scritto e mangiato giugno 2009

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scritto & mangiato in collaborazione con Slow Food

Supplemento al numero odierno de il manifesto

La pizza e la sua arte entrano nel quarto secolo. Storie di gusto e di mestiere bene accompagnate

L’oro

di Napoli

GIUGNO 2009



scritto & mangiato

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in collaborazione con Slow Food

Direttore responsabile Valentino Parlato Supplemento a cura di Francesco Paternò Grafica Tag design Paola Marasca Daria Sorrentino Illustrazione di copertina Laura Federici Pubblicità concessionaria esclusiva Poster srl 00153 Roma via A. Bargoni 78 tel. 06 68896911 fax 06 58179764 Stampa Sigraf srl via Redipuglia, 77 Treviglio (Bg)

5 Chiamami Margherita di Giovanni Ruffa 6 La vera ricchezza dei poveri di Antonio Mattozzi 11 Giappone al pomodoro di Sylvie Guicard-Anguis 12 Chimica e vitigni di Mariagiulia Mariani 13 Dialogo al nebbiolo di Enrico Remmert, Luca Ravagnin 14 Puglia da bere di John Irving 15 Cacao amaro di Geraldina Colotti

Chiuso in redazione il 23/6/2009

on è il mestiere più antico del mondo, è solo settecentesco, però ha una bellissima tradizione. Parliamo del pizzaiolo o pizzaiuolo napoletano, una storia del nostro paese che si allargata nel mondo dopo la seconda guerra mondiale e di cui vi raccontiamo in questo supplemento saperi e sapori. Gli amici di Slow Food ci hanno servito per l’occasione una pizza croccante, cotta al punto giusto, perfino da tramandare urbi et orbi. C’è lo storico a parlarci di un mestiere che ha attraversato la storia di Napoli in almeno tre importanti periodi, dal Decennio Francese all’Unità d’Italia fino al cosiddetto Risanamento. Una vicenda fatta di pizzerie e di famiglie, di status e di persone, chi volesse approfondire dopo avere chiuso queste pagine può cercarsi i due volumi “Una storia napoletana, pizzeFRANCESCO PATERNÒ rie e pizzaiuoli tra Sette e Ottocento”, di Antonio Mattozzi, Slow Food Editore. A seguire, ci sono tante declinazioni di un fenomeno italiano che spopola. Dove? Tra gli altri paesi, in Giappone. Qui, dopo tante avventure culinarie e tante (par di capire) nefandezze, la pizza è diventa cosa serissima con la scoperta del pomodoro e dell’olio di oliva. E’ stata rivoluzione per i costumi gastronomici di un buon numero di giapponesi, specialmente nei grandi centri urbani. Non sappiamo quanti siano i posti dove mangiare una buona pizza, mentre vi possiamo dare il numero dei locali italiani dove si esercita questa antica arte (qualità a parte): ben 30.000. Dovunque vi sediate, consigliano comunque i nostri amici di Slow Food, scegliete con gusto il vino che accompagnerà la pizza. Un rituale fondamentale, e lasciate perdere quei giapponesi che invece preferiscono bere bevande non alcoliche con una Margherita. Per digerire, infine, una scelta di libri che potrete infornare soltanto in valigia e a stomaco pieno. Da una storia di cacao amaro ambientata in Costa d’Avorio al peregrinare in altri villaggi africani, per poi spostarsi in Europa ricordando mille infanzie. Buona lettura.

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Un bel mestiere

Per avere tutte le informazioni sui cd, gli artisti, i concerti, e molto altro consultate musica.ilmanifesto.it

LE ULTIME NOVITÀ IL TRIO “E’ SPINGULE E A FRANGESA” "CAUTAMENTE" euro 10,00 Il nome ricorda una celebre canzone di Salvatore Di Giacomo di fine ottocento. Questo straordinario trio, composto da Rosaria Russo, Sylvie Genovese e Ciro Sagitto, propone un divertente e surreale repertorio della canzone comica napoletana di fine '800 e prima metà del '900 raro o addirittura inedito. In collaborazione con il Circolo Gianni Bosio.

SERVILLO/GIROTTO/ MANGALAVITE "FÚTBOL" euro 10,00 Torna il trio italo-argentino composto dal cantante Peppe Servillo (voce ed anima degli Avion Travel), il sassofonista Javier Girotto e il pianista Natalio Mangalavite. E lo fa con un progetto ispirato al libro “Fútbol - storie di calcio” di Osvaldo Soriano.Tredici brani che sanno di calcio e Sudamerica, di amicizia e di fatica. Nel cd anche due ospiti speciali: l’attore Toni Servillo e il chitarrista Fausto Mesolella. ALTRI TITOLI L’amico di Cordoba, euro 10,00

YO YO MUNDI "ALBUM ROSSO" euro 10,00 Finalmente dopo 6 anni il nuovo disco di canzoni degli YYM, la sintesi della loro poetica dopo i successi di 54, Resistenza e Sciopero. 16 tracce che descrivono con intensità, ironia e emozione il disorientamento della sinistra e il desiderio di un¹Italia migliore. Canzoni d’amore, di lotta e di speranza con un testo di Massimo Carlotto e la partecipazione di Steve Wickham (violinista dei The Waterboys), Maurizio Camardi, Patrizia Laquidara, Marco Rovelli, Alessio Lega. ALTRI TITOLI Resistenza, euro 15,50 - 54, euro 8,00

BAOBAB INTERNATIONAL ORCHESTRA "TRIBAL CONCEPT" euro 10,00 TRIBAL CONCEPT è il primo lavoro dell’ensemble multietnico BAOBAB INTERNATIONAL ORCHESTRA. Il lavoro rappresenta un percorso musicale giocato continuamente su contrasti moderni, lirici, meditativi e psichedelici. Il tribalismo è collocato come un aspetto della cultura intellettualmente “migrante”. B.I.O. coniuga la musica contemporanea d'arte con la musica etnica di derivazione mediaterranea, sub sahariana e indiana.

PICCOLA ORCHESTRA LA VIOLA "AROVÀ" euro 10,00 "Arovà" riassume le sensazioni, le emozioni e le esperienze di oltre un decennio di questa attivissima orchestra. I brani contenuti sono di ispirazione popolare, con uno sguardo attento al futuro, all’innovazione musicale, alla sperimentazione. Al disco partecipano anche molti ospiti. Spiccano Daniele Sepe, Peppe Barra, Riccardo Tesi, Mohsen Kasirossafar, Lino Cannavacciuolo, Piero Ricci, Massimo Carrano, Maria Rosaria Omaggio e il Quartetto Flegreo.

ASSALTI FRONTALI "INTESA PERFETTA" euro 10,00 "ECCOCI DI NUOVO, IL DISCO NUMERO SETTE ESCE DAL MIO COVO". Con queste parole inizia "Un'intesa perfetta", il ritorno di Assalti Frontali con il nuovo cd. Le rime di Militant A, l'ironia di Pol G e Glasnost, le basi di Bonnot, la postproduzione di Casasonica, ci regalano una nuova splendida pagina della migliore rap poetry urbana e militante che l'Italia conosca.

