scritto & mangiato in collaborazione con Slow Food
Supplemento al numero odierno de il manifesto
Alimentazione transgenica, le molte ragioni per dire no alla coltivazione ogm e alla sua potente lobby
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MARZO 2010
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Offrire qualità sempre e convenienza su tutto è un’arte che si coltiva nel tempo. Questo è Conad ogni giorno, da oltre quarant’anni. Gli artisti sono i suoi 3.000 soci imprenditori e i suoi 35.000 addetti, i loro capolavori sono una certezza quotidiana per milioni di clienti.
scritto & mangiato
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in collaborazione con Slow Food
Le immagini che illustrano questo supplemento sono tratte dal libro Sensacional de diseno mexicano edito da Trilce Ediciones Il manifesto via A. Bargoni 8 00153 Roma tel. 06 687191 Direttore responsabile Valentino Parlato Supplemento a cura di Francesco Paternò Grafica Daria Sorrentino Tag design Illustrazione di copertina Laura Federici Pubblicità concessionaria esclusiva Poster srl 00153 Roma via A. Bargoni 78 tel. 06 68896911 fax 06 58179764
4 Se la terra è modificata di Laura Stefani Perché diciamo no agli Ogm di Carlo Petrini e Roberto Burdese 6 Tsunami gemello di Eric Holt Giménez e Raj Patel 7 L’accesso al cibo di Eric Holt Giménez e Raj Patel 10 Per ogni clima di Pat Roy Mooney 11 Il bio corretto di Annie Shattuk 12 Yak made in Tibet di Serena Milano 13 Spesa diretta di Rami Zuraik 15 Gusti pazzi di Geraldina Colotti
Stampa Sigraf srl via Redipuglia, 77 Treviglio (Bg) Chiuso in redazione il 18/3/2010
Ha un nome attraente, ma solo quello: Amflora. E’ la patata transgenica che ora si potrà coltivare in Europa per uso industriale dopo la decisione del 2 marzo scorso della Commissione europea. A colpi di patate, gli ogm avanzano dunque anche da noi, sebbene il ministro delle politiche agricole e forestali Luca Zaia abbia impugnato fucile e martello contro i commissari di Bruxelles: “Non consentiremo – ha detto – che un simile provvedimento, calato dall’alto, comprometta la nostra agricoltura. Proseguiremo nella politica di difesa e salvaguardia dell’agricoltura tradizionale e della salute dei cittadini e valuteremo la possibilità di promuovere un fronte comune di tutti i paesi che vorranno unirsi a noi”. La decisione della Commissione europea mette fine di fatto alla moratoria di dodici anni sulla coltivazione ogm sul vecchio continente. E, già che c’era, ha autorizzato pure tre tipi di mais transgenici, destinati a essere utilizzati nell’alimentazione umana e animale. La partita cambia e questo supplemento, modificato di pagina in pagina grazie ai geni dei nostri amici di Slow Food, informa e rilancia la palla nel campo avversario. Non per caso abbiamo come centravanti Carlo Petrini, fondatore di Slow Food, e Roberto Burdese, presidente del movimento italiano, che scrivono la loro nella pagina seguente. Per dirne una: ancora oggi non si conoscono gli effetti sulla salute dell’essere umano dei prodotti ogm. Ed è difficile compiere in piena autonomia seri studi tossicologici, senza essere tagliati fuori dai veti incrociati delle multinazionali che vivono e si sviluppano con gli ogm. E’ così che si uccidono anche i cavalli, oltre a non sconfiggere la fame nel mondo. La questione è cruciale e la propaganda è assai potente con intrecci fra lobby biotech e politica. Sempre nelle pagine a seguire troverete sussulti e grida di un mondo che ha fame e che ha cominciato a ribellarsi a un sistema alimentare iniquo. Ci sono notizie di come le multinazionali puntino sui cambiamenti climatici per imporre la loro mercanzia, ovviamente resistente al grande freddo e al grande caldo. E c’è anche un po’ di buona novella, come la crescita dell’agricoltura biologica in Africa, in base a valutazioni delle agenzie dell’Onu, e segnalazioni di libri corretti. Insomma, leggete e nel caso modificate la vostra posizione, farà bene a tutti.
A colpi di patate
Per tutte le informazioni sui cd, gli artisti, i concerti, e molto altro consultate musica.ilmanifesto.it
LE ULTIME NOVITÀ RADIODERVISH "BEYOND THE SEA" euro 12,00 Beyond the sea è il nuovo disco dei Radiodervish per il manifesto cd, di grande impatto emotivo scritto tra la Puglia e Gerusalemme. Sonorità raffinate e testi multilingue che raccontano di attraversamenti reali o immaginari. L’album contiene solo brani inediti e rappresenta una nuova fase di quella Babilonia dell’anima dalla quale i RADIODERVISH provengono. ALTRI TITOLI Centro del Mundo, ,Lingua contro lingua
GIOVANNA MARINI "UN PAESE VUOL DIRE" euro 10,00 A tre anni dal suo ultimo lavoro discografico, torna Giovanna Marini con “Un paese vuol dire”. «È un cd che mi esce dal cuore, che ha una forma circolare: c’è l’inizio, il centro e la ... no, il presente, che non può essere la fine, che deve continuare attraverso il cuore e la voce di chi ascolta». Il disco, frutto della preziosa collaborazione con il Circolo Gianni Bosio, segna anche l’esordio della grande cantante per il manifesto cd.
IL TRIO “E’ SPINGULE E A FRANGESA” "CAUTAMENTE" euro 10,00 Il nome ricorda una celebre canzone di Salvatore Di Giacomo di fine ottocento. Questo straordinario trio, composto da Rosaria Russo, Sylvie Genovese e Ciro Sagitto, propone un divertente e surreale repertorio della canzone comica napoletana di fine '800 e prima metà del '900 raro o addirittura inedito. In collaborazione con il Circolo Gianni Bosio.
SERVILLO/GIROTTO/ MANGALAVITE "FÚTBOL" euro 10,00 Torna il trio italo-argentino composto dal cantante Peppe Servillo (voce ed anima degli Avion Travel), il sassofonista Javier Girotto e il pianista Natalio Mangalavite. E lo fa con un progetto ispirato al libro “Fútbol - storie di calcio” di Osvaldo Soriano.Tredici brani che sanno di calcio e Sudamerica, di amicizia e di fatica. Nel cd anche due ospiti speciali: l’attore Toni Servillo e il chitarrista Fausto Mesolella. ALTRI TITOLI L’amico di Cordoba, euro 10,00
I cd sono in vendita presso le librerie La Feltrinelli, Ricordi Mediastores, il libraccio e Melbookstore. Per informazioni su altri punti vendita e per acquisti con carta di credito telefonare ai numeri: 06/68719330 - 622. Per ricevere i cd aggiungere al prezzo 2,00 euro di
DANIELE SEPE "TRUFFE & OTHER STURIELLETT" (in)cumplete classical and films miusik Vol.1, 2 & 3 euro 22,00
Sepe ha sempre alternato la propria attività tra dischi “ufficiali” e colonne sonore. Nel cofanetto, ai primi due cd, già editi, se ne affianca un terzo, inedito. Con le colonne sonore dei films “il resto di niente”, “17”, “la strada di Levi”, “dopo mezzanotte”, “lettere dall’America”, “cronisti di strada”, “fondali notturni”, “la vita è una sola”, “il caricatore”. E per la prima volta incisa la “Marcia per l’innalzamento dell’albero della libertà” di Domenico Cimarosa. TRA GLI ALTRI TITOLI Kronomakia, Animecandide
YO YO MUNDI "ALBUM ROSSO" euro 10,00 Finalmente dopo 6 anni il nuovo disco di canzoni degli YYM, la sintesi della loro poetica dopo i successi di 54, Resistenza e Sciopero. 16 tracce che descrivono con intensità, ironia e emozione il disorientamento della sinistra e il desiderio di un¹Italia migliore. Canzoni d’amore, di lotta e di speranza con un testo di Massimo Carlotto e la partecipazione di Steve Wickham (violinista dei The Waterboys), Maurizio Camardi, Patrizia Laquidara, Marco Rovelli, Alessio Lega. ALTRI TITOLI Resistenza, euro 15,50 - Sciopero, 8.00
spese postali (fino a tre cd) e versare l’importo sul c.c.p. n. 708016 intestato a il manifesto coop. ed. - via A. Bargoni, 8 - 00153 Roma, specificando la causale. Distributore per i negozi di dischi Goodfellas tel. 06/2148651 - 21700139
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Perché diciamo no agli ogm Carlo Petrini e Roberto Burdese ornato di attualità con la vicenda della patata transgenica della Basf di cui l’Unione Europea ha autorizzato la coltivazione, il problema degli ogm è complesso. Ma il rifiuto di Slow Food alla loro introduzione in agricoltura è netto e fondato su molte buone ragioni. In Italia, date le piccole dimensioni delle aziende e l’assenza di barriere naturali sufficienti a proteggere le coltivazioni biologiche e convenzionali, è impossibile coltivarli in sicurezza. Di conseguenza, gli agricoltori biologici, biodinamici e convenzionali richierebbero di vedere contaminati i loro raccolti; una diffusione, anche limitata, delle coltivazioni gm in campo aperto cambierebbe per sempre la nostra agricoltura, annullando la nostra libertà di scegliere il cibo, con, in più, rischi per la salute degli animali alimentati con ogm. Il ruolo dell’agricoltore, che da sempre migliora e seleziona le proprie sementi, risulterebbe mortificato dalla necessità di rivolgersi, a ogni nuova semina, alla multinazionale titolare del seme brevettato: come tutti gli ibridi, in seconda generazione gli ogm non danno buoni risultati ed è proibito tentarne miglioramenti, pena il pagamento di costose royalties. In più, con questo tipo di coltivazioni, verrebbero meno i legami storici e culturali con il territorio tipici dei prodotti tradizionali, specie in un paese come l’Italia, che basa buona parte della sua economia agroalimentare sull’identità e sulla varietà delle produzioni locali; il tutto, comporterebbe gravi rischi di impoverimento della biodiversità, dato che le coltivazioni di ogm hanno bisogno di grandi superfici monocolturali. I sostenitori del transgenico ne elencano due vantaggi: la resistenza a un parassita del mais (la piralide) e a un diserbante (il glifosate), ciò che consentirebbero un minore impiego di chimica nei campi: in realtà, la piralide del mais può essere combattuta seriamente solo con la rotazione colturale, e la resistenza a un diserbante porta a un suo uso più disinvolto, poiché non danneggia le piante coltivate ma solo le erbe indesiderate. Quanto poi al presunto aiuto che verrebbe dagli ogm alla lotta contro la fame nel mondo, sono i fatti a parlare: da quando (circa 15 anni fa) è iniziata la loro commercializzazione, i risultati in ambito agroalimentare riguardano soltanto tre prodotti – mais, colza e soia – e il numero degli affamati non ha fatto che crescere, proprio come i fatturati delle aziende che producono semi geneticamente modificati. In paesi come l’Argentina o il Brasile, la soia gm ha letteralemente spazzato via produzioni di patate, mais, grano e miglio, su cui si basa l’alimentazione. In conclusione, a circa trent’anni dall’inizio dello studio sugli ogm, la scienza è ancora a uno stadio rudimentale e in parte si affida al caso. Noi vorremmo ci si attenesse ad atteggiamenti di cautela e precauzione: gli ogm sono figli di un modo miope e superficiale di intendere il progresso, mentre è sempre più chiaro il ruolo dell’agricoltura di piccola scala nella protezione dei territori e del paesaggio e nel contrasto al riscaldamento globale. Invece di seguire le sirene dei mercati, la ricerca dovrebbe affiancare e assecondare l’agricoltura sostenibile. *Slow Food
