scritto e mangiato dicembre 2009

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scritto & mangiato in collaborazione con Slow Food

Supplemento al numero odierno de il manifesto

Andando per osterie, brasserie e gastropub. Cucine e culture da non dimenticare

I conti

con l’oste DICEMBRE 2009



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in collaborazione con Slow Food

Le immagini che illustrano il supplemento sono gentilmente concesse dal sig. Ferrario, dal sito piattidelbuonricordo.it Il manifesto via A. Bargoni 8 00153 Roma tel. 06 687191 Direttore responsabile Valentino Parlato Supplemento a cura di Francesco Paternò Grafica Tag design Daria Sorrentino Illustrazione di copertina Laura Federici Pubblicità concessionaria esclusiva Poster srl 00153 Roma via A. Bargoni 8 tel. 06 68896911 fax 06 58179764 Stampa Sigraf srl via Redipuglia, 77 Treviglio (Bg) Chiuso in redazione il 10/12/2009

5 Andando per orti di Giovanni Ruffa 6 Dialoghi su un sussidiario di Paola Gho e Carlo Petrini 8 A tavola con Hugo Pratt di Alberto Sinigallia La lista che conta 11 Ibrido pub di Matthew Fort 15 Oui, je suis la brasserie di Serena Majo 19 Le cuoche di Lione di Dario Bragaglia 20 Re Momo governa di Yuba Nath Lansal 23 Stracotti di Geraldina Colotti

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hi non è mai entrato in un’osteria... beh, lasci perdere. Prima date un’occhiata a questo supplemento, curato insieme ai nostri inviati speciali di Slow Food, e poi fatevi un giro per questi locali che rappresentano uno stile di ristorazione. Osteria sta alla cucina regionale, tradizionale, minuta senza essere piccola, insomma tutto quel che spesso non si trova sulle guide stellari. Fuori dall’Italia, la storia potrebbe essere raccontata in francese attraverso la brasserie, originaria birreria, o in inglese con i pub che cambiamo forma, dove la gastronomia sta assumendo più importanza e non la si dà più a bere con facilità. Noi la raccontiamo così, in queste pagine. Osteria fa rima anche con letteratura, luogo dove accadono e vengono fatte accadere cose, incontri, sogni. Fra tutti andatevi a leggere in “Sogni di sogni” di Antonio Tabucchi (Sellerio) il “Sogno di François Villon, poeta e malfattore”, il maledetto del ‘400 che sogna di cercare FRANCESCO PATERNÒ suo fratello. “ (...) Entrò nella locanda buia, rischiarata solo da un debole fuoco, e si sedette a un tavolo. Voglio montone e vino, ordinò, e si mise ad aspettare. La moglie del locandiere gli portò un piatto di patate lesse e una brocca di sidro (...)”. E’ esattamente quel che in osteria non accade più. Giovani osti sempre più consapevoli e preparati, carta dei vini che spuntano insieme a birre di qualità, l’osteria è un racconto inedito che vale la pena leggere sulle pagine a seguire. Condite, come al solito, da molti libri da gustare e che trattano di cucina. Dunque “al di sopra di ogni sospetto”, scriveva di loro Joseph Conrad, perché la ragione di un libro di cucina è “unica ed inequivocabile”. Con una missione limpida come una fortunata giornata d’inverno: il libro di cucina “non è concepibile che abbia ragione diversa da quella di accrescere la felicità del genere umano”. Se non a noi, credete a Conrad.

Non la danno più a bere



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sterie d’Italia nasce come un paradosso: è una guida che dichiara, presentandosi, la non più esistenza in vita dell’oggetto delle sue esplorazioni. «Parlare, oggi, di osteria è pura utopia? Certamente da tempo i costumi alimentari e sociali sono cambiati e l’osteria classica, intesa come locale di mescita di vino e somministrazione di cibi tipici locali, con servizio praticamente senza soluzione di continuità, appartiene più al passato che al presente». Queste (con buona pace di chi, ancora oggi, scrivendo della nostra guida, tira in ballo l’inevitabile Guccini delle “osterie di fuori porta”) le prime righe dell’edizione dell’esordio – correva l’anno 1991. Poche pagine dopo, nella prefazione, Folco Portinari rincara la dose: «Oggi l’osteria è una sorta di reperto archeologico, il segno di una civiltà sopraffatta, la civiltà dell’uomo sopraffatta dalla civiltà delle macchine». Come inizio non c’è male, non vi pare? Ma intento della guida è in realtà quello di portare alla luce «un mondo semi-sommmerso di cucine regionali e tradizionali, un ambito quasi inesplorato della ristorazione che poco o nulla compare sulle “guide illustri”» e di ripartire da lì per favorire la nascita di quella «osteria nuova» che oggi, a terzo millennio iniziato, ci sembra mostrarsi con i suoi caratteri affatto originali rispetto al modello storico: gestori giovani e competenti, cura per il vino, attenta ricerca delle materie prime, riproposta intelligente del repertorio gastronomico di tradizione regionale e locale. L’osteria è, insomma, il primo di una serie di “neo” cui tanti altri ne seguiranno negli anni della chiocciola, dalla nuova agricoltura al più recente, la nuova gastronomia. Passati vent’anni, il successo di Slow Food in ogni angolo del mondo è sotto gli occhi di tutti, ma di quella guida e dei suoi intenti che ne è stato? Ha ancora senso parlare di cucine regionali? Esistono ancora locali che non aspirano all’alta cucina, che non fanno della creatività a tutti i costi la loro bandiera, ma che si impegnano quotidianamente per offrire buona cucina a prezzi onesti, e un’accoglienza sobria eppure soddisfacente? Penso di poter dare una risposta credibile, perché Osterie d’Italia è stata, prima di tutto, uno strumento formidabile per registrare in presa diretta l’evolvere dei gusti e degli stili di ristorazione. La prima considerazione riguarda gli osti, i titolari dei locali che prendiamo in considerazione: è facile notare in loro una crescita generalizzata, di cultura e di consapevolezza. Nel corso di due decenni si sono fatti più sensi-

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Andando

per orti

di Giovanni Ruffa

Mangiare in osteria, una guida che racconta l’evolvere dei gusti e della tradizione, portando alla luce un mondo semi-sommerso bili rispetto al territorio in cui operano, hanno imparato a conoscerlo meglio e a metterne a frutto in cucina produzioni tipiche e specialità storiche. Rinnovata è pure l’attenzione per la stagionalità, e il suo riflesso nei menù, e maggiore il

riguardo per la clientela. Alla fine degli anni Ottanta era raro trovare carte delle vivande e, più ancora, dei vini: oggi si tratta di strumenti di uso pressoché generalizzato, e se il vino è diventato la passione di molti operatori (e di moltissimi clienti), già registriamo il crescere dell’attenzione per le birre, di pari passo con il moltiplicarsi dei piccoli birrifici, che in tutte le regioni d’Italia sta diventando un fiume in piena. Quanto alla cucina, le tradizioni regionali godono di ottima salute, tanto che pure l’alta ristorazione, ormai, non la disdegna affatto, magari “rivisitandone” o “destrutturandone” le preparazioni. Anche nei nostri locali non si rinuncia a qualche escursione sperimentale cui, se condotta con misura e buon senso, Osterie d’Italia non è affatto contraria,

consapevole com’è, da sempre, che la cucina è un sorta di magma in perenne evoluzione, con radici che si disseminano ovunque, per suggere il meglio da ogni patrimonio locale e da ogni nuovo arrivo. E i prezzi? È, costantemente, uno dei nostri tormentoni. Siamo partiti, nel 1991, ponendo una soglia di 50 mila lire; vent’anni dopo, non prendiamo in considerazione locali che presentino conti superiori a 35-40 euro, esclusi i vini. Siamo convinti che a questi prezzi sia legittimo pretendere di pranzare e cenare in tutta Italia, nei villaggi di campagna, naturalmente, ma anche nelle grandi città. Rifuggiamo dalla retorica populista sui prezzi, siamo ben consapevoli del fatto che la qualità costa (per chi la propone e per chi la consuma), ma riteniamo altresì che

un giusto equilibrio sia indispensabile. Anche perché ci pare che quella che noi chiamiamo “osteria” (e che spesso è una trattoria, un ristorante familiare, una enoteca con cucina, un ristoro agrituristico) conserva nel tempo quella funzione di servizio che la fa frequentare volentieri da chi lavora, da chi è in viaggio di affari, oltre che da turisti, gourmet, giovani. Conformemente alle più recenti evoluzioni del Movimento Slow Food, con la sua attenzione alla terra e a un’agricoltura che vorremmo sempre più locale e pulita, anche Osterie d’Italia domanda oggi ai cuochi di frequentare più orti che centri commerciali, più frutteti che boutiques del gusto. Per mettere in pentola, davvero, il territorio. * Slow Food


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uando apparve, nel 1991, Osterie d’Italia, la guida di Slow Food al “mangiarbere all’italiana”, rappresentò una novità assoluta: per la prima volta si prendevano in considerazione locali semplici, legati ai diversi territori e alle loro tradizioni gastronomiche, non si davano valutazioni tipo voti, stelle o cappelli. Insomma, si guardava alla sostanza più che alla forma. Dopo vent’anni, possiamo dire che Osterie ha fatto scuola, il suo successo è in continua crescita e la sua credibilità intatta. Paola Gho, da sempre curatrice di Osterie d’Italia, e Carlo Petrini, il fondatore di Slow Food, che della guida fu uno degli ideatori, ragionano su storia e prospettive del Sussidiario del mangiarbere all’italiana. Paola (Gho) Anche i libri festeggiano i compleanni. Con l’edizione 2010, da poco in libreria, Osterie d’Italia compie vent’anni. Ricordo molto bene la prima riunione operativa. Ci trovammo a Samboseto da Cantarelli, un’osteria “mitica”, che in quel momento lessi come simbolo di un luogo che ci sarebbe piaciuto enfatizzare: una “trattoria-tinellodicasa”, una compagnia di amici, un fantastico culatello, non troppi piatti ma di quelli che si ricordano… Ma come nacque l’idea di una guida delle osterie? Carlo (Petrini) Fu il bresciano Marino Marini a portare la proposta a uno dei primi consigli dei governatori di Arcigola. Marino, appassionato studioso della cultura materiale del cibo (la sua raccolta di libri e pubblicazioni sul tema era già allora sterminata), la pensava come segno distintivo dell’associazione, come forte elemento identitario e “ideologico”: non dimentichiamo che quelli erano i tempi della nouvelle cuisine e dell’arrivo in Italia del fast food di McDonald’s. L’associazione accolse con entusiasmo l’idea, sia perché proponeva la salvaguardia di un patrimonio gastronomico a rischio, sia perché la giovane Arcigola ci si riconobbe immediatamente, politicamente e direi “antropologicamente”. Noi, promotori dell’associazione, appartenevamo a una generazione che aveva fatto in tempo a vivere le ultime osterie storiche e, pur consapevoli che quei luoghi erano finiti insieme ai tempi che li avevano generati, ne sentivamo il valore sociale e umano.

L’anno di nascita 1991

Nostalgia del passato? Niente affatto. Ciò che rimpiangevamo e che cercavamo di riproporre era quello che l’osteria aveva rappresentato in termini di socialità, di identità, di convivialità. Molto meno per quanto riguardava l’aspetto enogastronomico, che certo nelle osterie di un tempo non era la dimensione più significativa.

