campi petroliferi che avevano messo in sfruttamento al largo delle coste di Sakhalin, nel Pacifico, perché violavano alcuni regolamenti inquinando le acque e infastidendo le balene; appena i giacimenti (che peraltro erano stati acquisiti con contratti-capestro quando lo stato russo era in ginocchio, nei primi anni ‘90) sono passati nelle mani di enti russi come Gazprom e Rosneft, delle balene non si è preoccupato più nessuno. Per fare un esempio diverso, alcune centinaia di persone che da anni vivevano in case di campagna vicine a un lago artificiale alle porte di Mosca, usato come riserva idrica per l’acqua potabile, sono state sfrattate con la forza, a mitra spianati, in quanto «inquinatori»; ma poco dopo, sugli stessi terreni, è iniziata la costruzione di un gruppo di nuove ville di lusso. Quanto alle aziende, va comun-
que notato che quasi sempre le sanzioni previste per chi viola le norme sono modestissime, e che cresce anno dopo anno il numero delle eccezioni ammesse: fino al punto che ormai è in vigore una regola secondo cui ogni azienda può chiedere ogni anno al servizio ispettivo ambientale (Rostekhnadzor) di aumentare «provvisoriamente» anche di molte volte i limiti massimi di emissione, di fatto autoesentandosi definitivamente dal rispetto di tali limiti. Persino il Ministero delle Risorse Naturali e dell’Ambiente – che piuttosto incongruamente si occupa sia di potenziare lo sfruttamento dei giacimenti minerari, petrolio carbone e gas compresi, sia di tutelare l’ambiente – riconosce che sette centri urbani su dieci in Russia soffrono di inquinamento atmosferico più o meno grave. Parecchi centri sono semplicemente al di là di ogni ragionevole tolleranza, vere e proprie camere della morte dove la concentrazione di veleni nel terreno, nell’acqua e nell’aria triplica o quadruplica la mortalità, accorciando di fatto anche di venti-trent’anni la vita media degli abitanti: tra questi ci sono le sei città (Bratsk, Dzershinsk, Magnitogorsk, Norilsk, Dalnegorsk e Rudnaja Pristan) comprese nell’elenco dei trenta luoghi più inquinati della terra, ma ce ne sono altre, più piccole e sperdute, create in mezzo al nulla per farci abitare operai e tecnici di una
fabbrica o di una miniera e dove ormai non ci sono più nemmeno gli insetti o uno straccio di vita vegetale, ma dove uomini e donne continuano ad abitare – cittadine per le quali ogni speranza di riscatto ambientale sembra ridicola, e l’unica prospettiva è la chiusura della fabbrica con evacuazione immediata di tutti gli abitanti. Il problema ormai sta diventando così grave – secondo un rapporto della Banca mondiale le malattie legate a cause ambientali provocano in Russia quarantamila morti all’anno, con un impatto negativo di oltre il 6% sull’insieme del prodotto interno lordo nazionale – che anche il governo comincia a pensare che occorra cambiare qualcosa. Così, dopo diversi anni di estremo lassismo verso le aziende e verso le nuove iniziative (era stato persino abolito l’obbligo di una valutazione di impatto ambientale per i nuovi progetti industriali, anche se grandiosi come una centrale nucleare) ora si stanno introducendo nuove misure fiscali per incoraggiare il taglio delle emissioni nocive e l’adozione di misure di risparmio energetico (soprattutto nella costruzione di nuove abitazioni). È ancora poco, pochissimo rispetto alle dimensioni del problema, ma se non altro indica un’inversione di tendenza.