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Se la terra
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Marie-Monique Robin certo non piacciono gli argomenti comodi. Francese, venticinque anni di giornalismo investigativo alle spalle, ha firmato libri, reportages e documentari, tra i quali Voleurs d’yeux (Ladri d’occhi) sul traffico di organi e Escadrons de la mort, l’école française, sui legami tra servizi segreti d’Oltralpe e dittature argentina e cilena. Ma Robin è figlia di contadini e tiene a precisarlo, mentre spiega perché ha deciso di dedicare quattro anni a investigare il leader mondiale dell’industria transgenica, Monsanto, cui oggi appartiene il 90% degli ogm – soprattutto soia, mais, cotone, colza – coltivati nel mondo. «Mi sono sempre interessata di diritti umani e agricoltura e più recentemente ho iniziato a lavorare sui pericoli che corre la biodiversità: mai come in questo caso le tre questioni sono interconnesse». Il risultato è Il mondo secondo Monsanto, un libro-inchiesta che ripercorre la storia, denuncia strategie occulte e veri obiettivi della controversa multinazionale. Uscito in Italia un anno fa (Arianna editrice), dopo essere stato tradotto in 13 lingue, ha scatenato un grande dibattito internazionale, ma nessuna reazione ufficiale da parte del colosso biotech, se si esclude la creazione di un blog che si limita a negare le tesi del libro: l’ennesimo – e involontario – riconoscimento di attendibilità e serietà del lavoro della Robin.
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Nel libro lei dimostra come Monsanto, quando era una delle industrie chimiche più importanti del mondo, abbia deliberatamente mentito in molte occasioni soprattutto sulla tossicità dei suoi prodotti, dai Pcb (policlorobifenili) alla diossina all’agente Orange usato in Vietnam. Ora sta manipolando geneticamente semi che entrano nella nostra alimentazione. Possiamo fidarci? Assolutamente no. Hanno mentito e continuano a farlo, benché sul loro sito si trovino frasi come «aiutiamo i contadini a produrre cibi più sani e che riducono l’impatto sull’ambiente». In realtà, non c’è niente di vero. La soia, ad esempio, primo ogm lanciato sul mercato, che rappresenta oggi il 90% di tutta la soia coltivata negli Usa, è stata manipolata per resistere a un potente erbicida a base di glifosato che si chiama Roundup ed è prodotto da Monsanto fin dagli anni ’70. La multinazionale ha sempre sostenuto che fosse un erbicida biodegradabile al 100%, inoffensivo per l’uomo e per l’ambiente. Peccato che sia stata condannata negli Usa e in Francia per pubblicità ingannevole. L’anno scorso è stato reso pubblico uno studio riservato di Monsanto in cui si sottolinea che solo il 2% del Roundup si decompone nella terra e solo dopo 28 giorni. E questa è una menzogna chiave, visto che il 70% degli ogm coltivati attualmente nel mondo sono stati manipolati per poter essere spruzzati con il Roundup. Il Roundup può incidere sulla salute? È molto tossico e a lungo termine può provocare il cancro, ma porta anche a sterilità, aborti, malformazioni genetiche. Interviene a livello endocrino, alterando il sistema riproduttivo femminile e maschile. Ho incontrato in Argentina persone che vivono molto vicino a enormi campi di soia, fumigati con aerei. Gli effetti immediati di un’intossicazione acuta sono dermatiti, infiammazioni agli occhi, vomito, difficoltà respiratorie. Pensare che il Roundup è l’erbicida più venduto nel mondo: l’unico paese a proibirlo è la Danimarca.
Qual è la posizione di Monsanto su possibili “effetti collaterali” degli ogm? Secondo la multinazionale, la manipolazione genetica è stata studiata a fondo e non comporta alcun rischio per la salute. Non è vero: non è mai stata investigata seriamente. Oggi non si sa quali conseguenze provocheranno fra vent’anni gli ogm sulla salute umana. Cento milioni di ettari coltivati con transgenico nel mondo. Il 70% dei cibi venduti nei negozi americani contengono ogm e non esiste nessuno studio scientifico serio. Com’è possibile? Per capire che cosa è successo bisogna tornare alla vicenda della cosiddetta regolamentazione degli ogm negli Usa, dove tutto è iniziato. La tesi centrale del mio libro riguarda il ruolo enorme giocato da Monsanto all’interno della Food and Drug Administration, l’agenzia federale americana incaricata di verificare la sicurezza degli alimenti e dei farmaci da immettere sul mercato. Il meccanismo, molto diffuso negli Usa e ampiamente utilizzato da Monsanto, è quello delle revolving doors (porte girevoli) e rappresenta bene le collusioni tra lobby industriale e autorità politiche americane. Nel caso specifico, ho scoperto che il testo fondamentale del 1992 che regolamenta – o meglio, che non regolamenta – gli ogm è stato redatto da Michael Taylor, un avvocato di Monsanto che entrò nella Fda per occuparsi della questione; più tardi tornò a Monsanto come vicepresidente. Il testo firmato da Taylor si basa sul “principio di equivalenza sostanziale”, secondo cui un ogm è grosso modo identico al suo omologo naturale, cioè alla pianta convenzionale. Quindi, non c’è necessità di sottoporlo a nessuno studio. Ecco il grande inganno: questo principio non si appoggia a nessun dato scientifico; è stata una decisione politica per favorire gli interessi delle multinazionali. Ma come si è comportato il mondo scientifico in tutti questi anni? Come è stato rivelato più tardi, allora molti scienziati e ricercatori della Fda si opposero al principio dell’equivalenza sostanziale e chiesero di fare degli studi per comprovarla. Ma furono tutti messi a tacere. È paradossale: finora, ogni volta che uno scienziato ha deciso di iniziare uno studio tossicologico serio sugli effetti degli ogm ha perso regolarmente il posto di lavoro. Monsanto ha zittito studiosi, giornalisti e tutti coloro che hanno mosso critiche o avanzato denunce. Per questo affermo che esiste un problema reale con gli ogm, altrimenti esisterebbero studi trasparenti e accessibili. Altrettanto dibattuta è la questione del diritto di proprietà intellettuale sulle sementi. Qual è la strategia globale di Monsanto? L’obiettivo è controllare tutta la catena alimentare attraverso lo strumento delle patenti e delle royalties, altrimenti Monsanto non si sarebbe mai lanciata in questo mercato. Da multinazionale chimica si è trasformata in prima industria produttrice di semi al mondo. Dal 1995 ha comprato più di 50 imprese di sementi in vari paesi. Ormai negli Usa, ma anche in India o in America del Sud, è quasi impossibile trovare un seme che non sia transgenico perché Monsanto prima ha comprato le maggiori industrie di semi e poi ha imposto i suoi semi brevettati. È un passaggio importantissimo: se un seme è protetto da una paten-
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odificata
me nel mondo. Tra i vantaggi di queste sementi si citano sempre i costi contenuti e l’alto rendimento. È vero? È una propaganda criminale. In realtà, succede il contrario: gli ogm portano alla fame. Se non alla morte, come accade in India, dove i movimenti contadini denunciano il genocidio provocato dall’introduzione del cotone transgenico Bt di Monsanto. Costa molto più caro di quello convenzionale e richiede comunque l’uso di pesticidi e fertilizzanti. I coltivatori indiani che passano al Bt si indebitano e si trovano in un vicolo cieco, strozzati dagli usurai. Non solo: il rendimento di una pianta transgenica è sempre minore di quello di una pianta convenzionale. L’idea di mettere fine alla fame nel mondo è stata inventata da Burson-Marsteller, la grande agenzia di comunicazione e pubbliche relazioni, contattata da Monsanto alla fine degli anni Novanta e autrice di una campagna pubblicitaria pro ogm da diffondere principalmente in Francia, Germania e Inghilterra. Ma una volta, nonostante la propaganda, è stata clamorosamente sconfitta. Sì, nel 2004, riguardo all’introduzione del grano Rr negli Usa e in Canada. Per la prima volta nella storia rinunciò a immettere sul mercato un suo prodotto. Manipolando il cereale che occupa quasi il 20% delle coltivazioni nel mondo e che rappresenta l’ingrediente base nell’alimentazione di un essere umano su tre, Monsanto aveva toccato un simbolo culturale, economico e religioso, nato insieme all’agricoltura: il pane quotidiano. Mai si era spinta tanto in là. In Canada, per la prima volta, i coltivatori si trovarono a lottare a fianco di associazioni di consumatori e addirittura di Greenpeace. A tutt’oggi non esistono coltivazioni di grano transgenico nel mondo.
