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n famiglia è successo una volta, cinquant'anni fa. Kiichiro Toyoda, figlio del fondatore della Toyota e padre del ramo automobilistico del gruppo, si dimette nel 1950 dopo un lungo sciopero degli operai. Un gesto per assumersi le responsabilità del crollo delle vendite alla fine dell'anno precedente, seguito da licenziamenti di massa. Akio Toyoda, oggi sul ponte di comando del primo produttore di veicoli al mondo e pronipote del fondatore Sakichi, “il re degli inventori”, ricorda proprio quell'infausto evento familiare il giorno del suo insediamento, il 25 giugno 2009. Senza sapere che da lì a poco una domanda di dimissioni avrebbe aleggiato su di lui, a causa di 8,5 milioni di auto Toyota richiamate nel mondo per difetti al pedale dell'acceleratore e al sistema frenante. Ma Akio ha deciso di non seguire le orme di Kiichiro. Dopo un tira e molla, la settimana scorsa è stato costretto a presentarsi davanti a una commissione del Congresso a Washington per spiegare che cosa la Toyota ha fatto sui difetti riscontrati sui suoi modelli. Aggiungendo di non essere lui stesso “perfetto”, come le sue auto. È giusto che non si dimetta? Essendo al volante da nove mesi, le sue scelte non possono avere nulla a che fare con quanto sta succedendo e dunque da buon capitano non lascia il timone della nave in tempesta. Se invece si considera la sua gestione della comunicazione di crisi, sia nei rapporti con l'ente federale per la sicurezza dei trasporti statunitense che con l'opinione pubblica mondiale, le dimissioni non avrebbero stupito nessuno. Perché la vicenda è piena di ritardi e di omissioni, come gli hanno rimproverato i congressmen e buona parte della stampa mondiale, che ha avuto gioco facile a picchiare duro, con punte di malignità: il presidente della Toyota - è stato anche scritto - si è recato al Congresso a bordo di un grande Suv, un Highlander oggetto “di richiamo ma riparato”. ***** L'auto con zero difetti non esiste. Soltanto negli ultimi tre anni, l'Nhtsa, l'autorità americana che si occupa di questi casi, ha effettuato 524 richiami coinvolgendo 23,5 milioni di automobili di marchi diversi. Nell'ufficio più bollente dell'ente per la sicurezza stradale lavorano solo 57 impiegati, che esaminano circa 35.000 richieste di intervento all'anno. Vita dura, ma il caso Toyota li ha esposti senza nessuna pietà a critiche da parte del Congresso. Dieci anni fa, Katsuhiko Kawasoe, numero uno della Mitsubishi Motors, lascia dopo essere stato costretto ad ammette-
L’indicibile difetto
diun’automobile re pubblicamente dai nuovi soci Daimler che per quasi trent'anni l'azienda ha nascosto all'opinione pubblica i difetti delle proprie macchine. Sempre nel 2000, Masatoshi Ono, presidente della Firestone Usa (controllata dalla giapponese Bridgestone) saluta dopo essersi scusato a Washington davanti al Congresso e in televisione per difetti ai pneumatici Firestone. Poco prima, il 9 agosto, l'Nhtsa ordina il ritiro dal mercato di 6,5 milioni di gomme dell'azienda. Perché uccidono, come è capitato a diversi proprietari di Ford Explorer, Suv allora in gran voga benché con
FRANCESCO PATERNO’
qualche problema di bilanciamento dei pesi, su cui sono montati quei pneumatici. La storiaccia coinvolge le più nobili famiglie di Detroit. L'erede dei Ford, Bill, è il presidente del gruppo e sua madre si chiama Martha Firestone, insomma in tribunale finisce il novecento americano a quattro ruote. I richiami non sono una specialità giapponese. Sole nelle ultime settimane, a richiamare vetture nel mondo per motivi diversi sono state – oltre alla Toyota - Honda, Ford, Peugeot, Citroen, Volkswagen, Maruti, Hyundai. Basta andare sul sito dell'Nhtsa come su quello italia-
no istituito nel 2000 dall'allora ministro dei trasporti Pierluigi Bersani, per imbattersi in un bollettino di guerra, con morti e feriti di tutte le nazionalità. Piuttosto, la specialità giapponese è proprio l'invenzione della qualità totale, firmata da Toyota. Per chi ne volesse sapere di più o l'avesse perso, è più che mai attuale il libro di tre ricercatori statunitensi, The Machine That Changed The World (La macchina che ha cambiato il mondo, Rizzoli). Che è anche un modo per non sparare sulla Toyota a caso, o per motivi che nulla hanno a che fare con il problema vero dei consumatori.
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***** Rileggendo il suo discorso d'insediamento del giugno scorso, Akio Toyoda fa capire subito che “troppo” non va in casa Toyota. Certo, c'è stato il primo bilancio negativo, il gruppo ha avuto una crescita eccezionale nell'ultimo decennio, ma alcune sue parole accendono una spia rossa, col senno di poi: “Negli ultimi anni siamo andati troppo oltre i nostri punti di forza tradizionali, e con questo in mente, la strada per il futuro è abbastanza chiara: dobbiamo riconfermare e riaffermare i principi che ci hanno guidato in passato”. Che significa quel “troppo oltre”? Riguarda la qualità delle macchine, il rapporto con i fornitori, errori produttivi o che altro? Venti giorni fa, il Wall Street Journal spiffera l'esito di un incontro riservato del 19 gennaio a Washington fra due top manager Toyota e i vertici dell'Nhtsa. I due ammettono di sapere da almeno un anno che il pedale dell'acceleratore di alcuni modelli è difettoso e che la storia del tappetino che si incastra c'entra fino a un certo punto. Lo ammettono perché costretti dai fatti. I funzionari governativi sono “furiosi”, racconta il giornale, e impongono al costruttore nuovi richiami e addirittura lo stop alle vendite per alcune settimane. Il lungo articolo ricostruisce la storia delle indagini dell'Nhtsa e dei richiami più recenti di Toyota negli Stati Uniti – 2002, 2004, 2005, 2007 - concludendo che il vero grande difetto sta nel-
la cultura del segreto dei giapponesi. Inadatta a rispondere forte e chiaro alle esigenze della legislazione americana, forgiata dalle battaglie del movimento dei consumatori in nome della trasparenza. E' la cultura che sta dietro Akio Toyoda e lo malconsiglia a non parlare, se non quando l'evidenza dei fatti ormai è andata oltre. Di dire no all'invito del Congresso, salvo poi cambiare programma. Con il serio rischio di distruggere in due mesi l'immagine di efficienza del marchio costruita in vent'anni di duro lavoro dall'inventore della produzione snella, Ejii Toyoda, nipote di Kiichiro. ***** La domanda d'obbligo circola senza una vera risposta, e circolerà a lungo: come può accadere che il pedale dell'acceleratore di diversi modelli della
Toyota si incastri? Perché il sistema frenante della Prius accusi problemi? Perché l'airbag di alcune Honda non è sempre sicuro, tanto per stare sugli ultimi più clamorosi richiami? La risposta è il segreto di ogni azienda. Qui (e in altre pagine di questo supplemento) possiamo avanzare soltanto alcune ipotesi, ricordando che ogni automobile è fatta mediamente da 10.000 pezzi e che ogni pezzo viene costruito in milioni di unità. L'errore umano è il primo imputato. Quando si vendono centinaia di migliaia di auto nel mondo con crescite verticali e la concorrenza sogna addirittura di copiarti, può succedere che più di un operaio, un ingegnere e un manager si sieda sugli allori e invece di “incorporare la qualità in ogni processo”, come recita il motto della Toyota, si distragga fino a un punto di non ritorno. Jim Womack, uno dei tre ricercatori del Mit autore del libro sopracitato e massimo studioso della produzione snella (lean.org), ci ha inviato il 17 febbraio scorso una newsletter con un giudizio piuttosto netto sul caso Toyota: “Credo che all'inizio di questo secolo l'azienda abbia fatto un errore molto umano, decidendo di diventare velocemente il più grande costruttore, obiettivo di nessun interesse per i consumatori. Ci è riuscita rapidamente, sorpassando il 'limite' di velocità che ogni organizzazione ha davanti agli occhi”. Nell'elenco delle possibili cause dei richiami automobilistici, c'è chi mette anche l'aria dei tempi, grama per produttori e loro fornitori. Così, si sostiene, può capitare che a furia di tagliare costi per migliorare la bassa marginalità del prodotto auto, la corda si spezzi. Non è il problema del pedale dell'acceleratore della Toyota ma è capitato recentemente a un collaudatore della rivista Quattroruote che il pedale del freno di una Dr1, auto cinese assemblata in Italia in Molise, abbia ceduto di schianto durante la prova su pista. Un unico caso, che si sappia, dunque non soggetto a richiami. Ma è successo. Altri danno un po' di colpa a Catia, che non è il nome di un ingegnere o di un fornitore ma il programma sviluppato dalla francese Dassault Systemes che permette di sviluppare un'automobile in 3-D. Lo sviluppo virtuale velocizza il time to market, cioè il tempo che separa un modello dal disegno alla commercializzazione, e abbassa i costi di sviluppo. Negli Stati Uniti, a metà anni Ottanta la prova di crash test di un'automobile per verificarne la sicurezza costava al produttore circa 60.000 dollari. Con Catia, alla
ANCHE I CINESI CORRONO MA IMPARANO PRESTO Il megarichiamo della Toyota suona per tutti, ma per i costruttori cinesi un po’ di più. Il presidente del gruppo giapponese Akio Toyoda ha ammesso che l’azienda ha corso troppo nell’ultimo decennio e questo può aver indotto all’errore. L’auto cinese è oggi quella che corre più di tutti ed è stabilmente sulla corsia di sorpasso. Nel 2009, il mercato interno è cresciuto del 47 per cento, nonostante la crisi mondiale e grazie agli incentivi governativi. La Byd, l’azienda più scintillante in tema di auto elettrica su cui ha investito anche il finanziere Warren Buffett (uno che non sbaglia mai), è presente in questi giorni al Salone di Ginevra per il terzo anno consecutivo. I suoi dirigenti dichiarano di voler aumentare nel 2010 l’esportazione all’estero, tra il 5 e il 10 per cento delle 800.000 vetture stimate (sono state 450.000 del 2009). La prima Byd elettrica sarà esportata entro la fine dell’anno negli Stati Uniti, poi toccherà all’Europa. L’industria cinese è ancora indietro su tecnologia e qualità e molto indietro su una rete distributiva all’estero rispetto alla concorrenza occidentale e asiatica. Ha però soldi per crescere tagliando qualche curva, come Geely che si è comprata la Volvo con tutto quel che c’è dentro di tecnologia ed esperienza e di concessionari. Ed è un’industria giovane, come lo è stata a suo tempo quella giapponese e poi quella coreana, che ha il tempo di studiare gli errori degli altri, per non ripeterli. Ci stupirà, se rallenta. (f.p.)