I cd sono in vendita presso le librerie La Feltrinelli, Ricordi Mediastores, il libraccio e Melbookstore. Per informazioni su altri punti vendita e per acquisti con carta di credito telefonare ai numeri: 06/68719330 - 622. Per ricevere i cd aggiungere al prezzo 2,00 euro di

ALTRI TITOLI Mi sa che stanotte, euro 10,00

spese postali (fino a tre cd) e versare l’importo sul c.c.p. n. 708016 intestato a il manifesto coop. ed. - via A. Bargoni, 8 - 00153 Roma, specificando la causale. Distributore per i negozi di dischi Goodfellas tel. 06/2148651 - 21700139



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al locale al globale e ritorno. Questo è in qualche modo il tema che Slow Food esplora in queste pagine utilizzando il suo abituale veicolo fatto di cibo e vino, uno strumento – un punto di vista – che consente percorsi storici istruttivi e riflessioni illuminanti. Negli ultimi anni film come Super Size Me di Morgan Spurlock e, da ultimo, Food, Inc. di Robert Kenner, premiato alla rassegna bolognese Slow Food on Film, e studi come Il mondo alla McDonald’s di George Ritzer fino al recente I padroni del cibo di Raj Patel, passando attraverso i lavori di Eric Schlosser, Vandana Shiva, Michael Pollan e tanti altri, hanno strappato la maschera di un modo di nutrirsi e, soprattutto, di un sistema agro-industriale e di produzione del cibo che non solo pretenderebbe di sfamarci con oggetti alimentari di scarsa qualità, ma che li ottiene senza curarsi della salute di uomini, animali e della terra stessa. È il marchio di fabbrica del mondo globalizzato. Ma segni di valenza oppo-

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no oggi decine di migliaia, mentre nel mondo la producono multinazionali come Domino’s Pizza che può contare su oltre 5000 punti vendita. Ce ne racconta Antonio Mattozzi, che nel volume Una storia napoletana. Pizzerie e pizzaiuoli tra Sette e Ottocento, esplora le origini e i primi passi di un alimento nato povero per gente povera diventato fenomeno universale, mettendo in luce l’esigenza di conoscerne la storia nella sua dimensione reale, più che nelle divagazioni leggendarie. Una lezione che dovrebbe valere in ogni settore, non solo in quello in cui, proprio in questi giorni, si festeggia l’anniversario della “pizza margherita” ignari del fatto che, in quel 1889 (come ricostruisce con puntualità Mattozzi), il colpo di genio del pizzaiuolo di via Sant’Anna di Palazzo, Raffaele Esposito, non fu quello di creare un tipo di pizza che era già negli usi da molti anni, ma piuttosto di battezzarla con il nome della regina, in visita a Napoli per inaugurare i lavori del Risanamento e desiderosa di gustare la specialità locale. Un caso di invenzione della

di Giovanni Ruffa*

Il ritorno al locale, attraverso il cibo e il vino. Il grande caso dell’invenzione di una tradizione

Chiamami

Margherita sta stanno per fortuna vedendo la luce. Nel settore dell’immaginario, un film come Focaccia Blues di Nico Cirasola dimostra che a volte le ragioni del buon gusto finiscono per vincere. Nel settore produttivo, non solo il successo di Terra Madre ma una sempre più numerosa e consapevole schiera di donne e uomini che vogliono accostarsi alla terra con un atteggiamento nuovo e antico al tempo stesso, fatto di confronto e di rispetto più che di volontà di dominio e sfruttamento, danno nuovo fiato alla speranza. È il ritorno al locale. Per quanto riguarda il globale, l’esempio della pizza è certo esemplare, se pensiamo che solo in Italia le pizzerie so-

tradizione che non fa che confermare le frequenti disinvolture di molti fra quelli che si occupano di un settore attualmente à la page come la gastronomia e la sua storia. Non a caso Slow Food insiste da anni sulla necessità di trattare il comparto con approccio scientifico, più che con atteggiamento folkloristico, ed è infine arrivato a costituire una università, quella di Pollenzo e Colorno, che alle Scienze Gastronomiche si vuole dedicare totalmente. Convinti come siamo che, come enunciò Brillat-Savarin quasi due secoli fa, «il destino delle nazioni dipende dal modo in cui si nutrono». E anche dai vini che bevo-

no, aggiungiamo noi, che dal vino siamo partiti, più di vent’anni orsono, intraprendendo un cammino che ci ha portati a studiare, a riflettere e infine a suggerire soluzioni che, sempre più chiaramente con il passare del tempo, ci paiono indissolubili dall’attenzione per il locale. Un aggettivo che in ogni senso si pone agli antipodi del globale, per tutto tutto ciò che esso ci sa raccontare: sulle radici profonde, sui sapori autentici, sulle pratiche agricole tradizionali. È il caso dei vitigni autoctoni, come sono definiti quelli che sono nativi o almeno da molto tempo insediati in un certo territorio. Da alcuni anni, non solo in Italia, sono

diventati oggetto di grande attenzione: tecnici, esperti, produttori, consumatori hanno finalmente smaltito la sbornia a base di varietà internazionali che, almeno dagli anni Ottanta fino al volgere del secolo, aveva intossicato le enologie del mondo. Una sbornia a base di cabernet, merlot, pinot, chardonnay, varietà che, complice in origine il gradimento da parte del pubblico statunitense, rischiavano di colonizzare l’intero vigneto mondiale. Con il contributo di pratiche di cantina omologate – quelle ben registrate e raccontate da Jonathan Nossiter nel suo Mondovino – si è rischiato di limitare seriamente il panorama del vino, propo-

nendone pochi modelli ovunque ripetitibili. Oggi finalmente si è capito. La biodiversità presente nel patrimonio ampelografico delle terre del vino è straordinaria ed è capace di regalare all’enofilo una quantità di colori, profumi, sapori quasi senza fine. Per questo proprio dai vitigni autoctoni Slow Food ha voluto trarre ispirazione per una serie di racconti, di “Storie di un Bacco minore”, di cui vi offriamo qui un assaggio. Certi che potrete apprezzarne la sapidità e la vivacità, lasciando per una volta il linguaggio un po’ asettico dei degustatori di professione per accogliere narrazioni capaci di emozionare. * Slow Food


6scritto&mangiato

li studiosi che si sono interessati alla storia di Napoli spesso si sono preoccupati non solo di narrare le vicende del popolo napoletano ma anche di descriverne le condizioni di vita, le attività, gli innumerevoli mestieri, la composizione sociale. I volumi, i saggi o i semplici articoli sono infiniti. Tra questi, tuttavia, non sono pochi quelli concepiti per puro gusto folkloristico, composti non tanto con l’intento di riprodurre fedelmente la realtà delle cose, quanto piuttosto per eccitare e affascinare la fantasia del lettore. Questo perché le condizioni e la storia di Napoli e del suo popolo, la bellezza dei luoghi, la ricchezza culturale e contemporaneamente il secolare degrado so-

secolo successivo, in verità lo sviluppo delle pizzerie napoletane è un fenomeno di più lungo periodo che va, grosso modo, dalla metà del Settecento alla metà del Novecento, durante il quale tuttavia le pizzerie e i pizzaiuoli rimasero a lungo confinati alla ristretta cerchia cittadina, dove certo ebbero un ruolo e un’identità sempre più riconosciuti, ma di cui rimasero comunque esclusivi. Difatti, anche se tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento erano sorte alcune pizzerie in America a opera di emigranti napoletani, si era trattato di fenomeni isolati. Fu solo verso la metà del Novecento, dopo la seconda guerra mondiale, che la pizza napoletana, superando definitivamente i confini cittadini, cominciò a spingersi sempre più lonta-

ciale e le arretrate strutture economiche sono così complessi e avviluppati tra loro da apparire talvolta quasi sospesi tra realtà e fantasia. Anzi la vita, i costumi, le contrapposte situazioni sociali sono tanto forti e stridenti, che sembrano fatte apposta per spingere chi se ne occupa a sconfinare nel piacevole e rasserenante terreno dell’invenzione, contaminando di elementi leggendari e fantastici gli avvenimenti reali, presentando come realistici fatti in gran parte inventati. L’argomento delle pizzerie e dei pizzaiuoli nell’Ottocento (perché il Settecento è soltanto il secolo in cui il mestiere ebbe origine), è tra quelli che più hanno nutrito questo tipo di pubblicistica. Ne è venuta fuori un’immagine-cartolina in cui non si capisce bene dove finisce il vero e dove comincia il verosimile mentre sarebbe utile riportare a un accettabile livello di storia documentata la vicenda di un piccolissimo gruppo sociale, i pizzaiuoli, che costituirono la base di un mestiere che, se oggi conta nella sola Italia più di 30 000 esercenti, lungo tutto l’arco dell’Ottocento e anche oltre non superò mai le 100-120 unità. Certo questo numero così irrisorio per noi, abituati a vedere pizzerie in ogni angolo di Napoli e di ogni città d’Italia e del mondo, potrebbe apparire stravagante se non fosse risaputo che le pizzerie nacquero a Napoli e qui rimasero a “fermentare” (la parola è quanto mai pertinente) per quasi due secoli. L’Ottocento, oltre a essere stato il periodo determinante nel processo di identificazione del mestiere, è stato anche teatro di due grandi avvenimenti che, a inizio e fine secolo, segnarono profondamente la vita cittadina: da una parte, la rivoluzione napoletana e il successivo decennio francese che, insieme al rinnovamento complessivo della macchina dello stato, modificarono i rapporti sociali ed economici; dall’altra, il fenomeno per certi versi sconvolgente del risanamento edilizio della città, che portò inevitabilmente a una radicale trasformazione nella distribuzione delle pizzerie sul territorio. Se l’Ottocento è il secolo in cui il mestiere si diffonde, si affina e si prepara – anche senza esserne cosciente – al grande salto planetario del