te, il contadino che lo compra deve firmare un contratto in cui si impegna a non conservare una parte del raccolto per riseminarlo l’anno seguente. Così è obbligato ad acquistare nuovi semi e il relativo pesticida Roundup ogni anno: ecco perché il mercato dei semi è immenso. Cosa succede a chi non rispetta il contratto? Monsanto ha un organismo di controllo chiamato “polizia dei geni”. È un’invenzione aberrante: sono agenzie investigative private che entrano nei campi, prendono campioni di terra, chiedono agli agricoltori di mostrare le fatture relative all’acquisto di sementi ed erbicidi da Monsanto e, se non le trovano, li denunciano. La multinazionale ha sempre la meglio in tribunale, perché non rispettare il contratto è considerata una violazione del diritto di proprietà intellettuale di Monsanto. Che vince non solo quando un agricoltore ha conservato volontariamente una parte del raccolto, ma perfino quando nel campo di un contadino che non coltiva transgenico sono trovati semi gm arrivati casualmente. Ma le sementi non dovrebbero essere “patrimonio dell’umanità”? Lo erano. Questa follia è iniziata negli anni Ottanta con il concetto di privatizzazione della vita e degli esseri viventi. Tutto è cominciato quando un ingegnere della General Electric chiese una patente su un batterio che aveva manipolato geneticamente. Si rivolse all’Ufficio Patenti di Washington, ma la sua richiesta fu respinta. Conformemente alle leggi, i batteri in quanto organismi viventi non si possono brevettare. Ricorse in appello e perse, appellò di nuovo e alla fine la Corte Suprema pronunciò una frase terribile: «Può essere patentato tutto quello che sta sotto il sole e che è stato toc-
cato dall’uomo». Da quel momento si è innescata una corsa inarrestabile, si sono concesse patenti sopra geni, semi, piante. Per dare un’idea, attualmente l’Ufficio patenti di Washington ne concede ogni anno più di 70 000, un 20% delle quali si riferisce a organismi viventi. Solo Monsanto dal 1983 al 2005 ha ottenuto 647 patenti relative a piante, quasi tutte presenti nel Sud del mondo. Un’industria che brevetta specie selezionate dall’uomo nel corso dei secoli. Viene da pensare a una forma di biopirateria… Certo e anche seguendo il loro ragionamento c’è qualcosa che non torna: Monsanto ha introdotto un gene, in questo caso il gene di resistenza al Roundup, ma nel contratto sostiene di essere proprietaria di tutta la pianta. È totalmente illogico: come può rivendicare la proprietà intellettuale sull’intera pianta quando ha introdotto un unico gene? All’inizio citava la biodiversità. Siamo entrati nella fase di rischio? «La contaminazione genetica sta provocando danni ovunque. L’esempio più chiaro è quello del Canada. Monsanto introdusse la colza transgenica Rr nel 1996. Oggi, a causa dell’impollinazione aperta, la colza convenzionale è in serio pericolo mentre è scomparsa completamente la colza biologica, tanto che gli agricoltori bio di Saskatchewan hanno intrapreso una class action contro Monsanto per chiedere un risarcimento. Il fenomeno è inarrestabile e sta portando a una riduzione netta della biodiversità. Allora anche la sicurezza alimentare è a rischio, eppure uno dei cavalli di battaglia pro ogm è la certezza di poter sconfiggere la fa-
di Laura Stefani
Intervista a Marie-Monique Robin, giornalista investigativa francese che ha svelato segreti e bugie, effetti e collusioni dell’industria transgenica mondiale e del suo leader Monsanto. Ecco come difendersi
Crede che sia troppo tardi per tornare indietro? Se parliamo di Roundup è molto difficile. Penso all’Argentina, con i suoi 14 milioni di ettari coltivati a soia Rr: ormai la terra ne è impregnata, destinata alla sterilità perché questo erbicida fa piazza pulita di tutto, batteri e microrganismi, anche quelli utili. Il primo passo è informare sui suoi effetti. In Francia, dopo la mia inchiesta, diverse città hanno deciso di sospenderne l’uso. Se riuscissimo a eliminarlo risolveremmo una parte del problema. Ma, contemporaneamente, bisogna boicottare gli ogm e puntare sull’agricoltura biologica. È una preoccupazione che ci riguarda tutti perché nei nostri piatti il Roundup è servito insieme al secondo: la carne che mangiamo proviene da allevamenti europei, quindi da animali alimentati con soia transgenica americana, argentina o brasiliana. E a questo proposito, è in corso una campagna in Francia e Germania per esigere l’etichettatura sulle confezioni di carne, latte e uova che arrivano da animali nutriti con mangimi a base di ogm. Però in Italia, come in Europa, il livello di attenzione è sempre stato piuttosto alto. Il livello di consapevolezza, l’opposizione dei consumatori è netta, ma sul piano istituzionale la situazione è diversa, anche se sta cambiando. Il problema della Comunità Europea però è l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare: l’80% dei membri ha dei fortissimi legami con la lobby biotech e qui torniamo alla questione della mancanza di indipendenza scientifica, delle pressioni sugli esperti, insomma del conflitto di interesse. Quale è stata la parte più difficile di questa inchiesta? Un aspetto a cui non avevo pensato: convincere le vittime di Monsanto a testimoniare. Tutti avevano paura. Molto strano, normalmente quando si lavora nell’ambito dei diritti umani, le persone hanno voglia di raccontare. In questo caso no. Temono le conseguenze. Temono che tu non sia quella che dici di essere, perché a volte Monsanto è arrivata a mandare falsi giornalisti e false équipes televisive. Sono riuscita a guadagnarmi la fiducia di molte persone perché ora sono conosciuta e la gente può verificare che sono davvero una giornalista.
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a disamina del World Food Program sulla crisi alimentare globale evoca lo spettro del disastro naturale che travolge una popolazione ignara, inerme di fronte all’immensa distruzione. Con metà della popolazione mondiale a rischio fame, l’odierna crisi alimentare è certamente immensa e distruttiva, ma le ragioni per cui tanta gente ha un accesso limitato al cibo tutto sono fuorché naturali. Al contrario: decenni di politiche agricole distorte, commercio non equo e sviluppo non sostenibile hanno gettato i sistemi alimentari mondiali in uno stato di malessere cronico, in cui le crisi diventano molto più gravi. Sebbene la fame arrivi a ondate, non tutti “affogano” nella carestia. In realtà, le crisi alimentari del pianeta rendono ricchissimi un pugno di investitori e società multinazionali, mentre devastano il tenore di vita dei poveri e mettono seriamente in pericolo ambientale ed economico il resto del mondo. L’ondata di “rivolte” per il cibo non solo nei paesi poveri come Haiti ma
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Tsunami
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anche in paesi ricchi di risorse come il Brasile – e perfino nelle nazioni industrializzate dell’Europa e negli Stati Uniti – riflette il fatto che la gente non è solo affamata, ma si ribella contro un sistema alimentare globale iniquo. La crisi alimentare è tutt’altro che silenziosa e se siamo consapevoli delle sue vere cause non siamo inermi. La Banca mondiale, la World Trade Organization e il ministero americano dell’Agricoltura evitano accuratamente di affrontare alla radice le cause della crisi. Poiché accettano il paradigma do-
minante del sistema alimentare industriale, le soluzioni che prescrivono non fanno che riproporre gli approcci che sono i primi responsabili della crisi: aumento degli aiuti alimentari, commercio globale dei prodotti agricoli deregolamentato, nuovi trucchi tecnologici e genetici. Queste misure non sfidano in alcun modo lo status quo del controllo delle multinazionali sul cibo mondiale, e di fronte alla crisi non c’è stata una risposta efficace. Né si è svolto un dibattito pubblico informato sulle ragioni reali per cui il numero di persone che soffrono la fame cresce o su che cosa possiamo fare per ovviarvi. Il futuro dei nostri sistemi alimentari è deciso de facto da mercati globali privi di regole, speculatori e monopoli globali. Da decenni agricoltori su scala familiare, donne e comunità rurali di tutto il mondo si oppongono alla distruzione delle loro sementi indigene e lavorano sodo per diversificare le colture, proteggere il suolo, conservare l’acqua e le foreste e creare orti, mercati e imprese locali e sistemi alimentari basati sulla comunità. Esistono molte alternative altamente produttive, eque e sostenibili alle attuali pratiche industriali e ai grandi monopoli che tengono in ostaggio il cibo mondiale, e milioni di persone oggi lavorano per portare avanti questi metodi produttivi. Ciò che manca è la volontà politica di sostenere queste soluzioni da parte di governi, industria e finanza. Nel 1996 Via Campesina, una federazione mondiale di contadini, pastori e pescatori, ha lanciato un appello globale a favore della sovranità alimentare – il diritto umano di tutti gli individui a un cibo sano, culturalmente appropriato, prodotto in modo sostenibile, e il diritto delle comunità a determinare i propri sistemi alimentari. L’appello riprendeva e amplificava le voci di movimenti sociali di ogni dove che si battono per una riforma agraria, il controllo delle risorse locali, mercati equi, sistemi alimentari locali e agricoltura sostenibile. In Europa movimenti di piccoli agricoltori, coltivatori biologici e avversari degli organismi geneticamente modificati, movimenti contro gli ipermer-
di Eric Holt-Giménez e Raj Patel
La crisi alimentare ha anticipato di poco la crisi finanziaria globale. Lo spettro di un disastro naturale che travolge popolazioni inermi e arricchisce i soliti noti cati e per il commercio equo si battono per contrastare il dominio delle monocolture e dei monopoli con cibi locali, prodotti in modo agroecologico e distribuiti attraverso un commercio equo. Negli Stati Uniti fattorie familiari, studenti e attivisti locali, insieme a molti professionisti e imprenditori socialmente responsabili, si battono per il cibo fresco e sano e per redditi più alti in modo da poterselo permettere. Dal movimento in espansione per la giustizia alimentare nelle comunità sottoservite del Nord industrializzato alle alternative agroecologiche di vecchia data dell’America Latina, dell’Asia e dell’Africa subsahariana, la gente si organizza per creare sistemi alimentari produttivi e giusti. È una corsa contro il tempo. L’agricoltura – prevalentemente industriale, assetata di petrolio, carica di chimica – è responsabile del 13-18% dei gas serra nel mondo e utilizza il 60-70% delle risorse idriche in diminuzione del pianeta. Il settore dell’agricoltura provoca e subisce a un tempo i rischi legati al clima. Un sesto della popolazione mondiale soffre disperatamente la fame, mentre molta gente è affetta da obesità. Il cibo economico e cattivo (ultra-trattato e carico di sale, zucchero, grasso e sciroppo di cereali ad alto contenuto di fruttosio) è diventato una piaga per la salute dei poveri e dei ceti a reddito medio.