fine degli anni ’90 bastavano circa 100 dollari per avere lo stesso risultato. Certo, il computer fornisce il modello matematico di un prodotto e sostituisce solo parzialmente i test stradali nelle diverse e più estreme condizioni, però correre non sempre porta sano e lontano. Oggi Catia è diventata grande e più sofisticata e non sappiamo se la sua virtualità sia in grado di rilevare per esempio gli effetti dell'umidità su un pedale dell'acceleratore, il problema denunciato dalla Toyota per le sue vetture in determinate condizioni, e oggi risolto con una banale placchetta d'acciaio. Né sappiamo quanto Catia ha a che fare con gli immensi problemi determinati dall'uso massiccio di elettronica su tutte le auto del mondo. Un software malfunzionante può far leggere una cosa per un'altra; oppure semplicemente smette di funzionare di colpo. Una malattia contagiosa, che alletta più o meno tutti a periodi alterni, con picchi gravi come quello di qualche anno fa per la solida e tedesca Mercedes. La qualità è tutto, è l'immagine di chi produce. Vale per una macchina costosa e di lusso, come per un utilitaria, perché ne va di mezzo la sicurezza di chi la guida e del mondo circostante. Ma l'immagine è fatta – o dovrebbe essere fatta – anche di etica. Che significa comunicare subito gli eventuali errori della propria produzione e intervenire immediatamente, senza aspettare l'irreparabile. Non farlo, è il difetto più grave.
Dietro al caso Toyota e ai suoi suoi milioni di richiami nel mondo. Ritardi, omissioni e il lavoro dei 57 dipendenti dell’Nhtsa statunitense. Le parole profetiche del presidente Akio Toyoda nel giorno del suo arrivo e quelle davanti al Congresso americano. E le parole di un massimo esperto di produzione snella: "E’ stato superato il limite di velocità"
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Le panne sporche,
la storia sono loro La fuga dall’America di Graham Morris e la storia delle Lemon Laws. La vittoria di Ralph Nader nel paese degli avvocati, l’attacco alla Gm e quella Corvair che non voleva stare in strada. Un secolo non è passato invano dai tempi della De Dion Bouton, quando la garanzia copriva solo quello che diceva il costruttore
Nel dicembre del 2000 Alberto Bellucci aveva scritto per i lettori de il manifesto questo articolo sulla storia dei richiami e sul movimento dei consumatori nato in America negli anni Sessanta. Sono passati dieci anni e poco o nulla sembra essere cambiato, un motivo per riproporlo nella sua freschezza e puntualità. L'amico Alberto, collega e storico del mondo dell'auto, è prematuramente scomparso il primo giorno di marzo del 2004.
E’
opinione diffusa che il 2000 passerà alla storia dell’automobile come l'anno del consumatore, l’anno della vittoria (definitiva?) del piccolo Davide-acquirente sul colosso Golia, produttore delle tanto vituperate quattro ruote. Eppure lo scetticismo non manca, perché nonostante i molti scandali esplosi nel corso di quest’anno - dalle gomme “assassine” montate sul fuoristrada Ford ai difetti nascosti dalla Mitsubishi - è opinione altrettanto diffusa che a vincere sarà - come è avvenuto finora nella stragrande maggioranza dei casi chi dispone degli avvocati più bravi e, di riflesso, più costosi. E questo, nonostante negli ultimi mesi siano state approvate o leggi decisamente più “protettive” nei riguardi dei consumatori (come negli Stati uniti) o siano state concordate tra le varie associazioni dei costruttori auto e i ministeri dei trasporti di alcuni paesi europei (come è avvenuto in Italia) disposizioni più severe rispetto a quelle precedenti. “Ma in fondo a vincere, so-
prattutto negli Stati Uniti, saranno sempre i più bravi”, ci raccontava con una punta di amarezza personale Graham Morris, uno dei più noti manager automobilistici britannici, che una decina di anni fa si trovava a capo della filiazione americana della Rover e dalla quale “fuggì” quasi inorridito dopo una breve permanenza. “Già allora – ricorda Morris – erano in vigore, in quasi tutti gli stati americani, le severe, e per molti versi astruse, Lemon Laws, cioè le leggi sulle auto 'limone', un termine che per gli americani indica le cosiddette fregature. Tutto nasce da lì....”. A questo punto è d’obbligo una spiegazione. Da una quindicina d’anni almeno, ogni automobile venduta in America viene consegnata con un libretto tascabile di una cinquantina di pagine dall’aureo titolo “I diritti dei consumatori difesi dalle Lemon Laws”. Diritti molto elastici, tuttavia, perché – nella suddivisione tra i vari stati – mentre Virginia o Wisconsin occupano appena una mezza paginetta di “diritti inalienabili”, la California di pagine ne prende da sola addirittura otto. Questo è lo stato più popoloso e più motorizzato di tutta la confederazione, con 25 milioni di abitanti e oltre 16 milioni di auto. E, grazie alle Lemon Laws californiane, basta dimostrare di fronte a un tribunale che nella vita della propria auto – non importa dopo quanti anni o dopo quanti chilometri – si è verificato per tre volte lo stesso difetto, per avere diritto a ottenere o il prezzo pagato o, addirittura, un’auto nuova. “Una decina di anni fa – racconta Graham Morris – una signora californiana che aveva comperato tre anni prima una nostra Sterling (corrispondente alla Rover 820 venduta in Europa) riscontrò un piccolo difetto ripetutosi tre volte su un’auto che accusava già centomila miglia, cioè ben 160 mila chilometri, e ci fece causa per essere rimborsata dell’intero prezzo pagato tre anni prima per l’auto nuova”. Come andò a finire? “Finì che la signora vinse la causa, ottenne il rimborso e, con i soldi appena incassati, corse a comprarsi un'al-
ALBERTO BELLUCCI
LA MACCHINA CHE HA CAMBIATO IL MONDO Il libro dei libri per capire come è fatta l’industria dell’automobile e come si è affermata la Toyota. Non è nuovo, ma è sempre una valida e ancora istruttiva lettura da consigliare. S’intitola "La macchina che ha cambiato il mondo" firmato da tre ricercatori americani del Massachusetts Institute of Technology , J.P. Womack, D.T Jones e D. Ross (Rizzoli editore, 1990, titolo originale "The machine that changed the world"). Un’indagine sul campo, una storia ricca di particolari, molti numeri ufficiali. Il lavoro dei tre ricercatori spiega il sottotitolo messo sulla edizione italiana, che ha una prefazione di Gianni Agnelli: "Passato, presente e futuro dell’automobile secondo gli esperti del Mit". (f.p.)