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Carlo Petrini e Paola Gho, curatrice delle Osterie d’Italia, in duetto sul passato, sul presente e sul futuro di un luogo unico della tradizione gastronomica italiana

Tanto più che, via via che la filosofia di Slow Food si è approfondita e arricchita di nuovi progetti, la guida stessa ha in qualche modo registrato queste nuove sensibilità. Ma torniamo allo spirito originario di Osterie d’Italia. Pensi che questo lavoro abbia effettivamente svolto la funzione che i suoi ideatori si proponevano? La nostra guida (o meglio il nostro “sussidiario”, come volle chiamarlo Folco Portinari che fu uno dei padri dell’opera) ha contribuito in modo decisivo, oltre che ai temi che ricordavi, alla salvaguardia di una fascia di ristorazione – tradizionale e popolare – stimolandone il miglioramento, specie per quanto riguarda l’offerta di vino. E ha fatto partecipare le sue migliaia di

Osterie, il Sussidiario nella cui filosofia i soci si riconoscono, la guida dai caratteri tanto nuovi e originali da essere identificata tout court dal grande pubblico con l’associazione. Posso aggiungere, avendo davanti venti edizioni della guida, la serie storica di migliaia di locali, centinaia di visite dirette, la vitalità di molti posti “storici” e quella di nuove imprese, che molti ristoratori – a ragione o a torto – hanno introiettato una sorta di “osteria modello”cui hanno cercato di uniformarsi; altri, in procinto di aprire un nuovo locale, ci hanno chiesto quali caratteristiche a nostro avviso avrebbe dovuto avere. (abbiamo risposto che occorre prima di tutto “essere se stessi” e puntare sulla semplicità). E poi insegne che sono cambiate, adottando la parola “osteria” come se fosse un passepartout... Tu che ne pensi, il ruolo della guida è stato positivo? In gran parte sì, ma non bisogna nascondersi il fatto che il successo della guida ha pure contribuito a esasperare certe tendenze che non condivido, come quella di diventare esclusivamente luoghi di ristorazione, con relativa enfasi sulla preparazione e soprattutto sulla presentazione dei piatti. Io credo che, al di là di legittimi alleggerimenti e ammodernamenti, un piatto debba sempre essere riconoscibile: un merluzzo al verde deve essere un merluzzo al verde, con le sue componenti ben presenti e amalgamate, come da tradizione. Un altro rischio è di trovarsi in ambienti eccessivamente “ingessati”, e magari alle prese con apparecchiature e servizi che ricordano più l’alta ristorazione che i ritrovi popolari. Che, detto fra noi,

Dialoghi su un suss

in dal 1991, suo anno di nascita, la guida segnala e racconta locali di ristorazione che sono il frutto di una selezione fatta secondo criteri precisi: l’aderenza alla cucina di territorio, l’ambiente confortevole e ospitale, il buon rapporto fra qualità e prezzo, l’offerta qualificata di vino. I locali della prima edizione erano circa 700 – osterie tradizionali, trattorie, ristoranti, enoteche con mescita e cucina, aziende agrituristiche, circoli ricreativi. Nel 1994 fu introdotta la Chiocciola di Slow Food, un simbolo che indica “i locali che ci piacciono in modo speciale, per l’ambiente, la cucina e l’accoglienza”. La Bottiglia segnala le cantine più fornite, la Mezzaluna di formaggio i locali che presentano una particolare cura nella selezione dei caci. L’edizione del ventennale consiglia circa 1700 locali e ogni regione è introdotta dallo scritto di una personalità della cultura, del giornalismo, dello sport, dello spettacolo. Fra gli altri, Lella Costa, Tullio Avoledo, Maurizio Maggiani, Giovanna Marini, Folco Portinari, Francesca Neri, Tonino Guerra, Massimo Cirri, Enrico Vaime, Neri Marcorè, Gaetano Cappelli, Roy Paci. Osterie d’Italia 2010 Sussidiario del mangiarbere all’italiana In libreria a 20 euro

Passato e presente… Ogni tanto spunta fuori chi ci dipinge come gente che conduce battaglie di retroguardia. Intravedi una sorta di passatismo nei nostri progetti che proprio in Osterie d’Italia, con il prepotente richiamo alla tradizione, hanno avuto una significativa espressione ? Se “passatismo” vuol dire non azzerare ciò che ci sta alle spalle, non dimenticare né le radici né le peculiarità dei nostri territori – tutti i territori – e amarne le differenze; se vuol dire contestare una globalizzazione che uccide la diversità (vegetale, animale, artigiana, antropologica) e contrapporre un modello di sviluppo e di vita diversi, che contemplano anche il piacere di una polenta concia con gli amici o di un piatto di sarde a beccafico davanti a un mare non spogliato della sua vita, allora l’etichetta che qualcuno mi ha appioppato non mi inquieta per niente.

utenti a questo processo, salvaguardando la “biodiversità” dei locali (le osterie classiche, le trattorie, i ristoranti familiari ecc.) e rinsaldando la loro fisionomia. Osterie d’Italia ha contribuito anche a disegnare la fisionomia di Slow Food? Certo. Per i suoi presupposti innanzitutto: il proporsi come antidoto ai rischi di omologazione a tavola, il richiamo alle tradizioni gastronomiche locali e la salvaguardia degli usi regionali, l’elogio della semplicità, dell’immediatezza, dei sapori veri, l’attenzione al territorio e allo stile di accoglienza. Molto si discusse, agli albori di Arcigola (l’associazione “per il diritto al piacere” che avrebbe generato il movimento internazionale del “mangiare del lento”), sulla creazione di uno strumento dell’identità associativa – una guida dei locali amici, una rivista, un’agenda… – fino a rendersi conto che questo strumento già lo avevamo costruito: erano le

sono quelli dove io vado più volentieri e dove mi trovo meglio, per l’ambiente, il clima, i sapori. Se vent’anni fa Osterie d’Italia si propose di salvare certi ambienti, certe ricette, un certo stile di accoglienza, che cosa chiedi alle osterie del terzo millennio? Senza dubbio di ricreare le osterie come luogo di socialità, cosa che non sono più. Un esempio. Negli anni Sessanta a Genova erano vive e attive 100 squadre di cantori di trallallero, ognuna con sede in una osteria; oggi ne sono rimaste appena quattro e faticano a trovare una sede. Credo che oggi ci sia un grande bisogno di socialità e che le osterie debbano assumersi questo compito. A cominciare dal recupero della musica e del canto, con il coinvolgimento dei giovani, delle compagnie di amici. Mi piacerebbe, nei locali che amiamo, trovare queste disponibilità. Meno carte di cibi, vini, oli, acque… ma magari una chitarra e una fisarmonica.


sidiario Stai dettando dei criteri per l’assegnazione della Chiocciola, il nostro “premio speciale” alle osterie che più ci piacciono perché più ci assomigliano? La chiocciola è un segno identitario della nostra associazione e un grande valore aggiunto per un’osteria. Io la assegnerei tenendo conto non solo dell’eccellenza enogastronomica ma anche di parametri che definirei etici, come quelli cui accennavo prima. Del resto un tempo l’aspetto estetico era molto secondario in questi locali. Altri suggerimenti per la guida di domani? Dare molta enfasi ai piatti meglio riusciti di un locale. Per esempio, sottolineando che da Toni a Treviso si mangiano i migliori risi e bisi che possiate trovare. Per questo motivo un’altra cosa che mi piacerebbe reinserire è una rubrica che era presente nelle prime edizioni: si chiamava “ho voglia di, lo trovo a” e segnalava appunto i

migliori posti dove mangiare un certo piatto. Penso a una ventina di preparazioni fondamentali (che so, pasta e fagioli, trippa, baccalà e simili.), con l’indicazione delle osterie che le eseguono al meglio. I giovani cuochi, lo sai bene, sono ambiziosi e spesso arrivano da scuole o esperienze di altro tipo che hanno incentivato la creatività (e anche giustamente, se applicata in modo sensato). Ma forse si possono mettere alla prova le proprie competenze anche cucinando un piatto di risi e bisi, per ricordare il tuo esempio. Oppure si possono percorrere entrambe le vie, mantenendo accanto alle “sperimentazioni” un menù di piatti della tradizione. Poi ci sono le mode... Tu quali consigli daresti a un giovane che volesse aprire un nuovo locale? Anzitutto di mantenere nell’ambientazione e nella tipologia del locale un aggancio al territo-

rio, poi di conservare con rigore i piatti di tradizione e di utilizzare prodotti della sua zona. Oggi in certe aree del nostro Paese si mangia ancora bene in casa, ma presto non sarà più così: per questo ha senso salvaguardare le preparazioni tradizionali, non solo per chi viaggia e, arrivando in un luogo, vuole assaggiarne la cucina tipica. Ancora. Prendere sempre più in considerazione – e mi sembra che alcuni osti già lo facciano – la possibilità di preparare in proprio certe materie prime (verdura, frutta) e certi prodotti, come i salumi: tenere un orto, affinare formaggi o preparare conserve. Insomma, le strade da percorrere sono molte e le sfide non mancano, compresa quella di assicurare ancora lunga vita a Osterie d’Italia. Il percorso è stato lungo, ma la strada da percorrere è ancora tanta. Un tempo Slow Food rivendicava il piacere per tutti, oggi si richiama alla Terra Madre. In mezzo, le osterie sono una costante e un riferimento che rimane.


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A tavola con Hug ome, la salsa?! Cossa xe che non va?».«Questa non xe la salsa che te gavevo dito!». Brontolando, dondolando, cento chili di Hugo Pratt puntarono dritti sulla cucina. L’uscio proibito si spalancò per richiudersi alle sue spalle come i battenti di un saloon del Far West. L’oste veneziano si mostrò offeso. In sala serpeggiò il timore che davanti ai fornelli potesse accadere qualche guaio. Ma era una gag di attori consumati: se gli avventori avessero visto quanto ridevano gli occhi azzurri di Hugo, si sarebbero messi a ridere anche loro. Come l’oste e tutti avrebbero fatto poco dopo, quando il papà di Corto Maltese se ne tornò soddisfatto. Brandiva, commentandola ad alta voce, «una tecia de tocio», il tegame dell’agognato intingolo. E con mosse da prestigiatore ne versò generosamente sulle pastasciutte dei commensali, avendo cura di riservarsi la porzione più abbondante. Il sorriso di Pratt – da bambino birbone – era contagioso, magnetico. Ti afferrava appena lo incrociavi, poteva durare tutta una cena e andare oltre: bastava il ricordo di una battuta, di una birichinata. Era un concentrato di ironia angloveneziana vissuta senza sosta e a livelli e a ritmi inusitati. Anche di autoironia. Guai sbagliare una mossa ed essere presi in mezzo da Hugo e dai suoi amici. I quali, però, erano pronti a ridere di sé e delle proprie imprese. Fossero i viaggi in Messico, su un’isola dell’Oceano Pacifico o in