no, fino a diventare quella grande onda che negli ultimi tempi è letteralmente dilagata in ogni angolo del mondo. Solo negli ultimi decenni del Novecento, infatti, si è realizzata la totale globalizzazione della pizza e delle pizzerie. La data precisa in cui fu aperta la prima pizzeria a Napoli non è nota, né si sa quando il primo pizzaiuolo fu chiamato con questo nome. La loro comparsa rientra infatti in quei fenomeni sociali e di costume – in questo caso della ricerca di nuovi cibi e nuovi sapori – che sfuggono alla registrazione dei cronisti e sono rilevati e osservati solo quando sono già maturi. Sicuramente altri tipi di pizza si producevano già prima del Settecento, ma doveva trattarsi di focacce preparate nelle taverne o nei forni da pane con ingredienti diversi, cotte in teglie o fritte nella padella. Ma il mestiere vero e proprio, che aveva bisogno di locali particolari e doveva essere esercitato da personale specializzato, nacque soltanto verso la metà di quel secolo. Una prova di questa collocazione temporale è data dal fatto che tra le centinaia di corporazioni di arti e mestieri esistenti a Napoli, anche quelli più umili – bazzareoti, becchini, stallieri, maccaronari, frittori di pesce, franfelliccari, ogliarari di otre in collo (venditori ambulanti di olio), trippaiuoli…, per citarne solo alcuni – non si ritrova mai quella dei pizzaiuoli. Questa assenza significa due cose. La prima è che questa specifica categoria professionale subì un processo di identificazione piuttosto lento perché fu compresa e confusa per lungo tempo con i bettolieri e i tavernieri o tutt’al più con la generica categoria dei fornai, tutti mestieri con i quali condivideva la passione e l’abilità nell’essenziale compito di preparare vivande. E forse fu proprio questa identità inizialmente vaga e incerta, unita all’esiguo numero dei primi operatori, la causa che impedì che i pizzaiuoli si costituissero in associazione di mestiere. La seconda, conseguente alla prima, è che quando questo processo di identificazione fu completato le corporazioni avevano di fatto perduto il loro interesse e la loro funzione e quindi non esercitavano più l’attrazione, né offrivano più i vantaggi di un tempo e stavano

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ricch dei

di Antonio Mattozzi

L’origine delle pizzerie a Napoli. Un mestiere che comincia nel Settecento e si afferma nell’Ottocento, per poi diffondersi nel mondo dopo la seconda guerra mondiale. Una bella storia che fa a pugni con alcune invenzioni

per/o avevano di fatto cessato di esistere. Ma, corporazione a parte, da un documento del 1799, si apprende che in quella fine secolo già esisteva non solo il “pizzaiuolo” ma anche la “bottega” nella quale si preparavano e si mangiavano le pizze. Bottega che sarà chiamata “pizzeria” solo molti anni dopo la metà dell’Ottocento, a sottolineare ancora una volta la lentissima evoluzione di questo particolare settore della ristorazione. PERCHÉ NAPOLI Scriveva Matilde Serao ne Il ventre di Napoli, nel 1884: Un giorno, un industriale napoletano ebbe un’idea. Sapendo che la pizza è una delle adorazioni cucinarie napoletane, sapendo che la colonia napoletana in Roma è larghissima, pensò di aprire una pizzeria in Roma. Il rame delle casseruole e dei ruoti vi luccicava, il forno vi ardeva sempre; tutte le pizze vi si trovavano: pizza al pomodoro, pizza con muzzarella e formaggio, pizza con alici e olio, pizza con olio, origano e aglio. Sulle prime la folla vi accorse: poi andò scemando. La pizza, tolta al suo ambiente napoletano, pareva una stonatura e rappresentava una indigestione; il suo astro impallidì e tramontò, in Roma; pianta esotica, morì in questa solennità romana. È vero infatti: la pizza rientra nella larga categoria dei commestibili che costano un soldo e di cui è formata la colazione o il pranzo di moltissima parte del popolo napoletano. Il pizzaiuolo che ha bottega, nella notte, fa un gran numero di queste schiacciate rotonde, di una pasta densa, che si brucia, ma non si cuoce, cariche di pomidoro quasi crudo, di aglio, di pepe, di origano: queste pizze in tanti settori da un soldo, sono affidate a un garzone che le va a vendere in qualche angolo di strada, sovra un banchetto ambulante e lì resta quasi tutto il giorno, con questi settori di pizza che si gelano al freddo, che si ingialliscono al sole, mangiati dalle mosche. Vi sono anche delle fette da due centesimi, pei bimbi che vanno a scuola; quando la provvista è finita, il pizzaiuo-


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hezza poveri lo la rifornisce, sino a notte. Vi sono anche, per la notte, dei garzoni che portano sulla testa un grande scudo convesso di stagno, entro cui stanno queste fette di pizza e girano pei vicoli e dànno un grido speciale, dicendo che la pizza ce l’hanno col pomidoro e con l’aglio, con la muzzarella e con le alici salate. Le povere donne sedute sullo scalino del basso, ne comprano e cenano, cioè pranzano, con questo soldo di pizza. In questa pagina sono sintetizzati con grande efficacia quasi tutti i temi che deve analizzare chi vuole affrontare questo aspetto particolare della vita napoletana nell’Ottocento: la specificità partenopea della pizza e della pizzeria; il fatto che per lunghissimo tempo fosse “adorata” solo dai napoletani e non da altri; l’ennesima conferma che il tipo di pizza che sarà chiamata “margherita” esisteva già prima della sua presunta data di nascita, che risale a molti decenni prima del 1889; il carattere popolare anzi “plebeo” di questa pietanza. L’ultimo punto è fondamentale. Fu infatti

proprio il carattere popolare che permise lo sviluppo di un fenomeno che poteva crescere e radicarsi solo in una città che era in Europa quella a più alta densità abitativa e la cui popolazione soffriva di alti tassi di precarietà, quando non di povertà. I cronisti del tempo sono concordi nel sottolineare che la “plebe” napoletana amava poco cucinare e preferiva spendere i miseri guadagni in qualche bettola o presso le centinaia di venditori ambulanti di commestibili che affollavano la città, ma dimenticano di notare che questa gente doveva affrontare quotidianamente il problema non solo del cibo, ma anche del modo di cucinarlo, perché la quasi totalità dei bassi nei vicoli o delle abitazioni nei fondaci erano prive non solo dei servizi igienici ma anche del vano cucina, sostituito talvolta da una “fornacella” (piccolo focolare di ghisa), poggiata su dei mattoni piazzati, naturalmente, sulla strada. Senza contare quelli, ed erano diverse migliaia, che, non avendo nemmeno un misero alloggio, erano costretti a dormire in luride locande o in ricoveri di fortuna: il banco di un rivenditore di frutta, un forno spento, un semplice gradino o ancora, d’estate, la strada. Questa situazione endemica, che i