tra Sterling identica a quella che, a suo dire, tanti fastidi le aveva procurato...”. A questo punto, Morris consigliò con fermezza alla casa madre di chiudere ogni attività in Nord America e se ne tornò rapidamente in Gran Bretagna. D’altronde, l’astuta signora californiana non poteva fare presagire nulla di buono, soprattutto a una marca come la vecchia Rover che di “difettucci” a ripetizione ne contava qualcuno di troppo. Tuttavia, se le magagne accusate dalle britanniche Sterling non erano poi così gravi (almeno a detta di Graham Morris) da coinvolgere la sicurezza degli occupanti dell’auto, ben diversa era a suo tempo la situazione di molti modelli americani. I quali avevano costretto i legislatori dei vari stati Usa ad approvare sia le Lemon Laws, sia una serie di dispositivi che solo
in un secondo tempo sarebbero stati impiegati anche in Europa: dalle cinture agli airbag. Anche se per le cinture va detto che – ancora oggi – relativamente pochi stati americani obbligano ad allacciarle: la costrizione che deriverebbe agli automobilisti dall’eseguire questa operazione contrasterebbe, infatti, con la “liberalità” americana. E’ singolare, però, che il casco per i motociclisti sia comunque obbligatorio. La spinta alle Lemon Laws e al relativo movimento del “consumerismo” nasce nel 1965 con un libro-accusa – Unsafe at any speed, pericolosa a tutte le velocità – che un trentunenne avvocato di origine libanese, Ralph Nader, aveva scritto per denunciare la scarsissima sicurezza di marcia di molte automobili americane e di una in modo tutto particolare: la Chevrolet Corvair. Prima e ultima vettura made in Usa con motore posteriore, la Corvair aveva per giunta il propulsore disposto oltre il retrotreno: quanto di peggio, per una corretta distribuzione dei pesi. Un’auto letteralmente micidiale che neppure i ripetuti interventi sulle sospensioni posteriori, eseguiti dai tecnici della General Motors nei primi anni Sessanta, erano riusciti a migliorare un po'. D'altronde la Corvair era stata lanciata sul finire del ‘59 per contrastare l’avanzata crescente negli Usa della Volkswagen Maggiolino e perfino della piccola Renault Dauphine, entrambe a motore posteriore ed entrambe tutto fuorché molto stabili (la francese, soprattutto): tuttavia l’auto americana riuscì a battere alla grande, quanto a instabilità, tutte e due le rivali europee. Ma le 365 pagine al vetriolo del libro di Nader fecero letteralmente del male alla General Motors: a mano a mano che le vendite del libro aumentavano
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Un libretto tascabile di una cinquantina di pagine accompagna ogni autovettura venduta in America. In nome dei diritti dei consumatori, che sono tuttavia molto elastici. Diritti che cambiano da stato a stato... Viva la California, la più severa di tutti
– fu uno dei bestseller assoluti della Grossman – altrettanto rapidamente calavano quelle, già basse, della Corvair che in meno di un anno scomparve dai listini. Tuttavia alla General Motors non si dettero per sconfitti. Sicuri, infatti, che il libro fosse stato “suggerito” a Nader da qualche concorrente (Ford? Chrysler? Volkswagen?), cominciarono a mettere alle calcagna del giovane avvocato dapprima procaci biondone con il compito di sedurlo e di carpirne i segreti e poi – rifiutate sdegnosamente le bionde – furono reclutati più o meno efebici giovanotti con lo stesso compito. Infastidito da tante attenzioni, Nader citò in giudizio la General Motors per molestie (e quant’altro), ottenendone non solo un rimborso miliardario ma anche le pubbliche, imbarazzatissime scuse del presidente dell’epoca, James Roche. Con il rimborso di mezzo milione di dollari (circa cinque miliardi di lire odierne), e anche con i proventi del suo libro bestseller, Nader getta le basi di quella che diverrà in breve tempo la più importante associazione americana in difesa dei consumatori: 22 centri sparsi per il paese e legioni di giovani ricercatori e avvocati – per lo più volontari – disposti a tutto pur di colpire l’ ”impero del male”, lo strapotere delle grandi imprese. Automobilistiche e non: gli interessi della sua fondazione (che non ha scopi di lucro) spaziano infatti dai danni causati dai pesticidi al controllo della gestione delle aziende che forniscono servizi pubblici, dall’edilizia pubblica e privata all’accesso al credito. Per finire con l’ “apertura” all’utilizzo di uno dei più trascurati diritti dei cittadini americani: una vera difesa contro lo strapotere dei potenti. Questi sì ben tutelati e protetti da stuoli di efficientissimi quanto pagatissimi avvoca-
ti. E nel paese dove troppo spesso trionfa l’avvocato più bravo, la mano protesa da Nader a chi non ha i mezzi per difendersi adeguatamente ha rappresentato una svolta epocale nella salvaguardia dei diritti dei comuni cittadini. “Ma siamo anche orgogliosi – afferma oggi il sessantaseienne avvocato, reduce da una defatigante campagna presidenziale come 'terzo incomodo' - dei risultati ottenuti in fatto di sicurezza stradale: le statistiche ci indicano in almeno 300mila le vite salvate sulle strade americane da quando sono stati introdotti gli strumenti per i quali abbiamo lottato: cinture di sicurezza, airbag, Abs”. E prosegue con un tema a lui caro, la “globalizzazione” dei diritti degli automobilisti: “Alcuni anni fa abbiamo pubblicato in Giappone i dati relativi ai difetti delle auto di produzione nipponica rilevati dalle agenzie governative americane. E questo per far notare come la stessa vettura per la quale era stato ordinato un richiamo – o l’iscrizione nelle
'lemon car' negli Usa – circolava poi a Tokyo al di sopra di ogni sospetto. Sarebbe interessante fare una verifica simile per i diversi paesi europei”. Eppure, agli albori della storia della motorizzazione furono proprio le case automobilistiche europee a introdurre un barlume – ma giusto un barlume – di tutela dei diritti del consumatore. Al principio degli anni Dieci, pochissime marche automobilistiche al mondo – nonostante gli alti prezzi delle auto dell’epoca – offrivano una garanzia che andasse più in là dei tre o, al massimo, dei sei mesi. La parigina De Dion Bouton era tra quelle rare aziende e la sua garanzia arrivava addirittura a coprire un intero anno. Ma la De Dion era allora
UNA GREEN CARD PER UNA GREEN CAR L’auto a minor impatto ambientale, sia essa ibrida che prossimamente elettrica, può aiutare. Anche l’emigrazione. Negli Stati Uniti, ha segnalato recentemente il New York Times, un programma federale prevede la concessione di un permesso di soggiorno e di lavoro permanente a chi investa almeno 500.000 dollari in una zona rurale o a bassa occupazione. La Green card, o il visto EB-5 come viene chiamato, resta assegnata anche se l’investititore a un certo punto fallisce. Molte nuovi business legati all’EB- 5 pare siano di cittadini cinesi e riguardano la produzione di auto a basso impatto ambientale. Nel 2009, scrive il Washington Post, questi visti sono stati 4.218, contro i 1.443 del 2008. (f.p.)
una grande marca – la più grande d’Europa, addirittura, con quasi seimila dipendenti e una produzione annuale che superava le ventimila unità tra auto e motori – e per lei era dunque un punto di onore trattare meglio di chiunque altro i propri clienti. Eppure, a leggere il catalogo della De Dion del 1912 all’ultima pagina – quella dedicata alle condizioni di vendita – c’è da restare a dir poco allibiti: la garanzia copriva, infatti, le sole parti giudicate difettose dalla stessa De Dion e non anche la mano d’opera. Queste parti dovevano poi essere spedite in fabbrica a spese del cliente, e sempre a spese del cliente sarebbero state rispedite indietro dalla marca parigina, dopo avere realizzato il pezzo nei propri stabilimenti. A causa della pessima intercambiabilità delle parti agli albori dell'automobilismo, le aziende dell’epoca tenevano ben pochi ricambi in magazzino: qualsiasi elemento doveva essere, dunque, adattato all’auto ed era quindi più conveniente produrlo ex-novo e su misura. Ma senza l’auto in loco era difficile riuscire ad “azzeccarlo”. E, in queste condizioni, parlare allora dei diritti dei consumatori era forse prematuro.
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Hollywood
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Toyota,
seghetto e pc S
i chiama Hollywood Toyota, è il più antico concessionario della marca giapponese in America. Sta su Hollywood boulevard come una testa di ponte nel più importante territorio d’oltremare per la casa di Nagoya. Il primo costruttore mondiale ha infatti in Usa il suo maggiore mercato (nonché sei fabbriche in altrettanti stati con una forza lavoro, fra produzione e rivendita, di oltre 120.000 dipendenti). Un impegno che alla Toyota ha fruttato il primato di vendite e l’ambita vittoria in casa dei concorrenti americani. Questo caldo pomeriggio, all’ombra della famosa scritta sul viale delle stelle, la sala d’aspetto del concessionario è affollata di clienti, una ressa che si ripete ogni giorno da alcune settimane. Oggi si tratta perlopiù di proprietari di Prius che fanno la fila dopo aver ricevuto a casa la notifica di richiamo su un possibile problema al sistema frenante. Altre milioni di lettere sono state spedite a chi guida 8 modelli di Toyota e Lexus a causa di una famigerata e improvvisa accelerazione che avrebbe provocato un numero ancora non precisato di incidenti e fatto una trentina di vittime. Un fenomeno statisticamente irrisorio ma che, rimbalzato sulla stampa, si è trasformato in un incubo per il presidente Akyo Toyoda e la sua azienda. Al punto che alcuni pensano che il transatlantico Toyota, l’inarrestabile panfilo che ha fatto la reputazone automobilstica giapponese, potrebbe aver colpito il suo iceberg ed aver subito una falla di immagine abbastanza grave da inghiottirne il futuro. “25%. Un quarto in meno del solito. Proprio così, siamo al di sotto di un quarto. In compenso sono quadruplicate le chiamate al centralino”, commenta amaro Don Mushin, il titolare della concessionaria Toyota di Hollywood. Una cattiva sorte condivisa da tutta la rete del costruttore giapponese: la faccenda, fra costi di riparazione e mancate vendite, potrebbe finire per costare al produttore $4 miliardi. Non certo una bazzecola. E se la cifra rimanesse su questi valori, sarebbe comunque gestibile dal maggior costruttore mondiale che l’anno scorso ha fatturato circa $200 miliardi. Ma sempre che, e questa è la grande incognita, non ci siano ulteriori imprevisti o nuovi difetti che vengano alla luce, con il loro seguito di strascichi legali. In America i richiami delle auto vengono presi molto sul serio proprio per le responsabilità penali cui sono esposti i costruttori dai tempi della storica campagna di Ralph Nader contro la Gm e la Chevrolet Corvair, quella che negli anni ’70 portò oltre all’obbligo delle cinture di serie, all’istituzione dell’ente federale per la sicurezza stradale (Nht-
sa), stabilendo una pietra miliare dei diritti dei conducenti-consumatori. L’incubo che turba i sonni di Toyoda e dei suoi manager è la prospettiva che i clienti in fila qui da Hollywood Toyota, come in tutti i concessionari d’America, possano presto tramutarsi in costituenti parti civili in altrettanti processi. E le penali sarebbero maggiori se fosse dimostrata la malafede di Toyota. Per l’azienda la notizia peggiore della settimana è stata la rivelazione che già nel luglio scorso la società non solo era al corrente dei problemi ma in documenti interni assicurava che "negoziati" con gli organi preposti li avrebbero contenuti. Ecco quindi gli sforzi per cambiare marcia, le deposizioni in parlamento e, dopo un avvio al rallentatore, la solerzia con cui la Toyota ha intrapreso la campagna di pubbliche relazioni comprando pagine di giornali, allestendo siti internet e contattando individualmente i clienti. Ad altezza d’uomo, lo scandalo automobilistico del decennio ha l’aspetto di Patrick Cabral, l’operaio specializzato che nell’autofficina della Hollywood Toyota, seghetto alla mano, arrotonda il profilo di un pedale dell’acceleratore – il cinquantesimo della giornata, una delle 50.000 riparazioni che negli spot in tv l’azienda sostiene di
LUCA CELADA da Los Angeles
IL TERZO POSTO NON GLIELO LEVA NESSUNO Sull’ultimo numero del mensile americano Consumer Reports, in edicola dal 2 marzo, l’annuale classifica delle migliori auto degli Stati Uniti vede la Toyota saldamente al terzo posto come nel 2008. Alla faccia dei richiami. La Honda (con Acura) resta al primo insieme allla Subaru, al quarto sale la Hyundai (con Kia), mentre le americane restano in fondo: la Ford sale di un gradino all’undicesimo posto, Gm e Chrysler sono le ultime del reame. I tester della rivista valutano ogni anno la guidabilità, le prestazioni, il comfort e la funzionalità di 280 automobili.