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Patagonia, «nel buco del culo del mondo», come gli argentini chiamano quella terra e come l’allegra brigata si compiaceva spesso di ripetere, calcando sulla prima parte della definizione. O fosse una corsa a Parigi, dove “il Maestro” aveva un alloggio in rue de Lancry. A Parigi una volta arrivarono in sei, per una “missione di lavoro”, forse la sceneggiatura di un film. Ma senza ricordarsi di come fossero partiti da Venezia, di come fossero riusciti a raggiungere la stazione di Santa Lucia, soprattutto di come fossero saliti sul treno giusto. La decisione era stata ponderata, forse troppo, in una lunga passeggiata “fra lazzi e ombre de vin”, con gran finale all’Harry’s Bar, una serie di Martini cocktail fatti a regola d’arte secondo il comandamento di un cliente un tempo abituale, Ernest Hemingway, che se ne intendeva. Sotto la Tour Eiffel devono essersi dimenticati pure di che lavoro si trattasse, peregrinando da un cinema a una libreria, per chiudersi in casa tra giochi e cibi tipo La grande abbuffata di Marco Ferreri. È uno dei ricordi con i quali Guido Fuga, Raffaele Vianello e “Steve” Mescola, disegnatori e sceneggiatori lagunari, fedelissimi complici di Pratt, sigillano il bel libro di sua figlia Silvina, Con Hugo (edito nel 2005 in Francia da Flammarion, nel 2008 in Italia da Marsilio). L’Harry’s, a San Marco, era uno dei punti strategici per Pratt quando si trovava a Venezia. Un altro, a Rialto, era il Graspo de ua, negli Anni Cin-

di Alberto Sinigallia*

La sua ironia anglo-veneziana, i suoi viaggi in Messico, su un’isola dell’Oceano Pacifico o in Patagonia, la sua scoperta: Corte Sconta

quanta e Sessanta un tempio dove il gran sacerdote Nane Mora celebrava riti d’alta cucina veneta, oppure bassissima: a Hugo preparava apposta un piatto povero, la coradea, con frattaglie di vitello e di maiale, oggi destinate ai gatti. Uno degli approdi gastronomici più consueti e cari al papà di Corto Maltese, che abitava a Malamocco, era la locanda di Gino Scarso, sul fronte lagunare dell’isola con la quale il Lido prosegue verso Pellestrina. Lì capitava di poter osservare il tramonto con lui e con gli scrittori Alberto Ongaro e Carlo della Corte, gustando in piena estate, per semplice aperitivo, polenta e schie o una zuppa di vongole o cozze di Chioggia. Le massime virtù della famiglia Scarso si esercitavano nel baccalà mantecato, nel risotto di pesce, nella grigliata mista, nella sublime generosità con cui somministrava grancèole. Hugo ne era ghiotto: alla fine del pranzo avevamo accanto una collinetta di carapaci arancioni-rossastri ben ripuliti e innumerevoli bottiglie vuote di Prosecco. Certi pranzi andavano per le lunghe, certe cene molto di più. Una notte da Scarso erano rimasti soltanto Pratt e i suoi commensali. Uno barcollò verso il gabinetto, in fondo a una sala ormai buia, e vi restò. Gli altri della combriccola finirono per dimenticarsene. Fino a quando s’accorsero di una voce lontana, che chiedeva aiuto: «Carta! Cartaaa!». Hugo sogghignò con i suoi occhi da gatto di Alice, andò dietro il bancone

locali di Osterie d’Italia «che ci piacciono in modo speciale, per l’ambiente, la cucina, l’accoglienza in sintonia con lo Slow Food» sono contrassegnati dal simbolo della Chiocciolina. Nell’edizione 2010 sono 221 su circa 1700. Ve ne presentiamo una piccola selezione.

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La Taverna di Fra Fiusch Via Beria, 32 – Moncalieri (To) Tel. 011 8608224 Non lontano da Torino, sulla collina, un locale caldo e accogliente, con un’ottima proposta gastronomica molto legata al territorio. Piatti piemontesi a volontà dunque, dall’insalata russa ai tajarin, dagli agnolotti d’asino alla finanziera, ai dolci. Tutto è eseguito al meglio, e non di rado rielaborato con intelligenza. Bella selezione di formaggi e grande carta dei vini. Osteria della Villetta Via Marconi, 104 – Calci – Palazzolo sull’Oglio (Bs) Tel. 030 7401899 Un’osteria ultrasecolare a due passi dalla Franciacorta, prestigiosa enclave vitivinicola, gestita da sempre dalla famiglia Rossi, che conserva con gusto quasi filologico ambiente, arredi, proposta gastronomica della tradizione. Merito

La lis di Maurizio, il patron, e dei suoi collaboratori, che portano in tavola i salumi di casa, le polpettine, la lingua salmistrata, la giardiniera di verdure, la trippa, i pesci di lago. Buoni formaggi e tanti vini. Locanda delle tre chiavi Via Vannetti, 8 – Isera (Tn) Tel. 0464 423721 La trattoria di Sergio Valentini, che ha sede in un edificio storico, propone una cucina stagionale, frutto di ingredienti in gran parte locali. Ci troverete classici del Trentino come il tortèl di patate, la carne salada, i bigoi con le sarde del Garda e altre paste casalinghe; immancabile la polenta, accompagnata da gulasch o brasato. Per finire strudel di mele, crostate, torte di grano saraceno. Vini per lo più regionali, serviti anche al bicchiere. Da Paeto Via Patriarcato, 78 – Pianiga (Ve) Tel. 041 469380 Eddy e Galdino propongono una full immersion nella


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go Pratt del bar, frugò tra le bottiglie, ne trasse un mazzo di carte “trevisane”, le migliori da briscola o da scopa. E rassicurando: «Ecco qua! Arrivo, arrivo!», andò a infilarne una sotto la porta dell’insoddisfatto amico, che si sfogò con tutti gli dei dell’Olimpo prima di riottenere, con ciò di cui aveva bisogno, la libertà. Quando il presidente della Repubblica Sandro Pertini, in visita a Venezia, chiese di cenare in una vera osteria, lo portarono alla Corte Sconta, spiegandogli che «così l’aveva chiamata Hugo Pratt». Ma Hugo non ne sapeva nulla. Una sera ci andò con “Steve” Mescola, che racconta: «Dopo i primi tre primi, i secondi secondi e le molte bottiglie di Prosecco» e dopo «un’accurata degustazione del vasto repertorio di grappe», Pratt chiese al cameriere: «Come mai il ristorante si chiama così?». «Corte Sconta è un luogo immaginario inventato da un famoso autore di fumetti». «Hugo Pratt?». «Sì, proprio lui». «E Pratt, il famoso autore, sa che avete usato questo nome?». Immaginate come sia andata a finire. Si precipitò il cuoco proprietario: «Ciao Hugo. Sai, io intendevo chiedertelo... Siete miei ospiti... Può bastare?». Bastò. Mai un marchio fu pagato meno, e mai compenso per un marchio fu gustato di più. *Tratto da Osterie d’Italia 2010, Slow Food Editore

sta che conta cucina veneziana. Si comincia con sarde in saor, nervetti con le cipolle, pasta e fagioli, prima di passare al baccalà, specialità del locale, preparato lesso con salsa di capperi, mantecato, in umido, alla vicentina. Quindi una bella frittura di pesce di laguna. Secondo stagione si utilizzano produzioni peculiari della zona come il broccolo fiolaro, gli asparagi di Levada, i piselli di Pianiga. Pochi ma buoni i vini in lista. Antica Osteria dei Mosto Piazza dei Mosto, 15/1 – Conscenti – Ne (Ge) Tel. 0185 337502 Il repertorio della Liguria in tavola. Catia, in cucina, prepara le tipiche torte di verdure e le focaccine per cominciare; quindi passa a paste fatte in casa come i mandilli de sea, i ravioli di borragine, le picagge, i tortelli di patate. Non mancano le zuppe – il minestrone, la sbira, mentre fra i secondi ci sono il coniglio alla ligure, la cima alla genovese,

le lattughe ripiene. In stagione funghi, in cantina bottiglie di tutta Italia. Osteria Bottega Via Santa Caterina, 51 – Bologna Tel. 051 585111 Daniele Minarelli ha riportato in città la vera cucina bolognese di tradizione. I migliori prodotti della regione sono alla base del menù, che parte dai classici salumi – culatello, spalla cotta, prosciutto di Parma – per passare ai primi, con i tortellini, le tagliatelle, gli stricchetti. Poi l’autentica cotoletta alla bolognese, il galletto arrosto, il coniglio con patate, i bolliti. Per finire, zuppa inglese, torta di riso, pinza farcita. Carta dei vini con tanti Champagne e spumanti, e rossi di Romagna. La solita zuppa Via Porsenna, 31 – Chiusi (Si) Tel. 0578 21006 Si comincia con salumi di cinta senese, cacio e pere, lampredotto in salsa verde; pasta fatta a mano per i primi

asciutti: pici all’aglione, gnudini al pomodoro, tagliatelle di farro. Ma la vera specialità, come dice il nome del locale, sono le zuppe, secondo stagione: di melanzane, di carciofi e orzo, di cipolle, ceci e funghi porcini. Tra i secondi, trippa alla fiorentina, scottiglia, agnello al buglione, coniglio, tagli di chianina. Formaggi caprini e pecorini e dolci di casa. Carta di vini regionali. Da Maria Via IV Novembre, 86 – Fano (Ps) Tel. 0721 808962 Una vera trattoria di pesce che lavora secondo disponibilità e che non delude mai. Potrete trovare, per cominciare, naselli, sogliole e canocchie al vapore, lumachine e altri molluschi in umido; come primi, tagliatelline con sugo di pesce, in bianco o con pomodori. Da non perdere, quando c’è, il brodetto fanese cotto sulla stufa a legna. Obbligatoria, per finire, la moretta, il caffè dei pescatori arricchito da brandy, rum, anice e scorza di limone.

Zarazà Via Regina Margherita, 45 – Frascati (Rm) Tel. 06 9422053 La tradizione agropastorale di Roma e dei Castelli nei piatti sapidi di questo locale. I bucatini alla amatriciana sono la specialità della cucina, ma ci sono anche, come primi, i tagliolini integrali con ragù di coda alla vaccinara, i tonnarelli cacio e pepe, le lasagne con asparagi e zucchine. Secondi della tradizione con coda alla vaccinara, coratella, abbacchio al forno, trippa alla romana, baccalà in umido. Per chiudere, crostata o gelato. Nella lista dei vini predomina il Lazio.

che bottiglia locale.

Cucina casereccia Via Costadura, 19 – Lecce Tel. 0832 245178 Due salette sempre affollate e i sapori della tradizione, in un menu vario che segue le stagioni. Dopo le pittule e i frittini di verdure, ecco peperoni in agrodolce, fave e cicorie, patate e cozze; quindi i primi, con sagne ’ncannulate, orecchiette con cime di rapa, ciceri e tria. Poi polpette o spezzatino di cavallo, calamaro ripieno, polpo alla pignata. Per finire buoni dolci casalinghi; da bere vini sfusi e qual-

Don Ciccio Via del Cavaliere, 87 – Bagheria (Pa) Tel. 091 932442 Un locale che è nella storia della gastronomia siciliana, fedelissimo ai canoni della tradizione regionale. Per cominciare, bucatini con le sarde oppure con il pesce spada; poi il bruciuluni, il polpettone, le sarde a beccafico, il tonno ammuttunato. I dolci: cassata di ricotta, cannoli, semifreddo di mandorle. Vino sfuso della casa e piccola cantina siciliana di qualità.

Nunzia Via Annunziata, 152 – Benevento Tel. 0824 29431 Un’esperienza gastronomica all’insegna della tradizione, in un locale storico dove la cucina lavora in base a territorio e stagione. Molte zuppe fra i primi, oltre a lagane e ceci, scarpariello al pomodoro e basilico con formaggio. Si prosegue con agnello e salsiccia alla brace, i tradizionali ammugliatielli, trippa, spezzatino; il venerdì baccalà alla Nunzia e in estate piatti di mare. Ottimi i dolci, tra cui la mela allo Strega. Buona offerta di vini del Sannio.