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cronisti e i visitatori stranieri registrarono puntualmente, si presenta più o meno lungo tutto il periodo che va dal Viceregno spagnolo al Regno borbonico e ben oltre l’Unità d’Italia. Naturalmente alla precarietà abitativa corrispondeva una difficoltà nel procacciarsi il cibo che era in parte risolta con l’acquisto di alimenti a basso costo – spesso guasti o di pessima qualità – ma soprattutto ricorrendo a prodotti locali di facile reperimento, come frutta e verdura, o a cibi cotti di varia natura, come interiora di animali, pesci del golfo come alici e pesciolini senza pregio, raccolti perché attaccati alle reti, oppure polpi e vivande varie tra le quali, oltre ai maccheroni, spiccava, per l’eccellente gusto e la grande capacità di riempire lo stomaco calmando i morsi della fame, proprio la

pizza. Salvatore Di Giacomo, in una delle sue cronache giornalistiche, nelle quali non veniva mai meno la tensione morale, racconta di una famigliola bisognosa che si era accordata con un pizzaiuolo il quale, in cambio di una misera moneta, faceva trovare loro, ogni sera, i “cornicioni” che gli avventori avevano lasciato durante il giorno e che costituivano la “lauta” cena delle famiglia. La pizza è citata tra i “cibi dei poveri” anche da quei medici e igienisti napoletani – Achille Spatuzzi ed Enrico De Renzi, per citarne solo qualcuno – che, prima e dopo l’Unità d’Italia, cominciarono a interessarsi dell’alimentazione delle classi inferiori della popolazione napoletana. Il successo della pizza a Napoli si deve dunque, oltre che alla semplicità della sua preparazione e alla gustosità del suo sapore, alla povertà, alla moltitudine e alla densità della popolazione. Tutti questi elementi sono sicuramente interdipendenti: poiché la pizza in quel tempo era un prodotto di infimo costo in quanto fatto con ingredienti poveri, affinché il pizzaiuolo potesse ammortizzare il canone di affitto spesso esoso della bottega, la paga di uno o più garzoni e raggranellare un accettabile guadagno, doveva produrne ogni giorno una quantità elevata. Il numero e la densità della popolazione permettevano dunque non solo a chi aveva la bottega nella popolosa strada dei Tribunali o nella strada di Porto, eternamente traboccanti di gente, ma anche a chi esercitava nelle vie secondarie, di sfornare centinaia di pizze al giorno, realizzando così un valore aggiunto che, se per unità di prodotto era insignificante, diventava remunerativo quando era il frutto di grandi numeri. Si creò in effetti una specie di circolo virtuoso: il basso costo permetteva la penetrazione del prodotto in qualsiasi strato sociale e d’altro canto la stragrande parte della popolazione era funzionale al suo basso costo e alla sua diffusione. Naturalmente al numero si supplì in seguito con il servizio, la bontà degli ingredienti, l’accorsatura, ma si tratta di una fase avanzata e di locali che disponevano di “camerini”. A quel punto erano nate le pizzerie.


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l Giappone è forse il paese del mondo in cui la pizza è proposta nei modi più diversi. È diventata il supporto di una creatività culinaria scevra dei pregiudizi tipici delle tendenze golose degli abitanti di questo arcipelago: gustare la pizza made in Japan equivale a sperimentare le tappe del processo di internazionalizzazione del Giappone. La pizza si consuma quasi esclusivamente fuori casa. Non esistono, o quasi, pizze come quelle che si trovano nei reparti dei surgelati dei supermercati europei. Tuttavia, sono in vendita dei toast surgelati ricoperti da guarniture simili a quelle delle pizze, e delle mini-pizze destinate, come i primi, alle merende o ai parties. Le basi di pasta sono ricoperte di salame e funghi, o bacon e mais. La mini-pizza, così come l’idea di diversificare i condimenti su una pizza di taglia media, sembra incontrare un grande successo nell’arcipelago, proprio perché l’idea di essere costretti a consumare in grande quantità uno stesso cibo è contraria al concetto giapponese di golosità. Le varie versioni di “pizze pronte” rispondono a un vincolo imposto dalle cucine giapponesi che prevedono la presenza dei soli forni a microonde. Ciò non impedisce che le riviste femminili propongano regolarmente le più svariate ricette di pizza. Per mangiare una pizza, dunque, in Giappone si esce di casa. La si può trovare in una grande varietà di locali, ma bisognerà intendersi riguardo a quale si vuole mangiare. In una kissaten – equivalente giapponese di un coffee-shop nordamericano – l’amatore sprovveduto potrà incappare in notevoli sorprese. È difatti normale vedersi servire una pizza guarni-

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ta di un formaggio filante (indefinito), di poche fettine di peperone, di bacon e di un’idea di pomodoro. Inoltre, se si dispone di un minimo senso dell’avventura, si può rischiare di ordinare una pizza “alla giapponese”, una wafu pizza. L’interpretazione dipenderà dal cuoco che, seguendo il proprio umore, ricoprirà la pasta di funghi giapponesi, alghe, formaggio (filante, ché altrimenti non sarebbe pizza!) aspergendo il tutto con un filo di salsa di soja prima di servire il piatto bello caldo. Pizze di questo genere hanno imperversato a lungo incontrastate, prima che facesse la sua comparsa quella al pomodoro e all’olio di oliva, rivoluzio-

di Sylvie GuicardAnguis*

Proposta nei modi più diversi, la pizza made in Japan è ormai sempre più autentica. Da consumare esclusivamente fuori casa, condita classicamente o secondo l’interpretazione del cuoco

nando i costumi gastronomici di un buon numero di abitanti dell’arcipelago, specialmente nei grandi centri urbani. La scoperta dell’autentica pizza si colloca nel contesto del boom della cucina italiana che si sta sviluppando in Giappone già da una quindicina di anni. D’altronde, le evoluzioni del gusto delle masse si manifestano da queste parti come un più o meno tumultuoso susseguirsi di boom. Attualmente si privilegia l’autenticità dei prodotti, il che determina la fine della cosiddetta “cucina occidentale”. Cercherò di chiarire: la cucina introdotta in Giappone si collocava, fino agli inizi degli anni ’80, tra la cucina cinese e quella occidentale, inglobando in un vasto insieme il gratin francese e la chowder soup. Il concetto ampiamente americanizzato della cucina italiana, che in Giappone si riassumeva in un piatto di fettuccine alla bolognese o in una pizza, è stato sostituito dalla ricerca della pizza autentica così come la si può gustare in Italia. Non si contano più gli chef giapponesi di piccolissimi ristoranti specializzati in cucina italiana che partono alla scoperta della verità, così come essa si incarna in Campania. Ormai, il viaggiatore del sol levante si comporta all’estero come a casa propria, esplorando ogni angolo alla ricerca di prodotti e tecniche locali, e assaggiando tutto ciò che di commestibile trova sul suo cammino. Le pizze sopra descritte sono destinate alle donne e ai bambini, essendo adatte a essere

consumate senza accompagnamento di bevande alcoliche. Ciò in riferimento ai vigenti criteri del gusto giapponese, che pretendono l’alcol per accompagnare piatti a base di carne o di pesce, mentre quelli a base di farinacei «sono sufficienti a se stessi». Esse trovano il giusto ambiente nei locali che non propongono bevande alcoliche, insieme ai mixed sandwich e al piatto di riso saltato alla cinese, altri cavalli di battaglia irrinunciabili. Ormai, però, la pizza è servita in ogni ristorante italiano che voglia essere degno di questo nome, e ordinare un bicchiere di vino dimostra quanto si sappia apprezzare questa cucina nel suo complesso. Non dimentichiamo, tuttavia, che ci troviamo in Giappone, e che per un buongustaio nipponico non c’è niente di più desolante che una tavola da pranzo con un’unica portata. Per questo le pizze sono servite a fette sottili che i commensali si dividono come entrée, o che si associano ad altri piatti per essere consumate come accompagnamento. Per fare la pizza è richiesto il pomodoro. Nel Paese il monopolio del pomodoro è detenuto dalla ditta Kagome, che produce oltre l’80 per cento delle conserve alimentari di questo prodotto. Fino a pochi anni fa il pomodoro Momotaro costituiva la gran parte della produzione. Leggermente rosato, adatto alla conservazione, era ideale per l’insalata come si apprezza in Giappone. Ormai, però, sono in atto coltivazioni di nuove va-