L’aumento dell’obesità, dell’ipertensione, del diabete di tipo 2 e di altri disturbi legati alla dieta – soprattutto nelle fasce di reddito inferiore – rappresenta il 12 per cento dell’aumento della spesa sanitaria nei soli Stati Uniti. Dopo decenni di politiche tese a sostituire le fattorie familiari con l’agribusiness, si assiste a un esodo massiccio degli agricoltori dalle campagne. Negli Stati Uniti ci sono più persone in galera che sulla terra. Inoltre, gli enormi centri di detenzione a scopo di lucro ospitano migliaia di immigrati non registrati – molti dei quali hanno lasciato comunità agricole economicamente devastate del Messico e dell’America Centrale alla disperata ricerca di lavoro. A seguito della recente inflazione dei prezzi alimentari, molti paesi produttori hanno imposto un divieto di esportazione sui cereali essenziali, una reazione non sorprendente al mercato globale inaffidabile, ma un disastro per i paesi importatori che hanno perso la capacità di produrre il proprio cibo. Il sistema agroalimentare industriale è diventato una sciagura per i poveri e una manna per le società multinazionali. Cornucopia finanziaria che produce oltre 6 trilioni di dollari all’anno di ricchezza, l’agroalimentare industriale è, tragicamente, una delle maggiori cause della povertà globale e della distruzione ambientale. La crisi finanziaria globale, che ha seguìto a ruota quella alimentare, è il suo “tsunami gemello”, decisamente meno silenzioso, figlio della stessa espansione deregolamentata del capitale globale. La crisi finanziaria aggrava quella alimentare, restringendo il credito alla produzione e consolidando ulteriormente il potere nelle mani delle poche grandi società tanto influenti da ottenere salvataggi finanziati dai contribuenti per i loro investimenti avventati. I due tsunami stanno trasformando i nostri sistemi alimentari e finanziari e provocando un’ondata di accordi ad alto livello tra governi e società finanziarie, mentre tanto gli agricoltori quanto i consumatori sono schiacciati tra volatilità del mercato e riduzione drastica del credito.
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n tutti gli Stati Uniti la gente non aspetta un cambiamento di politica dall’alto: consigli locali per la politica alimentare (Food policy councils, Fpc) cominciano ad affrontare i problemi del sistema alimentare a livello locale. Questi Fpc studiano il modo in cui funziona il loro sistema locale e raccomandano politiche per renderlo più giusto e sostenibile. Non esistono due Fpc esattamente uguali: alcuni operano a livello statale, altri a livello cittadino e perfino di quartiere. Il primo consiglio per la politica alimentare, istituito a Knoxville nel Tennessee nel 1982, è nato in risposta a uno studio sull’accesso al cibo che proponeva una pianificazione generale della politica alimentare all’interno della città. Il modello proposto dal consiglio offriva alle comunità un modo sicuro e sano per stabilire le politiche cittadine e coordinare e assicurare un accesso migliore a cibi sani in città. Dai trasporti pubblici ai negozi alimentari fino ai programmi per l’alimentazione a scuola, i cambiamenti a Knoxville sono stati incrementati. Ma il potenziale per la soluzione creativa e innovativa dei problemi ha immediatamente attratto un’ampia gamma di attivisti politici e sociali e, a partire dall’esperimento pionieristico di Knoxville, il sostegno ai consigli per la politica alimentare è cresciuto in modo esponenziale. Nel corso degli anni Ottanta l’attivismo locale sulla politica alimentare ha preso slancio: sono stati fondati lo Hartford Food System senza scopo di lucro, il Rodale’s Cornucopia Project e il Cornell’s Center for Local Food and Agriculture; nella Onondaga County, NY, è nato un Food Systems Council; è stata istituita la Philadelphia Food Task Force; la Us Conference of Mayors ha avviato un progetto in cinque città per creare consigli per la politica alimentare (Clancy, 1997). Negli anni Novanta, l’Usda (il dipartimento dell’agricoltura) ha cominciato a finanziare i Fpc attraverso i Community Food Projects Competitive Grants e nel 2007 l’American Planning Association ha scritto la sua prima guida in assoluto sulla pianificazione alimentare a livello di regione e comunità. Oggi ci sono quasi 50 consigli ufficiali negli Stati Uniti e le diverse parti interessate del sistema alimentare collaborano sempre di più tra loro per creare soluzioni vantaggiose per tutti, mettendo insieme le risorse di tutti i settori alimentari. I Fpc hanno ottenuto qualche grande successo. Vediamone alcuni: G New Mexico. Grazie al New Mexico Food Policy
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Council, lo Stato si è impegnato a fornire due porzioni in più alla settimana di frutta e verdura fresche nelle mense scolastiche, dando la preferenza ai prodotti coltivati nel New Mexico ove possibile. G Toronto. A Toronto il locale Fpc ha contribuito a varare un progetto nutrizionale che fornisce programmi educativi in 32 lingue e più in tutta la città. Sedici addetti al programma, chiamati assistenti alla nutrizione della comunità, studiano con professionisti dell’alimentazione e riportano ciò che apprendono nelle loro comunità. Il consiglio ha avviato inoltre la campagna “compra locale” per aumentare la quantità di cibi freschi acquistati dagli ospedali presso agricoltori della contea, ha ampliato gli orti pubblici e lanciato il primo programma canadese di contributi per l’accesso al cibo per aiutare le scuole e le organizzazioni sociali a comprare attrezzature per la cucina. G Connecticut. I Fpc possono contribuire anche a responsabilizzare le loro città e Stati. In Connecticut l’obiettivo statale di preservare 130 000 acri di terra coltivabile ha perso slancio nel corso degli anni, tanto che per tutto un anno (il 1999) non è stato preservato nessun terreno agricolo. Il locale Fpc si è associato alla Working Lands Alliance e a Save the Land Conference per garantire i diritti di valorizzazione a 12 fattorie nel 2000 per un totale di 1350 acri – più del
La grande esperienza americana per creare soluzioni vantaggiose per tutti, mettendo insieme le risorse dei diversi settori alimentari. Senza aspettare cambiamenti dall’alto
totale preservato nei sei anni precedenti. Sulla base di questi successi, i Fpc allargano i loro orizzonti. Il nascente Food Policy Council di Oakland in California spera di rafforzare il sistema alimentare locale convogliando una quota maggiore dei 50 milioni di dollari spesi ogni anno per il cibo in città verso l’economia locale, creando posti di lavoro e incoraggiando la proprietà locale delle imprese del settore alimentare. Il Fpc di Oakland spera in definitiva di garantire l’accesso a cibo sano e alla portata, economica e geografica, di ogni residente della città, coprendo almeno il 30% del fabbisogno alimentare urbano con prodotti coltivati in città e nella regione immediatamente circostante.
Di tracollo in tracollo
L’accesso al cibo
di Eric Holt-Giménez e Raj Patel
n saggio sulla crisi alimentare globale, di cui si analizzano le cause prossime e profonde. Un libro che propone, anche, delle soluzioni, che risiedono nelle esperienze “alternative” all’agribusiness e sono in grado di offrire la prospettiva di un cibo sufficiente a nutrire il mondo, equo ed ecologicamente sostenibile. La recessione che il mondo sta affrontando, nel Nord ha assunto le sembianze di un collasso finanziario che ha prodotto il crollo dell’economia reale. Tale tracollo, tuttavia, è stato preceduto da un’altra crisi, quella dei prezzi del cibo, che ha sconvolto il Sud del mondo a partire dal 2006. Circa 30 paesi hanno sperimentato rivolte popolari contro l’aumento dei prezzi nel 2007 e nel 2008. Rivoluzione verde, coltivazioni gm, speculazioni, corsa ai biocarburanti sono alcune delle espressioni di una politica economica mondiale ingiusta, i cui programmi e le cui leggi favoriscono esclusivamente gli interessi dell’agroindustria e delle multinazionali. Dall’altra parte, un mondo che resiste, applicando modelli di produzione che sono anche paradigmi di giustizia sociale e rispetto ambientale.
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Eric Holt-Giménez e Raj Patel con Annie Shattuck Food Rebellions! La crisi e la fame di giustizia Slow Food Editore In libreria a 14,50 euro
Per evitare sorprese,
Nel dubbio, preferiamo non avere dubbi. Per questo diciamo no agli OGM nei prodotti a marchio Coop. Un campo, dei semi, la pioggia, il raccolto. Alla natura non serve molto per dare i suoi frutti. In cambio chiede solo tempo. Purtroppo, in questi anni frenetici, il tempo non sempre c’è. Cosìl’uomo ha inventato processi e modi per avere più risultati e averli più in fretta. Non siamo ancora in grado di stabilire segli OGM siano in qualche modo dannosi per la salute. Nel dubbio preferiamo evitarli. Dal gennaio 1998 controlliamo le filiere dei prodotti a marchio Coop e non usiamo farine animali per il mangime di polli e bovini. In pratica, cerchiamo di ridare alla natura i suoi modi e i suoi tempi. Tornando indietro. Che forse, è il modo migliore e più sano, per andare avanti.
diciamo no agli OGM.