completare ogni giorno, di questo passo forse in tre mesi si finisce. Un taglio netto col traforo e poi uno anche in corrispondenza del tappetino su cui i pedali potrebbero rimanere impigliati. “Tutto qui?”, domanda un cliente che afferma, come molti, di aver preso sul serio l’avvertimento ma in fondo di essere tranquillo, contento della propria macchina. Lo sarebbero secondo i sondaggi la maggioranza dei clienti Toyota – parole che confortano per ora Mushin che, come i dirigenti in Giappone, conta sulla fedeltà costruita in decenni di rapporti con i clienti. E spera che quel 25% di vendite si sia volatilizzato solo temporaneamante. Se così non fosse, sarebbero a rischio migliaia di posti di lavoro e qualche rivenditore Toyota potrebbe fare la fine dei concessionari delle case di Detroit, fra i primi e principali simboli della crisi. In alcuni quartieri di periferia a Los Angeles, gli showroom dei concessionari falliti si incontrano ancora vuoti, allineati sui viali come fantasmi di un industria jurassica. Nei sogni turbati di Toyoda-san è questo lo scenario peggiore: che i richiami siano indizio di un problema strutturale, di qualità connessa a un mercato e a una filosofia “da bolla”. Cioè le "politiche" che hanno affondato Detroit. Che sia così? Che possa capitare anche alla Prius, l’auto ibrida simbolo scintillante di avanguardia tecnologica nipponica
del futuro? Parliamo della vettura d’ordinanza dei big di Hollywood; da quando qualche anno fa Leonardo Di Caprio e altri ospiti degli Oscar hanno cominciato a parcheggiarla accanto alle limousine fuori dal Kodak, a un tiro di schioppo da questo concessionario, la Prius è diventata la company-car del cinema oltre al mezzo di trasporto favorito dalla classe creativa, giovane, professionale, insomma i settori illuminati dell’America obamiana. Un’auto totem della correttezza politica e del glamour ecologico. Vettura simbolo, come lo fu a suo tempo il minivan suburbano negli anni di Bill Clinton e il Suv in quelli rapaci di George Bush. Oggi questo simbolo vacilla e non tutti sono dispiaciuti. Proprio no. “Ce la vogliono fare pagare”, ci dice Mushin, “questo è un business senza pietà. I nostri concorrenti, Chevy, Chrysler, Ford , due su tre a malapena sono fuori dalla bancarotta e la stampa si è avventata su di noi, un’azienda con 40 anni di qualità impeccabile alle spalle". “La realtà - si sfoga ancora - è che la Toyota era numero uno e questo ai Big 3 non andava giù. Ne hanno approfittato per farcela pagare". Saranno pure illazioni, ma si sa, anche i paranoici hanno dei nemici. E la concorrenza ha fatto passare a malapena un giorno dal primo guaio della Toyota per lanciare spot che offrivano incentivi e sconti a chi avesse voluto permutare una Corolla o una Lexus. Alla Toyota of Hollywood il lavoro continua, sia col seghetto che ai computer (il problema agli Abs delle Prius dipenderebbe dal software e per questo potrebbe risultare più ostico da aggiustare). In officina, Cabral si dice tranquillo: “Sono lavori semplici”, dice, “siamo sempre i migliori” E non si capisce se lo pensi davvero o se semplicemnte se lo auguri fortemente.
Nella più antica concessionaria d’America del marchio jap, Patrick Cabral arrotonda il profilo di un pedale. E il 50˚ della giornata, una delle 50.000 riparazioni che negli spot in tv l’azienda sostiene di completare ogni giorno. Forse in tre mesi si finisce...
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Qualità, l’intervista
impossibile S
ignora Qualità, giura di dire tutta la verità, nient’altro che la verità? Lo giuro, tanto è un’intervista impossibile e quindi non potrete usare mai nulla di quello che dirò contro di me!
Non solo Toyota ma tutti i costruttori sono obbligati a richiamare proprie auto per difetti accertati. Quali sono i problemi che intaccano la qualità di un’auto? E anche quelle del costruttore giapponese che l’ha inventata? Domande e risposte su che cosa sta succedendo, tra colpi bassi e qualche reticenza
Non mi pare un bell’inizio… Se è per questo, non è neanche un bel momento per parlare di qualità. Da dove cominciamo allora? Domanda retorica: so benissimo che vuol partire da Toyota. Infatti. Cosa la stupisce di più del caso Toyota? Un fondamentale ‘liberi tutti’ che è passato quasi totalmente sotto silenzio. Poco dopo l’annuncio del maxirichiamo in America, concorrenti del calibro di General Motors, Ford, Hyundai – e poi anche Chrysler – hanno cominciato a offrire 1.000 dollari di extra-premio per conquistare clienti possessori di uno dei modelli Toyota soggetti a richiamo. Normale competizione commerciale. Macché! Siccome i richiami li hanno fatti, li fanno e li continueranno a fare tutti i costruttori, nessuno prima aveva mai speculato sui guai altrui. Lo trovo grave, mi creda. Ci stiamo però allontanando dal tema: Toyota, la regina conclamata in termini di qualità, richiama 8,5 milioni di veicoli e Lei si concentra sulle contromosse commerciali dei concorrenti. Numeri per numeri: Toyota ha richiamato una quantità di veicoli vicina alle sue vendite dell’anno scorso. Essendo il numero uno al mondo, parecchi milioni di pezzi fanno sicuramente notizia. Se la Fiat avesse richiamato le sue intere vendite del 2009, poco più di 2 milioni di unità, la notizia sarebbe stata ovviamente di peso minore. Il più grande richiamo di un costruttore sino ad oggi è toccato alla Ford, 14 milioni di unità per problemi al cruise control che ha coperto ben un decennio di produzione, dal 1993 al 2003. In parte legato a Ford è anche il richiamo dei pneumatici Firestone montati sul SUV Explorer: 14,4 milioni di gomme sostituite nel 2000. Mi scusi, ma Lei sta sfiorando la reticenza…
Piano. Io non nego che ci siano problemi di qualità e che la Toyota ne abbia avuti, ma cerco di porre i fatti nella prospettiva corretta. Lo zero difetti è ovviamente un obiettivo cui tendere, perché la perfezione assoluta non esiste, soprattutto finché le automobili saranno progettate e costruire da umani, che sono fallibili. E si ricordi che i difetti si contano in PPM. Che sarebbero? Parti per milione, per dare l’idea di come si misura la difettosità: non ogni centro, ogni mille, ma ogni milione! Vuole dire che i clienti Toyota in America, Europa, Giappone e Cina sono stati gli unici sfigati a comprare tutte le vetture con parti per milione difettose dell’ultimo decennio? Ogni generalizzazione è sbagliata. Proprio sul caso Toyota facciamo un paio di esempi: la frenata irregolare della Prius di terza generazione è un comportamento imperfetto della logica di gestione dell’Abs in situazioni particolari di fondo stradale, quindi un problema di software. I modelli che hanno invece avuto guai al pedale dell’acceleratore hanno una parte difettosa, per la quale è stato previsto un rinforzo o la sostituzione.