Giappone

rietà, allo scopo di disporre di pomodori dal sapore più zuccherino e, soprattutto, capaci di fornire una salsa degna di questo nome. Malgrado la ricerca della massima autenticità possibile, la creatività dei cuochi giapponesi non viene meno, come dimostrano alcune ricette riprese recentemente dalle riviste femminili o scoperte qua e là nei ristoranti. La pizza giapponese consigliata da una lettrice della rivista “Utsukushii heya” prevede una base di pasta da pizza spennellata di salsa di soja, sulla quale si dispongono rondelle di melanzana, funghi giapponesi, bacon, cipolle e peperoni verdi, il tutto ricoperto di formaggio o maionese. La pizza “etnica” – definizione coniata nel periodo del boom culinario che precede gli anni ’80, e che fece scoprire ai buongustai giapponesi tutte le cucine dal sud-est asiatico all’Africa del Nord – è nata in questo contesto. La ricetta seguente, fornita da una delle più note riviste giapponesi, “Kyo no ryori”, prevede un fondo di pasta da pizza spennellato di ketchup e salsa cinese dolce e piccante. Come guarnizione: filetti di pollo in lamelle cotti nel saké ricoperti da un’insalata fresca di lattuga, porri sminuzzati, bastoncini di cetriolo, condita con shiso verde (perilla di Nanchino). Il ristorante Latina nel quartiere di Shinjuku a Tokio, serviva una versione “italiana” della medesima ricetta. Su una base di pasta da pizza spennellata di salsa di pomodoro, condita con olio di oliva e cotta in forno, si dispongono un’insalata di foglie varie, minuscoli crostini, scaglie di parmigiano e lardo grigliato, esempio emblematico della straordinaria varietà della pizza giapponese. * Slow Food

al pomodoro


12scritto&mangiato

Chimica

e vitigni Diririn dindin Diririn dindin Diririn dindin,din, din, din, din Diririn dindin Diririn dindin Diririn dindin,din, din, din, din. E com’è bella l’uva fogarina e come è bella saperla vendemmiar a far l’amor con la mia bella a far l’amore in mezzo al prà.

on so se ricordate il duetto di Mia Martini e Renzo Arbore che nel 1992 reinterpretarono il canto popolare emiliano dedicato all’uva fogarina. Prima di loro, anche Orietta Berti, il duo di Piadena e molti altri lo avevano ripreso, rendendolo famoso. Per gli appassionati di musica popolare e di canzone italiana si tratta probabilmente di un pezzo di storia. Per me, almeno fino a pochi anni fa, semplicemente di un ritornello divertente. Mio padre, quand’ero bambina, lo fischiettava spesso. Dopo pranzo, dirigendosi verso la sua vigna, o entrando in cucina per cena, dopo un pomeriggio di lavoro in campagna (quello che lui, medico, continua a considerare il suo vero lavoro). Si divertiva a immaginare – credo con un po’ di invidia – questa scena agreste animata di uomini che vivono con spontaneità, ritmata da una natura intensa, a tinte forti.

N

Nella mia immaginazione da allora l’uva fogarina ha continuato a tintinnare. A Verona, alcuni anni fa, muovo i primi passi tra un vigneron come si deve e un bicchiere di vino raccontato con passione. Al centro sociale occupato La Chimica da un paio d’anni si rinnova l’appuntamento che fa da contraltare della kermesse affollata e patinata del Vinitaly: il Critical Wine, voluto da Luigi Veronelli poco prima di morire. La Chimica è un posto magico, il più magico dei luoghi occupati che ho frequentato. È un asilo abbandonato. Le grandi finestre in metallo colorato ormai un po’ arrugginite, piccoli banchi di legno rivestiti di formica color pastello, wc in miniatura e lavabi a livello delle ginocchia. Il tutto a due metri da una centrale elettrica che domina il modesto edificio a un piano. A un certo punto i genitori ne hanno avuto abbastanza di quel mostro incombente che faceva ronzare nella testa dei bambini strane idee e hanno chiesto il loro trasferimento altrove. Così, da luogo morente è tornato a essere uno spazio per la condivisione creativa di idee e progetti. Un contrasto affascinante. Immaginatelo riempito per due giorni da giovani con la voglia di scoprire il buon cibo e il buon bere, nonché da una bevuta abbondante e prolungata. Ragazzi divertiti, ma anche incazzati, che rifiutano un sistema di produzione e con-

di Mariagiulia Mariani*

Il nome di un luogo che tradisce le intenzioni di chi lo anima. Un salone del vino popolato da prodotti e produttori “ribelli”

sumo del cibo che calpesta la dignità dei produttori e il diritto di chi compra – quale che sia il suo conto in banca – di poter scegliere la qualità. Il nome del posto – La Chimica appunto – tradisce le intenzioni di chi lo anima, gente che ha fame di armonia tra uomo e natura, di un circuito virtuoso che leghi la qualità dell’ambiente, dei prodotti e delle relazioni sociali. Insomma, un appetito vitale di “terra e libertà”, il motto rivoluzionario di Emiliano Zapata che ha dato il titolo al film di Ken Loach sulla guerra civile spagnola e che si ritrova in tut-

te le riflessioni del Critical. All’interno della Chimica si snoda un serpentone di banchetti popolati da prodotti e produttori “ribelli”, che rifuggono il salone ufficiale del vino italiano preferendo un ambiente creativo, con la voglia di aprire nuove rotte. Chiacchiero con il vigneron, bevo, chiedo, ribevo, scopro che Rudolf Steiner si è occupato anche di agricoltura alla fine della vita, bevo ancora un sorso, prendo appunti sulle mie sensazioni, faccio scivolare lentamente il vino sul palato. Ripeto lo stesso rituale per una buona serie di vini e produttori, guardandomi bene dall’utilizzare le rare sputacchiere, quasi dimenticate alla Chimica. Arrivo a un banchetto che espone farina gialla macinata a pietra e bottiglie panciute dall’etichetta divertente. Il discorso parte dalla politica: l’uomo che ha voluto questi prodotti è un anarchico reggiano sulla sessantina che arriva da Boretto, antico porto veneziano sul Po e patria delle rinomate cipolle borettane. Per cominciare ci invita a un appuntamento che sta organizzando da mesi: tavola rotonda su energie alternative e autoproduzione, mangiatona emiliana, cerimonia dello sbattezzo collettivo, Lambrusco a volontà. Baffuto, dallo sguardo attento, lascia immaginare, oltre a un carattere sanguigno, un che di goliardico. Questo aspetto me lo svela proprio quella bottiglia emiliana dal tappo di sughero ricoperto da una retina metallica. Porta scritto «uva fogarina, vinificata in purezza», con un tratto rosso e giallo da vignetta satirica. Penso subito a mio padre, al motivo che tanto spesso fischiettava. Chiedo la storia di questo vino sconosciuto e di quell’uva, che esce dalla canzonetta per diventare reale. Nessuna sorpresa: l’anarchico reggiano ha deciso di vinificare in purezza questo vitigno della memoria proprio per la canzone, per divertirsi e far divertire. Cosa che mi sembra più che lodevole, anche quando si parla del sacro succo fermentato. Chiedo di assaggiarlo. Nel bicchiere irrompe un vino frizzante di colore violaceo, con