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19/05/09

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È

I MIGLIORI GASTROPUB DI LONDRA The Cow 89 Westbourne Park Road London W2 tel. 020 72215400 Salisbury Tavern 50-52 Salisbury Road London NW6 tel. 020 73283286 The Eagle 159 Farringdon Road London EC1 tel. 020 78371353 The Anglesea Arms 35 Wingate Road London W6 tel. 020 87491291 Salt House 63 Abbey Road London NW8 tel. 020 73286626 Harwood Arms

Ibrido

pub

di Matthew Fort*

I gastropub in Gran Bretagna, una nuova specie di locale che sta colonizzando città e campagne, in cui il cibo ha la stessa importanza delle bevande alcoliche

Miniglossario

un mistero perché non sia successo prima, ma in realtà forse c’erano già. Il pub sta alla Gran Bretagna come la brasserie o il bistrot sta alla Francia: onnipresente, è un luogo di ristoro informale, relativamente economico e democratico. Tradizionalmente, il ristoro nei pub era a tutti gli effetti liquido, quasi esclusivamente birra e superalcolici. Il vino era in sostanza il parente povero, il cibo secondario quando non del tutto ignorato. Ma, con un certo ritardo, è sorta una nuova specie di pub che sta colonizzando città e campagne, il gastropub, in cui il cibo ha la stessa importanza delle bevande alcoliche. In un certo senso, si tratta di un’antica tradizione. Charles Dickens scrisse dell’altalenante piacere degli inns, una specie di ibrido tra pub, ristorante e albergo, che provvedevano ai bisogni dei viaggiatori, e la tradizione è stata tenuta viva da istituzioni leggendarie quali lo Spread Eagle di Thame in Oxfordshire e successivamente dallo Spread Eagle di Sawley in Lancashire e dal Talbot Inn di Knightwick in Worcestershire. Ma i pub restavano pub, luoghi in cui bere a vari livelli di raffinatezza. L’incapacità dei pub di rinnovare l’offerta alimentare era dovuta in parte ai birrai che ne erano proprietari, le società che si occupavano di divertimenti, le catene alberghiere o i grandi mercanti, che li acquistavano esclusivamente per motivi commerciali. C’erano migliaia di pub dappertutto. Li si poteva specializzare, lustrare o abbellire ma in sostanza restavano uguali a prima. A parte qualche eccezione come gli Young’s Pubs di Londra o un faro nel deserto come il Red Lion di Steeple Aston in Oxfordshire, pochi si preoccupavano di ciò che servivano da mangiare. Il cibo che offrivano era sempre la stessa deprimente lista di torte di cartone, salsicce insipide, fagioli stufati, insalate acide e ogni sorta di piatti unti e spessi, spacciati per steak and kidney pie (pasticci di carne e rognone), lasa-

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gne, stufati, moussaka fatti in casa: tutta roba che in realtà non poteva attirare una generazione sempre più preparata sul piano gastronomico, abituata a viaggiare all’estero e svezzata dalle rubriche di cucina di quotidiani e riviste, dai programmi culinari della televisione e dai raffinati pasti pronti dei supermercati. Intorno alla metà degli anni Ottanta, una serie di individualisti lungimiranti come David Eyre e Michael Belben di The Eagle, Beth Coventry di The Prince Buonapart di Londra e Tim Withers del George & Dragon di Rowde, cominciarono a riscattare vecchi locali in ribasso dalle mani anonime delle fabbriche di birra e a trasformarli in quei posti con pavimenti di semplice legno, tavoli assortiti e sedie di ogni sorta

27 Walham Grove London SW6 tel. 020 73861847 I MIGLIORI GASTROPUB FUORI LONDRA Sud The White Horse Worple Way Richmond, Surrey tel. 020 89402418 George & Dragon High Street Rowde, Wiltshire tel. 01380 723053 The Village Pub Barnsley Gloucestershire tel. 01285 740421 Griffin Inn Fletching Nr Uckfield

che oggi conosciamo e amiamo. E si misero a far da mangiare: non una misera scusa per ammannire prodotti di massa ma cibo vero, saporito, soddisfacente. La raffinatezza della cucina era limitata da considerazioni pratiche; nella gran parte dei pub, le cucine sono locali minuscoli in confronto con il ristorante medio. In un certo senso non era un fatto grave, perché i nuovi clienti non volevano piatti di lusso a prezzi di lusso ma cibi decorosi, e li volevano in fretta e a prezzi ragionevoli. In breve tempo, dappertutto sono spuntati gastropub, come i funghi selvatici che servono. Oggi in tutto il paese un numero crescente fra i cuochi inglesi di maggior talento profonde le sue capacità per rinnovare la nostra cultura del

East Sussex tel. 01825 722890 Harrow Inn Steep, Hampshire tel. 01730 262685 The Sportsman Seasalter, Faversham Road Whitstable, Kent tel. 01227 273370 The Tunnel House Inn Coates Cirencester Gloucestershire tel. 01285 770280 Nord The Star Harome, Yorkshire tel. 01439 770397 The Star Inn High St Harome, York tel. 01439 770082

pub. Questi cuochi si rivolgono ai fornitori, ai cibi, ai piatti e ai clienti locali, voltando le spalle all’alta cucina, alle stelle Michelin e a tutti gli altri orpelli dello snobismo gastronomico, e oggi nell’intera Gran Bretagna non esiste una sola zona in cui non si possa trovare un pub che serve vero cibo che dà vero piacere. Ma non fingiamo che la Gran Bretagna sia un paradiso per gourmet: c’è da percorrere una lunga strada prima di raggiungere il livello dell’Italia, della Francia, della Spagna e forse di quasi ogni altro paese europeo, ma perlomeno siamo partiti. In un momento in cui tanti paesi si preoccupano dell’erosione della loro cultura culinaria, gli inglesi possono celebrare la rinascita della propria. *traduzione di Davide Panzieri

The Punch Bowl Crosthwaite, Cumbria tel. 01539 568237 The Three Fishes Mitton Road Mitton, Nr Whalley Lancashire tel. 01254 826888 GALLES The Hardwick Old Raglan Road Abergavenny Monmouthshire Wales tel. 01873 854220 IRLANDA DEL NORD Kelly’s Cellar 30-32 Bank St Belfast tel. 028 90246058

Chi ha detto che la Gran Bretagna non vanta una cucina tradizionale?

Arbroath smokies Filetti di pesce eglefino affumicati all’interno di botti da whisky. Piatto tipico della cittadina marinara di Arbroath, nel nordest della Scozia. Black pudding Sanguinaccio di sangue di maiale, avena, sugna, pangrattato e orzo. Spesso servito con fagioli e patate. Boxty pancakes Crèpe a base di patate, farina e latte, tipica dell’Irlanda del Nord. Champ Preparazione irlandese a base di patate lesse e schiacciate, cipollotti, burro e latte. Cockie-leekie Zuppa scozzese fatta con brodo di pollo, porri e prugne secche. Un tempo preparata, secondo la leggenda, con l’uccello perdente nei combattimenti di galli. Cullen skink Spessa zuppa di pesce, proveniente dal paesino di Cullen, nell’estremo nordest della Scozia. Gli ingredienti sono eglefino e/o merluzzo, patate, cipolle e latte. Fish and chips Forse il piatto più popolare della Gran Bretagna. Filetto di pesce bianco fritto in pastella e servito con patatine fritte e, spesso, mushie peas, purea di piselli. Haggis Piatto nazionale scozzese, un insaccato di frattaglie di pecora, macinate con cipolla, spezie e avena, e bollite nello stomaco dell’animale. È servito, tradizionalmente, con rape al burro e accompagnato da un bicchierino di whisky. Irish stew Carne di pecora in umido con patate, carote, cipolle e prezzemolo. Piatto tipico irlandese. Kedgeree Piatto scozzese, ma di origine indiana, fatto di scaglie di pesce bianco affumicato, riso, uova sode e burro. Lancashire hot pot Stufato di carne di pecora, carote e cipolle, ricoperte da uno strato di patate tagliate finemente e gratinato al forno. Una specialità dell’Inghilterra nordoccidentale. Pease pudding L’”hummus di Newcastle”. Una purea di piselli gialli secchi, spesso servita con prosciutto o bacon. Roast beef and Yorkshire pudding Il classico pranzo domenicale inglese. Carne di manzo rosolata al forno con una specie di piccolo soufflé fatto con una pastella di farina, latte e uova. Scotch eggs Uova sode ricoperte di polpa di salsiccia e pangrattato e fritte nel burro. Shepherd’s pie Carne di agnello macinata ricoperta di crema di patate e gratinata al forno. Steak and kidney pie Torta salata ripiena di bocconcini di manzo e rognoni di agnello (e, un tempo, ostriche).


INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

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iti, mafaldine, quadrucci, scialatielli, garganelle, bavette, pappardelle, vermicelli, pipe, mezzemaniche, tortiglioni, perciatelli, stelline… Erano più di cinquecento i formati della pasta alla fine del secolo scorso, attualmente se ne producono regolarmente poco meno di un centinaio. La pasta - in tutte le sue declinazioni, corta o lunga, secca o ripiena, fresca o ripassata, fatta a mano o trafilata al bronzo - è un prodotto essenzialmente italiano, anzi campano e napoletano nelle sue migliori accezioni, diventato simbolo internazionale del mangiar sano e bene (ricordate che solo vent’anni fa in Francia era servita collosa e come contorno, in Germania al posto dei crauti e in Gran Bretagna con cottura e sughi imbarazzanti). Sono tanti i luoghi in Campania dove si producono paste artigianali lavorate secondo la secolare tradizione. Semole esclusivamente di grano duro di ottima qualità per mantenere la cottura, acqua sorgiva, lenta essiccazione a basse temperature, trafile al bronzo per dare alla pasta la ruvidità ideale all’assorbimento dei sughi. Si tratta di caratteristiche peculiari ed essenziali necessarie ad ottenere un prodotto di qualità e dalle innumerevoli varietà di forme. Intorno alla cultura di questo cibo che in Campania coniuga al meglio gusto e qualità alimentare, ruotano importanti indicatori economici che fanno della Campania la regione leader nel settore: essa vanta una quota export nel 2007 del 15% corrispondente ad un giro d’affari all’estero di oltre 200 milioni di euro; quattro pastifici, inoltre, si collocano tra le prime 50 imprese della regione (con un fatturato complessivo di 164 milioni di euro e 489 dipendenti). E’ una storia antica che parte da oltre quattro secoli fa quella che lega questo cibo, la pasta, con il suo territorio di elezione, Napoli e la Campania, caratterizzandone l’economia ma anche la cultura. Intorno al 1630, ci fu una profonda rivoluzione alimentare nella Napoli sovraffollata e povera del tempo, quella che trasformò la grande massa popolare cittadina da mangiafoglia a mangiamaccheroni. Al tempo il cibo principale erano cavoli, broccoli e insalata per gli oltre trecentomila abitanti di questa metropoli europea. Ma i luoghi di produzione della verdura erano sempre più lontani, il costo della carne sempre

più alto, gli approvvigionamenti difficili e soprattutto l’introduzione del torchio meccanico abbassò i costi e facilitò la produzione della pasta, un alimento gustoso e completo, che nutre e sazia facilmente. Un prodotto da scorta alimentare per affrontare le penurie di cibo. Inizialmente un piatto unico, in bianco, fumante, col cacio sopra e un filo d’olio, solo a metà ottocento arriverà il condimento ossia pomodoro e salsa. Nella fase d’avvio della produzione industriale molto ha contato il clima partenopeo e la vicinanza della città al mare che favorisce, in Campania, la migliore essiccazione. A inizio 900 decolla l’essicazione industriale, che permetterà di migliorare e facilitare la produzione e la conservazione a lungo della pasta. Nemmeno cinquanta anni fa erano le massaie a preparare la pasta in casa, all’uovo per fare tagliatelle, ravioli, agnolotti , con la semola di grano duro per cavatelli, orecchiette e fusilli. Era un affettuoso rito domestico, specialmente del giorno festivo, piano piano trasformato con l’introduzione delle macchinette d’alluminio per fare la pasta in casa e poi soppiantato dalle trasformazioni sociali del nucleo familiare col sempre minor tempo da dedicare alla preparazione e elaborazione dei cibi. Con il proliferare dei single e delle separazioni, la cucina della mamma si dimentica facilmente e va in soffitta. Si sono così persi alcuni rituali classici degli anni sessanta, ad esempio lo spaghetto aglio, olio e peperoncino dopo la mezzanotte, a conclusione di una giornata lunga e faticosa prima di andare a letto con quel piacere, quella gratificazione sensoriale che si prova masticandola lentamente e assaporandola boccone dopo boccone. O la saporita frittata di maccheroni, rimettendo in padella gli avanzi del giorno prima e riscaldandoli con un leggero velo d’uovo, il tipico piatto del tifoso, da portare sulle gradinate dello stadio e consumare nell’attesa dell’inizio della partita di calcio. Esiste forse cibo più naturale e semplice della pasta? Semola di grano duro e acqua. Nessun conservante, perché è l’essiccazione del prodotto già modellato che permette un’indefinita conservabilità; nessun colorante: guardando in controluce un fascio di spaghetti ritroviamo la luminosità del sole assorbita dal chicco di grano e restituita dalla semola; nessun additivo

chimico e neppure il sale. L’uso della pasta a Napoli , con l’espansione continua del suo consumo, comportò lo sviluppo notevole della produzione, realizzata e sostenuta da una categoria di artigiani pastai di alto livello professionale e tecnico. Ma la pasta in Campania è anche di più. Essa ci richiama la dieta mediterranea, la sana e nutriente alimentazione, le nostre tradizioni, i nostri saperi. Oggi i consumatori esigono per ogni cibo di conoscere dove è stato prodotto e come è stato prodotto. L’ottima semola di grano duro e l’acqua delle fresche sorgenti del monte Faito sono gli ingredienti principali della pasta di qualità prodotta in Campania. Quella che ci fa venire subito l’acquolina in bocca semplicemente pensando all’insalata di pasta, alla pasta al forno, alla lasagna, alla pasta al tartufo e a tutte le altre maniere di fare la pasta, da secoli conosciuta a Napoli e dintorni come “la regina della tavola”.