CARMEN GUI
Sul tema non c’è però spazio tanti distinguo: qui c’è anche scappato il morto. E più d’uno: 38 dicono in America… Sicuramente qualcosa è purtroppo successo, ma attenzione
MA JIM PRESS NON PARLA NEMMENO TORTURATO Chissà cosa potrebbe raccontarci Jim Press sulle ultime vicende della Toyota (e sul resto del mondo), lui che è stato presidente della Toyota Usa rendendola davvero grande. Per questo è stato il primo (e ultimo, per ora) straniero a far parte del consiglio di amministrazione della Toyota a Nagoya. Un onore che clamorosamente tradisce nel settembre del 2007, quando lascia i giapponesi per andare a fare il numero due nella Chrysler acquistata dal fondo Cerberus. Nell’aprile del 2009, al Salone di New York, dà spettacolo a bordo di una Fiat 500. Ad Auburn Hills resta a fianco di Sergio Marchionne, ma dopo pochi mesi è costretto a lasciare, "richiamato" da tasse non pagate e debiti per oltre un miliardo di dollari. (f.p.)
alle contabilità artefatte pur di fare notizia. A dieci anni di distanza dal caso Ford-Firestone, le cifre oscillano ancora tra 148 e 271 decessi. L’America si sta scaldando molto su un aspetto etico del comportamento di Toyota: la prima della classe in tema di qualità non è stata abbastanza tempestiva nel comunicare all’esterno – e quindi ai clienti – i difetti che aveva già scoperto. Mi avvalgo della facoltà di non rispondere. Non è una risposta di qualità. Il tempo di reazione è sicuramente un argomento fondamentale, ma bisogna considerare che qualunque casa automobilistica è bombardata da migliaia di segnalazioni di difetti. La prima scrematura è capire se si tratta di un vero difetto tecnico o di un uso improprio da parte del guidatore. Non mi accusi di reticenza, ma si ricordi che la principale causa di incidenti al mondo è l’errore umano del guidatore, non un difetto del prodotto! Secondo ordine di grandezza da tenere in conto è la ripetitività del problema. Appena la statistica, depurata dai falsi allarmi, si fa significativa, allora bisogna intervenire. Subito. Ed è proprio questo su cui in America sono furiosi: la Toyota sapeva, alcune assicurazioni dichiarano già dal 2004, ma ha
fatto lo struzzo troppo a lungo. Ogni affermazione va comprovata nelle sedi competenti, quindi attendiamo le sentenze, sino ad allora l’imputato ha diritto alla presunzione di innocenza. La linea di difesa dei costruttori, Toyota compresa, è che prima di poter annunciare un richiamo bisogna non solo aver già trovato la soluzione, ma essere pronti anche alla riparazione in tempi rapidi, altrimenti si semina solo panico nel consumatore… La stupirò, ma non sono d’accordo, perché non lo trovo un comportamento di qualità. Se il problema è pericoloso per la sicurezza, bisogna avvertire immediatamente, lasciando al singolo utente l’onere di decidere se continuare a utilizzare il veicolo a proprio rischio e pericolo o tenerlo fermo sino a riparazione avvenuta. Insomma, ti ho avvertito che potresti rischiare di andare a sbattere, ma sei tu che hai deciso di correre il rischio… Mi sta di nuovo fraintendendo: sostengo che è meglio segnalare il difetto appena lo si è scoperto, anche se la soluzione non è stata ancora trovata. Parlando di qualità, la trasparenza è un bene assoluto. Ritardare a volte può aiutare anche a insabbiare. In molti vedono l’accanimento della politica americana contro i guai Toyota come una rivalsa
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questo problema. In Europa, i casi accertati di effettivo malfunzionamento dell’acceleratore in Europa sono stati ventisei, lo 0,002% dei veicoli richiamati cioè un caso ogni 80.000 vetture. Il richiamo di un veicolo, per qualunque casa automobilistica, avviene per due motivi. Il primo è l’ordine che può ricevere da un ente statale preposto alla sicurezza, come è avvenuto negli Stati Uniti da parte dell’Nhtsa. Il secondo è il frutto del compromesso tra pericolosità del danno, costi di ripristino e ritorno d’immagine. Toyota ha richiamato tutti i modelli equipaggiati con il pedale “incriminato”, non perché tutti difettosi, ma per una meticolosità nei controlli che l’ha sempre contraddistinta. Trent’anni fa era molto facile rimanere a piedi per la rottura del cavo dell’acceleratore oppure che le auto si fermassero per strada con le calotte degli spinterogeni piene di umidità. Tutto rientrava nella normalità, come era normale fare il rodaggio nei primi 3.000 km di vita dell’auto e i tagliandi ogni 10.000. E questo fino agli anni ‘90. Oggi un’automobile è assai più complessa del passato, c’è molta elettronica che sovraintende alle varie funzioni, è opera di un processo produttivo molto più vasto in dimensioni e risorse investite, ma paradossalmente è più affidabile. Il modo in cui si
Un pedale protezionista degli interessi di General Motors e Chrysler, salvate con soldi del contribuente… Potrebbe anche essere, ma lo vedo più come una rivalsa verso il primo della classe che ha preso un bel 4, evento che crea una gioia diffusa in tutti gli altri allievi, soprattutto in quelli più somari. Si ricorda chi si era accanita di più contro la Mercedes ai tempi della Classe A che si rovesciava nel test dell’alce? La stampa tedesca, che non vedeva l’ora di togliersi i sassolini dalle scarpe contro le manie di grandezza dei signori di Daimler Benz. Altre lezioni che il caso Toyota può insegnare? Quando sei un costruttore globale con un’elevatissima standardizzazione dei componenti, un singolo problema può estendersi alla velocità della luce in tutto il mondo, persino ad altri costruttori che producono insieme a te. Così anche Citroen e Peugeot hanno dovuto richiamare le C1 e 107 costruite in Europa perché utilizzavano lo stesso pedale dell’acceleratore della Toyota Aygo. Nessuno allora può stare tranquillo? Mai abbassare la guardia sulla qualità! Soprattutto ora, poiché tutti i grandi costruttori stanno accelerando verso architetture di veicoli davvero globali, esponendosi quindi a potenziali rischi di contagio trasversali come quelli che sta vivendo Toyota oggi.
tira l’altro E’
FRANCESCO DI GIOVANNI
la prima volta nella sua storia che Toyota richiama oltre 8,5 milioni di veicoli in tutto il mondo, la maggior parte dei quali a causa di un problema all'acceleratore su diversi modelli della gamma. Un guasto di tipo meccanico, ha comunicato il colosso nipponico, che si è verificato solamente in rare circostanze: con il passare del tempo e in particolari condizioni ambientali, il pedale tende a indurirsi e nel peggiore dei casi anche a bloccarsi senza tornare alla fase iniziale di rilascio. Negli Stati uniti almeno quattro persone sono morte a causa di
AGOSTO 2009, SAN DIEGO, QUATTRO MORTI Nell’agosto del 2009, un funzionario della polizia stradale della California, Mark Saylor, sta guidando una Lexus ES350 vicino san Diego, quando il pedale dell’acceleratore si blocca a una velocità di oltre 100 miglia (circa 160 chilometri all’ora). Saylor perde il controllo della vettura, nell’incidente muoiono con lui sua moglie, la figlia e il cognato. Prima di schiantarsi, qualcuno di loro prova invano a chiamare il 911, il nostro 113. Saylor aveva noleggiato la Lexus in sostituzione della sua auto, ferma dal meccanico. La polizia accerta che il noleggiatore aveva ricevuto, da un precedente cliente, lamentele sulla guidabilità della stessa Lexus: il tappetino si incastrava sotto il pedale dell’acceleratore. Il caso Toyota esplode così. (f.p.)
concepisce e si sviluppa un’autovettura limita il rischio di errore, ma non può azzerarlo del tutto; di sicuro argina i casi imponderabili, riducendo la probabilità che avvengano e l’entità del danno che provocano. La qualità di un prodotto e la soddisfazione del cliente sono il risultato sia di un buon progetto sia di controlli durante la fase di fabbricazione e nelle fasi di vita successive della vettura. In fase di “prototipazione”, si definiscono completamente le funzioni che deve compiere un dato pezzo e si individuano i fattori esterni che ne disturbano le prestazioni. Viene scelta la condizione ottimale di prova in modo che l’influenza dei fattori di disturbo sia minima, sulla base di quei risultati poi si modificano e migliorano le caratteristiche del prodotto. Perciò i componenti vengono sottoposti a dei cicli di lavoro intensi, stressati in condizioni estreme, facendo percorrere all’automobile centinaia di migliaia di chilometri, testando le sospensioni o sollecitando le serrature delle portiere su banchi prova specifici. Vale il principio che se un pezzo resiste a un evento di entità elevata è ragionevole pensare che funzioni tranquillamente in condizioni di entità più lieve. Negli anni, sono stati affidati
a produttori esterni la co-progettazione, la produzione e l’assemblaggio di elementi complessi (plance strumenti, gruppi sospensione ecc) e meno complessi (pulsantiere, maniglie, meccanismi degli alzavetri ecc). Questi elementi vengono spediti al costruttore automobilistico già assemblati e pronti per essere installati sulla vettura. L’evidenza sperimentale mostra che non si riescono a fabbricare nel tempo pezzi identici in dimensioni e proprietà, e che i volumi in gioco non permettono di ispezionare ogni singolo componente come farebbe un artigiano, sarebbe impensabile (costi e difficoltà di realizzazione pratica). Tramite però dei controlli statistici e delle procedure strutturate è possibile distribuire con una certa affidabilità le caratteristiche volute all’intero lotto prodotto, senza esaminarlo tutto. Toyota, fin dai tempi dell'affermazione della lean production, ha instaurato con i propri fornitori contratti di stretta collaborazione allo scopo di migliorare i livelli di fornitura e ridurre i costi sui controlli in accettazione; la qualità si allarga anche all’azienda esterna, considerata come un “reparto” della casa madre. Vengono instaurati dei processi standardizzati molto efficaci ma che hanno bisogno di molto tempo per essere metabolizzati dagli ambienti in cui sono applicati. Il sistema produttivo si è evoluto tanto, è impeccabile entro certi margini, ma anche i sistemi più efficienti prevedono un rischio di errore fisiologico; sarà poi importante avere gli strumenti per intervenire per tempo nella soluzione del problema e nel comunicarlo agli utenti. Sul sito ufficiale di Toyota America si possono trovare informazioni aggiornate sulle vetture coinvolte nel richiamo, sulle anomalie riscontrate e sui metodi di risoluzione. Le spiegazioni riguardano anche il funzionamento dell’acceleratore elettronico, di come agisce l’ABS e di come comportarsi nelle situazioni d’emergenza. In Italia, invece, la casa giapponese ha istituito un numero verde attivo sette giorni su sette e ha fornito un sistema informatico per permettere al consumatore di capire se la propria vettura può essere coinvolta o no nel maxi richiamo. Lo stretto indispensabile.