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Mobilitiamoci meglio, grazie U
n pezzo di futuro prevedibile, non quello delle palle di vetro, si è affacciato la settimana scorsa a Roma in piazza del Popolo. Una piazza con vista su una mobilità sostenibile, fatta di nuove motorizzazioni a minor impatto ambientale, in cui si è parlato di automobili e di ricerca, di investimenti e di scommesse. Il tutto reso tangibile dalla presenza di 9 costruttori mondiali con le loro macchine considerabili più eco-compatibili, molte a disposizione del pubblico per un breve test su strada. L’evento si chiama H2Roma e qui convivono da sette anni ingegneri e professori universitari, del Centro interuniversitario per lo sviluppo sostenibile de La Sapienza di Roma (Cirps) e dell’Istituto tecnologie avanzate per l’energia (Itae) del Cnr ed Enea, tutti fissati che anche l’auto potrebbe mobilitarsi meglio. Per noi, e magari anche per la stessa industria. La notizia è che “they can”. Che oggi finalmente i costruttori di automobili si sono davvero lanciati in una gara per ridurre emissioni e consumi. E non perché siano diventati improvisamente virtuosi, ma perché il petrolio sta finendo e costa troppo, perché le limitazioni al traffico
nei centri urbani sono più stringenti, perché è cambiato il vento anche tra i consumatori. I presenti hanno sempre ragione – si dice così - e dunque vedere sulla piazza di Giuseppe Valadier auto della General Motors, della Volvo, della Peugeot-Citroen, della Toyota, della Nissan, della Honda, della Mercedes e della Bmw variamente alimentate ma tutte con un occhio alla riduzione dell’impatto ambientale, è suo modo un avvenimento. Ognuno, naturalmente, ha acceso il suo navigatore sulla via prescelta, che sarà totalmente elettrica per alcuni a partire dal 2010, che è già ibrida per tutti con motori elettrici affiancati ad altri a benzina o a gasolio (come preferiscono i francesi di Psa), che è a gas o a
bioetanolo. Sullo sfondo resta lo sviluppo dell’idrogeno, un punto di arrivo per il quale però mancano ancora tanti chilometri. Mentre per quel che c’è dietro, è sufficiente citare l’affermazione di Claudio Bertoli, direttore del dipartimento energia e trasporti del Cnr: «Quando aumenta la produzione di petrolio, gli investimenti nella ricerca diminuiscono. Oggi la tendenza è invertita, ma non in Italia». In primo piano resta la grande crisi economica mondiale, cui il navigatore dei costruttori di auto non offre alternative. Ecco perché l’industria di settore chiede aiuti di stato in finanziamenti agevolati per produrre finalmente automobili meno inquinanti. In America, le tre Big o ex Big di Detroit sono sull’orlo del collasso finanziario, nonostante i 25 miliardi di dollari stanziati per loro (ma arriveranno tra 6-12 mesi, forse troppo tardi). Il neo-presidente Barack Obama sta cercando di ottenere per Detroit altri soldi dal Congresso, sottoposti comunque a un possibile veto del presidente in carica George Bush. Obama ha detto chiaro e tondo però che questi fondi saranno vincolati a un progetto di nuove automobili, purché «verdi» per parafrasare cent’anni dopo Henry Ford e le sue T tutte nere. Una scommessa. In Europa, la cifra richiesta dai costruttori è di 40 miliardi di euro in altrettanti finanziamenti agevolati, con la motivazione principale che trasformarsi, costa. In realtà, sia qui che oltreoceano, è la crisi economica e finanziaria a essersi seduta al volante: anche per l’auto è recessione, crollo delle vendite, crollo del credito. Potrebbe essere davvero l’occasione perché un’industria-chiave come quella dell’automobile sterzi decisamente verso una mobilità sostenibile.