OLIO. L’ORO DOP DELLA CAMPANIA

IGP PER GRAGNANO, LA CITTÀ DEI MACCHERONI

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a oltre 500 anni il nome della pasta è strettamente legato alla città di Gragnano. Verso la metà del 1500 a Gragnano nella generosa Valle dei Mulini, stretta tra il mare ed i monti, nascono le prime aziende artigianali per la produzione della pasta. Grazie alla favorevole posizione, Gragnano e la sua Valle dei Mulini, rappresentavano il luogo ideale per la produzione e l’essiccazione della pasta. Le fonti delle vicine sorgenti alimentavano i tanti mulini presenti nella valle; la presenza dei mulini favoriva l’approvigionamento della semola di grano duro, materia prima della pasta. La particolare caratteristica di queste acque rendeva caratteristico il sapore dell’impasto. Parte fondamentale del successo e della tradizione della pasta a Gragnano, era giocato dal clima caldo, ma mai troppo umido rinfrescato dalla vicina brezza del mare. Si determina una speciale alchimia che rende questo ambiente ideale per l’essiccazione della pasta che veniva fatta in origine per le strette stradine cittadine. L’essiccazione avveniva in un ambiente con una costante temperatura ed umidità che garantivano al prodotto una perfetta conservazione ed un gusto del tutto originale. Verso i primi anni del 1600 cominciano a nascere dei pastifici gestiti da famiglie che si dedicavano alla produzione della pasta. La pasta divenne per Gragnano il motore dell’economia. Intorno alla metà del 1800 i pastifici presenti sul territorio erano circa 100 e impiegavano ben il 75% della popolazione. La fama della pasta di Gragnano era ormai conosciuta in tutto il Regno delle Due Sicilie, tanto che nel luglio del 1845 il sovrano Ferdinando II, in visita ai pastifici gragnanesi, assaggiando i maccheroni donatigli dai pastai locali, li definì “cibo genuino, come genuini sono gli uomini di Gragnano”. Giunti ormai alle soglie dell’unità d’Italia, la feconda attività pastaia di Gragnano contava circa 100 pastifici che davano lavoro a ben il 70% della popolazione attiva gragnanese. A dare ancor di più il senso dell’importanza dell’attività descritta è la testimonianza, ancora visibile e riscontrabile, dell’organizzazione e addirittura della costruzione, durante tutto il 1800, dei quartieri e dei palazzi della cittadina in funzione dell’attività pastaia. Infatti, in questo periodo i maggiori architetti del Regno ridisegnarono la strada dei pastifici, determinando a tavolino la larghezza stradale e l’altezza dei

palazzi, affinché non vi fossero ostacoli alle delicate fasi della lavorazione e, in particolare all’essicazione, che doveva beneficiare della luce e del calore del sole ad ogni ora del giorno. Senz’altro, quello descritto, è uno dei più chiari e importanti esempi di come l’architettura cittadina sia stata programmata, progettata e realizzata al servizio di un’attività industriale ed economica. Qualche anno fa è nata la Società Consortile “Gragnano Città della Pasta r.l.”, formata da nove pastifici, il cui progetto è quello di vedersi assegnata la certificazione IGP per la pasta che essi stessi producono. L’Igp servirebbe a valorizzare la grande tradizione artigianale del territorio e a promuovere il lavoro di una zona già leader a livello internazionale. Questa definizione d’Igp risulta essere appropriata per la Pasta di Gragnano, in quanto, il nome della Città di Gragnano deriva da un “praedium graniium” in cui la gens Grania, di origine romana, si dedicava alla lavorazione del grano ed alla produzione del pane. Saperi antichi e produzione moderna di grande qualità hanno fatto conoscere in tutto il mondo il nome della cittadina dei Monti Lattari. Gragnano è diventata cosi la città della pasta anzi “la città dei maccheroni”. La domanda di riconoscimento della “Pasta di Gragnano” IGP è giustificata dalla reputazione e notorietà del prodotto. La “Pasta di Gragnano” infatti è conosciuta in gran parte del mondo per la tradizione e la storicità della propria produzione che avviene da sempre con l’utilizzo di trafile in bronzo. Quest’ultime conferiscono alla pasta la caratteristica rugosità superficiale, rendendola pertanto perfettamente riconoscibile al tatto ed al gusto e particolarmente adatta a condimenti e sughi della tradizione napoletana. La reputazione del prodotto in argomento è anche dimostrata dall’originalità dei formati, creati nel corso dei secoli dalla spiccata fantasia dei pastai gragnanesi. Tali particolari formati contribuiscono a rendere la “Pasta di Gragnano” riconosciuta e riconoscibile. Anche il simbolo della pasta di Gragnano Igp sarà dal logotipo, uno scudo costituito da una torre antica, un cipresso millenario, un orizzonte sereno con qualche nuvoletta nasconde il Castello. Una mano forte stringe spaghetti e spighe sullo sfondo rosso della metà destra dello scudo. In alto la corona fornita di sette palle, al lato destro dello stemma si legge Gragnano Città della Pasta.

uarta regione in Italia per la produzione di olio extravergine di oliva, la Campania ha un antico patrimonio di saperi e tecniche che si riflette nella grande qualità del suo olio, già apprezzato dai tempi dei Greci e dai Romani. Un prodotto limpido e profumato che ha ispirato molti piatti della cucina tipica regionale e alimenta un notevole autoconsumo (fino a venti anni fa la “merenda” dei ragazzi di campagna era una fetta di pane casereccio, con un po’ di olio e di sale). Usato come cosmetico, medicamento, combustibile per l’illuminazione, offerta votiva, condimento l’olio di oliva ha attraversato la storia dell’uomo, fino ai nostri giorni quando la scoperta dei benefici della dieta mediterranea ne ha definitivamente consacrato il valore: è infatti proprio in questa regione che il nutrizionista americano Ancel Keys effettuò gli studi che hanno reso noti in tutto il mondo i vantaggi salutistici di una dieta basata sull’olio extravergine di oliva. In Campania l’olivocultura è diffusa un po’ dovunque, in collina e in montagna, sul mare e all’interno. Nelle diverse zone troviamo differenti varietà e sistemi di coltivazione. Infatti si passa dagli olivi secolari e di grande taglia del Cilento, che impongono sistemi di allevamento tradizionali, agli oliveti allevati a monocono o a siepone del Medio Sele, raccolti meccanicamente; in Penisola Sorrentina troviamo oliveti consociati ad altre colture su terreni scoscesi, mentre nel Sannio e nel Casertano prevale il vaso policonico e gli olivi, disposti in filari regolari, dominano il paesaggio; in Irpinia, infine, prevale l’olivicoltura di alta collina, con varietà adattatesi, nel corso dei secoli, ai rigori dell’inverno. Proprio il ricco e originale patrimonio di varietà – le cultivar autoctone sono più di 60, ad esempio la pisciottana, la rotondella, la carapellese e l’ogliastro nel salernitano; la minutella e l’ortice nella provincia di Benevento; la ravece, tipica dell’Avellinese e la caiazzana, la corniola, la palombina, l’olivella e la tonnella nella provincia di Caserta – determina la qualità e la tipicità degli oli campani che si avvalgono di un’enorme ricchezza in termini di biodiversità basata non solo sulla tradizione olivicola plurimillenaria ma anche sulla diversità degli ambienti di coltivazione. Queste diverse tipologie e i vari ambienti olivicoli trovano le loro migliori espressioni nei dieci oli extravergini di oliva a Denominazione di Origine Protetta (dop) della Campania: quattro (Colline Salernitane, Cilento, Penisola Sorrentina e Irpinia - Colline dell’Ufita) già riconosciuti dalla Comunità Europea, due (Colline Caiatine e Terre Aurunche) approvati dal Ministero delle Politiche Agricole e due (Terre del Clanis e Terre del Matese) al momento in fase istruttoria. Gli oli a denominazione di origine protetta sono i soli a garantire, a seguito di un rigoroso disciplinare di produzione cui sono sottoposti, la provenienza, la genuinità, la tipicità, l’elevata qualità fisico-chimica ed organolettica dell’olio. Tutte la fasi del ciclo produttivo, dalla coltivazione alla raccolta, dalla molitura fino all’imbottigliamento sono controllate da un organismo terzo. Da qualche anno hanno grande successo i corsi di assaggio e le sagre specializzate, ma soprattutto degustazioni aperte al pubblico e appuntamenti con la grande ristorazione per appetitose incursioni nella tradizione gastronomica campana, rigorosamente condite con olio dop. La Campania diviene, così, con le sue quattro Dop riconosciute e le altre in corso di riconoscimento, epicentro e messaggera dell’olivicoltura italiana di qualità, nella convinzione che la definitiva affermazione di questo prodotto sia legata ad una maggiore conoscenza delle sue straordinarie qualità organolettiche e nutrizionali.