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Per ogni
clima I dati su cui riflettere
econdo un rapporto della Fao, un aumento della temperatura di 3-4 gradi Celsius potrebbe provocare un crollo dei raccolti del 15-35% in Africa e in Asia occidentale e del 25-35% nel Medioriente. T Come conseguenza del cambiamento climatico, 65 paesi del Sud del mondo, soprattutto in Africa, rischiano di perdere 280 milioni di tonnellate di potenziale produzione di cereali. T Gli aumenti di temperatura e i cambiamenti dei regimi di pioggia diminuiranno i periodi di crescita di oltre il 20% in molte zone dell’Africa sub-sahariana. T Entro il 2060, i contadini delle zone aride dell’Africa sub-sahariana subiranno delle perdite di reddito del 25% per acro. T I raccolti di riso asiatico diminuiranno drasticamente a causa di temperature notturne più elevate. Infatti, in presenza di condizioni climatiche più calde, la fotosintesi diminuisce o s’interrompe del tutto, l’impollinazione è ostacolata e si verifica la disidratazione. Secondo uno studio portato a termine dall’International Rice Research Institute, i raccolti di riso diminuiscono del 10% per ogni aumento notturno di un grado Celsius. T La zona di maggiore produzione di frumento dell’Asia meridionale – l’enorme pianura indo-gangetica da cui proviene circa il 15% del raccolto mondiale di frumento – si ridurrà del 51% entro il 2050 a causa di condizioni atmosferiche più calde e asciutte e del peggioramento dei raccolti, una perdita che porrà almeno 200 milioni di persone a maggiore rischio di fame. T Entro il 2055, l’America Latina e l’Africa assisteranno a un declino del 10% nella produzione di granturco. T In America Latina, le perdite nella produzione di granturco alimentato a pioggia saranno di gran lunga superiori a quelle della produzione di granturco irrigato: alcuni modelli prevedono che le perdite raggiungeranno il 60% in Messico, dove circa 2 milioni di piccoli coltivatori vivono grazie alla coltivazione di granturco alimentato a pioggia. T I raccolti selvatici saranno particolarmente vulnerabili all’estinzione causata dai cambiamenti climatici. Secondo uno studio delle specie di piante selvatiche connesse con i raccolti alimentari, il 1622% dei parenti selvatici di cowpea (Vigna unguiculata), arachidi e patate si estinguerà entro il 2055 e il territorio geografico di coltivazione delle rimanenti specie selvatiche sarà ridotto di oltre la metà. T A lunghissimo termine, nel 2070-2100, i modelli climatici prevedono dei cambiamenti climatici estremi e delle proiezioni impensabili per la sicurezza alimentare. Nel corso degli ultimi tre decenni di questo secolo, la temperatura media di molti tra i paesi più poveri del mondo oltrepasserà la temperatura massima raggiunta dagli stessi paesi tra il 1900 e il 2000. (p.r. m.)
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e analisi recenti riguardo al rapporto raccolti-clima suggeriscono che i cinque anni più caldi del XX secolo saranno paragonabili ai cinque più freddi della fine del secolo in corso. Dal Nepal all’Etiopia alla Bolivia, i contadini assisteranno a temperature elevate come non mai e nessuno può sapere con certezza se verdure e animali sopravviveranno: potrebbero scomparire le razze e i semi tradizionali che i contadini allevano e coltivano da sempre, oltre ai loro parenti che crescono selvatici nelle radure e nelle foreste, e con essi la biodiversità genetica che serve al pianeta per adattarsi ai cambiamenti climatici. Le multinazionali di sementi, le prime 10 delle quali controllano il 57% delle vendite commerciali mondiali, sono certe che le loro varietà brevettate saranno “adattabili a ogni clima”, più di quanto non lo siano le varietà dei contadini. Per contro, i contadini sostengono che saranno proprio le fattorie industriali su grande scala a trovarsi in difficoltà, mentre i loro semi possiedono la robustezza e la resistenza per adattarsi ai climi in cambiamento, ai parassiti e alle malattie. Chi ha ragione? Multinazionali come Monsanto, Basf, DuPont, Syngenta e Dow hanno in mano le redini del gioco. Sotto pressione da parte di trattative commerciali bilaterali, regionali e dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc), i governi nazionali del Sud del mondo stanno adottando norme sui semi applicabili alla nomenclatura, all’uniformità e alla manutenzione delle varietà, oltre che a leggi di mercato che stanno conducendo la biodiversità agricola locale all’estinzione. Le licenze e le norme sui brevetti rendono quasi impossible per i coltivatori la conservazione o lo scambio dei semi, le multinazionali trovano il modo di trarre profitto dalle future incertezze dei raccolti indotte dal clima. Negli ultimissimi anni, le più grandi multinazionali biotecnologiche dei semi hanno applicato o ricevuto oltre 500 brevetti che, sostengono, aiuteranno i raccolti a rispondere a un’ampia gamma di situazioni critiche a cui saranno sottoposti – dalla tolleranza a sale, caldo o freddo, alle inondazioni. Parecchi di questi brevetti contengono individualmente molti – se non tutti – i
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di Pat Roy Mooney
Multinazionali e sconvolgimenti delle temperature: “I nostri prodotti resisteranno ai grandi mutamenti”. Ma l’alternativa c’è: quella della rete dei piccoli produttori mondiali raccolti del mondo e molte o tutte le forme di situazioni critiche; e s’impadroniscono di gigantesche sequenze genetiche che non hanno inventato ma scoperto. Il brevetto Us numero 7.161.063 della Basf, per esempio, rivendica una sequenza associata all’aumentata tolleranza allo stress ambientale che si trova in tutti i prodotti transgenici. Gli oltre 500 brevetti convergono attualmente in 55 di ciò che gli uffici dei brevetti definiscono “famiglie”, e 51 di queste sono di proprietà dei sei giganti dell’agrobusiness: Basf, Bayer, Dow, DuPont, Monsanto e Syngenta – oppure di piccole aziende biotecnologiche specializzate che lavorano con le grandi multinazionali. La Basf da sola possiede 21 “famiglie” ma ha stabilito una joint venture con la Monsanto, che ne possiede altre sei e, indirettamente, ha interessi in aziende che ne possiedono altre nove. In altre parole: la Basf e la Monsanto insieme possiedono direttamente 27 delle 55 principali famiglie di brevetto, e indirettamente 36. Queste sei multinazionali
sostengono, ovviamente, che né i coltivatori né la concorrenza sono obbligati a comprare o imitare i loro prodotti. Ma queste sei multinazionali insieme controllano il 73% delle vendite dei pesticidi mondiali, e quattro di loro oltre il 40% delle vendite globali di semi. È ovvio, quindi, che tutti sono costretti a seguire la direzione da loro intrapresa, ovunque essa conduca. E i principali ricercatori del settore pubblico stanno già dichiarando che le tecnologie d’ingegneria genetica e le sequenze genetiche “adattabili a ogni clima” possono essere la migliore risposta ai cambiamenti climatici. Di fatto, alcuni tra i principali scienziati dipingono un’immagine incredibilmente pessimistica del futuro dell’agricoltura contadina. Sostengono infatti la possibilità di un “capovolgimento” relativamente veloce delle condizioni climatiche relative ai raccolti, che obbligheranno gli scienziati agricoli a focalizzarsi sulle coltivazioni principali (frumento, riso, granturco, patata, soia) nelle maggiori aree di produzione, quali le pianure, le praterie, la pampa e la regione del Punjab. Ciò significa che 1,4 miliardi di persone che vivono nelle zone rurali, che dipendono dai semi conservati dai contadini e abitano territori marginali, saranno costretti a spostarsi nelle grandi città. In più, le grandi aziende biotecnologiche aggiungono che le colline abbandonate possono essere trasformate per la produzione del biocarburante Con la stessa velocità con cui i contadini dovranno riversarsi nelle città, la biodiversità agricola diventerà un ricordo. I semi dei raccolti che da oltre 12 000 anni sono custoditi dalle famiglie di agricoltori si estingueranno, schiacciati dai gran-
di raccolti transgeneticamente uniformi della biotecnologia, coltivati nelle regioni con i terreni più favorevoli, e dalla diffusione dei raccolti per combustibile, altrettanto uniformi e coltivati nei terreni più aspri. Esiste un’alternativa realistica? Assolutamente sì. Via Campesina – la più grande rete mondiale di piccoli coltivatori – ha unito le sue forze con i pastori, i pescatori e le popolazioni indigene, nel tentativo di promuovere un punto di vista, su cibo e agricoltura, all’interno del concetto di “sovranità del cibo”, che enfatizza la produzione e il consumo locale e promuove il rispetto per i produttori e i consumatori. La sovranità del cibo valorizza la diversità genetica. Piuttosto che adottare un approccio iper-tecnologico, monopolistico e mai testato, ai cambiamenti climatici, i piccoli coltivatori stanno facendo pressione per lo sviluppo di raccolti “sotto-utilizzati”, che hanno mostrato grande plasticità di fronte alle situazioni di cambiamento, oltre a possedere considerevoli qualità nutrizionali. Due decenni fa, in una serie che purtroppo descriveva “gli ultimi raccolti” dell’Africa e delle Ande, il National Research Council degli Stati Uniti ha richiesto lo sviluppo degli oltre 50 raccolti che sembrano essere adattabili alla temperatura, all’esposizione solare, all’altitudine e alle precipitazioni che li rendono candidati eccellenti per ulteriori ricerche. Questi 50 raccolti non si sono quasi mai trovati nelle banche del gene nazionali o mondiali e attualmente sono protetti soltanto nei campi dei contadini. Se riusciremo a collaborare con i piccoli coltivatori di tutto il mondo per sviluppare questa diversità, forse i nostri bambini non saranno destinati a mangiare la polvere.