una fitta schiuma di un rosso intenso. È un vino bello, vitale. E infatti scopro che la fogarina è un’uva che dà fogo, cioè vigore e colore, al vino che se ne trae. Profuma di ribes, ma in bocca non è certo facile: ha un sapore asciutto e acidulo. Non a caso, mi raccontano, è da sempre utilizzato soprattutto da taglio, per dare corpo e serbevolezza a vini più deboli e colore a quelli dalle tinte più sbiadite. L’uva fogarina è uno di quei vitigni scomparsi a causa dell’insensibilità di chi ha iniziato a fare vino solo per commercio. Invece nella prima metà del Novecento, proprio quando fu composto il canto popolare, il vitigno era molto diffuso tra Reggio e Mantova, nelle zone golenali del Po. Altro che uva di fantasia: era molto importante per l’economia della zona, soprattutto del territorio del comune di Gualtieri, la patria di Antonio Ligabue, il matto pittore naïf. Come Ligabue, anche il vigneron di Boretto ha deciso – o forse è solo una pazzia – di tirar fuori da quelle terre un frutto inaspettato, controcorrente; di dare alla fogarina un’altra possibilità, ribaltando gli usi tradizionali proponendola in purezza a fermentazione naturale in bottiglia. Tre euro e mezzo prezzo sorgente, per una bottiglia di vino che sa di amore e di anarchia. Lascio il banchetto, non prima di avere preso l’invito per lo sbattezzo collettivo e un paio di bottiglie di Fogarina per mia madre mantovana, amante di bolle e Lambrusco. Ma ho ancora un dubbio: perché dedicare alla fogarina una canzone? Ora lo so: la fogarina è un’uva a maturazione tardiva e la sua raccolta, che avveniva spesso dopo i Morti, segnava per i braccianti agricoli la fine della stagione. Vendemmiarla era per tutti una festa. Da allora non ho più sentito parlare di uva fogarina e l’asilo della Chimica, dopo un periodo di resistenza, è stato sgomberato e poi demolito nell’agosto del 2007. Amministrazione leghista oblige. Il Critical Wine invece è approdato in alcune altre città italiane, con il suo canto di terra e libertà. * Slow Food


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a botte di Nebbiolo «Vino. Vin nobile e saggio. Vin paggio e servitore. Bisognano Signore?». Viandante straniero «È vino buono il suo?» La botte di Nebbiolo «Sissignore». Viandante straniero «Più di un vin francese?». La botte di Nebbiolo «Più più, Illustrissimo. I franciosi ancora ci piangono lagrime di rabbia per quanto è venuto buono il vino che porto in pancia, Signore». Viandante straniero «Corpo di Bacco, Lei mi tenta fortemente. Ma, vorrei meglio comprendere: buono come qual altro, allora?». La botte di Nebbiolo «Signor mio, non saprei dirvi. Ma perché tutta questa fregola di sapere a cosa somiglia?». Viandante straniero «Perché, perché… Ma non lo vede in qual mondo siamo finiti? E no! Lei non può, tutta così panciuta e scura, non le si vedono neppure gli occhi da quanto è buia la sua carcassa. Ma mi lasci dire… Qui, se non ci aggrappiamo alla tradizione, al passato, sì, insomma, a qualcosa di conosciuto, ne veniamo fuori come un taglio di capelli chez Guillotin, per Bacco. A cosa somiglia, dunque, il suo vino? Come si chiama?». La botte di Nebbiolo «Be’, Illustrissimo Signor mio, dipende». Viandante straniero «Dipende? Il suo vino non ha forse vitigno? E il vitigno non ha forse nome?». La botte di Nebbiolo «Al contrario. Anche troppi, a seconda. Alcuni lo chiaman chiavennasca, altri melasca, altri ancora spanna, e poi marchesana e martesana, brunenta e prunenta o, con minime variazioni, picotendre, picutener, picotener e picoultener». Viandante straniero «E che? Piculì? Funiculà? Che nomi son codesti? Sono già ebbro e ancora ho la gola secca. Che confusione!». La botte di Nebbiolo «Le par nebbia, è vero? E certo! Perché io son gonfia di Nebbiolo». Viandante straniero «Nèbbiolo? E cos’è? L’ottavo nano? Enolo, Pampino, Grappolo, Turacciolo, Gocciolo, Stappalo, Vinicolo e Nèbbiolo!». La botte di Nebbiolo «Nebbiòlo ho detto, Illustrissimo Signor mio, non Nèbbiolo. Pertanto il suo scherzo è del tutto fuori luogo». Viandante straniero «Non si offenda, Signora. Forse che il suo vino è annacquato di nebbia?». La botte di Nebbiolo «L’ironia, a volte, si avvicina alla verità, ma senza saperlo, purtroppo. Lei non è andato così lontano, Illustrissimo Signor mio. Il vino che porto in grem-

L

bo è nato dalla pazienza e dalle linee confuse degli orizzonti, di tutti gli orizzonti. La nebbia aiuta la confusione, la confusione aiuta la meditazione e la meditazione aiuta la fermentazione». Viandante straniero «Per Bacco, Signora, perdoni la mia facezia precedente. Non avrei mai attribuito a una botte tale profondità di pensiero. La prego, prosegua». La botte di Nebbiolo «Vede, Illustrissimo Signor mio, la parola nebbiolo pare sì derivare da “nebbia”, ma non è chiaro se per definire l’aspetto dell’acino che è appannato, annebbiato appunto, ovvero se dovuto al particolare ciclo delle mie uve, che germogliano in aprile, fioriscono in giugno ma maturano tardivamente, verso la metà di ottobre, costringendo perciò a vendemmiare nel periodo delle nebbie autunnali». Viandante straniero «Lei vuol dire che non si beve Nebbiolo fino a ottobre?». La botte di Nebbiolo «Ma-

ste son certezze». La botte di Nebbiolo «Sì. Siamo in una botte di ferro». Viandante straniero «Ma mi dica del suo vino, piuttosto. Che le facezie nuocciono più delle malizie». La botte di Nebbiolo «Vede, Illustrissimo Signor mio, quando si parla di uve importanti, i minchioni pensano a quelle franciose. Ma qui abbiamo un’uva che da oltre un secolo è entrata a fare parte della categoria prestigiosa e ristretta delle… Maestà. Proprio così, Illustrissimo Signor mio, c’è addirittura una disputa su come chiamare i vini da nebbiolo: alcuni ritengono giusto definirli “i vini dei re”, mentre la fronda opposta preferisce “i

di Enrico Remmert e Luca Ragagnin*

Un vino e un viandante, botta e risposta, “pare sì derivare da nebbia, ma non è chiaro se per definire l’aspetto dell’acino...”

sta è grossa. Dieci soldi!». La botte di Nebbiolo «Ebbene, il mio vino contiene la passione di un bacio perfetto, il profumo di un frutto appena colto, un brivido di bizzarria e, soprattutto, il segreto per tenere in equilibrio il Tempo». Viandante straniero «Vi prego, non posso più aspettare: riempitemi il bicchiere più grande che avete». La botte di Nebbiolo «Ecco. Cotesto vale 30 soldi». Viandante straniero «Ecco, 30 soldi». La botte di Nebbiolo «Grazie, Illustrissimo Signor mio: a rivederla. Vino. Vin nobile e saggio. Vin paggio e servitore. Bisognano Signori?». * Slow Food

Dialogo

al nebbiolo gari! E io a che servo? A vendemmia bagnata la botte è tosto consolata, come diceva mia nonna. Altro che ottobre! Vuol mettere l’invecchiamento e l’affinamento? Anni!». Viandante straniero «E non c’è il Nebbiolo novello? Il Nouveau Nebiol? Il Beaujopiculì? La Spannà?». La botte di Nebbiolo «Macché. Lei vorrebbe la botte piena e la moglie ubriaca, come diceva mia nonna». Viandante straniero «Mi basterebbe un bicchiere, amica mia». La botte di Nebbiolo «Già, bravo! Per far un amico basta un bicchier di vino, per conservarlo è poca una botte, come diceva mia nonna». Viandante straniero «Com’era saggia sua nonna… Pensi che la mia diceva sempre: “A chi non piace il vino, il Signore faccia mancare l’acqua”. Ha bevuto fino a 97 anni e un giorno». La botte di Nebbiolo «E poi?». Viandante straniero «E poi è morta. La vita fa il suo cerchio». La botte di Nebbiolo «Anche la vite. Un colpo al cerchio e l’altro alla botte». Viandante straniero «Que-

re dei vini”! I nomi dei miei figli, Barolo e Barbaresco, le diranno ben qualcosa, no?». Viandante straniero «Per Bacco! Certamente! Ma quanto costa questo suo Nebbiolo?». La botte di Nebbiolo «Quanto costa… quanto costa… Lei, Illustrissimo Signor mio, quanto pagherebbe per un bacio appassionato?». Viandante straniero «Be’, dipende… Sette soldi?». La botte di Nebbiolo «E quanto pagherebbe per un cesto di note fruttate?». Viandante straniero «Be’, dipende… Quattro, anche cinque soldi?». La botte di Nebbiolo «E quanto per un sorso di bizzarria?». Viandante straniero «Qui è più difficile. Siamo sicuri sia vera bizzarria?». La botte di Nebbiolo «Ma certo. Non v’è mai gran gagliardia, senza un goccio di bizzarria. Come diceva mia nonna». Viandante straniero «Be’, allora, anche otto soldi». La botte di Nebbiolo «E quanto pagherebbe per l’equilibrio del Tempo?». Viandante straniero «L’equilibrio del Tempo? Be’, que-