Assessorato Agricoltura


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ino al XVI secolo la parola brasserie indicava una fabbrica di birra e, per estensione anche la birreria. A partire dall’Ottocento nelle brasserie si iniziò anche a servire pasti semplici, popolari ed economici 24 ore su 24. Nel 1870, con l’annessione dell’Alsazia-Lorena alla Prussia furono molti gli alsaziani che, desiderando restare francesi, si ritrovarono nella capitale portando con sé i loro costumi, un tipo di ritrovo abituale, una cucina generosa, la loro birra e i loro vini. Fu dunque negli ultimi due decenni dell’Ottocento, quando in Europa si diffondeva l’Art Nouveau e successivamente l’Art Déco, che si mescolarono quegli elementi decorativi, tradizionali, culinari che furono poi caratteristica di ogni grande brasserie. Specchi, motivi floreali, sen-

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lità dell’ambiente, i tavoli ravvicinati, la rapidità del servizio, la coreografia del personale di sala in uniforme: nodo a papillon, gilè nero, camicia immacolata e l’imprescindibile grembiule lungo fino ai piedi. Un luogo informale, certo, ma anche di classe. «Forse a causa dello stile di vita caotico dei giorni nostri, i clienti amano tornare nelle brasserie come luogo di incontro, ma vogliono nello stesso tempo un ambiente pulito, tranquillo e accogliente» continua Denis Nicolle. «I nostri clienti cercano la calma, non il silenzio! Il lato caloroso e accogliente delle brasserie viene anche da un sottofondo di rumore piacevole che, insieme al movimento, fa parte della vita!». Ed è proprio questa appartenenza alla vita che abbiamo ritrovato in modi diversi in tutte le grandi brasserie parigine:

Oui, je suis la brasserie suali figure femminili, bronzi e lacche, maioliche, il calore ambrato dell’ebano e le luci soffuse sono quanto si incontra ancora oggi nelle brasserie che hanno saputo conservare in modo più o meno rigoroso il loro arredamento d’origine. E, poi, c’è in tutte una concezione di ristorazione che in principio si voleva rapida e alla portata di ogni borsa e che, oggi, si traduce in un rapporto qualità prezzo impareggiabile e nella possibilità di mangiare in orari molto più ampi di quelli dei ristoranti. Coincidenza di opposti «Queste case hanno un’anima, un vissuto, una storia» dice Denis Nicolle, direttore del Terminus Nord. «Ci sono anziani clienti che venivano qui quand’erano bambini, con i loro genitori. Ora continuano a venire perché vi ritrovano quella convivialità e quella cucina che ancora sono alla base di una grande brasserie. Perché la brasserie sa far coincidere aspetti apparentemente lontani: una tradizione, i grandi numeri di serate a 700 pasti, la qualità del cibo, prezzi ragionevoli e un’accoglienza competente e precisa». I clienti amano la convivia-

preservare un patrimonio spesso protetto dal registro dei monumenti storici e nello stesso tempo renderlo vivente, attuale, abitato e sentito come proprio da tutti quelli che per caso, per abitudine, per passione spingono la porta che li introduce in antichi locali che sono piacere per tutti i sensi.

pori di casa, è il primo incontro con la Ville Lumière per i turisti inglesi che, sbarcati dall’Eurostar, non hanno che da attraversare la strada per essere catapultati nel cuore palpitante di Parigi. Poi il Terminus Nord è anche un luogo dove discutere di affari, firmare un contratto o fare colazione.

Terminus Nord, i viaggi e gli incontri La stazione che fronteggia maestosamente Terminus Nord è il capolinea (terminus) dei treni a lunga percorrenza che in poco più di due ore portano a Londra, in un’ora nelle città del nord e in un’ora e mezza a Bruxelles. In poche altre brasserie l’accoglienza è così familiare da dare a chiunque l’impressione di essere tornato a casa da un lungo viaggio. Ci si siede nell’immensa sala godendo della danza vorticosa dei camerieri che portano grandiosi plateaux di frutti di mare a qualunque ora. Il Terminus Nord (23 Rue Dunkerque) è luogo di incontro per gli amici che si ritrovano davanti ad un pavé de b?uf al sangue, è passaggio prediletto dei viaggiatori che partendo per oltremanica desiderano portare sulle papille il ricordo dei sa-

Bofinger, sotto la cupola dei fiori Bofinger (3 Rue de la Bastille) è forse la più bella brasserie di Parigi, la più autentica, la più magica. Qui nel 1864 fu servita la prima birra à pression, cioè alla spina, che ebbe subito un enorme successo. Alla fine della prima guerra mondiale il locale fu rinnovato: l’attuale ripartizione degli spazi che si riflettono in mille specchi decorati dai materiali più preziosi è opera di Legay e Mitgen, mentre la famosa cupola a motivi floreali è il capolavoro di Néret e Royé. La brasserie risplende ancora del fascino intatto della sua lunga storia, ma niente sarebbe più sbagliato che immaginarla come uno statico museo impolverato. Ogni giorno vi si servono circa 800 pasti e almeno un centinaio di choucroutes, tipico piatto alsaziano composto da

di Serena Majo*

La ristorazione alla parigina, buon rapporto qualità prezzo e possibilità di mangiare in orari molto più ampi di quelli dei ristoranti crauti marinati, salsicce affumicate, sanguinacci, boudins blancs, patate bollite, lardo e altri tagli di maiale. Mollard, i soffitti a mosaico Nel 1867 i coniugi Mollard, savoiardi, giunsero a Parigi dove aprirono un bougnat, un piccolo commercio che vendeva legna, carbone e fascine, dove si poteva bere un bicchierre di vino, di birra o di assenzio. Quando fu ultimata la stazione Saint-Lazare, era il 1895, il quartiere conobbe uno sviluppo eccezionale e la famiglia Mollard trasformò il bougnat nella più liberty delle brasserie parigine (115 Rue Saint-Laza-

re). Dopo un lungo periodo di fortune altalenanti, soltanto una cinquantina di anni fa, grazie a un restauro, si riscoprirono i fasti della Belle Époque. Oggi la clientela è variegata: accanto ai turisti sedotti dalla bellezza dell’arredamento tornano i parigini, incerti se restare con i piedi per terra gustando la cucina tradizionale o con il naso per aria godendo dei magnifici soffitti a mosaico. Au pied de cochon, la Babele dei commerci Au pied de cochon è situato in pieno centro (6 rue Coquillière), nella zona pedonale che circonda le Halles, un quartiere che negli ultimi cinquant’anni ha subìto come pochi altri una trasformazione radicale: da caotico mercato alimentare a moderno centro commerciale, nonché il più trafficato nodo nel sistema di trasporti urbani e regionali di Parigi. Prima che i mercati fossero trasferiti a Rungis, Au pied de cochon si affacciava su una caotica babele di commerci, botteghe, banchi, carretti. Fondata nel 1946, prese il nome dalla vicinissima rivendita che smerciava zampe di maiale, in francese, appunto, pieds de cochon. Oggi come allora rimane aperta e serve cibo 24 ore su 24, un migliaio di pasti al giorno per una clientela ben assortita: dai turisti ai ragazzi che escono dai multisala delle Halles, dagli impiegati del quartiere agli affezionati dello shopping, dai commercianti agli spettatori delle notturne dei teatri. La brasserie mantiene un menù di cucina tradizionale francese con una predominanza di piatti a base di maiale tra cui la tentation de Saint-Antoine: coda, orecchie, guancia e stinco di porco accompagnati da una sauce bernaise. *Slow Food


Si accend

Eliminiamo le l

Click. Le spegniamo per sempr per proteggere l’ambiente: in 120.000 tonnellate di CO2 all’ solo lampadine a basso impatto alle previsioni normative. Pe * ad eccezione delle lampadine speciali (frig


e una nuova era. ampadine a incandescenza.

re. Le togliamo tutte* dai nostri scaffali entro la fine del 2009 questo modo possiamo evitare l’immissione in atmosfera di anno. Le mettiamo al bando per farvi risparmiare, offrendovi o che durano molto di piĂš. E lo facciamo in anticipo rispetto r tutti questi motivi, la nostra è una scelta illuminata. orifero, forno, etc.).



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bouchons sono i depositari della cucina tradizionale lionese, locali popolari eredi delle locande che un tempo ospitavano i viaggiatori di passaggio. Le origini della grande tradizione gastronomica della città affacciata sulle rive del Rhône e della Saône vanno ricercati nella sua posizione geografica, centrale rispetto a regioni ricche di prodotti eccellenti: la carne di charolais, i polli della Bresse, i pesci degli stagni della Dombes, i vini del Beaujolais, del Mâconnais e della valle del Rhône. Si deve poi aggiungere uno straordinario ventaglio di formaggi vaccini, caprini e ovini. Alcuni provenienti dalle vicinissime alture del Lyonnais, altri dalle valli alpine, come il Saint-Marcellin della valle dell’Isère, il Cantal o il Saint-Nectaire della non lontana Auvergne. A completare il quadro c’è la tradizione norcina, con tipologie di insaccati come il saucisson de Lyon e la rosette, o ancora le cervelas, salami da cuocere, spesso aromatizzati con tartufo, pistacchi o le morchelle. Non è poco, soprattutto se si parla di un tempo in cui la globalizzazione era di là da venire, non esistevano aerei né autostrade e disporre di materie prime di qualità prodotte nelle vicinanze era un indubbio vantaggio. Tra la fine dell’800 e i primi del ’900 non poche famiglie borghesi, per problemi economici, dovettero fare a meno dei servigi delle cuciniere. Le più abili e intraprendenti si misero in proprio, per aprire locali dove si servivano piatti eseguiti alla perfezione. Françoise Foujolle, sposata al mercante di vini Louis Fillioux, fu una delle prime ad acquisire notorietà, e a essere conosciuta come mère Fillioux. Sulla scia del suo successo altre donne lasciarono il lavoro a servizio per aprire il loro bouchon, dando vita al fenomeno conosciuto come quello delle mères lyonnaises. La più celebre di tutte fu la mère Brazier, ovvero Eugénie Brazier, che aprì il suo ristorante il 10 aprile 1921 al numero 12 di rue Royale. Nel 1928 la mère Brazier apre un altro rustico locale al Col de la Luère, una ventina di chilometri da Lyon, dove fra gli altri apprendisti si formerà anche Paul Bocuse. Ancora oggi qualche ristorante porta il nome della mère che lo ha fondato, come Chez Léa, condotto da trent’anni da Philippe Rabatel, uno dei suoi allievi. A parte questi locali entrati nell’empireo della ristorazione, decine di bouchons si rivolgevano a una clientela più popolare, formata dai canuts, i lavoratori dell’industria tessile, dai battellieri delle peniches che incrociavano sui due fiumi della città, dai facchini impegnati nello scarico delle merci. Di primo mattino, smontando

maggio bianco mescolato con erbe, olio, aglio e un po’ di aceto, il cui nome rende omaggio ai lavoratori tessili. La Meunière è un altro storico bouchon. Fondato nel 1916, è stato per oltre 25 anni di proprietà di Maurice Débrosse, personaggio importante della gastronomia lionese, e da qualche anno è nelle mani di Jean Louis Gelin. Figlio e fratello di viticoltori del Beaujolais, Jean Louis – grandi mustacchi e sorriso aperto – ama i vini della regione, i formaggi dell’Auvergne e, naturalmente, la cucina tradizionale. All’ingresso del locale si trovano le ciotole in terracotta con i vari componenti delle insalate locali, che spesso utilizzano i pezzi meno nobili del maiale e dei bovini. Un classico è il cosiddetto caviar de la Croix Rousse, lenticchie condite in insalata, che fa riferimento al quartiere operaio dove lavoravano i canuts. Sul tavolo al centro del locale Jean Louis affetta salumi, taglia formaggi, prepara mostarde, mentre dalla cucina arrivano dessert classici come la tarte à la praline.