[FRANCESCO PATERNÒ]
Eco delle auto eco Per inquinare meno, il gruppo francese Psa Peugeot Citroen punta soprattutto sul sistema stop & start, che apparirà su tutte le vetture della gamma a breve termine. Significa che al semaforo rosso o in coda nel traffico, il motore si spegne, salvo poi ripartire al primo colpo di acceleratore. Eppoi motori ibridi, accoppiando il motore elettrico ad un piccolo propulsore diesel, per i vantaggi che questo offre in termini di emissioni di CO2 rispetto al benzina. La Toyota ha cominciato per prima nel 1997 con la Prius, elettrico-benzina: da allora ha venduto nel mondo 1,6 milioni di auto ibride anche con il marchio di lusso Lexus, con l’obiettivo di piazzarne un milione all’anno a partire dal 2010. E di utilizzare altre tecnologie quali il gas, i biocarburanti, l’elettrico con plug-in che prevede la possibilità di ricaricare le batterie anche tramite la rete a 220V, fino alle fuel cell ad idrogeno. La Bmw nel breve periodo guarda al sistema denominato Efficient Dynamics, dove ha investito 1,1 miliardi di euro. Meno emissioni e meno consumi grazie all’adozione di una tecnologia che tiene conto di tanti sistemi per risparmiare energia: dalla cura per l’aerodinamica, ai pneumatici a bassa resistenza, al recupero dell’energia in frenata ed al sistema stop & start. La General Motors spazia dalla produzione di nuovi carburanti come il bioetanolo di seconda generazione con Koscata, ricavato dalla cellulosa e dai rifiuti, dal biodiesel, fino a motore elettrico montato sulla Volt a fianco di un propulsore convenzionale alimentabile a benzina oppure a bioetanolo E85 (miscela di benzina e bioetanolo all’85%). La Gm sta poi sperimentando negli Stati Uniti la sua quarta generazione di fuel cell su una piccola flotta di Equinox ed in Europa di Hydrogen4. La Mercedes ha sulla rampa di lancio la S400 BlueHybrid e la C250 Bluetec con motori diesel a basse emissioni (la prima ha anche un motore elettrico). Il gruppo tedesco ha poi messo a punto la Smart ED elettrica. La Nissan, insieme alla controllante Renault, si è lanciata sull’elettrico, e dichiara di voler produrre modelli a idrogeno dal 2015. La Volvo propone motori diesel rivisitati e corretti e annuncia una micro-ibrida nel 2011. Per ora.
L’automobile scopre che inquinare e consumare meno fa bene a tutti. Anche all’industria. Le ultime da H2Roma
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Geografia in rima con ecologia
[ruoteperaria]
Un ritratto deLl’Italia ambientale dell’Istat. Cresce la raccolta differenziata e il verde pubblico. Ma aumentano inquinamento acustico e atmosferico
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l nord ricicla, effettua un costante monitoraggio dell’inquinamento acustico e punta ad incrementare la densità di verde urbano. Il sud è sprecone, ha pochissime piste ciclabili, ma contiene il numero di giornate di superamento del valore limite di Pm10 per la protezione della salute umana, abbassando la media nazionale. Il nuovo rapporto Istat sugli indicatori ambientali urbani presenta un Italia più attenta all’ambiente, ma che è in ritardo rispetto ai colleghi europei. L’indagine, svolta in 111 capoluoghi di Provincia (6,6% della superficie totale e 29,5% della popolazione residente nello Stato), analizza otto indicatori: popolazione e territorio; acqua; aria; energia; rifiuti; rumore; trasporti e verde urbano. Il Belpaese si muove a due velocità. Rispetto all’analisi sui dati del 2006 presenta le stesse eccellenze e le stesse “pecore nere”. Sul podio e alle ultime tre posizioni della speciale classifica dei capoluoghi di Provincia che presentano maggiore attenzione all’eco-compatibilità ci sono gli stessi comuni di due anni fa. Trento, Bologna e Venezia guidano la lista. Olbia, Siracusa e Massa arrancano. RIFIUTI E RACCOLTA DIFFERENZIATA La raccolta media pro-capite di rifiuti, nel 2007, è stata di 623,5 chilogrammi. Un dato in lieve diminuzione rispetto alla rilevazione del 2006 (-0,3%), con la crescita del nord (+0,8%) che viene compensata dal calo del centro (-2,3%) e del sud (-0,2%). Capofila è il comune di Olbia, con 1.022,2 kg prodotti per abitante. Chiudono la classifica Villacidro (375,8) e Belluno (396,7). Sono soltanto 29 i Comuni che hanno raggiunto l’obiettivo del 40% di raccolta differenziata, secondo quanto disposto dalla legge 296/2006 (Disposizioni per la formazione del bilancio dello Stato). Mentre sono 31 i Comuni, prevalentemente del mezzogiorno, che