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el 2008 la Conferenza sul commercio e lo sviluppo dell’Onu, unitamente all’Environment Programme dell’Onu, ha pubblicato uno studio intitolato Organic Agriculture and Food Security in Africa. Lo studio, preparato da Rachel Hine e Jules Pretty (University of Essex) e Sophia Twarog (Unctad), inizia con l’ammissione che «nonostante gli impegni globali… il numero di persone che soffrono la fame è aumentato ogni anno a partire dal 1996». Attraverso l’analisi di 15 programmi che promuovono e attuano la transizione all’agricoltura biologica sostenibile in Africa orientale, lo studio dimostra, nelle parole di Supachai Panitchpakdi, segretario generale dell’Unctad, e Achim Steiner, direttore esecutivo di Unep, che «l’agricoltura biologica può contribuire alla sicurezza alimentare in Africa più di gran parte dei sistemi produttivi convenzionali e… è più probabile che sia sostenibile sul lungo termine». In tutti i casi presi in esame l’accesso al cibo era facilitato dalla transizione alla coltivazione biologica. Lo studio ha rilevato che il passaggio dalla coltivazione tradizionale con bassi input chimici alle pratiche biologiche non determinava alcuna perdita di produttività, anzi: a mano a mano che le fattorie si assestavano, la produttività era ben superiore a quella delle fattorie tradizionali e arrivava a eguagliare quella delle fattorie moderne con un input chimico elevato. La sicurezza alimentare delle famiglie contadine era migliorata non solo dalla maggiore quantità di calorie facilmente disponibili, ma anche dal reddito generato dalla vendita del prodotto eccedente, frutto della conversione al biologico. Non sorprende che il passaggio a pratiche agricole biologiche abbia un effetto in prevalenza positivo sull’ambiente naturale. I programmi studiati promuovevano un modello integrato decisamente sostenibile ed ecologico, anziché la semplice sostituzione degli input chimici con fertilizzanti organici. Sfruttando i processi biologici ed ecologici naturali per aumentare la produzione, il 93% dei casi studiati ha evidenziato «benefici per la fertilità del suolo, l’approvvigionamento idrico, il controllo delle piene e la biodiversità». Le pratiche di gestione biologica della fertilità del suolo utilizzate riducono al minimo o eliminano l’uso di fertilizzanti chimici non rinnovabili e pesticidi, riducono l’erosione del suolo, aumentano la capacità del suolo di trattenere l’acqua e portano più vicino alla superficie il livello freatico. Ciò offre agli agricoltori una stagione vegetativa più lunga e maggiore capacità di recupero di fronte alle fluttuazioni naturali del tempo. Le fat-
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torie biologiche beneficiano di una maggiore biodiversità, che offre habitat agli insetti predatori e impollinatori e specie consociabili. L’accresciuta salute e diversità dell’ecologia della fattoria crea un sistema più sicuro che favorisce la stabilità dell’offerta alimentare regionale. I fattori che contribuiscono alla capacità dell’agricoltura biologica di affrontare i problemi dell’insicurezza alimentare sono inestricabilmente legati ai processi stessi di produzione in una fattoria biologica adattata alla regione. Mentre l’agricoltura convenzionale si affida a tecnologie e prodotti chimici costosi, il passaggio a una coltivazione biologica vincente dipende più dalla valorizzazione delle risorse ambientali e sociali locali. Per esempio, l’agricoltore biologico è costretto ad allacciare legami e alleanze più strette con i vicini per salvaguardare efficacemente le comuni risorse di acqua e terra.
biologica si basa su risorse presenti a livello locale anziché su costosi fertilizzanti e pesticidi chimici, essa costituisce una soluzione praticabile. Lo studio del Manor House Agricultural Center di Kitale in Kenya, citato nel rapporto Onu, descrive le esperienze dei 3000 agricoltori che hanno studiato e realizzato i metodi bio-intensivi insegnati e promossi dal Center. L’adozione del doppio scavo e del controllo integrato degli or-
ri di raddoppiare o quasi le rese riducendo l’uso di fertilizzanti chimici di circa un terzo. Il progetto Tigray è iniziato nel 1996 in sole quattro comunità e da allora si è diffuso in 65 distretti. Dal 1996 la Third World Network, insieme allo Institute for Sustainable Development, l’ente per l’agricoltura e lo sviluppo rurale di Tigray, l’Università di Mekelle, l’Autorità etiopica per la protezione dell’ambiente, il Development Pro-
captazione delle acque e il dirottamento del deflusso superficiale permette agli agricoltori di ottenere due raccolti all’anno, uno alimentato dalla pioggia e l’altro irrigato. Anziché piantare una o due cultivar di base, gli agricoltori diversificano il rischio e aumentano la capacità di recupero complessiva della fattoria usando diverse varietà tradizionali e semi adattati alla regione. Il progetto di Tigray non so-
Il bio
corretto
di Annie Shattuck
L’agricoltura biologica in Africa negli studi delle agenzie dell’Onu: in tutti i casi presi in esame l’accesso al cibo è stato facilitato dalla transizione a questo tipo di coltivazione
Questi legami più forti determinano vari risultati positivi come la formazione di gruppi di difesa degli agricoltori, di cooperative per il credito collettivo, accordi di sostegno reciproco sul lavoro che riducono le spese generali e la condivisione di tecniche e innovazioni. Questi rapporti sociali più intensi sono stati considerati decisivi per il successo dei progetti dal 93% dei partecipanti. La maggior parte dei 200 milioni stimati di persone che nell’Africa subsahariana non hanno accesso regolare a una quantità adeguata di cibo sono piccoli agricoltori. Dunque la sfida è accrescere la capacità dei contadini emarginati di nutrirsi. Dato che l’agricoltura
ganismi nocivi ha aumentato (in qualche caso raddoppiato) le rese delle verdure. Gli agricoltori partecipanti non solo hanno potuto produrre più cibo per sé, ma anche risparmiato denaro avendo rinunciato ai prodotti chimici. I sistemi delle fattorie biologiche dipendono meno dall’energia e quindi resistono meglio anche nel caso di un aumento dei prezzi dei carburanti che può essere rovinoso per la fattoria che dipende da forti input chimici. Altro caso positivo di agricoltura sostenibile è il Progetto Tigray in Etiopia settentrionale, una regione duramente colpita da siccità, carestia, erosione del suolo e povertà, un progetto che ha permesso agli agricolto-
gram dell’Onu e la Società svedese per la conservazione della natura, lavorano con le comunità locali per aumentare la produzione e la solidità delle fattorie, migliorando la salute dell’ambiente naturale circostante. Molte delle soluzioni portate avanti dal progetto sono adattamenti di tecniche agricole tradizionali utilizzate nella regione per migliaia di anni. Compostaggio, coltivazione intercalare e rotazione delle colture sono le pietre angolari della gestione della fertilità del suolo nel programma. Si impiegano diverse tecniche per ridurre l’erosione del suolo e conservare l’acqua. In alcuni casi la gestione creativa delle risorse idriche attraverso la
lo è riuscito a incrementare le rese delle fattorie, ma ha creato nuove opportunità grazie ai migliori servizi dell’ecosistema forniti da un terreno demaniale ben gestito. La produzione di miele è cresciuta grazie al rimboschimento e alla coltivazione di piante che forniscono cibo alle api. Un vivaio creato nel 2004 ha fornito più di 50 000 alberelli alle comunità dell’Etiopia settentrionale, creando, con gli alberi da frutto, opportunità e reddito anche per le donne, cui per tradizione è vietato arare i campi o usare animali da lavoro.
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igme Gyaltsen è il monaco che siamo ormai abituati a vedere con la tonaca rosso amaranto e il sorriso serafico, dietro il banco del suo Presidio, a Cheese o al Salone del Gusto, intento ad affettare formaggio di yak e a porgere un piccolo assaggio a chiunque si accosti. Ma nel monastero di Ragya nel Qinghai, è un’autorità morale, spirituale e politica. Nel 1994 ha fondato una scuola privata che porta il suo nome e che garantisce istruzione gratuita a 600 bambini tibetani, figli di famiglie nomadi. L’unica scuola che, accanto alla didattica moderna, propone metodi millenari, come il dibattito filologico per insegnare le scienze. Per dieci anni la scuola
di Serena Milano
L’incredibile esperienza di pastori nomadi e di un formaggio nuovo, capace di esprimere l’unicità di certi pascoli e di conservarsi a lungo, per viaggiare e raggiungere i mercati occidentali
è vissuta grazie ad aiuti pubblici e privati e con il sostegno della Trace Foundation che ha finanziato corsi, aule, laboratori, mensa, stipendi degli insegnanti. Poi Gyaltsen ha deciso di avviare un’attività che potesse finanziare almeno in parte la scuola e, contemporaneamente, preservare la cultura dei nomadi. Un’attività legata all’animale simbolo di queste montagne, lo yak, capace di reggere la durezza della vita sugli altopiani del Tibet, dove il termometro precipita anche a -30°C e il pascolo giace sepolto per mesi sotto metri di neve, che gli animali devono scavare per potersi alimentare. Questo animale un po’ goffo, dal pelo folto e lunghissimo, fornisce la materia prima per ogni attività quotidiana dei pastori: pelle e lana per abiti e tende, carne, latte e sterco che, una volta essiccato, diventa combustibile. Le famiglie, con le mandrie e con tutto ciò che serve loro per sopravvivere, si spostano per decine di chilometri praticando percorsi difficili – strade sterrate, mulattiere, guadi e dirupi – per raggiungere i pascoli estivi. Le donne – che si occupano di quasi tutto: tende, bambini, animali – due volte al giorno si
Yak made inTibet
apprestano alla mungitura, accovacciandosi di fianco a questi giganti mansueti con i loro gonnelloni, le cinture con medaglioni e ciondoli, gli alti cappelli di feltro e i capelli lunghissimi e corvini, con sottili trecce che incorniciano i visi ovali. Il latte della dri (la femmina dello yak) si consuma fresco o trasformato in yogurt o burro. Dal siero bollito ed essiccato si ricava la ciura, uno degli ingredienti della colazione tibetana, la zampa, assieme alla farina d’orzo e al tè al latte. Nella tradizione locale, dunque, non ci sono formaggi, e tanto meno formaggi stagionati. Per poter dare un reddito ai pastori nomadi l’unica strada possibile è produrre un formaggio nuovo, capace di esprimere l’unicità di questi pascoli e di conservarsi a lungo, per viaggiare e raggiungere i mercati occidentali. Come è noto i Presìdi Slow Food valorizzano produzioni locali, storiche, tradizionali. Quindi collaborare alla produzione e promozione di un formaggio del genere, inizialmente, ci è parso impensabile. Tuttavia il valore etico della proposta formulata dalla Trace Foudation ha prevalso sulla coerenza teorica: a volte, lo sappiamo, di coerenza si può
morire, mentre un sia pur piccolo reddito aggiuntivo per popolazioni tanto svantaggiate, può rappresentare una svolta esistenziale. Ed è così che, nel 2004, è nato il Presidio del formaggio di yak e la collaborazione tra la Fondazione Slow Food per la Biodiversità, la Trace Foundation e il monastero di Ragya. Un anno dopo questi tre soggetti sono stati affiancati dall’Avec-Pvs, associazione di veterinari, agronomi e tecnici caseari che si occupa principalmente delle problematiche legate alle produzioni di origine animale e che lavora nel settore della formazione: la sua attività, realizzata grazie a un progetto finanziato dalla Regione Valle d’Aosta, si è concentrata sull’igiene del latte e sulla sanità degli animali. Per diverse estati alcuni veterinari e tecnici caseari (Massimo Mercandino, Massimo Nurisso e Andrea Dominici dell’Avec, ma anche Andrea Adami dell’Onaf e il casaro svizzero Ernst Holenstein) hanno trascorso diverse settimane sull’altopiano, a 4500 metri, nel piccolo caseificio dei monaci, all’incrocio fra tre magnifiche valli dove pascolano gli yak. Qui, il latte conferito al caseificio da 35 nomadi viene lavorato due volte al giorno e scaldato in caldaie di rame sul fuoco diretto, alimentato dallo sterco di yak. Con i tecnici dell’Avec hanno lavorato circa 12 tibetani, imparando diverse tecniche di caseificazione. Dopo innumerevoli esperimenti si è trovata la ricetta giusta: un formaggio a latte scremato e a pasta semidura dal sapore rustico, che ricorda vagamente un buon pecorino. Un formaggio dalla maturazione lenta, che comincia a esprimere le sue qualità dopo sei mesi di stagionatura. Al taglio la pasta è di colore paglierino scuro o giallo, a seconda delle essenze foraggiere brucate degli animali. Il gusto e l’aroma sono intensi, sapidi, con una prevalenza di sentori lattei ed erbacei nei formaggi più freschi e di note più evolute (erbe aromatiche, noci, nocciole tostate) nei formaggi stagionati. Ora il Presidio deve trovare un mercato per questo formaggio. Il divieto assoluto di importazione in Europa per qualunque latticino made in China ha reso più difficile l’azione di promozione e sostegno commerciale che Slow Food aveva preventivato. Ma ormai il processo è avviato, i formaggi, dopo vari tentativi, sono in stagionatura, le aspettative dei pastori e dei monaci sono alte. Sarebbe ingeneroso fermarsi: per questo è importante che attorno a questo progetto si coalizzi un sentire diffuso, una comune partecipazione, da attivare soprattutto negli Stati Uniti, dove è possibile esportare il formaggio.