Trent’anni fa era molto facile rimanere a piedi per la rottura del cavo acceleratore oppure che le auto si fermassero per strada con le calotte degli spinterogeni piene di umidità. Oggi come stanno le cose? Il guasto meccanico accusato da diversi modelli del costruttore giapponese visto da un ingegnere
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Se quello
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che c’è
si rompe Q
uello che non c’è non si rompe, diceva Henry Ford e le sue vetture, destinate a motorizzare l’America, avevano proprio nella semplicità costruttiva e nell’affidabilità gli elementi forti che hanno dato un contributo fondamentale per fare dell’auto un bene popolare. Poi, la massima del grande vecchio di Detroit è diventata sempre più difficile da applicare, con il progresso tecnologico incalzante, il crescere dei bisogni della clientela, le nuove emergenze, la sicurezza e la tutela dell’ambiente. Oggi, la complessità, per quanto riguarda meccanica ed equipaggiamenti, è patrimonio obbligato anche di un’utilitaria e l’elettronica, una variabile portatrice di gioie e dolori, è diventata la dominante di ogni progetto. Certo, in realtà le vetture moderne sono di salute assai più robusta di quelle di un tempo (basti pensare alla durata dei motori e di altre componenti fondamentali o alla riduzione estrema degli interventi di manutenzione ordinaria), ma anche le esigenze, le caratteristiche d’impiego, le prestazioni sono diverse e non sono mancati e non mancano casi clamorosi che mettono in discussione perfino consolidate certezze. E se in questi giorni un marchio come la Toyota, che ha costruito gran parte della sua fama e fortuna commerciale sulla qualità dei prodotti, è costretta al richiamo epocale di oltre 8 milioni di auto e la stessa Volkswagen deve fare i conti con qualche problema, nella storia un po’ di tutte le Case troviamo esempi e a volte perfino sorprendenti scivoloni sul terreno dell’affidabilità. Quanti clienti, magari entusiasti di un modello innovativo o tranquillizzati dalla affermata serietà di marchi nobili, hanno dovuto invece tribolare, restando a piedi e frequentando loro malgrado le officine? Drammatico è stato il prezzo pagato dalla Nsu per offrire un’auto di assoluta avanguardia come la Ro 80, presentata nel 1967. Una carrozzeria dal design futuristico, finiture di pregio e il rivoluzionario motore Wankel le valsero l’ambito premio di Auto dell’Anno, ma i consumi vertiginosi e la fragilità del pur potente doppio pistone rotante portarono alla rovina la coraggiosa marca tedesca, poi scomparsa dopo l’acquisto da parte della Volkswagen. Anche la Citroen dovette affrontare, però con migliore fortuna, i guai dell’ultra sofisticato apparato idraulico dei primi esemplari della DS, berlina anticonformista e incredibilmente avveniristica apparsa nel 1955 e, dopo opportuni interventi, comunque destinata ad una lunga, brillante carriera. In tempi più recenti, del resto, la mes-
sa a punto di soluzioni originali ha talvolta ritardato il lancio di nuovi modelli, come nel caso del complicatissimo tetto retrattile della coupé-cabriolet Volkswagen Eos o delle gigantesche portiere a pantografo della Renault Avantime, passo falso futuristico della Casa francese e protagonista di una sfortunata e fugace comparsa sul mercato. D’altra parte, la scarsa affidabilità non ha risparmiato neppure i più pregiati blasoni. La Rolls Royce, simbolo di perfezione, ha dovuto nascondere qualche magagna e la Jaguar ha spesso celato dietro il fascino straordinario dei suoi abiti e l’esuberanza dei motori le molte frequentazioni dei meccanici. In casa nostra, le Lancia Gamma e k (la prima erede della ben più raffinata Flaminia, la seconda dell’ottima Thema)
MASSIMO TIBERI
LE PEGGIORI AUTO DEL MONDO, IN UN LIBRO S’intitola proprio così il libro di Craig Cheetham, "Le peggiori auto del mondo /Dagli insuccessi degli albori ai flop miliardari" (edizione L’Airone). Il collega inglese mette in fila i 150 modelli che hanno fatto, qualche volta a suo arbitrario parere, la storia in negativo delle quattro ruote. Dai difetti di fabbricazione agli insuccessi commerciali, si spazia nella produzione mondiale. La poco nota Amphicar giustamente sta in copertina: "Malgrado la decantata impermeabilizzazione, molte Amphicar si guastavano quando l’acqua penetrava nel motore, facendolo bloccare". (f.p.)
hanno messo in discussione il prestigio del marchio, mentre la messa a punto delle vecchie Ferrari richiedeva la mano di autentici “artisti”. Del resto, difetti e fragilità non hanno risparmiato soprattutto i modelli di volume. La stessa Ford ha avuto i suoi guai al debutto della Fiesta nel 1976, con le testate che andavano in tilt, mentre la diretta rivale Fiat 127, a lungo bestseller europea, ha fatto tremare i concessionari per la scarsa qualità dei materiali di rivestimento (attenzione ad esporre troppo al sole la plancia della prima generazione di prodotti!). Per la Casa italiana fu un grosso problema anche la tendenza alla ebollizione del radiatore della 600 del 1955 (qualcuno ricorderà i cofani posteriori alzati d’estate) e la ruggine dell’Alfasud è rimasta il proverbiale esempio di come mettere in discussione un pur straordinario progetto tecnico per un’auto di categoria medio-inferiore. La piccola della marca milanese garantiva comunque un comportamento su strada sportivo e molto sicuro, cosa che invece non aveva la Renault Dauphine: classe 1956, comoda e spaziosa per una utilitaria della categoria 850 e dotata successivamente perfino di quattro freni a disco (una autentica rarità e preziosismo per l’epoca), ma affetta da cronica instabilità e sensi-
bilità al vento laterale. I clienti comunque si adattarono e non marcarono saporite varianti corsaiole firmate Gordini. E’ andata sicuramente peggio alla Chevrolet Corvair, modello innovativo per una americana del 1960 (motore posteriore, carrozzeria compatta e dal design controcorrente), protagonista di uno storico processo alla General Motors che vide in prima fila nella denuncia l’avvocato Ralph Nader e il suo libro “Pericolosa a qualsiasi velocità”, dedicato appunto alla vettura che coinvolse molti clienti in paurosi incidenti. E una storia simile si è ripetuta nel 2000 con al centro il Suv Ford Explorer, alla gogna causa i cappottamenti dovuti in particolare alla scelta sbagliata di pneumatici della Firestone. Per non parlare dello smacco della Mercedes, con la sua Classe A che non superò il cosiddetto “test dell’alce”. L’orgoglioso debutto della Stella a Tre Punte nel settore delle piccole vetture fu assai contrastato e costrinse ad un pronto intervento per risolvere i problemi di stabilità con il montaggio in serie dell’Esp. Sicurezza e affidabilità, dunque, sono sempre stati all’ordine del giorno nella storia dell’auto, ma non c’è dubbio che oggi la tolleranza è diventata improponibile e i casi di Toyota e altri insegnano. Per fortuna, dovranno tenerne conto anche nuovi costruttori emergenti: come fu a suo tempo per le marche coreane, ora senza alcun complesso d’inferiorità rispetto ai costruttori giapponesi e occidentali, si attendono adesso alla prova le neofite, rampanti Case cinesi.