registrano ancora percentuali di raccolta differenziata inferiori al 15%. Verbania fa scuola con il 72,2% della raccolta differenziata. Caserta (2,4%) e Messina (3,8%) stroncano la media nazionale. È ancora la carta il materiale più raccolto nel servizio differenziato (38,5% del totale della raccolta); seguono i rifiuti verdi, organici e legno (29,7%), il vetro (11,8%) e la raccolta selettiva di pile esauste, accumulatori e farmaci (0,2%). INQUINAMENTO ATMOSFERICO Nel 2007 più del 90% della popolazione dei Comuni capoluogo di Provincia è interessata dalla rilevazione del biossido di azoto (NO2), del Pm10, del monossido di carbonio (CO), dell’ozono (O3) e del benzene (C6H6). Nei 99 Comuni in cui il Pm10 è monitorato, il numero medio di giornate di superamento del valore limite per la protezione della salute umana è pari a 71,4 (-11,3% rispetto al 2006). Un dato che, nonostante il decremento, resta molto al di sopra dei 35 giorni consentiti dalla normativa. A ciò si aggiunge anche la controtendenza di alcuni centri, come Napoli (+5 giorni) e Catania (+2 giorni). Al nord il superamento dei limiti si è osservato mediamente per 86,4 giorni; al centro per 70,6 giorni e al mezzogiorno per 49,5 giorni. Comuni come Siracusa (273 giorni di superamento), Massa (226) e Torino (190) dovrebbero copiare il piani traffico di Imperia (2 giorni di superamento), Ascoli Piceno e Caserta (7). VERDE URBANO Nel 2007, la densità di verde urbano nei capoluoghi di Provincia (percentuale di verde urbano sulla superficie comunale) si attesta al 7% (+0,6% rispetto al 2006). Palermo (31,6%), Torino (15,6%), Milano (11,5%), Bologna (8,8%), Verona (8,0%) e Pescara (7,5%) registrano sia una densità di verde urbano superiore alla media sia una crescita delle aree
verdi maggiore, nell’ultimo anno, di quella registrata a livello nazionale. Pisa (71,9), Cagliari (55,2%), L’Aquila (45,6%), Biella (35,0%), Ancona (28,1%), Roma (27,5%), Napoli (23,7%) e Terni (21,7%) presentano alte percentuali di verde urbano sulla superficie comunale, ma rispetto al 2006 mostrano una variazione inferiore a quella media nazionale. Il censimento del verde urbano dovrebbe essere propedeutico alla stesura del Piano del verde urbano, strumento integrativo del Piano regolatore generale (Prg) per pianificare le aree verdi all’interno del Comune. Tale documento oggi è utilizzato solo dal 25,2% dei Comuni capoluogo di provincia.
CURIOSITÀ Spulciando i dati del rapporto, i numeri assumono sfumature curiose. Nella sezione dedicata ai trasporti, ad esempio, emerge che ad Aosta ci sono 2.021,4 autovetture per abitante: praticamente più di un’automobile a testa. Un dato che potrebbe essere spiegabile con la minore tassazione nell’iscrizione di nuove autovetture e che quindi non rispecchia il quadro dei mezzi che circolano in città. Mezzi a motore che, nel panorama nazionale, fanno registrare un incremento dello 0,6% rispetto al 2006, con una media di 592,6 vetture per mille abitanti. Il Lazio comanda la classifica, con cinque capoluoghi tra i primi sette: Viterbo (758,8), Latina (737,3), Frosinone (733,5) e Roma (707,2). Chiudono, con i valori più bassi, Genova (469) e Venezia (427,1).
Redazione “Ruoteperaria Magazine” www.ruoteperaria.it
Bici-bonus per chi ci va al lavoro Un bonus per andare al lavoro in bicicletta. È un incentivo per promuovere la mobilità su due ruote, decongestionare il traffico e aiutare il clima». È quanto ha proposto Ermete Realacci, ministro dell’Ambiente del governo ombra del Pd, in una interrogazione parlamentare presentata al governo, per chiedere se non si intenda sostenere un tale provvedimento anche nel nostro paese. Nell’interrogazione presentata da Realacci, infatti, si fa riferimento al Bicycle Commuter Act una misura approvata qualche settimana fa negli Stati Uniti, in vigore dal 2009, che prevede un bonus di 20 dollari in più in busta paga, esenti da tasse, per tutti i lavoratori dipendenti che decidano di utilizzare la bicicletta anzichè l’auto per andare a lavorare. Inoltre i datori di lavoro potranno a loro volta scaricare quei soldi dalla dichiarazione dei redditi. Secondo la relazione trimestrale del Congresso statunitense l’intera operazione costerà 10 milioni di dollari in 10 anni e andrà ad aggiungersi agli incentivi che già esistono per il trasporto pubblico.