14scritto&mangiato

opo un decennio e più di nuova immigrazione, il mercato di Porta Palazzo a Torino è diventato una babele di lingue. Ma quando arrivai io in città, negli anni Settanta, i venditori, i compratori e, in senso figurato, anche la merce esposta sulle bancarelle parlavano i dialetti del Sud. Ho vissuto per quasi due terzi della mia vita a Torino, ma è come se li avessi trascorsi in Meridione. Fin da subito, per caso e per amore – che spesso sono la stessa cosa – fui ingoiato dalla Puglia in particolare. Per un paio di anni, divisi un attico lercio in corso Sebastopoli con ragazzi pugliesi, studenti al Politecnico. Quando, per le vacanze, tornavano ai loro paesi, spesso e volentieri li accompagnavo. La prima volta che scesi, fui ospitato dalla famiglia dell’amico Pasquale in quel di Ginosa, provincia di Taranto. Il giorno dell’arrivo, pranzammo a base di ziti con braciole di cavallo e un vino – loro dicevano mieru – nero come la pece, spesso come uno sciroppo, assai potente. Ne bastò un bicchiere per farmi girare la testa e torcermi le viscere. «Non è mica un vino da tavola questo!» protestai. «È un vino da meditazione». «Ce cazzo vuoi meditare?» tuonò il padre di Pasquale. «Io lo bevo due volte al giorno da cinquant’anni e non ho mai saltato un giorno di lavoro. Fa sangue». Era un ex militare, grande e grosso, dai baffoni minacciosi. «Tu, albionico, non tieni la cultura del vino. Bevi come ’nu vagnunciello, tieni la bocca tutta inquacchiata. Sei più nero della Madonna di Ginosa». (Che era negra proprio.) «Toh’, mangia questa!». Tagliò una fetta di anguria con un coltellaccio e me la sbatté sul piatto. «Così ti rinfreschi un po’ e ti lavi pure la faccia!».

D

di John Irving*

Storia e storie su lu mieru, un vino ai confini dell’imbevibilità. Ma che ha fatto passi da gigante e fortuna nel mondo, diventato elegante ma rimasto potente

Puglia da bere

2 Il vino in questione era il Primitivo di Manduria, fatto col vitigno omonimo. In quegli anni, frequentai anche il paese stesso di Manduria. Non ero il solo inglese a farlo. Ci veniva spesso in vacanza anche Minnie Minoprio, allora fidanzata con il musicista locale Carlo Mezzano. Intorno a Manduria, le terre erano sommerse da vigne, che scorrevano come onde a perdita d’occhio. Quella di Taranto è ancora la provincia italiana che produce più vino, e il vitigno più usato è, naturalmente, il primitivo di Manduria. Lo so che questo vitigno oggi va di moda. Lo so che diversi produttori americani sono approdati nel tacco dello stivale per valorizzarlo. Lo so che la Puglia è una regione vinicola in ascesa. Lo so che il primitivo è imparentato con lo zinfandel. Lo so che primitivo vorrebbe dire primaticcio, ossia presto, precoce: questo perché l’uva è raccolta già ad agosto. Lo so lo so lo so. Ma allora, da ragazzo, non potevo non concepire il vitigno e il vino come primitivi nel senso di selvaggi. Perché? 3 Perché, sposandomi, entrai a far parte di una famiglia originaria di Pulsano, a un tiro di schioppo da Manduria. Nel centro del paese, c’è un vicolo che si chiama via degli Aborigini. E il cognome più diffuso sulle tombe del cimitero comunale è Tomaipitinca, che sa più di azteco che di italiano. Naturale che, con questi riferimenti, io, studente d’italiano alle prime armi, interpretassi il nome primitivo come espressione di qualcosa di antico, di primordiale. I viticoltori pulsanesi, invece, si vantavano del loro passato classico. «Qui, nel cuore della Magna Grecia, sono millenni che facciamo lu mieru» proclamavano, fieri. Sarà, ma ogni volta che me ne offrivano un bicchiere (spesso mescendo il vino da ’nu capasuni, un’anfora di terracotta,

anziché da una bottiglia), io pensavo: «Cosa ho fatto di male? Ho offeso qualcuno?». Si trattava sempre di un vino ai confini dell’imbevibilità. Almeno per me. Uno zio di mia moglie, Tonino, aveva perso la madre dei suoi figli, e si era risposato con una donnona del paese: più grossa di lui, più nera di lui, più baffuta di lui. Non era senza fantasia Tonino: teneva una baracca in campagna vicino alla spiaggia che chiamava «balconara sul mare». La camera da letto era «la palestra», e una pila di scatole di bottiglie di vino era «la cantina». D’estate, sotto il solleone, lui e la nuova moglie organizzavano pranzi nell’orto per i parenti. Uomini in divisa (canottiera, pantaloncini e infradito) ad abbuffarsi, donne in divisa (prendisole a fiorellini e infradito) a servirli. Per ore e ore. A concludere il banchetto, il rito della sovratavola, il pinzimonio. La pastinaca, l’accia e il citrullo si intingevano nell’olio, le foglie di lattuga romana si inzuppavano nel vino. Per bere

I

l’ultimo bicchiere, si usava il gambo vuoto del finocchio a mo’ di cannuccia. Poi lo si mangiava: il finocchio, non il bicchiere. «Jo’, bi’!» (“John, bevi!”) mi esortava Tonino. «Lu mieru migliora il sapore del finocchio». Per me, era il contrario, lo rovinava; ma avevo paura di dirlo. Il tono dello zio, però, era talmente perentorio che, se avessi dimostrato un minimo di disaccordo, il finocchio lo sarei diventato io. 4 Erano altri tempi e… «ce tiempi!», come si dice laggiù. Nel frattempo, la produzione di Primitivo ha fatto passi da gigante in termini di qualità, e il vino ha conquistato estimatori in tutto il mondo. Piace anche a me ora, e lo ordino spesso al ristorante. Ha guadagnato in eleganza, ma non ha perso nulla della sua potenza. Ne sto bevendo un bicchiere, mentre scrivo: anzi, sono al secondo. Buono il rmitPivo! * Slow Food

vitigni autoctoni sono lo spunto offerto da Slow Food a narratori e giornalisti per raccontare storie che alternano autobiografia e invenzione, o un misto dei due, comico e tragico, levità e rigore. Ventitré vitigni, ventiquattro racconti e venticinque autori, alcuni esperti e fini conoscitori, alcuni semplici appassionati, altri profani o bevitori occasionali, danno vita una raccolta a più voci, dove punti di vista, luoghi e situazioni diversi sono accomunati in una pratica consapevole che è anche percorso di educazione al gusto e alla vita. Hanno tuffato il naso nel patrimonio di biodiversità dei vitigni autoctoni, protagonisti in purezza o in assemblaggio di tanti vini italiani, fra gli altri: Gaetano Cappelli, Valerio Aiolli, Cristiano Cavina, Enzo Fileno Carabba, Emiliano Gucci, Enrico Remmert e Luca Ragagnin, Marco Bosonetto, Luca Morino.