Parafrasando il vecchio Henry Ford, storia dei mille guai che nel secolo hanno mandato dal meccanico migliaia di consumatori. Dai problemi delle Nsu a quelli della Lancia, dalle Ford alle Volkswagen, dalle Rolls Royce alle Jaguar. Tutti per una e una per tutte
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Marianna
il manifesto autocritica
quanto
U
na frase è rimasta famosa nella politica francese degli ultimi anni, diventata un presagio di sconfitta. Da primo ministro, un giorno il socialista Lionel Jospin incontra gli operai della Michelin. Gli chiedono un intervento pubblico per salvare dei posti di lavoro e lui risponde: “Lo stato non può tutto”. Poi arrivano il 2002 e la sconfitta cocente di Jospin, che non riesce a superare nemmeno il primo turno delle presidenziali, surclassato da Jean-Marie Le Pen. Per evitare il fantasma di Jospin, il presidente Nicolas Sarkozy e il suo ministro dell’industria, Christian Estrosi, in questo periodo usano un linguaggio dichiaratamente assertivo, come dire: tutto si può. Il loro bersaglio è soprattutto la Renault, un’industria simbolo della Francia nonostante sia stata privatizzata nel ’96. Lo stato francese è comunque ancora un suo azionista e controlla oggi il 15% del capitale del marchio della losanga. “Non accetto la strategia di Renault degli ultimi dieci anni”, ha proclamato con enfasi Sarkozy, per mostrare che lo stato poteva fare “qualcosa” alla notizia del trasferimento della produzione della Renault Clio quarta generazione dalla fabbrica di Flins a un sito industriale in Turchia. Estrosi è arrivato persino a minacciare un possibile aumento della presenza pubblica nel capitale di Renault, per poter influire maggiormente sulle decisioni strategiche dell’azienda. Sarkozy ha convocato all’Eliseo il presidente di Renault, Carlos Ghosn, per chiedergli spiegazioni. Ghosn, soprannominato adesso il “samurai” per il suo decisionismo (in passato era chiamato "le tuer des couts", l’assassino dei costi) ha temporeggiato, senza promettere nulla. Il manager ha spiegato che bisognerà attendere il 2013 e la messa in produzione della nuova Clio per sapere in quale proporzione verrà prodotta anche in Turchia. L’anno scorso, in piena crisi finanziaria, lo stato francese aveva prestato 3 miliardi di euro a Renault (e altrettanti a PeugeotCitroen, gruppo Psa), facendosi promettere che non ci sarebbero state chiusure di fabbriche in Francia. Bruxelles aveva protestato, affermando che le regole della concorrenza proibiscono aiuti pubblici condizionati a una localizzazione specifica degli investimenti. Ma il governo francese intende proseguire sulla strada del colbertismo di facciata. Estrosi ha convocato all’inizio di febbraio Patrick Pelata, direttore generale di Renault, per chiedergli garanzie sul futuro produttivo della fabbrica di Sandouville, dove attualmente vengono costruite le auto più lussuose della ex Régie e alle quali dovrebbe affiancarsi, dal 2012, la produzione di un veicolo utilitario, il Traffic. In televisione, Sarkozy si è indignato durante una trasmissione do-
sono elettrici ANNA MARIA MERLO da Parigi
ve ha incontrato dei “veri francesi”: "Ho scoperto qualcosa di estremamente stravagante – ha detto ai telespettatori – cioè che i due terzi dei fornitori di Renault sono stranieri. E ho chiesto che questa proporzione venga rovesciata”. Spente le telecamere, Sarkozy ha effettivamente girato il problema a Ghosn, esigendo che “i due terzi dei fornitori di Renault siano francesi” (oggi il 60% della componentistica per le industrie Renault francesi è prodotto in Francia, anche se in parte in fabbriche di proprietà straniera, proporzione che scende al 42% per l’insieme delle fabbriche del gruppo). Per Sarkozy, il gruppo Psa è il modello, con il 55% dei suoi ope-
LEGGO, DUNQUE GUIDO Auto, frodi e terre di frontiera nel romanzo di Marino Magliani, La Tana degli Alberibelli, edito da Longanesi. Un noir a matrioske, che racconta appetiti e disastri della costa ligure, e segreti sepolti nelle grotte antiche del mare. Con questo romanzo, Magliani (nato a Dolcedo, Imperia, nel 1960), ha vinto una sezione del nuovo premio letterario internazionale Frontiere-Biamonti, ideato da Giuseppe Conte, e dedicato allo scrittore Francesco Biamonti (San Biagio della Cima, 1928-2001). Tutto si svolge nei dintorni di Santeleula, città immaginaria del Ponente ligure, a cui un uomo approda, proveniente dal mare. L’uomo, “chiuso nella mantellina”, rema controvento verso levante, guardando davanti a sé la cima del molo. Ha un appuntamento lassù, sull’ultima panchina, ma non si fida, e scruta col binocolo l’imboccatura del molo, la figura che attende sul muraglione: “Sto arrivan-
rai in Francia. Renault ribatte che, se ha solo il 46% degli operai nel paese, significa semplicemente che è più sviluppata all’estero dei concorrenti e che produce sul posto (Turchia, Europa dell’est, Corea, Brasile, prossimamente anche Algeria, dove è prevista la costruzione di una nuova fabbrica). Dopo la convocazione di Ghosn all’Eliseo sono arrivati i dati del 2009 dell’industria automobilistica francese, che ha chiuso il 2009 con perdite record. Più di 3 miliardi in rosso per Renault e più di un miliardo per Peugeot-Citroen. I dati sulle vendite segnalano aumenti notevoli in Europa tra il gennaio 2009 e lo stesso mese di quest’anno,
do – dice al cellulare – indosso un giubbotto nero e un cappellino rosso della Ferrari”. Dopo qualche pagina, l’uomo a bordo di una jeep con targa olandese, è spiato da una Volvo bianca, posteggiata all’ingresso del paese. L’uomo nella jeep è Jan Martin Van der Linden, agente sotto copertura, al centro di una ragnatela che si snoda fra uliveti e rododendri, lampare e scalette che scendono a picco fra gli scogli, sotto l’Aurelia. Intorno alla costruzione di un porto turistico, progettato per essere “il più grande del Mediterraneo”, ruotano grandi interessi, manovre finanziarie illecite che il Bureau antifrode europeo intende scoprire. Jan Martin è stato inviato lì dopo la morte del precedente investigatore, ufficialmente è un archeologo: indaga su un oggetto abbandonato nella zona carsica di Val D’Arroscia da due disertori della battaglia di Marengo, nel 1800. Le grotte, però, nascondono segreti più recenti, rese dei conti e strani segni lasciati da un partigiano cattoli-
grazie agli aiuti alla rottamazione, ma i conti sono stati negativi sia per i forti sconti proposti che per l’aumento delle vendite delle auto meno costose e dunque con meno margini. E il 2010 si annuncia nero, come ha detto lo stesso Ghosn, a causa del perdurare della crisi unita alla fine programmata degli incentivi. Per il momento, l’orizzonte dell’industria automobilistica francese è il 2013, quando usciranno i nuovi modelli e muoveranno i primi chilometri le loro auto elettriche, destinate nei progetti a un’ampia diffusione. Reneault è il costruttore di punta negli investimenti sull’auto elettrica (in programma la produzione di quattro modelli diversi), mentre Peugeot-Citroen, partita per prima in Europa proponendo la Citroen Cx elettrica, si è accordata con la giapponese Mitsubishi per sviluppare i suoi prodotti a volt e intanto privilegia l’auto a propulsione ibrida diesel-elettricità. Per favorire l’auto elettrica lo stato francese ha messo mano al portafoglio. Il ministro dell’industria Estrosi ha firmato con la Renault una convenzione per un prestito di 100 milioni di euro per sviluppare l'auto elettrica. Il governo ha poi stabilito aiuti per l’acquisto di un modello elettrico fino a 5mila euro, rottamazione di vecchie auto con premi maggiorati per chi comprerà un’auto elettrica e ha messo sulla bilancia l’impegno a coordinare l’acquisto di 100mila auto elettriche per i bisogni dell’amministrazione pubblica (e dei suoi fornitori privati) da qui al 2015. La Renault vuole però di più dallo stato: al recente vertice dei ministri europei dell’industria, che si è tenuto a San Sebastian all’inizio della presidenza spagnola del consiglio Ue (gennaio-giugno 2010), la vice-direttrice generale di Renault, Odile Desforges, ha chiesto investimenti massicci nelle infrastrutture di ricarica e aiuti per contenere i prezzi di vendita per alcuni anni. La partita è appena cominciata.