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Le cuoche di Lione dal turno di notte o in una pausa dal lavoro iniziato all’alba, questa clientela usava riversarsi nei bouchons per il rito del mâchon, un robusto spuntino a base di affettati, formaggi e piatti della tradizione. Un appuntamento che sopravvive in alcuni bouchons di quartiere, come Le Morgon, non lontano dalla nuova sede delle Halles de Lyon, intitolate a Bocuse. Certo, non sempre è facile trovare piatti come il gras double à la lyonnaise, la trippa di stomaco di bue servita con cipolle rosolate a fettine, o il tablier de sapeur (alla lettera, “grembiule del pompiere”), in versione impanata e fritta. In compenso il locale, con una gestione quasi tutta femminile, offre abitualmente sontuose terrine e, con l’aperitivo, i gratons, pezzetti di grasso di maiale fritti. Per ritrovare l’atmosfera di un vero bouchon in pieno centro si può andare Chez Hugon, in rue Pizay, una stra-

di Dario Bragaglia*

Andando per bouchons, i classici di una cucina molto francese nella città dei due fiumi

dina alle spalle dell’Opéra di Jean Nouvel. Un minuscolo locale con pochi tavoli apparecchiati con tovagliette a quadri bianchi e rossi e un imponente banco, dove Henri Hugon spilla senza posa Beaujolais, il vino per eccellenza dei ristoranti popolari lionesi insieme al Côtes-du-Rhône. Come in tutti i bouchons, il vino si serve nel pot lyonnais, la tipica bottiglia da 46 centilitri con il fondo di vetro spesso. La cucina è il regno di Arlette, la moglie, che prepara un’ottima blan-

quette de veau, ma che è conosciuta soprattutto per il boudin aux pommes, un sanguinaccio servito con quarti di mele cotte nel burro. Per trovare altri locali con una storia importante non occorre spostarsi di molto. In rue du Major Martin c’è il Café des Fédérations – per tutti i lionesi semplicemente “Les Fédés” – che si presenta come “maison fondée ici depuis bien longtemps”. Appena entrati, ecco i salami appesi sopra il bancone, le specchiere, i vecchi cartelli, gli arredi in legno. Qui nel 1974 Bertrand Tavernier girò qui alcune scene de L’orologiaio di Saint Paul, interpretato da Philippe Noiret e Jean Rochefort. Un buon posto per assaggiare una tipica insalata lionese con indivia, pezzetti di lardo saltati nell’olio, i crostoni di pane al burro, un uovo in camicia, il tutto condito con salsa vinaigrette alla mostarda, oppure la tête de veau. Assaggio obbligato per il cervelle de canut, for-

Poco distante, Le Garet è un altro autentico bouchon che conserva gli arredi degli anni Trenta: lampade, grandi specchi sui quali sono segnalati i piatti del giorno, cassettiere e tavoli in legno, poltroncine e divanetti di colore rosso acceso, le foto con dedica dei clienti più celebri che sono passati al numero 7 di rue du Garet. Seguendo la rotazione stagionale, qui sono proposti tutti i classici della cucina dei bouchons, dai clapotons (zampette di montone) in salsa tartara alle terrine di maiale e di coniglio, dal fegato di vitello alla lionese alle andouillettes al vino bianco. Si può chiudere con les cerises du Garet, le ciliege conservate sotto spirito. Il tour può terminare a Le Jura, un locale accogliente fondato nel 1867: era il posto preferito dagli artigiani del quartiere e dai proprietari delle chiatte ancorate sulle rive del Rhône e della Saône. *Slow Food


Re Momo governa

20scritto&mangiato

n newari, una delle più antiche lingue nepalesi, “momi” significa “al vapore” e il momo, una sorta di tortello, sta alla cucina nepalese come la pizza sta a quella italiana. E proprio come la pizza, grazie a qualche variante rispetto alla ricetta originale, è diventato parte integrante delle abitudini culinarie e della cultura del Paese. Potremmo dire che, insieme all’Everest, è uno dei simboli del Nepal. La nascita del momo risale al XIV secolo e si situa nella valle di Katmandu, la zona allora abitata dal popolo Newari. Ma rapidamente il momo arrivò nelle strade e sulle tavole del Tibet, della Cina e addirittura, verso la fine del XV secolo, del Giappone, al seguito di una principessa nepalese sposata a un re tibetano. Da allora non si è più fermato e oggi, grazie soprattutto alle comunità nepalesi sparse per il mondo, sta diventando celebre in tutto il pianeta. Sono molte le ragioni che spiegano la sua crescente popolarità. Intanto costa poco, da 25 centesimi a 4 dollari a porzione (10-12 “tortelli”), quanto basta per un pranzo leggero. Poi è molto gustoso, perché preparato con spezie che gli conferiscono un sapore originale e lo rendono perfetto per il palato nepalese. Infine è sempre disponibile, dunque si può ordinare o acquistare in ogni angolo del Paese: si prepara ancora in casa ed è servito in tutti gli hotel e ristoranti, grandi o piccoli che siano, è venduto da migliaia di chioschi e carretti lungo le strade e il suo consumo è in costante aumento in tutti i locali della capitale. Il momo, insomma, rappresenta il fast food perfetto per ogni fascia di età e non a caso si fa sempre più spesso riferimento a questo piatto come al “re del fast food”. Non sorprende allora che l’industria cominci a mostrarsi molto interessata alle potenzialità del tortello nepalese… Mahedra Shakya è il proprietario di tre famosi ristoranti di momo a Katmandu, i Momo Kings, sempre affollati. Shakya attribuisce la popolarità del suo momo al sapore autentico: «Lo facciamo secondo il metodo tradizionale, che garantisce quel sapore speciale, genuino, che piace alla gente», dice. Vista la crescente popolarità, Shakya ha in progetto di avviare presto ristoranti in India – a New Delhi, Calcutta e Mumbai – ma anche in altri Paesi. «Penso di aprire prestissimo ristoranti di momo almeno in queste tre città indiane, e poi, tra un po’, di provarci anche in alcune capitali europee», afferma Shakya, fiducioso rispetto all’appeal popolare della sua specialità e al gradimento pressoché universale che è in grado di suscitare.

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di Yuba Nath Lansal

Il tortello del Nepal, piatto leggero che si trova praticamente ovunque, famoso quanto l’Everest Birju Suwal vende invece momo a Bhaktapur da oltre quindici anni. Il suo negozio è uno dei più popolari dell’antica città newari conosciuta anche come Bhadgaon o Khwopa. Fedele alla stessa ricetta nel tempo, Suwal ha servito momo – dai 1500 ai 2500 ogni giorno – ai clienti più diversi, studenti, tassisti e negozianti in testa. Il suo successo – sostiene – è dovuto alla felice combinazione di prezzi bassi e ricetta vincente. La ricetta L’involucro del momo è composto soltanto da farina di grano e acqua mentre per il ripieno si usano carne, un trito di cipolle e aglio, succo di zenzero, olio e una miscela di spezie ed erbe aromatiche. Per la salsa di accompagnamento occorrono pomodori, cipolle, peperoncini e aglio tritati, sale, sesamo e senape in polvere, spezie ed erbe aromatiche. La ricetta originale prevedeva che il momo fosse preparato esclusivamente con carne di manzo (bufalo ma anche yak, sostengono invece alcuni), però oggi a Katmandu se ne cucinano per tutti i gusti: di montone, di pollo, di maiale, di capra, di sole verdure, ma pure con ripieni piuttosto stravaganti come uova, funghi, tofu, tanto per citarne alcuni. Anche l’involucro, preservando la sostanza, ha subìto variazioni di forma e alla tradizionale mezzaluna ora si affiancano momo rotondeggianti, canonicamente chiusi oppure aperti in modo da svelare subito il loro contenuto, e di dimensioni variabili, da quella di una noce a quella di una piccola pesca. Ed ecco come si dovrebbe cucinare il momo nella versione tradizionale. Anzitutto si versa un po’ di acqua sulla farina e si lavora con le mani, facendone un impasto liscio, da cui si ricavano dischi di pasta piccoli e sottili. Si macina la carne fino a ridurla in pasta, si aggiungono le cipolle e l’aglio tritati e il succo di zenzero. Quindi si incorporano l’olio e le spezie, e si mescola bene il tutto. Una piccola cucchiaiata di questo ripieno va deposta sui dischi di pasta, che poi devono essere ripiegati su se stessi a mezzaluna e sigillati pressando con le dita il bordo curvo. Il momo così ottenuto è messo a cuocere in una apposita vaporiera multistrato. Il fondo della vaporiera, riempito di acqua con sale,

aglio, pomodori, peperoncini e spezie, va appoggiato sulla piastra finché l’acqua non bolle. Raggiunta l’ebollizione, si impila sul fondo il secondo strato della vaporiera, carico di momo, quindi si copre con un coperchio e si lascia cuocere a vapore per 15 minuti. Nonostante il concetto di vapore costituisca la radice stessa del suo nome, non sono pochi i nepalesi – anche se più sovente nella “trappola” cadono i turisti e più o meno improvvisati cuochi – che non si scandalizzano di fronte a un fagottino fritto in olio, in genere comunque dopo un passaggio nella vaporiera. L’ultima fase della ricetta, non meno importante delle prime due, prevede la preparazione dell’achar, la speciale salsa d’accompagnamento che si ottiene tritando pomodori, cipolle, peperoncini e aglio e cuocendoli in casseruola per dieci minuti, per poi ag-

giungere sale, sesamo, senape in polvere e una miscela di erbe aromatiche e spezie. Amalgamato bene il composto, l’achar è pronto. Le porzioni si preparano distribuendo 10-12 mezzelune per piatto e accompagnandole con l’achar ed eventualmente con una cucchiaiata del brodo di cottura aromatizzato con spezie che si è formato sul fondo della vaporiera. Molti locali scelgono però di tenere separati momo e condimenti, servendo questi ultimi in una scodellina posta al centro del piatto… Fra tanti pregi, questo tortello ha, forse, un difetto: ritagliare e farcire dischetti di pasta può rivelarsi un’attività noiosa, specialmente se compiuta in solitudine. Per ovviare all’inconveniente, spesso in Nepal le donne si riuniscono per prepararlo: la tutela della tradizione può aver bisogno anche di chiacchiere.


PER MANGIAR SANO GUARDA LA PIRAMIDE CARNI ROSSE SALUMI DOLCI

UOVA PATATE FORMAGGIO

PESCE POLLAME

LEGUMI FRUTTA SECCA LATTE

CEREALI OLIO EXTRAVERGINE D’OLIVA

FRUTTA VERDURA

S

e vuoi mangiare bene segui i consigli della piramide. Non è un parto di creativi della pubblicità, non reclamizza la pur prelibata gastronomia araba. Non è uno slogan. È il risultato di un lavoro di analisi e documentazione curato da un comitato scientifico allestito dalla Regione Toscana e dalle sue Agenzie della sanità e dello sviluppo e innovazione nel settore agricolo forestale. Una lista che suggerisce le corrette pratiche di una equilibrata alimentazione che aiuta ad allungare la vita mantenendosi in buona salute. Per evitare le malattie più importanti: del cuore e della circolazione, alcuni tumori, il diabete e molti problemi alle ossa. Non rende invulnerabili, ma aumenta le difese del nostro organismo senza rinunciare al gusto della buona cucina toscana, grazie a un menù di oltre 60 prodotti alimentari di estrazione locale. “Non vuole essere una risposta alla ‘dieta padana’– spiega con un sorriso il presidente toscano Claudio Martini – piuttosto un contributo ad una adeguata alimentazione che tutela tradizione e biodiversità della nostra regione”. Che imparare a mangiare bene convenga, è dimostrato dai dati statistici dell’Organizzazione mondiale della sanità: gli stili di vita non salutari sono la causa principale delle malattie più diffuse. Fumo, troppo alcol, sedentarietà e un’alimentazione sbilanciata, passando per il sovrappeso, l’obesità, l’ipercolesterolemia e l’ipertensione, sono i principali fattori di rischio per l’insorgenza di malattie coronariche, ictus, alcuni tumori molto diffusi, diabete e tanti disturbi delle ossa e dei denti. Secondo l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro, quasi un tumore su tre