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Tante pagine per una buona foresta [Geraldina Colotti]
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econdo le Nazioni unite, ogni giorno scompaiono circa 200 km quadrati di superfici forestali, dall’Amazzonia, all’Africa, al Sud est asiatico: i tre polmoni verdi, fondamentali all’equilibrio climatico, che aiutano ad assorbire milioni di tonnellate di CO2 emesse nell’atmosfera. Bisognerebbe inventare un altro Elzéard Bouffier. Bouffier è il protagonista del breve romanzo L’uomo che piantava gli alberi, dello scrittore francese Jean Giono (1895-1970). Un piccolo capolavoro su un ambientalista ante litteram, da cui adesso è stato tratto anche un film d’animazione di Fréderic Back, edito da Salani insieme al libro. La storia è ambientata nella campagna francese di inizio secolo. Su un terreno arido e impervio della Provenza, un ragazzo incontra un pastore solitario che vive con il suo gregge e un cane. Si chiama Elzéard Bouffier, un uomo semplice che però sta compiendo una grande impresa: pianta migliaia di alberi, che negli anni faranno rinascere quelle terre. Intanto, scoppiano due guerre mondiali ma – dice Giono – l’impresa di Elzéard Bouffier dimostra che “gli uomini potrebbero essere altrettanto efficaci di Dio in altri campi oltre la distruzione”. Nella foresta ha perso la vita anche il sindacalista Chico Mendes. Il 22 dicembre del 1988 veniva ucciso dai latifondisti brasiliani a Xapuri, nell’Amazzonia occidentale. Vent’anni dopo cosa resta della lotta dei seringueiros come Chico? Cosa rimane di quei lavoratori degli alberi da gomma che si battevano per i propri diritti e per proteggere la foresta dal disboscamento voluto dai latifondisti e dalle multinazionali del legname? Adriano Marzi torna fra gli amici di Chico per ricordarne le battaglie nel libro Chico Mendes. Una vita per l’Amazzonia (Terre di Mezzo,I libri dell’Altra economia). Oggi ormai – dice un sindacalista – “per molti seringueros la foresta non ha più valore. Le attività economiche sono diventate quelle che traggono origine dal disboscamento,come il commercio della legna e l’allevamento”. Da quando il Pt di Lula è al potere, nonostante controlli e iniziative per favorire lo sviluppo sostenibile nella regione, l’area disboscata è cresciuta del 30 per cento. Anche nella riserva estrattiva che porta il nome di Chico Mendes. Nonostante i severi regolamenti che regolano il disboscamento e l’estrazione della legna pregiata, prospera il commercio illegale del legname, prevalentemente diretto ai mercati europei. Il legno per l’arredo è molto richiesto – soprattutto il legno “esotico” -, e un quinto di quello che entra in Europa proviene da tagli non autorizzati. Secondo stime della Fao e del Wwf, anche l’Italia importa illegalmente ingenti quantità di legname da varie regioni d’Africa, dalla Bolivia, dall’Indonesia, e di recente anche dai paesi dell’Est come Bosnia e Ucraina. Ma la minaccia alle foreste viene anche dai biofuel indu-
striali presentati come fonti di energia rinnovabile per diminuire le emissioni di gas serra. Argentina, Brasile, Colombia, Paraguay, Ecuador stanno sostituendo le foreste e i pascoli con piantagioni di canna da zucchero, di soia e palma per olio con l’obiettivo di ricavarne prodotti utili alla raffinazione per agrocombustibili. Gli Stati uniti prevedono di produrre circa 133 miliardi di litri di bioetanolo all’anno per il 2017. E anche l’Europa conta di coprire quasi il 10 per cento del suo fabbisogno energetico con gli agrocombustibili, sacrificando così, entro il 2020, circa il 20 per cento dei terreni agricoli. Un rimedio peggiore del male, dicono però gli ambientalisti, che rischia persino di aggravare il caos climatico e il bilancio della CO2: secondo stime della Fao, 1,6 miliardi di tonnellate, cioè tra il 25 e il 30 per cento dei gas serra rilasciati nell’atmosfera ogni anno, provengono dal disboscamento. Entro il 2022, le piantagioni per la produzione di biofuel potrebbero portare alla distruzione del 98 per cento della foresta