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ell’ultimo decennio si è assistito a una crescita esponenziale dei mercati contadini nel mondo. Negli Stati Uniti come in Gran Bretagna e ormai un po’ ovunque milioni sono i consumatori coinvolti in quella che è stata riconosciuta come una componente essenziale dei sistemi alimentari locali. I farmer’s markets costituiscono un’alternativa concreta ai supermercati e alla grande distribuzione, i pilastri su cui si fonda il sistema alimentare globalizzato. Essi rappresentano un’opportunità per i piccoli agricoltori che cercano di creare filiere di fornitura più corte attraverso la vendita diretta di prodotti di qualità e che in tal modo incrementano il loro profitto: si stima che la vendita diretta consenta al produttore di ricevere l’80-90% dell’incasso della vendita, contro l’8-10% guadagnato attraverso i canali convenzionali. I mercati contadini si collocano alla convergenza di diverse discipline: impegno sociale, sanità pubblica, ambiente, agricoltura sostenibile, trasporti, conservazione del patrimonio storico, economia locale. Essi beneficiano le comunità fornendo opportunità economiche, promuovendo un’alimentazione sana e la salute pubblica; creano spazi sociali attivi, guidano la crescita e attraverso l’incontro di produttori e consumatori promuovono le relazioni sociali, rivitalizzando i centri urbani. Il Libano è purtroppo noto soprattutto per il protrarsi dei conflitti che lo affliggono e, tra i problemi del paese, occorre annoverare anche un sistema politico basato sul settarismo religioso e un regime economico ancorato al fondamentalismo di mercato. Il primo ha creato divisioni e diffidenza tra gli appartenenti ai diversi culti, mentre l’ultra-liberismo ha contribuito all’incremento della povertà e al collasso dei sistemi di produzione alimentare locali. Molto prima degli attuali sistemi economici e agricoli, i mercati dei contadini erano la base dei sistemi di distribuzione alimentare comunitari in Libano. Si tengono tuttora mercati settimanali, i souk, nella maggior parte delle cittadine rurali, specialmente nel sud del paese, mercati in cui si possono acquistare prodotti presso venditori itineranti. Il più popolare è Nabatiyyeh, che si tiene tradizionalmente ogni lunedì. Testimonianze del XIX secolo raccontano come questo mercato attraesse clienti dai quattro angoli della regione, nel 1860 il cronista Chaker el Khoury scriveva che circa 5-6000 acquirenti vi accorrevano ogni settimana e che vi si effettuavano oltre 50 000 transazioni quotidiane. Il
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Spesa diretta di Rami Zuraik
Viaggio in Libano, alla scoperta dei mercati contadini, sempre più diffusi e sempre più importanti. Qui e altrove sono insieme luoghi d’incontro e un’alternativa per il consumo, coinvolgendo piccoli agricoltori e produttori biologici
souk era un luogo d’incontro tra appartenenti alle diverse fedi religiose: cristiani, musulmani, drusi, ebrei. Oggi Nabatiyyeh è ancora molto vivace ma, come in altri mercati del paese, molti dei prodotti in vendita sono importati da paesi lontani, come la Cina. Per di più l’incontro di diversità che lo caratterizzava è stato decisamente smorzato dalla guerra e dalle divisioni interne alla società. Negli ultimi anni, il Libano ha visto la nascita di alcuni Mercati della terra. A Saida, per esempio, l’antica Sidone, la capitale del sud del Libano, città storica con rovine di templi fenici e castelli di crociati, il mercato dei contadini è stato inaugurato il 6 aprile 2008 a Khan el-Franj, il caravanserraglio della città vecchia sul lungomare, proprio a fianco dell’antico souk dalla struttura a volte, dove anticamente sostavano, protette da imponenti cancelli di
legno, le carovane cariche di spezie e broccati sulle vie dell’Incenso e della Seta. I produttori, circa 25, hanno i loro stand sotto le arcate: vendono frutta e verdura fresche, mouneh (le tipiche conserve libanesi), dolci tradizionali, distillati, miele, olio d’oliva e saponi naturali. Il progetto è stato realizzato dalla ong Ucodep in collaborazione con Slow Food Beirut e la Fondazione Slow Food per la Biodiversità.?? Il Mercato della Terra di Beirut, invece, è parte del programma Ross (Ricostruzione, Occupazione, Servizi e Sviluppo) della Cooperazione Italiana ed è co-finanziato dalla Banca Popolare di Milano. Ha luogo ogni martedì dalle 9 alle 14 nel centralissimo quartiere di Hamra, noto per i negozi e i caffè. 15 piccoli produttori vendono i loro prodotti: dalla frutta e verdura fresche al mouneh, dal manhoushe (focaccia tradizionale servita col
timo) all’olio d’oliva ai saponi naturali. Come per tutti i Mercati della Terra, obiettivo del mercato di Beirut è non solo quello di creare uno spazio dove vendere e acquistare produzioni tipiche, per scoprire le caratteristiche della peculiare identità gastronomica del paese, ma anche quello di dar vita a un luogo di incontro e di socializzazione.? I mercati contadini, inoltre, coinvolgendo i piccoli agricoltori e i produttori biologici, contribuiscono alla conservazione degli spazi aperti e alla tutela del paesaggio agricolo,
una necessità oggi primaria in Libano come in ogni altro paese. Ma i Mercati della Terra libanesi veicolano un ulteriore valore: sono luoghi d’incontro per persone di diversi ambiti in un luogo di conflitti infiniti, dove la presenza di un ambiente “neutrale”, in cui persone di credo e provenienze diversi si possono liberamente incontrare, è necessaria alla sopravvivenza stessa della società. Nei Mercati della Terra si possono trovare prodotti buoni, puliti, giusti, e di pace. E questo potrebbe essere il loro contributo più prezioso.
asciandosi alle spalle l’antica città di Tiro e proseguendo verso il confine, la pianura lascia il posto a dolci colline che si rincorrono fino al mare. È la regione del Jabal ‘Amel, ricca di tradizioni e di storia e, purtroppo, anche una delle aree più colpite dalla guerra civile libanese e dal conflitto del 2006. È qui che da tempo immemorabile si produce il freekeh, un caratteristico grano verde ottenuto dal frumento raccolto prima della completa maturazione, quando le foglie delle piante cominciano a seccarsi sotto il sole di aprile. Secondo la leggenda, più di 2000 anni fa i soldati che assediavano un villaggio, prima di ritirarsi sconfitti, bruciarono i campi di grano della zona; la popolazione locale, cercando di salvare il salvabile, raccolse il grano bruciato e, dopo averlo ripulito, scoprì un grano tostato di colore verde dalle grandi proprietà nutritive. Il freekeh è prodotto in piccole quantità in molte zone del Libano, ma è la regione meridionale del Jabal ‘Amel la più rinomata per la qualità. Oggi, tuttavia, le grandi quantità importate dalla Siria, che hanno invaso il mercato locale con un prodotto industriale a basso costo, unite alla coltivazione sempre più diffusa del tabacco, sovvenzionato dal governo, hanno messo a serio rischio la produzione di freekeh nella sua regione storica. Il freekeh di Jabal ‘Amel è speciale non solo per la peculiare tessitura del terreno, ma soprattutto per la lavorazione particolare. Il grano tenero, raccolto a mano, viene lasciato a seccare al sole per 24 ore; poi è disteso sulle pietre insieme ai rami di un arbusto locale, il balan, un combustibile che permette di ottenere una fiamma intensa ma breve: così le glumelle del frumento bruciano, mentre il grano subisce una tostatura rapida e uniforme che ne interrompe la maturazione, ne migliora la conservazione e dona al freekeh un caratteristico aroma tostato. Gli abitanti della regione sono soliti bollirlo nelle zuppe e negli stufati, ma si può anche cucinarlo come fosse orzo o riso. Nelle diverse preparazioni, gioca un ruolo fondamentale nella dieta locale: è molto più ricco di proteine, vitamine e minerali del grano normale, ha quattro volte più fibre del riso e un alto contenuto di calcio, potassio, ferro e zinco. Obiettivo del Presidio Slow Food è rilanciare la produzione di freekeh nella sua regione storica, per contribuire al miglioramento delle condizioni delle popolazioni del Jabal ‘Amel, pesantemente colpite dal conflitto del 2006. (m. r.)