Storie di un bacco minore

Oh com’è bella l’uva fogarina. Storie di un Bacco minore a cura di Silvia Ceriani, Slow Food Editore, 12,50 euro


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etture per riflettere sul “il lato oscuro” del cibo, anche se dolce e seducente come il cioccolato. Cioccolato amaro, della canadese Carol Off (Nuovi mondi) è una storia sociale, ma anche un’accurata indagine sugli interessi sporchi che gravitano intorno al “cibo degli dei”. Per realizzarla, Off - autrice di numerose inchieste nei luoghi di guerra – ha viaggiato nei paesi dell’Africa occidentale, in particolare in Costa d’Avorio, dove si produce la metà del cacao mondiale. Attraversando le foreste color giada della Costa d’Avorio, osservando i boschetti di piante di cacao mischiati agli alti banani, ai mango e alle palme, Off toglie l’involucro dorato alla prelibatezza azteca, misura la distanza fra il dolce e la fatica. Quanti bambini dei paesi ricchi, “pronti a investire le loro magre paghette per accaparrarsene un boccone” conoscono il percorso produttivo del cacao? si chiede. Quanti consumatori, fra i milioni che nel mondo sono “dipendenti” dal cioccolato riflettono sui rapporti economici e commerciali che nutrono e si nutrono di quella “dipendenza”? Grandi come mandorle, i semi grigio-porpora del cacao crescono sui tronchi lisci dell’albero di Theobroma cacao, il “cibo degli dei”. Quando è il momento, i contadini tagliano col machete i baccelli di frutti verdi, gialli e rossi grandi come zucche a mandolino per estrarre i semi avvolti in una polpa color marroncino chiaro. Poi li lasciano per 5-6 giorni a macerare all’aperto sulle stuoie e il lavoro dei microrganismi nella poltiglia che si decompone attiva circa 400 diverse sostanze chimiche e organiche, fornendo la materia base per il cioccolato. Il “cibo degli dei” nasce nelle minuscole case di fango in cui vive la gente che lo coltiva per il mercato internazionale e che, vendendolo, guadagna appena quel che serve per acquistare il riso e l’olio per cucinare. Una barretta di cioccolato costa circa 500 franchi dell’Africa occidentale (meno di un euro), è “sufficiente per comprare un bel pollo o un intero sacco di riso” e corrisponde “a più del valore di tre giorni lavorativi di un ragazzo”. Molti ragazzini, finiscono nelle mani dei contrabbandieri di bambini, che riforniscono il lavoro schiavo o la prostituzione. Off racconta la storia di Macko, l’ex diplomatico del Mali che ha perseguito la compravendita dei minori, cita i rapporti dell’Unicef, raccoglie le testimonianze dei bambini scampati. Riporta inchieste sul “cacao sporco”, sui soldi deviati verso una miriade di imprese estere, con la complicità dei politici africani. Documenta le battaglie vinte dalle organizzazioni umanitarie negli Usa contro le multinazionali del cacao, costrette a certificare il dolciume “non prodotto dagli schiavi”.Quanta parte della corruzione della Costa d’Avorio – si chiede Carol Off – “dipende dalle ingerenze internazionali e dal monopolio delle multinazionali, e quanta invece è imputabile alle attività ambigue dell’élite ivoriana?” La Costa d’Avorio – dove 15 imprese straniere controllano il 90% di tutti gli scambi commerciali legati al cacao - esporta quasi tutti i suoi semi grezzi, perché le tariffe europee e Usa sugli alimenti lavorati sono più elevate di quelle sulle materie prime (mentre i paesi africani sotto ricatto non possono applicare le stesse tariffe alle importazioni). L’altra faccia del cacao, come quella del cotone o di altre materie prime mostra l’amara sostanza di un mondo asimmetrico che è difficile addolcire con qualche succedaneo. Anche i quattro ragazzini africani protagonisti di Sotto un cielo di spiriti, di Adam Zameenzad, (Giunti) del cioccolato hanno solo sentito parlare. La loro è una dura realtà di fame e guerra che l’autore descrive con gli occhi del piccolo Kimo, voce narrante di questo imperdibile romanzo, pubblicato una prima volta in Italia con il titolo Il mio amico e la puttana, e diventato un classico della narrativa sull’Africa contemporanea. Ingenuo, disarmante, feroce, a tratti esilarante, il romanzo descrive il viaggio in città dei

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mente multietnica” dove mettersi in affari con qualche grammo d’erba, al ritmo del reggae o dell’hip hop. Poi la vita precipita, ma al centro dei ricordi resta una cena romantica a base di agnello, patatine, salsa alla menta e verdure, che si conclude con un gelato al cioccolato e con la conquista della bellissima Akeisha. L’altra faccia del cibo francese, nel noir di Armand Julia Il sangue di Fatima (Edizioni Spartaco), ambientato nella banlieue parigina di questi anni. La storia prende avvio con il suicidio di Fatima, una liceale, figlia di Harki (i soldati ausiliari arabi rimasti a fianco dei francesi durante la dominazione coloniale e la rivoluzione algerina) che conduceva un’inchiesta antirazzista per il giornale della scuola. Voce narrante è un professore di filosofia, disilluso e buongustaio che – fra imperativo categorico e un pasticcino arabo, tra volontà di potenza e coniglio alle prugne, - si improvvisa detective in un sottobosco di “piccoli Spinoza”, baristi xenofobi, servizi segreti de-

Amaro cacao quattro, inviati dalle famiglie a cercare cibo da un cugino benestante perché il villaggio è in preda alla carestia. Al centro della vicenda, uno zainetto pieno di provviste e soldi, che un misterioso uomo in bianco ha regalato ai piccoli per averlo salvato da morte sicura… Dai villaggi dell’Africa alle periferie d’Europa. Prima tappa, Londra, nel quartiere giamaicano di Brixton, dov’è ambientato il romanzo di Alex Wheatle Tranquillo, fratello! (Edizioni Spartaco). Protagonista è Dennis Huggins, un giamaicano di terza generazione, detenuto nel penitenziario di Pentonville che ricorda la sua adolescenza e gli avvenimenti che lo hanno condotto in carcere. Ma, attenzione, avverte Dennis: “Prima che voi, fighetti so-tutto-io, incominciate a pensare che questa sia la storia del solito nero che non sapeva nemmeno chi fosse il suo vecchio e abitava in un ghetto di Brixton, vi dico che state sbagliando. Sì, vivevo a Brixton, o Bricky, come la chiamiamo noi. Ma in una bella via, Leander Road, proprio dietro Tulse Hill estate, quartiere di case popolari”. Della sua infanzia, Dennis, nato nel 1983, ricorda patatine e barrette di cioccolato. Nell’adolescenza, pollo, patatine e “qualche cibo piccante africano” in una Londra “falsa-

di Geraldina Colotti

Costa d'Avorio, storie di cioccolato di un mondo asimettrico pigiate tutte in un libro. E poi un racconto di uno zainetto pieno di provviste e cene disgustose, appuntamento con pagine da mangiare

viati, e sbirri collusi con l’estrema destra locale. E per finire, la campagna fiamminga, con un romanzo di ottima fattura, basato sulle esperienze personali dell’autore, Il purtroppo delle cose, dello scrittore belga Dimitri Verhulst (Fazi editore). Impietoso e corrosivo, Verhulst descrive la vita di una caotica famiglia popolare che si svolge fra mangiate disgustose, canti da bettola e alzate di orgoglio, “dove arrivare a sessant’anni era considerato il colmo del borghesismo”. Nella casa modesta da cui la mamma è fuggita, la vita di famiglia è organizzata dalla nonna, che tiene a bada come può i suoi tre figli scombinati e il piccolo nipote. Quella che Dimitri ricorda è un’infanzia di macinato crudo, scatolette di acciughe e caffè freddo alla cicoria e pasticcio di patate, puzzo di piedi e fiato di birra, e compiti di punizione sul tavolo sporco della cucina. “Una vita di merda è strutturata in maniera molto semplice”, scrive Verhulst, dipingendo con poetica ferocia la sua galleria di personaggi famigliari: l’adorato padre, postino socialista e bevitore impenitente, gli zii trafficoni e solidali, la nonna che troneggia fino all’ultimo, anche nell’atmosfera lugubre dell’ospizio, vicino a un ultimo uovo di Pasqua dipinto di nero.


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