pluviale indonesiana. Secondo altre organizzazioni ambientaliste, ogni tonnellata di olio di palma prodotta determina emissioni di anidride carbonica per 30 tonnellate, ossia 10 volte la produzione dell’industria petrolifera. Perché allora – ha accusato di recente Wandana Shiva - il Protocollo di Kyoto tratta questo ulteriore aggravio dell’inquinamento atmosferico alla stregua di un meccanismo di sviluppo pulito? Alla “faccia oscura degli agrocombustibili” è dedicato anche il saggio del viceministro dell’ambiente cubano José Antonio Diaz Duque, edito nel volume collettaneo L’Ambiente capitale, a cura di Luciano Vasapollo e Rita Mar-
tufi (Natura Avventura edizioni). Un libro che illustra le alternative alla “globalizzazione contro natura” intraprese a Cuba e nei paesi dell’Alba, l’Alternativa bolivariana delle Americhe. In merito agli agrocombustibili, il saggio raggiunge la posizione espressa dai movimenti sociali di Brasile, Boli-
via, Costarica, Colombia, Guatemala e Repubblica Dominicana in un documento intitolato “Serbatoi pieni e pance vuote”: il modello produttivo dei biocombustibili – scrivono i movimenti – si basa sugli stessi elementi “che hanno sempre causato l’oppressione dei nostri popoli, l’appropriazione del territorio, delle risorse naturali e della manodopera”. Altra cosa è il combustibile prodotto da biomassa non edibile come il letame essiccato o gli scarti di una fattoria, che – dall’Africa all’America latina – ha sempre prodotto energia per i contadini poveri su piccola scala. La biomassa, l’energia contenuta nella materia che costituisce gli esseri viventi, consente di impiegare energie rinnovabili come il legname per costruire “reti di calore” che riscalderanno un gruppo di case con un’unica caldaia. Gli scarti del legname possono scaldare un’intera fabbrica di riciclaggio di rifiuti come avviene a Labruguière, nel Sud della Francia. Quanto all’impiego domestico di energie rinnovabili, si possono trovare idee attingendo al libro di Jacopo Fo,Pannelli solari gratis, edito da Dario Flaccovio, che informa sulle modalità concrete per risparmiare e al contempo proteggere l’ambiente. Quanti sanno, infatti, che lo stato italiano “finanzia il 100 per cento del costo di un impianto fotovoltaico”? Secondo un rapporto di Greenpeace, affrontare il cambiamento climatico con una “rivoluzione energetica” pulita farebbe risparmiare circa 14mila miliardi di euro nella
spesa in combustibili fossili, oltre a sostenere l’occupazione a livello mondiale. Dice l’organizzazione ambientalista: “Il mercato globale delle fonti rinnovabili può continuare a crescere a tassi con due cifre fino al 2050, superando le dimensioni attuali del mercato delle fonti fossili. Oggi il mercato delle rinnovabili vale 70 miliardi di dollari all’anno e raddoppia ogni tre anni”. Natura e vita comunitaria anche nel volume di Roger Deakin Nel cuore della foresta. Un viaggio attraverso gli alberi, edito da Edt. Roger Deakin, scrittore, regista e ambientalista inglese, era uno che gli alberi li amava davvero. Ha viaggiato in tutto il mondo per osservarli nelle foreste, seguendo un suo percorso fuori dagli schemi. Amava soprattutto il legno, le sue forme e i suoi percorsi nel mondo globalizzato. Negli anni ’60, Deakin ha creato una piccola comune immersa nella foresta, nel Suffolk. Lì c’era uno stagno e una capanna in cui si rifugiava per scrivere libri sulle foreste di noci del Kirghizistan o sull’origine del melo, tra spunti ecologisti e riflessioni autobiografiche. Un’esperienza che sarebbe stata utile al prossimo censimento globale delle foreste, previsto dalla Fao nel 2010. Solo l’8 per cento delle foreste mondiali ha il certificato di “buona gestione” del patrimonio forestale. Anche per questo, l’organizzazione ha invitato tutti i paesi interessati a fornire i dati nazionali necessari a monitorare lo stato delle foreste su scala mondiale.
Uomini che piantano alberi, storie di rispetto e di violazione dell’ambiente, libri che parlano di noi e del nostro futuro
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