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Il Presidio Slow Food del freekeh
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utti i giorni della nostra vita in comune, ho pulito le tue scodelle, versato il latte e l’acqua nei recipienti a due scomparti, aperto il frigorifero per prendere la scatoletta cominciata, il pesce fresco, la carne scelta con cura, oppure frugato nell’armadio, per scovare un menù secondo i tuoi gusti”. L’oggetto, l’amore è Piuma, palla di peli, grigia e bianca, che ha vissuto solo otto anni. A lei e all’alchimia sottile di “due vite mescolate insieme”, è dedicato il lungo racconto in forma di lettera, di Claude Ansgari, Piuma (Iacobelli). Nell’appartamento in cui resta la “traccia silenziosa, invisibile” dei passi felini, l’autrice rievoca i giorni felici, ritmati dalle fusa, trascorsi con Piuma. Giornate che si aprivano sulle “R” imperiose della micetta, accampata sul tavolo da pranzo, che reclamava il suo cibo con ripetuti miagolii. Donna e gatta consumavano i pasti allo stesso ritmo, ma Piuma aveva le sue preferenze: amava il pesce fresco e la carne cruda, e più di tutto le piacevano i gamberetti. Quando erano nel menù, li reclamava con colpetti insistenti della zampa sulla spalla dell’invitato, fino a ottenere soddisfazione. In questi tempi di fastidi, costrizioni e pesantezze sui corpi e sulle anime – scrive la traduttrice Nadia Setti nella postfazione – la storia di Piuma mette alla nostra portata un atto d’amore e di cura “con la leggerezza impalpabile ma certa” della scrittura. Nel romanzo di Monica Pradhan, I segreti delle spose indiane (Newton Compton editore), il cane Moti, che passa da una famiglia all’altra, incurante di divieti e tradizioni, è invece simbolo di libertà e di incontro fra culture: “Moti – dice la bambina– lunedì è un cane indù. Martedì un cane musulmano…” perché mangia i rifiuti di tutte le famiglie del quartiere. Nei ricordi della protagonista, che ha perso la madre da ragazzina, barriere e steccati religiosi, incomprensibili agli occhi dei bambini, venivano aggirati mangiando di nascosto un croccante panino, sfornato dal panettiere musulmano, ma così simile al chappati indiano. Una storia di cibo e letture, identità in transito e libertà femminile che racconta l’India e le sue tradizioni con gli occhi di una giovane immigrata di seconda generazione, nata a Pittsburgh e cresciuta a Washington. Arricchiscono le pagine, gustose ricette per preparare salmone alla griglia con glassa di senape speziata, lassi al mango di Meenal, pollo al curry o Koshimbir di pomodori. «Preparaci qualcosa da mangiare». Curly John, sessantottenne proprietario del Ranch della Giumenta perduta e protagonista dell’omonimo romanzo di Georges Simenon (Adelphi), è rimasto a digiuno per tutto il giorno, e ora aspetta che la sorella Mathilda porti in tavola il pranzo per lui e per il suo affamato aiutante, Jenkins. E mentre Jenkins mangia “da far spavento, come un serpente che si gonfi pezzo dopo pezzo prima di cadere addormentato”, John torna a fare i conti con i propri pensieri: nel 1909, ha ucciso un killer che voleva assassinarlo. Per 38 anni ha creduto che a inviare il sicario fosse stato il suo socio Andy, che per lui diventerà «l’innominabile». Ma ora una lettera ritrovata nel baule di un geologo ha rimesso in forse quei sospetti e l’uomo ha deciso di far luce sul dramma che ha sconvolto la sua vita… Ambientato fra montagne, cow-boy e piste assolate, Il Ranch della Giumenta perduta è un romanzo del 1947, scritto durante il soggiorno di Simenon in Arizona, pochi mesi prima che la vena felice del romanziere belga desse alla luce La neve era sporca. E per finire, un gran plateau di ricette… in tut-
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Gusti pazzi di Geraldina Colotti
Itinerario “gastrolibrico” tra storie di Puma, il gatto delle R, il cane Moti e altre vicissitudini culinarie, passando per un romanzo scritto da Georges Simenon in Arizona...
te le salse. Da Guido Tommasi editore, tre volumi eleganti, utili e di facile “degustazione”. Ricette buffe, dietetiche o eretiche quelle proposte dalla francese Julie Andrieu nel libro La mia piccola cucina. Le illustrazioni di Soledad, introducono cenette romantiche, cenoni, o pasti “senza obblighi da consumare a gambe incrociate”. Le fotografie di Michel Reuss, mostrano zuppe fredde di olive alle erbe, mini-cakes con fichi e chorizo, bombe gelate con cuore alla rosa… Piatti gustosi ma spesso improvvisati da chi, come l’autrice, un giorno fuggiva i fornelli come la peste e ora che è diventata un’esperta, non ha comunque tempo di andare ogni giorno al mercato. Ci tiene, però, a soddisfare i “gusti pazzi” delle amiche o a invitare gente a cena anche all’ultimo minuto. Fondamentale, però – avverte -, è avere sempre in dispensa gli ingredienti utili, tenere a portata gli strumenti adatti, e avere un buon rapporto con il proprio congelatore. Per l’edizione italiana, agli abbinamenti vino-cibo ha pensato l’eno-gastronomo Ian D’Agata. Carré di maiale in crosta, arrosto di vitello al caramello, arrosto di tonno al sesamo, nel volume Arrosti, di Stéphane Reynaud (fotografie di Fréderic Lucano, illustrazioni di Tabas). Ogni giorno
della settimana, un ventaglio di proposte e una pagina con “4 idee” per guarnirle. La sezione finale del libro, è dedicata a Contorni e accompagnamenti: Bohémienne di melanzane, Ratatouille caramellata, Piperade, Tian provenzale, Zuccacastagne… una scelta di piatti invitante anche per chi non mangia carne o pesce. Anche Pasta e sughi, di Jody Vassallo (fotografie di Deirdre Rooney) propone un’interessante sezione di pasta e verdure che consente di abbinare orecchiette, trofie, fusilli o gnocchi con deliziosi sughi alle erbe e di preparare un buon piatto introducendo variazioni nella ricetta-base di pesto al basilico (rucola e capperi, pomodori secchi, noci e peperoncino, coriandolo e anacardi…). E per finire, gnocchi di zucca, strozzapreti di spinaci, crema di patate, omelette di alghe e carote… Tradizione, innovazione e salute a tavola, nel libro di Marco Bianchi, I magnifici 20, in uscita ad aprile da Ponte alle Grazie nella collana Il lettore goloso, diretta da Allan Bay. L’autore, che lavora nell’ambito della ricerca oncologica, abbina i “verdi intensi della tavola” ai “pastelli della natura” in un manuale pratico di golosità e informazioni nutrizionali: perché – scrive - “la buona salute passa dalla bocca”.
on mancano d’ironia, gli attivisti del centro sociale Corto circuito, che per festeggiare i 15 anni di vita della loro ormai rinomata Osteria hanno promosso un corso di cucina intitolato La rivoluzione della forchetta. L’Osteria del Corto – scrivono nella locandina di presentazione - si trova nel cuore del Lamaro, a pochi passi dalla “turistica” via Palmiro Togliatti e dagli “storici” lotti dell’Ater della periferia sud-est di Roma: la “sosta ideale di ogni itinerario”. Lì, in un’atmosfera “fumante e rilassante”, l’Osteria del Corto unisce piatti della più diversa tradizione alla “creatività e agli errori dei suoi chef ”. Passione per la cucina, rispetto di prezzi “esageratamente popolari”, qualità e freschezza delle materie prime, sono i “misteri e i segreti” che rendono la cucina del Corto un punto di riferimento nel panorama enogastronomico romano. Tanto che, ai corsi dello chef Sergio, che si tengono ogni sabato e domenica, c’è il tutto esaurito e una lista di pre-iscrizioni anche per la prossima tornata. “Abbiamo iscritti di tutte le età – dice Sergio – si va dai 20 ai 60 anni. Parte delle lezioni è dedicata alla scelta degli ingredienti, al taglio della carne, per cui incontriamo un anziano panificatore, un vecchio macellaio, un produttore di vino biologico che rifornisce il centro sociale”. Alla fine del corso, una giuria di esperti giudicherà il livello degli aspiranti cuochi. L’Osteria del Corto è nata da un vecchio asilo nido abbandonato negli anni 70, recuperato al degrado e restituito al quartiere. “La cucina diventa cultura se educa al gusto e all’alimentazione”, dicono al centro sociale. Perciò, ogni seconda domenica del mese, in occasione del mercatino dei produttori che si svolge nell’area verde del centro sociale (dedicata a Stefano Cucchi), l’Osteria organizza un pranzo sociale: “Ogni mese – dice ancora Sergio – scegliamo la cucina tipica di una regione: 12 euro tutto compreso”. E per finire, caffè rebelde zapatista. Info e iscrizioni: osteriadelcorto@gmail.com; oppure: 067217682 (dalle 17 alle 20). (ge.co.)
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Piatto Corto Roma