sul pianeta è attribuibile ad una non corretta alimentazione. Mentre solo a guardare la Toscana dei circa 40mila decessi l’anno per tutte le cause ce ne sono 12mila per tumori e 15mila per malattie cardiovascolari. “Se i toscani seguissero una dieta equilibrata – tirano le somme dal comitato scientifico della piramide alimentare -ogni anno si potrebbero evitare circa 4mila decessi per tumori, e probabilmente altrettanti per malattie cardiovascolari. Quattro toscani su cento, in numeri assoluti quasi un milione e 400mila persone, sono sovrappeso od obesi e si trovano ad alto rischio di malattie croniche invalidanti, con costi altissimi che minano i difficili bilanci della sanità.” Fatta la dimostrazione scientifica della sua necessità, ora vediamola meglio e più da vicino la Piramide alimentare toscana, che suddivisa su più livelli indica le corrette proporzioni degli alimenti in quella che diventa un archetipo di dieta individuale. Nel livello più basso, alla base della piramide, ci sono frutta e verdura. Sono il piatto forte, la difesa naturale alle malattie, da consumare tutti i giorni e anche più volte nella stessa giornata. Poi si passa ai cereali (pane e pasta) al secondo livello. Mentre al terzo arrivano i legumi, la frutta secca e il latte. Solo al quarto livello si iniziano a trovare le carni ma solo quelle bianche, specificamente pesce e pollame. Mentre al quinto si trovano i formaggi, le uova e le patate, e al vertice della piramide la carne rossa, i salumi e i dolci. Fuori catalogo il vino, che però la piramide toscana, basata sulla tradizione gastronomica locale, non esclude. Ma non più di un bicchiere, bevuto durante i pasti,ed anche un po’ meno se a bere sono le donne, più sensibili agli effetti dell’alcol. Al contrario c’è la raccomandazione di bere molta acqua, e di fare sempre attività fisica. Chissà cosa penserà Gianni Mura, grande giornalista ed appassionato enogastronomo, le cui preferenze alimentari non sembrano in gran sintonia con la piramide toscana. La penna “repubblicana” del Tour potrà però consolarsi con la lista dei 70 prodotti tipici, a volte presidi slow food altre volte messaggeri della filiera corta, che ingentiliscono le fredda geometria della piramide. Spuntano di volta in volta il pomodoro pisanello e il lardo di Colonnata; la cipolla di Traschietto e il pane di Montegemoli; il farro della Garfagnana e il leggendario pollo del Valdarno; i pecorini della Montagna pistoiese e quelli della Maremma grossetana; il fagiolo rosso di Lucca e il “mucco” pisano; gli spinaci della val di Cornia e il prosciutto del Casentino; le mele del Mugello e le ciliegie di Lari. Senza mai dimenticare (pena l’ostracismo) il Montecucco amiatino e l’Ansonaco del Giglio, due dei cento esempi di vini da assaporare. Ultima avvertenza: la piramide alimentare toscana ricorda l’importanza di cibi genuini, prodotti vicino al luogo di consumo, più freschi e più sani, senza costi aggiunti di trasporto e di inquinamento. A questo punto... buon appetito.



ibri in tavola per il menù delle feste. Ricette di “semplicità reale” quelle proposte nel volume Niko (Giunti). Niko sta per Niko Romito, autore del libro insieme a Clara Vada Padovani e Gigi Padovani. Niko è lo chef che all’Aquila gestisce l’antico ristorante Il reale insieme alla sorella Cristiana: cucina da due stelle Michelin e tre forchette del Gambero Rosso nel 2009, raccontata anche con le fotografie di Francesca Brambilla e Serena Serrani. Cinque percorsi culinari fra territorio e tradizione, semplicità ed evoluzione creativa. Si va dal Torcinello di agnello con friggitelli all’Infuso di capra con dragoncello e lampone. Delicatissima, nonostante il sapore forte degli ingredienti, la Crema d’aglio e cavolfiore. Per prepararla, è consigliato l’aglio rosso di Sulmona, uno dei “prodotti-bandiera” dell’Abruzzo, a cui è dedicata una pagina del volume. Per acquistarlo, consultare alla fine l’indirizzario dei produttori abruzzesi. Prima, però, occhio ai dessert: Guazzetto di frutta fresca con sorbetto allo zenzero, oppure Mosto, liquirizia e cioccolato, o ancora il Torrone cremoso con fragole e salsa di albicocche. Il volume La cucina e la cantina mia, di Giggi Fazi, edito da Iacobelli, fa rivivere invece la Roma della Dolce vita e del boom economico. Fazi è un Artusi romanesco, autorità indiscussa di Gricia e Pajata ai tempi in cui, per l’italiano medio, andare al ristorante “era ancora una novità e un piacere da ricordare”. Il suo libro, edito nel ’71, viene ripubblicato oggi senza traduzione dal dialetto, e con le illustrazioni di Angelo Urbani del Fabretto, che riportano ai tempi d’oro di Via Margutta. Per ogni piatto, una scenetta e un personaggio ricorrente (la sora Vera): “ar mercato rionale”, Checco e Vera raccontano i segreti della zuppetta d’erba; davanti “ar macellaro”, dopo aver battibeccato con l’automobilista Romoletto che quasi la metteva sotto, Vera spiega al sor Augusto (er macellaro) come si fa Er brodo de ciccia (co’ la ciccia e non con l’osso, che “lo scurisce, ma nun je dà sapore”). E via così per tutte le portate: dalla gricia alle “cucuzze ripiene” alla “pappina de pistacchio”. E se “volete conosce er vino bono, come se bene e quello che più s’adatta a la robba che magnate”, si va nella cantina, a celebrarne “lo sposalizio”… Abboccato, amabile, ambrato, robusto…Rispetto a cinquant’anni fa, il consumo di vino pro-capite, in Italia, è diminuito della metà, mentre il numero di parole impiegate per parlarne è almeno il doppio di allora. Quello da tavola rappresenta ancora la metà del vino prodotto, però sono

L

di Geraldina Colotti

In giro per il mondo con libri spianati come pasta e pagine condite di virgole. Storie di spaghetti contro i muri, di maccheroni di taglio antropologico e per finire il caffè della “quasi vendetta”

– diminuito della metà nell’insieme dei paesi latini – è aumentato vertiginosamente negli Stati uniti e in Estremo oriente e, seppure in misura inferiore, nei paesi dell’Europa settentrionale. Oggi, il fatturato annuo complessivo dell’industria enologica supera i 100 miliardi di euro e si ritiene che abbia un andamento ascendente di lungo periodo. Con oltre 100 schede di approfondimento, appendici e indici geografici, la nuova Garzantina Vino, a cura di Paolo Della Rosa (Garzanti), fornisce una mappa storica, economica e statistica della bevanda plurimillenaria. Non mancano le istruzioni pratiche per distinguere il ventaglio di profumi che si possono percepire annusando un calice di vino. Qualche bicchiere e un po’ d’acqua, possibilmente non clorata, consentono al neofita di avvicinarsi ai segreti dell’enologia. Degustare –

regione italiana e dispensa consigli pratici per tirare la sfoglia e cuocerla, dosando in modo giusto il peso della pasta e quella della farcia. Se invece il prodotto è acquistato, occhio alla scolatura: quando l’acqua è limpida; tutto va bene, quando è torbida, significa che una parte consistente di amido si è sciolta, e la pasta non è di buona qualità. Come orientarsi nella moltitudine di cucine locali che considerano la propria ricetta come l’unica originale? Pur escludendo gnocchi o altri impasti che contengano ingredienti diversi in quantità superiore a quella della farina, il menù di Schira – scrittrice e critica gastronomica - lascia spazio al classico ma anche all’avanguardia in cucina, e include 50 preparazioni di pasta ripiena che si discostano dalla preparazione “vera”.. Oltre al rispetto per la tradizione – scrive Schira – “ce n’è

La divina cucina

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C’

è arte e arte, a ciascuno il suo. Ne “Il gioco della cucina” (Passigli editore), Emanuela Notarbolo di Sciara scrive, anzi impasta, mescola e racconta; e Fiona Corsini illustra, anzi colora, consiglia e aggiunge. Il risultato è un libro inevitabilmente chic, prendi la voce Uova strapazzate: “Per cuocerle ci vuole una pazienza da santi: il mio amatissimo zio, Alberto Denti di Pirajno, mi raccontava che un suo amico consigliava di recitare un canto della Divina Commedia mentre si rimescolano le uova sul fornello, tanta è la lentezza che ci vuole!”. Il libro presenta ricette della cucina internazionale, apprese in lunghi viaggi, e quelle della nostra tradizione, ispirate dalle antiche cuoche di famiglia che avevano insegnato a cucinare alla madre dell’autrice e poi a lei bambina. Le illustrazioni di Fiona Corsini sono acquarelli, fantasia e leggerezza al posto del disegno degli ingredienti utilizzati per un piatto, da guardare prima ancora che da gustare. Prendi la pagina Brodetto di pesce: loro hanno occhi veri, che siano ancora vivi? (f.p.)

Stracotti sempre più numerosi gli italiani che s’interessano di enologia (le pubblicazioni abbondano) per accostare a ogni piatto l’etichetta “giusta”. Dagli anni ’80 in poi, la cultura del “buon bere” è diventata un modo di vivere e uno status sociale, e un’industria globale. Fino alla metà del ‘900, a produrre e consumare il “nettare degli dei” erano soprattutto i paesi dell’Europa centro-meridionale. Da qualche decennio, invece, vi sono grandi produttori nei cinque continenti, mentre il consumo pro-capite

spiega la Garzantina - significa innanzitutto individuare e graduare le componenti strutturali del vino, che sono: alcol, zucchero, acidi, sali e, nei vini rossi, tannini. Una volta allenato il gusto, si può passare all’olfatto, esercitandosi ad annusare dappertutto con l’ardore di un cane da tartufi. Tortelli, cannelloni, tagliatelle o bigoli, nel volume di Roberta Schira, La pasta fresca e ripiena (Ponte alle grazie). Un libro di taglio storicoantropologico che raccoglie ricette tradizionali di ogni

uno più importante al quale dobbiamo sottostare, quello del nostro palato”. E per finire, un buon caffè. Ma attenzione, anche la bevanda più diffusa al mondo ha le sue regole di degustazione e – udite, udite – le migliori origini e miscele si assaggiano in tazza grande, preparate per infusione: il caffè, non addolcito, si aspira da un cucchiaino, rumorosamente, “quasi una vendetta nei confronti dei dettami imposti dal galateo”. Caffè, un altro ricco volume Giunti,

di Gabriella Baiguera, mostra regole e sequenza della degustazione giusta. Dopo aver individuato le caratteristiche preferite, scegliere fra gli aromi del Pacifico o fra grandi e piccoli classici dell’America centrale e latina, sarà più semplice. Il volume spiega percorso e provenienza di grani e miscele e fornisce un’ampia scelta di ricette da bere o da mangiare. C’è persino il Pollo in crosta di caffè con salsa agrodolce: “una piccola quantità di caffè – rivela l’autrice – rende la frittura di pollo più gustosa, bilancia il sentore d’olio, alleggerendolo, e aggiunge sapore legandosi con gli altri ingredienti”. Per un “fuori collana” del gusto, la Vegagenda 2010, il libro-agenda dei vegani e vegetariani italiani, edito da Sonda. Un ampio inserto a colori, contiene l’indirizzario aggiornato di ristoranti, locali e negozi di alimentazione dove poter consumare o acquistare piatti vegan. I ristoranti (“segnalati e garantiti”), sono suddivisi in diverse categorie: 100% vegan, vegan con alcuni piatti vegetariani, vegetariani con un’offerta di piatti vegan, etnici con piatti vegan, classici con alcuni piatti vegan. Ogni mese, c’è l’elenco di frutta e verdura di stagione per modificare le proprie abitudini alimentari rispettando gli animali e l’ambiente.


C’è una storia che da sempre parla di natura, di mucche, di passione e di latte. E’ una storia di Alta Qualità.

Mille allevatori, 60mila mucche italiane. E da più di 50 anni la stessa passione: il latte. Questa è Granarolo. Questo è quello che facciamo da sempre, con cura ed esperienza. Nei nostri allevamenti, con le nostre mucche che selezioniamo una a una, che alimentiamo naturalmente e che alleviamo con rispetto. Per questo il latte fresco Alta Qualità Granarolo è così integro e buono, sicuro e garantito in ogni passaggio della filiera di produzione. Quando un latte nasce dallo specialista del latte, la differenza si sente.

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