co, prima di essere ucciso, nella primavera del ‘44… Chiacchiere da bar o vecchi intrighi ancora pericolosi? Mentre la luce del bar si spegne e l’ultimo avventore sale sulla sua Renault, Jan Martin respira “gli odori legnosi dell’oscurità” e riflette. Cosa c’entra la Tana degli Alberibelli con la faccenda del porto? E la Volvo bianca è sempre appostata sotto le palme... Questa storia non è mai accaduta, un porto come quello qui descritto non esiste, né in Liguria, né altrove… “non che io sappia”, dice Magliani nella nota di apertura. Ironia sottile di chi conosce bene il concretissimo intreccio di affari, soldi e potere che sta dietro alla costruzione dei porti turistici nel Ponente ligure, restituito dal romanzo attraverso le voci dei personaggi: un business di macchine sportive e barconi di lusso, “yacht alti come case di tre piani” che hanno “sfrattato i pescherecci” e che impediscono la vista del mare. (geraldina colotti)
Il presidente Sarkozy va in tv e chiede «fornitori francesi» per i costruttori nazionali, Renault e Peugeot-Citroen Poi litiga con Ghosn, capo Renault, sulla produzione in patria ma concede nuovi aiuti. Per la Francia e per l’auto elettrica
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Come
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ti ho gasato
il mercato L’
Unrae, l’associazione delle case automobilistiche straniere in Italia, è stata molto sollecita nel diffondere i dati statistici sul mercato. Risulta che nel 2009 le vendite abbiano sfiorato quelle dell’anno precedente. 2.158.901 auto vendute contro 2.161.680 del 2008: un impercettibile 0,13% in meno. E’ l’effetto di notevoli incentivi pubblici e di una politica di riduzione dei prezzi diffusa tra quasi tutte le case, in modi differenti tra loro. I dati di gennaio 2010 mostrano un incremento molto consistente rispetto al gennaio precedente, 30,22% in più. 206.341 auto vendute, di fronte alle 158.457 del gennaio 2009. Le case straniere e del resto anche Fiat, indicata nei testi ufficiali come il "Costruttore automobilistico nazionale" (quasi fosse una pubblicità gratuita da evitare o una sorta di maldicenza farne il nome in chiare lettere), sono molto preoccupate per i mesi futuri, al punto di presagire una riduzione di 350 mila auto nel bilancio complessivo del 2010. Dopo vent’anni, per la prima volta l’Italia scenderebbe così al di sotto dei due milioni di vetture immesse in circolazione; a meno che… Le case estere del settore auto, raccolte nell’Unrae tentano infatti un’ultima carta. Non possono arrestarsi di fronte a una diatriba che non le riguarda, quella concernente lo stabilimento Fiat di Termini Imerese, con gli irrigidimenti di due personaggi un po’ irascibili – pensano le Case – tipo Claudio Scajola, ministro e Sergio Marchionne, Ceo. C’è chi pensa nell'ambiente che la mancata continuazione, anche per pochi mesi, di una politica di incentivi non dipende dalla politica della lesina di GiulioTremonti, il ministro che sovrintende all'economia, ma da incompatibilità personali tra i protagonisti. Così saranno in molti a pagarne la spesa – e certo i responsabili delle case estere non hanno gli operai e i cittadini di Termini Imerese come prima preoccupazione. Se chiude lo stabilimento in questione Fiat (o del Costruttore automobilistico nazionale) fa quello che fanno tutti: taglia per la sua parte un po' di produzione in eccesso, aumentando il proprio tasso di profitto e allo stesso tempo quello medio del settore. E, nella competizione un po' più serrata, vinca il migliore e così sia. Esse sono in maggioranza pessimiste sull’andamento del mondo e quindi inviano il loro grido di dolore direttamente al Capo. Si sentono anche defraudate di qualcosa e trattate con insensibilità, ingiustamente, dopo molti sacrifici, molte promesse. Ecco dunque il grido di dolore, inviato da presidente a presidente: dal presidente dell’Unrae, Loris Casadei al presidente del consiglio di Palazzo Chigi. Lo si può trovare nel sito dell’Unrae ed è datato 15
febbraio 2010. "Lettera delle case Estere a Berlusconi: ignorato il 70% del mercato". A seguire: "A rischio oltre 10.000 posti di lavoro, 800 milioni di Iva e lo 0,4% del Pil" “Dopo aver assistito in questi ultimi tempi al ‘botta e risposta’, apparso su tutti i giornali, tra gli esponenti di Governo e il Costruttore automobilistico nazionale, devo rilevare con vivo disappunto e rammarico come non si sia tenuto conto anche degli altri Costruttori presenti in Italia”. Il documento prosegue poi riportando un altro passaggio del testo della lettera alle autorità e commentandone il senso: «“Come più volte evidenziato alle Istituzioni competenti i dati degli ordini sono oggi fortemente negativi e, in assenza di incentivi, il mercato automobilistico subirà una flessione di 350.000 unità, come del resto già evidenziato anche dal Costruttore nazionale”. Ciò, con pesantissimi riflessi a livello occupazionale, stimabili in una perdita di 10.000 posti di lavoro nella sola filiera distributiva delle Case estere. In termini di fatturato totale, inoltre, tale riduzione comporterà una perdita di 4,6 miliardi di euro (quasi lo 0,4% del Pil) e, per le casse dell’Erario, di circa 800 milioni di gettito Iva". Il testo reso noto dall’Unrae termina poi vantando ogni merito dei produttori esteri e lanciando qualche avvertimento al governo su temi sensibili: "Il settore necessita ancora di un rinnovamento della parte più obsoleta del parco circolante inmodo da proseguire nel circolo virtuoso dell'abbattimento dei consumi e delle emissioni di
GUGLIELMO RAGOZZINO
2010, FUGA DI UN MILIONE DI AUTO DALL’EUROPA Previsioni nere nel 2010 per l’industria dell’auto europea. Gli incentivi dei governi sono finiti e i costruttori devono imparare a camminare con le sole proprie gambe. I dati di gennaio, gli unici disponibili al momento di scrivere, sono euforici perché si riferiscono alle immatricolazioni di auto ordinate nel 2009. L’Italia è stato il paese europeo con la più forte crescita sullo stesso mese del 2009, +30%, seguita dalla Germania con +4%. Ma al Salone di Ginevra verranno resi noti i numeri di febbraio, destinati a cambiare: a fine 2010 il mercato europeo potrebbe perdere 1 milione di auto. (f.p.)
Co2 che, grazie alla presenza degli incentivi, lo scorso anno hanno evidenziato una riduzione di oltre 8 punti, a 136,6 g/km, consentendo così all’Italia di avvicinarsi all’obiettivo prefissato dall’Unione Europea di 130 g/km per il 2012". E’ evidente che la mancanza di interventi governativi interromperebbe questo trend. “Riteniamo necessario – conclude il presidente dell’Unrae nella sua lettera al governo – che l’Esecutivo valuti con urgenza l’introduzione di provvedimenti a sostegno delle Reti commerciali, nonché misure più strutturali quali la revisione della fiscalità dell’auto, con particolare riferimento alle auto aziendali, e forme che promuovano la mobilità sostenibile ed ecocompatibile, unitamente ad una sempre maggiore sicurezza della circolazione degli autoveicoli ”. In effetti le politiche del governo, a partire dalle fiscali, sia quelle studiate in un modo approfondito, sia le altre dipendenti da scelte occasionali, quando non compiacenti-protettive, irrompono potentemente sul mercato delle auto. Gli incentivi alla rottamazione sono stati l’occasione scelta da alcune case automobilistiche per entrare più in profondità nel mercato italiano. Il Costruttore nazionale, che forse aveva dell’invenduto in eccesso, tra una cosa e l’altra vende per esempio il modello Fiat Bravo con uno sconto rottamazione sul listino che arriva al 21%, mentre la Ford, per fare un altro esempio, ha tagliato il listino della piccola Ka del 17%. E questo come base, prima di passare ad altre forme come il km 0 o il prezzo concessionario. Forse senza rendersene conto fino in fondo, anche il fisco fa la sua parte nel rimodellare il
parco vetture. C’è un vero e proprio crollo delle auto a gasolio che scendono, da un risultato assai vicino al 60% del totale a poco più del 40%, poco sopra del risultato abituale negli ultimi anni delle auto a benzina sola. Il resto è coperto dalle auto a gas e benzina; e qui il sopravvento tocca alle vetture gpl che alla fine dell'anno saranno duecentomila. Alcuni dati da verificare parlano di un quinto delle nuove immatricolazioni sotto forma di ibridi all'italiana: benzina + Gpl o benzina+ metano. Ne consegue un'ulteriore caduta della scelta di auto a gasolio. Con una crescita del parco automobilistico di un ordine di grandezza di due milioni di vettore all'anno, la parte diesel era scesa a 5,7% nel 1991, risalita al 58,5% nel 2005, per poi riabbassarsi al 41,8 del 2009. Il parco vetture nuove in Italia fa capo al gruppo Fiat che copre nel 2008-2009 il 33% del totale. Vi sono poi tre gruppi che oscillano intorno al 10% (Ford, Vw e Psa) Gm tra 8 e 9 e una serie di altre imprese e gruppi con percentuali consistenti che lo diventano ancora di più se si tiene conto del prezzo di alcune delle loro vetture. In genere le case maggiori, o meglio i maggiori gruppi, presentano una gamma di vetture, costruite anche in località in cui il costo del lavoro varia grandemente, per molte borse, se non proprio tutte. Inoltre giocano partite complicate, lanciando nuovi modelli, spostando il parco invenduto dall'uno all'altro paese, alla rincorsa di mercati più facili, leggi all'entrata meno severe, facilitazioni e incentivi più consistenti e generosi. Il punto di partenza è il mercato europeo che si riduce tra 2007 e 2008 del 7,9%, non in modo omogeneo, ma con grandi differenze tra Francia -0,7, Germania -1,8 da un lato e Regno unito -11,3 e Italia – 13,3. Fuori gara la Spagna con un sensazionale -28,1. Le difficoltà sono presenti per tutti, c'è una gara di incentivi per ridare tenuta al mercato dell'auto. Per tutti quelli che puntavano su qualche forma di auto verde, c'è un momento di arresto, al di là di tante belle parole: la strada per l'auto elettrica appare oggi tutta in salita e irta di difficoltà. Sarà per la prossima volta.
Più gpl, più metano e meno gasolio. Una fotografia di come sono andate le vendite di automobili nel nostro paese nel 2009, anno di grazie degli incentivi alla rottamazione. E uno sguardo su come potrebbe andare quest’anno, senza gli aiutini del governo